23 febbraio 2015

Grecia come Ungheria. La sovranità sopporterà le umiliazioni?

di Pino Cabras.
da Megachip.

Il nuovo governo greco, in queste prime settimane di vita, ha potuto fare poco, se non segnalare all'Europa che un recupero di sovranità non è più un argomento tabù. Per il resto, il potere della Germania di oggi è enorme, non bilanciato dai tanti nanerottoli che guidano gli altri paesi europei. 
La prima partita in materia di debito fra Germania e Grecia è stata perciò una goleada per i tedeschi. 
Contrariamente a quanto appare, tuttavia, anche questo evento non è da spiegare con un solo schema, quello del padrone che vince e del servo che perde, anche se sappiamo bene che i rapporti di forza in Europa sono brutali. 
Poco più di tre anni fa, anche l’Ungheria di Orbán inziò il suo nuovo corso con dichiarazioni bellicose nei confronti della Troika, subito seguite da ripiegamenti umilianti. Il ministro degli esteri ungherese dovette andare a Bruxelles con il cappello in mano, dopo un’inutile e avvilente anticamera a Washington, presso la sede del Fondo Monetario Internazionale. Eppure, l’iniziale rottura del tabù, dopo aver scontato le prime durissime reazioni e dopo cocenti umiliazioni negoziali, ha consentito all’Ungheria di ridimensionare il ruolo della finanza, togliersi il cappio, correggere la congiuntura economica, iniziare ad aprirsi a nuovi scenari geopolitici fuori dalla gabbia atlantista ed europea. 
Ovviamente ci sono molte differenze fra Ungheria e Grecia, a partire dal fatto che l’Ungheria non ha l’euro, mentre la Grecia sì, con tutti i costi aggiuntivi e immediati che Atene dovrebbe sopportare per uscirne. Proprio questo fatto spinge una parte dei critici a dire: ecco perché Tsipras e Varoufakis dovevano subito uscire dall’euro. Ma anche questi critici devono ammettere che si tratta di una decisione complessa. Se persino Orbán doveva fare passi indietro anche senza avere questa zavorra, figuriamoci i passi indietro a cui viene trascinato il governo greco quando le scadenze dei debiti si misurano a giorni, e quasi tutte le chiavi del laboratorio greco, come abbiamo già spiegato recentemente, sono in mano straniera. Il potere che schiaccia i popoli è un mestiere che non dorme mai, e non può essere sottovalutato. Il senatore americano McCain, quello che semina zizzania in mezzo mondo e diffonde la guerra civile in nome della democrazia, sta già mettendo la prua contro Budapest per organizzarvi l’ennesima rivoluzione colorata. A seconda di come andranno le cose, punterà la prua anche contro Atene. 
E il fascino delle economie russa e cinese, a quel punto, potrebbe risultare irresistibile per la Grecia. 
Ma non precorriamo troppo i tempi.

In coda a queste considerazioni potrete cliccare e leggere tre articoli che offrono interpretazioni critiche molto diverse su come è finita la prima fase del negoziato fra la dittatura europea a trazione tedesca e la Grecia di Tsipras. Consiglio di leggerli con mente aperta per vedere le tante facce del prisma della crisi europea, perché ognuno degli articoli non basta da solo a descrivere tutto il volume di questa crisi, anche se ognuno di essi ci offre uno sguardo verso la profondità del dramma greco.

Il primo articolo è dell’economista francese Alain Parguez, ed è molto tranchant. Come altri esponenti della Teoria Monetaria Moderna e altri che si battono per superare l’euro, anche Parguez ritiene che Syriza sia solo un vicolo cieco.

Il secondo articolo è di Francesco Maria Toscano, che legge lo scontro che coinvolge Germania e Grecia in base all’influenza diretta che esercita su di esso un conflitto più nascosto fra circuiti massonici a livello sovranazionale.

Il terzo articolo, di Claudio Conti, spiega come le regole tedesche non piacciano ai greci ma nemmeno alle banche: uno scenario che apre contraddizioni in seno al potere europeo. Sono contraddizioni abbastanza grandi da suggerirci che il campionato non è chiuso con la goleada di questi giorni.

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La battaglia per la nuova indipendenza della Grecia è appena agli inizi. Nulla è scontato. La crisi è sistemica, ed è lì, nel cuore di un mutamento epocale, che si giocano le scommesse impossibili del caleidoscopio Tsipras. E anche le scommesse di chiunque - ovunque - voglia spegnere la dittatura europea.

18 febbraio 2015

La satira è (contro)potere

di Michela Murgia.

Un discorso sulla satira che vada oltre Charlie Hebdo ha cercato di farlo MicroMega nel numero di questo mese. Ci sono interventi di molti pensatori (e qualche rifiuto d'intervento molto divertente). Ecco il mio.



Scusate il ritardo nel rispondere a questo questionario. È dato dalla difficoltà di aggirare il fastidio per il modo in cui le domande sono state poste, fastidio che vi manifesto perché da MicroMega non mi aspettavo che l'apertura di un dibattito così importante fosse fatta con domande retoriche che presumono o suggeriscono già le risposte. Tanto meno mi aspetto l'esposizione di posizioni pregiudiziali di tale inconsistenza razionale che si fa fatica a prenderle come base di partenza per un ragionamento che voglia davvero dirsi laico. La laicità non si misura sul grado di astio verso le religioni, ma su quello di vigilanza sui dogmatismi, che in questo questionario purtroppo abbondano. Ho quindi risposto con la difficoltà che mi derivava dall'obbligo di essere intellettualmente onesta. 

(1) La scritta “je suis Charlie” è comparsa in moltissime sedi di giornali in tutto il mondo, oltre che nelle dichiarazioni di personalità di governo, anche qui di tutto il mondo. Ma quanti di coloro che fanno proprio lo slogan sono davvero disposti a prendere sul serio il diritto alla irresponsabilità, che Charlie Hebdo teorizza orgogliosamente nel suo stesso sottotitolo, e dunque il diritto alla bestemmia di ogni fede religiosa e di ogni sentimento non religioso ma ritenuto “sacro”? Quanto c’è di retorica e strumentalismo nel dire “je suis Charlie” e poi non trarne le conseguenze pratiche sul piano del diritto e dell’etica?

La domanda è retorica. Nessuno può permettersi di essere così ingenuo da confondere un gesto di solidarietà compiuto sull'onda dell'emozione o dell'opportunità politica con la determinazione a difendere la satira in ogni sua manifestazione, diritto che non è assoluto in alcuna democrazia. La stessa Francia che manifesta per Charlie e sbatte in carcere Dieudonné ci dimostra due cose: la prima è che neanche nella patria della laicità è sempre vero che in satira tutto è lecito; la seconda è che esistono tabù sociali ben più forti di quello su Dio.
Il punto di partenza di un ragionamento in merito è il dato che la nostra idea di democrazia si regge sull'insanabile contraddizione tra il desiderio di anarchia e il bisogno del controllo: se infatti è vero che le democrazie sono sistemi fondati sul conflitto, gli unici in cui il dissenso è un valore difeso dalla legge, è altrettanto vero che il dissenso è per sua natura antagonista del potere ed è quindi perfettamente logico che il potere tenda a difendersene anche nelle democrazie, limitandone gli spazi di espressione per poter agire in regime di rendicontazione pubblica minima. Finché esiste l'altra, nessuna delle due forze è o può essere assoluta nel suo esercizio: la loro coesistenza, per quanto conflittuale, ci protegge dagli assolutismi. Dobbiamo quindi essere consapevoli che il potere dal canto suo farà di tutto per produrre leggi che limitino al massimo la libertà di dissenso e che il dissenso farà a sua volta di tutto per trovare spazi in cui mettere in discussione il controllo del potere. È la società civile che deve proteggere l'esistenza di questa dialettica, ma può farlo solo se è educata alla coscienza comune dei valori collettivi. In Italia questo è vero in misura molto inferiore a quello che sarebbe necessario. È anzi prevedibile che la sensibilità pubblica, che spesso si muove sull'onda dell'emozione e della paura, davanti a fatti di sangue opportunamente narrati sia disposta a concedere maggiore legittimità alla forza che tra le due verrà percepita come meno distruttiva e destabilizzante. Allo stato attuale delle cose è improbabile che la forza favorita sia la satira.

(2) Numerosi giornali NON hanno ripubblicato le vignette su Maometto, e molti del resto non le avevano pubblicate, come non avevano pubblicato quelle, perfino più numerose, contro la religione cristiana (Charlie non ha risparmiato neppure l’ebraismo). Negli Usa è questo addirittura l’atteggiamento della maggior parte dei media. Il giornale danese all’origine delle vignette su Maometto questa volta ha deciso di “non offendere” la sensibilità dei credenti. Il Financial Times ha praticamente scritto che con i loro eccessi se l’erano cercata. Non è già in atto da tempo una auto-censura che, finito il cordoglio unanime (in apparenza) per i morti di rue Nicolas Appert 10, subirà un’accelerata esponenziale? Non sta vincendo di nuovo la sindrome “non vale la pena morire per Danzica”?

Voglio sperare che la libertà di espressione comprenda anche quella di non espressione, senza che questo comporti automaticamente la presunzione di auto-censura. Ciascuna redazione fa le sue valutazioni, non ultime quelle di rischio umano, e le decisioni conseguenti non mi sento di giudicarle, perché in realtà non mi interessa biasimare chi tace; mi importa molto di più che sia pacifico che chi invece parla non debba pagare con la vita la sua scelta di esprimersi. Per questo l'unica posizione che considero realmente stigmatizzabile tra quelle elencate è il victim blaming del Financial Times.

(3) Il noto storico e saggista di Oxford Timoty Garton Ash ha lanciato l’idea di una giornata coordinata in cui tutte le testate d’Europa pubblichino una selezione delle vignette più significative di Charlie Hebdo (offensive di tutte le religioni). Pensi che il giornale che dirigi, cui collabori, che regolarmente leggi, dovrebbe aderire?

Diffido dei battesimi collettivi: perché giornali che non avrebbero mai pubblicato prima quelle vignette dovrebbero pubblicarle adesso? Il ragionamento secondo il quale bisogna ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo per segnare distanza dai terroristi mi ricorda il periodo in cui tutti in Italia dovevano comprare Gomorra per dimostrare di non essere camorristi. Trasformare le vignette di Charlie in un marcatore culturale, cioè in un corpo contundente con bersaglio diverso da quello che volevano colpire, ottiene come unico risultato il generare ipocrisie della portata della sfilata di governanti liberticidi con il cartellino Je suis Charlie.

(4) I difensori della libertà di stampa “con juicio” sostengono che la libertà di critica è assoluta e intangibile ma non deve essere confusa con il diritto all’insulto. Ma CHI può decidere la linea di confine tra critica (la più radicale, visto che si tratterebbe di un diritto assoluto) e offesa? Per chi vive in modo intenso una fede, assai facilmente suona offesa ai propri sentimenti e alla fede stessa ciò che al critico di essa suona solo critica. Charlie Hebdo pubblicò una vignetta con un “trenino” sodomitico tra Dio Padre, Gesù Cristo e lo Spirito Santo, certamente offensivo per molti credenti cristiani, ma forse la più straordinaria sintesi critica dell’assurdità del dogma trinitario. Del resto l’ateo viene “amorevolmente” descritto da ogni pulpito come persona esistenzialmente “menomata” (questo è il giudizio più gentile, ovviamente) poiché priva della dimensione del trascendente, giudizio già in sé altamente offensivo.

Il limite alla libertà di espressione non può e non deve essere deciso dalle sensibilità religiose, non fosse altro perché sono tante, diverse e spesso contraddittorie tra loro, ma nella domanda che avete posto mi pare che il contrappasso della reciprocità (“Anche dai pulpiti cattolici si offende l'ateismo!”) sia un ben fragile argomento su cui fondare la libertà di satira, talmente pretestuoso che vi porta a leggere male anche quello che è chiarissimo, come il trenino sodomita di Charlie Hebdo, che non è “la più straordinaria sintesi critica dell'assurdità del dogma trinitario”, ma una presa per il culo – letteralmente - all'arcivescovo di Parigi e alle sue posizioni contro le famiglie omogenitoriali. È dunque una vignetta prettamente politica, dove l'attacco al simbolo religioso non è fine a sé stesso, ma perfettamente inserito in una cornice di dissenso all'ingerenza del potere gerarchico ecclesiale nei processi legislativi francesi. Per la redazione di Charlie Hebdo la questione della laicità si sostanziava nell'attacco al potere, non nella vendetta – invero poco appassionante - degli atei contro i fedeli, tantomeno su un presunto “diritto di bestemmia”. Se per satira intendiamo un contropotere che castigat ridendo mores, intendiamo un luogo espressivo tutt'altro che irresponsabile. Quella è per me la sola linea di discernimento possibile: se colpisce un bersaglio fragile, non è satira. Se fai vignette contro i rom non fai satira, ma discriminazione. Se disegni contro le donne, i gay o i negri non fai satira, a meno che tu non stia castigando singole donne potenti, gay individualmente influenti o neri la cui negritudine comporti una posizione di dominio.

(5) Se il limite lo stabilisce la politica vuol dire che sarà mutevole come le mutevoli maggioranze di governo, e variabile tra paese e paese diacronicamente e sincronicamente. Ma questo vuol dire che la libertà di espressione non è un principio fondativo, e dunque non deve essere scritto nelle Costituzioni, che salvaguardano e garantiscono alcuni diritti sottraendoli alle mutevoli vicende del consenso elettorale. La coerenza non esigerebbe semmai l’opposto, che vengano abrogati definitivamente articoli contraddittori con questo principio, che configurano come persistente il reato di vilipendio nei confronti di Persone Dottrine Istituzioni e Cariche, poiché ciò che per Tizio è vilipendio per Caio è critica?

Sono del tutto favorevole all'abolizione del reato di vilipendio, ma questo non significa che considero la libertà di espressione un diritto naturale sovra-costituzionale, concetto speculare (e altrettanto fastidioso) a quello di “principio non negoziabile” tanto caro al cattolicesimo ruiniano. Finché siamo in democrazia tutto è negoziabile e dunque le quote di libertà che una società può sostenere senza giungere a conflitti autodistruttivi sono variabili nel tempo e risentono di condizioni culturali, storiche ed economiche che mutano a loro volta. Il reato di vilipendio alle istituzioni aveva senso quando il presidente del consiglio era Alcide De Gasperi; al momento è antistorico, perché i concetti di rispettabilità e onorabilità non hanno più senso in un paese con un parlamento dove la concentrazione di condannati supera quella delle zone gestite dalla criminalità organizzata.

(6) La scelta di coerenza rispetto alla libertà di critica anche se per qualcuno offensiva, oppure la rinuncia al principio della libertà di critica come consustanziale alle libertà democratiche (con le antinomie per la democrazia che ne conseguono), oggi è resa indilazionabile dalla svolta d’epoca della strage del Charlie Hebdo, ma in realtà è sul tappeto da oltre un quarto di secolo, certamente dalla fatwa del 1989 di Khomeini contro Rushdie. All’epoca su MicroMega fu scritto: “l’Occidente si piega”, citando e stigmatizzando le “dichiarazioni curiali” di Andreotti sugli studenti islamici in Italia che impongono con la violenza che Versi satanici non sia esposto nelle vetrine, “è accaduto a Napoli, Padova, Reggio Emilia”, o l’Osservatore Romano secondo cui “il romanzo è risultato offensivo per milioni di credenti. La loro coscienza religiosa e la loro sensibilità offesa esigono il nostro rispetto. Lo stesso attaccamento alla nostra fede ci chiede di deplorare quanto di irriverente e di blasfemo è contenuto nel libro”, o Monsignor Rossano, rettore della Pontificia università lateranense, secondo cui “quando si toccano Gesù, la Madonna, non si toccano fatti personali, non si può fare quello che si vuole … viviamo in mezzo a cattolici, ebrei, musulmani, indù … non si può irridere, non si può offendere la sensibilità religiosa”, fino a Hans Küng per il quale “non ci si può richiamare semplicemente alla libertà religiosa … Bisogna prevedere reazioni corrispondenti, quando si attacca una persona che per centinaia di milioni di uomini e donne è tuttora viva e per così dire, quella più in alto sotto Dio” (MicroMega 2/89 pp 20-21). Sarebbe stato necessario farlo allora, non è improcrastinabile oggi porre fine a queste intollerabili pretese censorie?

E come gli dovremmo metter fine? Facciamo una legge che multi chi si indigna? Incarceriamo chi chiede rispetto della propria appartenenza? La domanda è posta come se la pretesa censoria e la censura effettiva non fossero due cose diverse, invece lo sono e non va dimenticato. Non mi pare che le richieste di ritiro del libro di Rushdie si siano mai tradotte in alcun rogo in occidente, anzi “I versetti satanici” sono entrati in classifica, hanno continuato a essere venduti nelle librerie, a essere letti nelle biblioteche e comprati ovunque. La stessa cosa avvenne per “L'ultima tentazione di Cristo”. A che cosa dunque dovremmo metter fine?

(7) Si sostiene da più parti che se è possibile criticare/insultare il Profeta e Allah (ma anche Dio padre, Figlio, Spirito Santo, Madonna, ecc.) allora deve essere possibile insultare anche gli ebrei in quanto ebrei. La posizione di MicroMega è sempre stata che criticare/insultare simboli/valori di una fede è un diritto di opinione, insultare delle persone in quanto appartenenti a una etnia in quanto etnia è razzismo. Inoltre: anche il diritto a offendere valori religiosi non può divenire diritto a considerare tutti gli appartenenti a una religione corresponsabili di atteggiamenti di altri correligionari (legittima è però la richiesta di chiedere la dissociazione da atti/dichiarazioni di autorità della rispettiva religione, altrimenti se ne diventa partecipi). Vi sembrano distinzioni sufficienti e condivisibili?

Per niente, ma sono questioni distinte.
- È possibile insultare gli ebrei in quanto ebrei in nome del diritto di satira? Dipende. Il discrimine rimane quello dato dalla domanda: “per essere considerata lecita a dispetto della sua offensività, questa satira che potere sta attaccando?” Quando Forattini al tempo del sequestro Kassam disegnò sul Corriere la Sardegna a forma di orecchio mozzato sanguinante, accomunando i sardi senza distinzioni al reato infame della mutilazione di un bimbo innocente, che potere stava attaccando? I sardi in sé rappresentavano un potere? Se la risposta è no, Forattini non esprimeva un'opinione: faceva razzismo e come tale commetteva un reato. Ritengo quindi che la satira sugli ebrei vada giudicata con lo stesso criterio, che evidentemente non è così scontato in un occidente dove anche la minima critica al sionismo e alle condizioni inumane di Gaza finisce per essere tacciata di antisemitismo persino da insospettabili fonti progressiste occidentali. Se lo stato ebraico, che si pretende l'unica democrazia del medio oriente, ha una costituzione che prevede quote di cittadinanza suddivise su base etnica, la satira su base etnica contro gli ebrei che vi abitano non è solo lecita, ma urgente, perché è proprio il marcatore etnico che in quel caso rappresenta un potere oppressivo.
- La pretesa di dissociazione dalle posizioni dei propri leader religiosi mi sembra priva di senso: l'appartenenza a una religione non si fonda su comunicati stampa, ma su dati teologici irreformabili. Le declinazioni storiche della presenza religiosa sui singoli territori possono anche discostarsi molto da questi dati (è certamente il caso di molte dichiarazioni di imam rispetto al Corano), ma questo non significa che ogni singolo fedele islamico che vive in Europa deve dissociarsi da ogni singolo delirio contingente di ogni singolo capo di moschea in ogni singolo titolo di giornale che se ne fa. Nessuno deve essere messo nella condizione di scusarsi di continuo per le sciocchezze di qualcun altro. Da cattolica non mi sono mai sentita minimamente responsabile per gli svarioni personali di Ratzinger o di Wojtyla.

(8) Negli Usa, dove la maggior parte dei media (e praticamente tutta la politica) nega il diritto a criticare/offendere le religioni, è invece costituzionale espressione di libertà di pensiero qualsiasi opinione fascista, nazista, razzista (Ku Klux Klan compreso) fino a che non passa alla messa in pratica. L’Europa democratica ha imboccato la strada opposta, l’apologia di fascismo e razzismo è sanzionata per legge, e ora che tutti i capi di governo europeo sfilano a Parigi sotto la scritta “je suis Charlie” se ne deduce che ogni limitazione al diritto di critica/offesa delle religioni si intenda abrogato. MicroMega ha sempre sostenuto questa duplice posizione. La ritieni condivisibile? Ancora difendibile? Da rivedere radicalmente dopo quanto successo?

Ribadisco che la logica della liceità della satira è nella sua valenza di contropotere. Attaccare una religione in quanto tale, anche quando non rappresenta alcun potere oppressivo o lesivo di diritti altrui, è libertà di espressione, ma non è satira. Credo sia il motivo per cui satira sul buddismo se ne fa ben poca. Certo che attaccare un'etnia in quanto tale è un attacco alla dignità della razza umana nella sua interezza, ma attaccare un'etnia che ne opprime un'altra in ragione della sua maggiore forza economica, militare o politica è una difesa della dignità umana nella sua interezza. Credo che la distinzione sia facilmente ravvisabile da qualunque giudice, se pure gli intellettuali non dovessero arrivarci.

(9) Le religioni non sono tutte eguali, si dice, il cristianesimo accetta la laicità, l’islam no. In realtà il cristianesimo è stato costretto a venire a patti con la laicità, obtorto collo, e ancora non l’accetta pienamente. Il fondamentalismo alberga nel suo seno in dosi infinitamente minori di quello islamico, questo è certo. Troppo facilmente si dimentica, però, che sono stati cristiani militanti quelli che hanno assassinato negli Usa medici e infermieri che rispettavano la volontà di abortire di alcune donne. Donne, medici, infermiere che Wojtyla e Ratzinger hanno bollato più volte come responsabili del “genocidio del nostro tempo”, nazisti postmoderni, insomma. Le democrazie hanno il diritto di esigere da tutte le religioni la “interiorizzazione” della laicità? Cioè: che le religioni chiedano pure ai fedeli di osservare i precetti per la salvezza eterna ma rispettino rigorosamente il diritto al peccato (aborto, eutanasia, blasfemia, omosessualità …) di tutti gli altri e mai pretendano che lo Stato faccia di un precetto religioso una legge?

Non credo che le democrazie abbiano diritto di chiedere laicità alle religioni: quelle monoteiste in particolare sono sistemi di pensiero dogmatici fondati su valori non negoziabili, quindi anti-laiche per loro stessa natura. Al contrario, l'essenza stessa della democrazia è fondata sulla negoziazione tra visioni di mondo differenti, visioni che le religioni influenzano in molti modi, da secoli e con dinamiche variabili a seconda del tempo e dei poteri con cui si sono confrontate. Una società democratica è realmente laica quando riesce a confrontarsi con le religioni anche quando le religioni resistono ai valori democratici, perché le religioni non sono devozioni private, ma ideologie nel senso pieno del termine, cioè rispondono a un'idea precisa di umanità e di mondo. Pretendere che questa idea non si traduca anche in cultura e in politica è risibile e a sua volta liberticida, perché se ciascuno ha il diritto di tentare di influenzare lecitamente l'ambiente in cui vive a partire dalle proprie convinzioni, non si capisce perché questo diritto dovrebbe essere precluso a chi parte da convinzioni religiose. Questa pretesa esprime l'idea che le religioni siano sottoculture prive di dignità di rappresentazione, il che è falso: le religioni sono stakeholders identici a tutti gli altri, e la pressione politica esercitata dai portatori di valori numericamente “parziali” - anche quando li pretendono eticamente universali - si argina solo rafforzando culturalmente l'area dei valori “comuni”, cioè quelli continuamente definiti attraverso i processi democratici. La risposta all'assolutismo (compreso quello che un po' trasuda da questa domanda) è il pluralismo, che educa tutti a considerarsi relativi.

(10) Se si rinuncia anche di un pollice al diritto alla critica/offesa delle fedi religiose (diritto, non dovere: le vignette di Charlie possono benissimo non piacere ed essere criticate, ma il diritto alla loro pubblicazione deve essere difeso assolutamente), non si concede già la vittoria al terrorismo? In tal modo non si obbedisce alle loro richieste per “servitù volontaria”, senza che debbano più usare violenza, basta la minaccia e relativa paura, e non è questo che si propone chi utilizza il terrore? Le tentazioni a imboccare questa strada non sono sempre più frequenti e pericolose?

Con tutto il rispetto, non prendo sul serio domande dove è previsto un monosillabo come risposta. :)


Fonte: MicroMega, febbraio 2015.

15 febbraio 2015

Pepe Escobar: l'Impero del Caos e le Vie della seta

Pandora TV


Al simposio internazionale Global WARning - tenutosi il 12 dicembre 2014 e organizzato da Pandora TV, Megachip-Democrazia nella Comunicazione e Alternativa - ha partecipato anche il giornalista Pepe Escobar, il "corrispondente nomade" di Asia Times ed autore di 'Empire of Chaos: The Roving Eye Collection' (Nimble Books, 2014)
Nel Video, di 15'16'', Escobar spiega come i cosiddetti paesi BRICS stanno allargando i propri accordi commerciali in modo esponenziale e hanno già creato una banca alternativa alla Banca Mondiale. La guerra fredda 2.0 ha lo scopo di impedire la creazione di un’area di mercato Eurasiatica che toglierebbe agli Stati Uniti la propria egemonia economica.

Buona visione!

Intervento Video al simposio internazionale Global WARning del 12 dicembre 2014.



14 febbraio 2015

Nessun mondo multipolare se i media sono unipolari

di Roberto Quaglia.
da Megachip.


TEHERAN - Il grande interrogativo della geopolitica globale di oggi è se il mondo andrà verso un mondo unipolare a tempo indeterminato dominato dagli Stati Uniti (ciò che con orgoglio – o con arroganza − gli americani chiamano Full Spectrum Dominance, "dominio sull'intero spettro") o se invece si muoverà verso un mondo multipolare in cui coesistono diversi centri di potere.

Dal punto di vista economico il mondo è già multipolare, essendo la quota statunitense del prodotto mondiale lordo di appena circa il 18 per cento (dati 2013) e in costante diminuzione. Allora come mai gli USA sono ancora così dominanti a livello globale? La ragione non è il suo gigantesco budget militare, dal momento che non si può realisticamente bombardare tutto il mondo.

Il primo strumento magico che gli Stati Uniti usano per dominare il mondo è il loro dollaro. La parola "magico" è qui licenza non poetica: il dollaro è effettivamente una creatura magica, in quanto la Federal Reserve può crearlo in quantità illimitate dentro i computer, e tuttavia il mondo lo considera come qualcosa di prezioso, pensando comunque ai petrodollari. Il che rende un compito facile per gli Stati Uniti finanziare con miliardi di dollari le “rivoluzioni colorate” e altre sovversioni in tutto il globo, praticamente a costo zero. Questo è un problema grave che ogni mondo che cerca la multipolarità dovrebbe affrontare.
L'altra super-arma degli Stati Uniti è il loro dominio folle dei mezzi d’informazione, qualcosa di molto vicino all’egemonia assoluta, la cui dimensione è fuori dall'immaginazione della maggior parte degli analisti.
Hollywood è la più straordinaria macchina della propaganda mai vista in questo mondo. Hollywood trasmette in miliardi di cervelli di tutto il mondo i canoni hollywoodiani per la comprensione della realtà, che includono − ma non solo − il modo di pensare, di comportarsi, di vestirsi, cosa mangiare e bere, fino a come esprimere il dissenso. Sì, Hollywood è perfino in grado di istruirci su come esattamente esprimere il nostro dissenso verso lo stile di vita americano. Solo per citare un esempio (ma ce ne sono molti), i dissidenti occidentali spesso citano il film “Matrix” [1999] per riferirsi a un’invisibile rete di controllo sulle nostre vite, ma anche Matrix fa parte della stessa matrice, se posso metterla in chiave umoristica. Ecco la confezione hollywoodiana del processo di comprensione che viviamo in un mondo ingannevole: utilizzando allegorie, simboli e metafore prodotti negli Stati Uniti, facciamo comunque pienamente parte del loro sistema e quindi contribuiamo a rendere questo reale.


Gli Stati Uniti hanno anche il controllo dell’informazione mainstream a livello mondiale, essendo la CIA infiltrata nella maggior parte dei più importanti network. Il giornalista tedesco Udo Ulfkotte, che ha lavorato per la Frankfurter Allgemeine Zeitung, uno dei principali quotidiani tedeschi, nel suo libro bestseller Gekaufte Journalisten [“Giornalisti venduti”] ha recentemente confessato di essere stato pagato per anni dalla CIA per manipolare le notizie, e che questo è del tutto normale nei media tedeschi. Possiamo tranquillamente ritenere che ciò sia molto comune anche in altri paesi. Questo controllo globale sui mezzi d’informazione permette agli Stati Uniti di dominare la guerra della percezione in tale misura da rendergli possibile trasformare facilmente il bianco in nero agli occhi del pubblico. È incredibile come i media europei sotto il controllo americano abbiano potuto distorcere i fatti durante le recenti crisi in Ucraina: la giunta filonazista di Kiev, salita al potere con un colpo di Stato, è stata capace di bombardare e uccidere i propri cittadini per mesi, mentre i media occidentali la raffigurano sempre come la parte buona e Putin è descritto come il nuovo Hitler senza nessun motivo realmente fondato.

Per capire fino a che punto il dominio delle informazioni è di per sé sufficiente a plasmare una realtà effettiva, ricordiamo questa citazione del 2004 attribuita a Karl Rove, all'epoca consulente senior di George W. Bush: 
«Noi siamo un impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà; così, mentre voi studiate quella realtà – con tutto l’equilibrio di cui siete capaci – noi agiamo di nuovo, creando altre nuove realtà che voi potete anche studiare, ed è così che le cose si gestiscono: noi siamo i protagonisti della storia... e a voi, a tutti voi, sarà solamente consentito di studiare ciò che noi facciamo.»
E se tutto questo non bastasse, la maggior parte delle informazioni che circolano oggi nel mondo è elaborata da computer con sistemi operativi americani (Microsoft e Apple), mentre le persone − compresi coloro che si oppongono agli Stati Uniti − comunicano fra loro attraverso Facebook, Gmail e altri canali controllati dalla CIA.
È proprio questo pressoché totale monopolio dell’informazione che fa la vera differenza. Così, anche se l’importanza economica americana ha subìto un netto declino negli ultimi decenni, la sua influenza sul piano dell’informazione è paradossalmente cresciuta. 
Perciò i paesi che oggi guardano a un vero e proprio mondo multipolare dovrebbero rivedere le loro priorità e iniziare a competere seriamente sul campo dell’informazione, piuttosto che concentrarsi solo su questioni economiche.

Oggi il potere è solo una questione di percezione, e gli Stati Uniti sono ancora gli impareggiabili maestri di questo gioco. Non avremo nessun mondo veramente multipolare fino a quando altri giocatori con competenze analoghe non entreranno in gioco.

Ci sono già alcuni casi di servizi di news non allineati con gli Stati Uniti di qualità eccellente e con l'ambizione di un’audience globale, fra i quali i più notevoli sono Russia Today e l’iraniana Press TV, ma questo è ancora poco o niente in confronto al costante tsunami di informazioni audiovisive filoamericane che dilaga in tutto il mondo 24 ore su 24. Russia Today sta progettando di allestire anche canali in francese e tedesco: questo è un passo in avanti, ma ancora lontano dall'essere sufficiente.
Gli USA non sono davvero preoccupati dai paesi che li sorpassano nei propri interessi, però cominciano a innervosirsi se questi paesi utilizzano valute diverse dal dollaro per i loro commerci e letteralmente impazziscono quando sullo scacchiere dell’informazione appaiono importanti network non allineati
Il che suona abbastanza strano, dato che la libertà di stampa è un punto centrale della moderna mitologia americana, ma ogni fonte di informazione non allineata con gli Stati Uniti mette appunto in pericolo il loro monopolio della realtà. Questo è il motivo per cui hanno bisogno di demonizzare i concorrenti e di etichettarli come antiamericani o peggio. 
Tuttavia, spesso i giornalisti o gli editori non allineati sono semplicemente una realtà non americana, non necessariamente antiamericana; ma agli occhi degli egemonisti americani tutte le informazioni non-americane sono per definizione antiamericane, dal momento che la compattezza del loro impero si fonda soprattutto sul loro monopolio della realtà percepita. Ricordate la citazione di Karl Rove.

Così, i paesi non allineati con gli USA che veramente aspirano a un mondo multipolare non hanno altra scelta se non quella di imparare dal loro avversario e agire di conseguenza. Al di là della creazione di un proprio news network all’avanguardia, essi dovrebbero anche cominciare a fornire un sostegno concreto all’informazione indipendente nei paesi in cui le notizie sono attualmente controllate dagli Stati Uniti. Giornalisti indipendenti, scrittori e ricercatori dei paesi occidentali oggi stanno facendo il loro lavoro solo per passione civile, spesso non pagati e al costo di pubbliche derisioni, emarginazione sociale e sacrifici economici. Diffamati nelle loro patrie e senza nessun aiuto da parte dei paesi che presumibilmente mirano a sottrarsi al giogo statunitense: questo non è un buon inizio per la fine della Full Spectrum Dominance degli Stati Uniti.
Non c’è e non ci sarà mai un mondo realmente multipolare senza una gamma veramente multipolare di punti di vista sulla scena. Un impero postmoderno è più che altro una condizione mentale: se questa condizione rimarrà unipolare, il mondo resterà tale.



Traduzione per Megachip a cura di Emilio Marco Piano.

13 febbraio 2015

Paul C. Roberts: costringere gli USA a mollare l'ideologia della supremazia mondiale

Pandora TV

In occasione del simposio internazionale Global WARning - tenutosi il 12 dicembre 2014 e organizzato da Pandora TV, Megachip-Democrazia nella Comunicazione e Alternativa - uno degli interventi più forti è stato quello di Paul Craig Roberts, intervistato da Piero Pagliani. Roberts era stato sottosegretario al Tesoro durante la prima Amministrazione Reagan, e ha poi scritto migliaia di editoriali, oltre che diversi libri argomentati con una prosa limpida e precisa, che descrivono l'involuzione imperiale del potere atlantico.
Il Video, di 17'29'', riporta la parte più interessante della conversazione, di cui vi offriamo anche una trascrizione.

Buona visione e buona lettura!



Intervista a Paul Craig Roberts a cura di Piero Pagliani.


Intervento Video al simposio internazionale Global WARning del 12 dicembre 2014.



D. Dottor Roberts, grazie per averci concesso questa intervista. Possiamo incominciare. Come sa ho uno scenario da sottoporle.
All’indomani della II Guerra Mondiale, gli USA possedevano il 70% delle riserve auree mondiali e la concentrazione negli Stati Uniti della domanda effettiva e della capacità produttiva èra senza precedenti nella storia. Queste condizioni costituivano l’aspetto economico dell’egemonia statunitense mondiale.
Nell’agosto del 1971, il presidente Nixon dichiarando l’inconvertibilità del Dollaro in oro mise fine al sistema monetario stabilito a Bretton Woods.
Oggi, la Russia e la China ammassano migliaia di tonnellate di oro fisico e i BRICS hanno lanciato la Nuova Banca di Sviluppo.
Nel marzo del 2009, il Governatore della Banca Centrale Cinese ha proposto di rimpiazzare il Dollaro come valuta dominante e di creare una valuta di riserva internazionale indipendente da singole nazioni.
Mr. Roberts, in quale modo questo scenario riesce a descrivere i cambiamenti attuali negli equilibri geopolitici? In quale misura un mondo multipolare può riuscire a fare superare la presente crisi sistemica?

R. A mio modo di vedere, una valuta internazionale non è più necessaria. All’indomani della II Guerra Mondiale quando tutte le altre grandi nazioni industriali avevano economie distrutte e strutture industriali distrutte solo il Dollaro americano aveva valore e quindi poteva diventare la moneta mondiale.
Oggi chiaramente ci sono molte zone sviluppate del mondo con valute legittime e quindi è possibile condurre scambi tra nazioni tramite le loro proprie valute. Avete l’Euro, avete il Rublo, avete la valuta cinese, avete la giapponese, la canadese, l’australiana, ognuna già ora con un grande volume di attività economica sulla faccia del pianeta che non esisteva nel 1945. E quindi una valuta di riserva non è veramente più necessaria. Una valuta di riserva connessa a nazioni assicura a quella nazione un potere, le dà l’egemonia finanziaria sopra altre nazioni.
Stiamo osservando come Washington faccia un cattivo uso di questo potere. Un altro problema è il modo in cui Washington usa la valuta di riserva per pagare i suoi conti. Se sei la nazione con la valuta di riserva puoi rilassarti perché puoi pagare i tuoi conti emettendo moneta di credito. Negli anni recenti ciò che è successo è stato che Washington ha espanso oltre misura la sua disponibilità monetaria e il Dollaro ha denominato il debito. Washington inflaziona la sua valuta come ha fatto anno dopo anno, dopo anno e dopo anno ancora col Quantitative Easing. Una politica che strettamente parlando, non è finita. Ciò costringe le altre nazioni a inflazionare le proprie valute, altrimenti il valore di scambio delle loro valute aumenta e le esportazioni vengono tagliate, e quindi per proteggere i mercati di esportazioni tutti devono inflazionare se lo fanno gli Stati Uniti. Così la conseguenza è che il mondo ora è sommerso da fiat money, ma la produzione di merci e di servizi non è cresciuta in modo commensurabile alla crescita del denaro. Ci aspettiamo una seria inflazione mondiale per molte ragioni. Molta di questa moneta è sotto chiave nel sistema bancario. E’ comunque una situazione molto instabile ogni volta che create più fiat money di quanto non siano prodotti beni e servizi.
Quindi, io penso che la situazione abbia raggiunto il punto in cui molte nazioni, parlo di nazioni potenti come la Russia e la Cina, si rendono conto che il sistema del Dollaro, il sistema di pagamenti basato sul Dollaro, si sta frantumando, ed è anche il sistema che può essere usato per imporre sanzioni su nazioni che non seguono le imposizioni di Washington. Avete sanzioni se vi comportate indipendentemente da Washington e quindi si possono vedere movimenti per abbandonare il sistema e ciò certamente avverrà.

D. Così, in un certo senso, la proposta del governatore cinese della banca centrale, è una sorta di provocazione politica. Dire: “Abbiamo bisogno di un Bancor invece che del Dollaro”.

R. Beh, lei sa che la Cina è il più grande creditore del Tesoro statunitense. Possiede la parte maggiore del debito USA. Ha legato la sua valuta al Dollaro per dimostrare che la sua valuta è buona quanto il Dollaro . E ciò che vediamo è che la valuta cinese è meglio del Dollaro. Io penso che l’obiezione della Cina è il modo in cui gli Stati Uniti usano la loro valuta come un’egemonia finanziaria sopra tutte le altre nazioni. La usa per minare la sovranità delle altre nazioni. Lo vediamo con le sanzioni contro la Russia. Questo è il modo per costringere la Russia a sottomettersi al volere di Washington. Ma stanno ottenendo il risultato opposto. La Russia sta lasciando il sistema dei pagamenti basati sul Dollaro.
E la Russia inoltre, a causa della la stupidità dei governi europei, sta riorientando il suo commercio dall’Europa all’Oriente. Lo vediamo oggi con gli sviluppi in campo energetico. Così ciò manderà in frantumi il sistema di pagamento basato sul dollaro. E finirà.

D. Questo ci porta alla prossima domanda, Mr. Roberts. A quanto sembra gli Stati Uniti stanno cercando di mantenere la loro supremazia mondiale costi quel che costi. Qual è la sua opinione riguardo le possibilità degli USA di mantenere la loro egemonia nel breve e medio termine? Quale è, in quest’ottica, il ruolo delle forze armate, delle istituzioni finanziarie, delle corporations e dell’agribusiness? Cosa dovrebbero fare le nazioni europee per ribilanciare questo squilibrio a favore degli USA?

R. Le nazioni europee sono i grandi facilitatori dell’egemonia di Washington. Se le nazioni europee fossero davvero sovrane e fossero in grado di condurre politiche internazionali indipendenti non sarebbero stati vassalli degli Stati Uniti e questo limiterebbe lo strapotere degli USA e priverebbe gli Stati Uniti della copertura per le sue guerre di aggressione.
Cosa può fare l’Europa? Può disimpegnarsi dalla Nato. Essere un membro della Nato vuol dire assoggettarsi al controllo di Washington. La Nato esisteva per proteggersi dall’invasione dell’Europa da parte dell’Armata Rossa, l’esercito sovietico. Questa minaccia è bella e spartita da almeno vent’anni. Eppure la Nato continua ad espandersi e viene usata dagli Stati Uniti per le sue guerre in Africa e nel Medio Oriente. Cosa ci guadagna l’Europa da tutto ciò? Niente. E adesso viene trascinata in un confronto militare con la Russia. Che cosa ne uscirà da tutto ciò? Nulla di buono per l’Europa. È quindi è necessario che i Paesi europei riacquistino la loro sovranità. Ma non sono sovrani, Sono colonie. Sono regimi fantocci. Non hanno politiche estere indipendenti. Sono assoggettate al volere di Washington. E ciò costituisce una grande facilitazione per l’egemonia di Washington. Senza ciò gli Stati Uniti sarebbero solo un altro Paese tra tanti. Magari un Paese molto forte, certo, ma un Paese tra tanti. Ma quando uno ha tutta l’Europa, il Canada, l’Australia il Giappone come regimi fantocci e stati vassalli, diventa strapotente.
Quindi, ciò che l’Europa può fare? Lasciare la Nato. La Nato non protegge più l’Europa, ma la mette in pericolo perché la coinvolge nelle guerre di Washington.

D. Mr. Roberts. In che modo gli USA riescono ad assoggettare le nazioni europee? C’è una ragione principale?

R. Ci sono vari motivi. Un motivo è che dopo la II Guerra Mondiale il Dollaro è diventato la moneta di riserva, ciò che dà un potere enorme a questo Paese. Un’altra ragione è stata la lunga Guerra Fredda con l’Unione Sovietica e la propaganda secondo cui l’Europa poteva essere invasa dall’Unione Sovietica. Con la conseguente dipendenza dell’Europa, che dura da decenni, dalla protezione americana. Se tu dipendi dalla protezione di un altro Paese finisci per dover seguire le politiche di quel Paese perché dipendi da quel Paese. E’ il ruolo che assumi col tempo.
Tutto ciò avrebbe dovuto finire con il collasso dell’Unione Sovietica. Sfortunatamente il collasso dell’Unione Sovietica ha portato alla ribalta negli Stati Uniti l’ideologia dei neoconservatori che dice che la Storia ha scelto gli Stati Uniti per dominare il mondo. Sarebbe la Nazione Eccezionale, la Nazione Indispensabile e il collasso del comunismo, del socialismo avrebbe provato che gli Stati Uniti dovevano esercitare la loro egemonia sul mondo. Questa ideologia è stata istituzionalizzata nella politica estera e militare degli Stati Uniti. Abbiamo la dottrina Brzezinski e la dottrina Wolfowitz.
E nell’essenziale queste dottrine dicono che gli Stati Uniti devono prevenire l’ascesa di ogni altro Paese che abbia il potere e le capacità di bloccare i propositi di Washington nel mondo. E questi due Stati oggi sono la Russia e la Cina. E quindi questa ideologia è estremamente pericolosa perché mette il mondo in conflitto con la Russia e la Cina. E questi sono tra i principali paesi nucleari, e sono grandi economie ed enormi aree geografiche. E quindi l’ideologia dell’egemonia americana è una minaccia alla stessa esistenza della vita sulla terra.

D. La Germania potrebbe giocare un ruolo importante in questo scenario. Ma sembra che non stia affatto per giocarlo. Cosa pensa della Germania?

R. Temo che la Merkel sia solo un pupazzo di Washington. E’ molto difficile per un leader europeo alzarsi in piedi e rappresentare il proprio popolo invece che gli Stati Uniti. Tutti i leader europei rappresentano gli Stati Uniti e non rappresentano il popolo della Francia, della Germania o il popolo britannico. Rappresentano gli Stati Uniti. E certamente sono ben remunerati per questo. E quindi i leader che mostrano una qualche disposizione a non stare al gioco sono sempre rovinati . Perciò se la Germania dovrebbe alzarsi in piedi, dovesse fare qualcosa, immaginatevi se la Germania dovesse semplicemente lasciare l’UE . Restare non serve agli interessi della Germania. Perché la Germania verrebbe munta e pagherebbe i debiti dell’UE. E dell’Ucraina.
O se la Germania lasciasse la Nato. Perché la Germania dovrebbe stare nella Nato? La Germania ha grandi collegamenti economici con la Russia. Ma questi stanno per essere sacrificati per far piacere agli Americani.
Quindi la Germania potrebbe fare molto. Potrebbe lasciare la UE, potrebbe lasciare la Nato. Questo sarebbe la fine dell’egemonia statunitense.

D. E’ quindi anche un problema di democrazia. Non c’è perciò più democrazia nei Paesi occidentali, in un certo senso.

R. I Paesi occidentali non hanno più, a mio avviso la democrazia, perché i loro leader non rappresentano il popolo.
Negli stati Uniti rappresentano ideologie e rappresentano potenti gruppi di interessi, come ad esempio il complesso militare e di sicurezza, Wall Street e le grandi banche e l’agribusiness, la lobby israeliana, le industrie estrattive, petrolio, miniere e l’industria del legno. Tutti questi sono interessi potentissimi le cui donazioni determinano chi viene eletto e la gente che trae beneficio da questi contributi alle campagne elettorali sono alleate alle fonti del denaro. Quindi tutto il processo viene rimosso dalla rappresentazione del popolo. Il popolo non fornisce i soldi che eleggono i candidati. E quindi si ha una situazione in cui l’Europa è solo un vassallo degli Stati Uniti
Quindi questi leader non possono nemmeno rappresentare gli interessi del loro popolo ma devono conformarsi alle politiche degli Stati Uniti. Perciò si può solamente dire che la democrazia in fin dei conti non esiste. E’ solo una copertura perché i governi sono incapaci di rappresentare gli interessi del popolo.

R. Questo mi ricorda un suo articolo recente. In questo articolo lei ha denunciato, cito, che dall’Amministrazione Clinton in poi “il potere di contrappeso dei lavoratori nei confronti del capitale è svanito”. Questa denuncia significa che dovremmo fare qualcosa per ribilanciare lavoro e capitale. Cosa dovrebbero fare i lavoratori e le persone comuni per ribilanciare lo squilibrio nei confronti del capitale?

R. E chiaro che non possono fare nulla all’interno di questo sistema. Ciò che ha distrutto il potere dell’uomo comune negli Stati Uniti è stato la delocalizzazione all’estero dei posti di lavoro dell’industria manifatturiera e quando l’industria è stata delocalizzata all’estero i sindacati sono stati distrutti. E quando i sindacati sono stati smantellati, la fonte indipendente di finanziamento del Partito Democratico è stata distrutta e di conseguenza i Democratici ora devono rivolgersi agli stessi gruppi di interesse che finanziano i Repubblicani. Devono rivolgersi al complesso militare-sicurezza, a Wall Street, alle banche e così entrambi i partiti sono finanziati dalle medesime fonti. Così a tutti gli effetti c’è un unico partito.
E quindi all’interno di ciò cosa possono fare i lavoratori spossessati? Non possono fare veramente nulla all’interno del sistema. Tutto quello che possono fare è contestare la legittimità del governo e ribellarsi. E’ l’unica alternativa che hanno. Non c’è nessuna possibilità di cambiare il sistema dall’interno. Fin quando protestare vuol dire protestare pacificamente vuol dire che la gente accetta la struttura e semplicemente cerca di convincere coloro che hanno il potere che devono cambiare le proprie idee. Ma questo non avverrà. Non succede mai.
Abbiamo raggiunto un punto in cui i lavoratori sono spinti ai margini. Non hanno nessuna influenza non hanno nessuna rappresentanza. E tutto quello che possono fare è contestare la legittimità del sistema e ribellarsi. Non c’è nient’altro che possano fare.

D. È una posizione molto forte. Molto precisa.

R. Non lo sto proponendo. Sto solo rispondendo alla sua domanda.

D. Certo, la comprendo.

R. All’interno del sistema non hanno praticamente nessun potere. E tutto questo è dovuto alla delocalizzazione dei posti di lavoro. Perché ciò ha tolto il loro potere economico. Questo era il potere che controbilanciava il potere dei capitalisti. Senza i sindacati non c’è un potere controbilanciante.

D. Lo scenario che dobbiamo affrontare è molto pericoloso. Grazie ancora per averci concesso questa intervista. Le voglio chiedere se ha qualcosa da dire all’audience europeo e italiano. Liberamente.

R. Tutto quello che posso dire è che i Paesi in Europa che hanno una così lunga storia non devono rinunciare alla loro sovranità, per Washington. Devono riconquistare la loro sovranità per proteggere il mondo dall’aggressione di Washington. Perché questa ideologia dell’egemonia mondiale è molto pericolosa. E’ un’ideologia molto pericolosa. Potete vedere i morti e le distruzioni nel Medio Oriente da tredici anni. Puoi vedere l’ingerenza irresponsabile del governo degli Stati Uniti in Ucraina, le accuse irresponsabili contro la Russia, contro la Cina, la costruzione di basi militari sulle frontiere della Russia e in Asia per bloccare l’accesso della Cina alle risorse. Tutto questo ci porterà alla guerra. Ma La Russia e la Cina non sono la Libia o l’Iraq.
Quindi i Paesi europei dovrebbero recuperare la loro sovranità e ridiventare Paesi indipendenti . Così da costringere gli Stati Uniti a mollare questa ideologia della supremazia mondiale.

Essa è pericolosa per gli Americani, è pericolosa per i Russi, per i Cinesi, per gli Europei. E’ pericolosa per tutti.  


6 febbraio 2015

La guerra è la sola igiene del mondo? Prospettive 2015

di Piotr.
da Megachip
I tratti salienti del 2015 iniziano a delinearsi. Cercherò in futuro di analizzarli meglio, ma quelli centrali mi sembrano che vertano su alcuni punti salienti.

Due parole sul metodo
Come al solito non uso una sfera di cristallo, ma un po’ di logica applicata ai fatti. Alcuni sono fatti certi, altri sono il risultato di incroci di fonti informative di diversa provenienza e di diversa tendenza. Non ho servizi di intelligence a mia disposizione e quindi mi devo accontentare. Quelli che invece si accontentano di una sola fonte, di fatto si accontentano anche di essere ricettori passivi di servizi di intelligence. Data l’origine promiscua delle mie informazioni, requisito essenziale è non fare il tifo per una parte, ma cercare di essere un lettore equilibrato. Ciò non vuol dire che il mio cuore non stia dalla parte degli aggrediti, degli umiliati e degli offesi. L’osservatore puramente razionale e neutrale è una mostruosa finzione al servizio del pensiero dominante. Essere equilibrato nell’osservazione e nell’analisi non vuol dire essere indifferente, bensì analizzare con disincanto il maggior numero possibile di linee di forza in gioco per poter intervenire a vantaggio degli aggrediti, degli umiliati e degli offesi.
Non solo, per l’analisi del comportamento di entità statali e dei conflitti in corso tra loro non è né lecito né produttivo suddividere il mondo tra Buoni e Cattivi. Gli scontri geopolitici avvengono tra sistemi costituiti di potere che agiscono guidati dal criterio dell’interesse e dell’opportunità e quindi attraverso tali criteri devono essere interpretati e analizzati. Cosa che tra l’altro dimostra l’idiozia di insignire del Nobel per la Pace, che dovrebbe avere un significato etico, tali entità o i loro rappresentanti, qualunque essi siano.
Durante le crisi agiscono in primo o secondo piano anche entità substatali, che possono essere classi o raggruppamenti sociali di altra natura, o più precisamente rispecchianti le molteplici nature che emergono o riemergono quando un sistema di sicurezze viene messo in crisi e si aprono vistose crepe nell’ordinamento sociale, istituzionale e simbolico che fino a quel momento era stato sovrimposto all’intera società e in diversa misura accettato.
Un’entità substatale richiede un’analisi duplice, la prima riguardante la sua origine economica e sociologica (come ad esempio l’emarginazione) e quella simbolica e mitologica in senso lato (come la costruzione o ricostruzione di un’identità attraverso l’adesione a fedeltà ideali concepite come antagoniste dell’ordine emarginante; queste fedeltà ideali possono essere totalmente differenti e avere origini e storie situate agli antipodi: si pensi alla lotta di classe e allo jihadismo); la seconda riguarda il ruolo di queste entità nell’ambito dei conflitti tra quei sistemi di interessi e di rappresentazioni del mondo di ordine superiore che sono appunto gli Stati, quegli scontri cioè che caratterizzano le grandi linee di forza di ogni crisi sistemica. Tutto sommato questa è la lezione leniniana.
E’ bene quindi non applicare agli Stati giudizi di carattere morale per spiegare l’analisi del loro operato. Ovverosia, è da evitare di dare agli Stati giudizi etici essenzialistici, del tipo “lo Stato X è intrinsecamente aggressivo” o “lo Stato Y è amante della pace”.
Rispetto alle entità statali, la suddivisione da applicare è di altro tipo. In questo momento storico ritengo che la suddivisione più pertinente sia:
a) potenze che tendono alla guerra, attualmente gli Usa e poi l’Europa, perché non trovano altre soluzioni alle loro enormi difficoltà.
b) potenze che vogliono preservare la pace perché la guerra non gli conviene, come attualmente la Russia e la Cina.
Questo è quanto e non rivestirò questa differenza con altre qualità, riguardanti l’etica o le cosiddette “caratteristiche nazionali”, se non forse negli elogi o nelle invettive, che non sono moti propriamente razionali. Non perché l’etica non sia importante o perché non esistano “caratteristiche nazionali”, che ad ogni modo non dipendono da apparati simbolici particolari o da fenomeni metafisici come il “destino manifesto”, bensì dalla collocazione delle nazioni nella storia e nella geografia. Non uso questi criteri perché produrrebbero rumori di sottofondo in analisi per forza di cose stringate e che richiedono perciò di arrivare velocemente al dunque.

Le conseguenze del metodo
Diverse volte, anche se non sempre, questo metodo mi ha permesso di cogliere nel segno, come quando, purtroppo, ho previsto un sanguinoso attentato in Europa di matrice islamista,venti giorni prima della strage del Charlie Hebdo.
Ho però sbagliato quando scrissi che dalla signora Mogherini nella sua carica di Alto Rappresentante per gli Affari Esteri e la Sicurezza della UE, mi aspettavo qualche guizzo di dignità e indipendenza. Così non è stato. La signora Mogherini si sta comportando come un ripetitore passivo del Minculpop atlantico. La sua richiesta di nuove sanzioni alla Russia motivate dal nulla ne è l’ennesima prova.
E il nulla è proprio il nulla, nel senso più stretto del termine.
Gli analisti militari indipendenti hanno stabilito che i proiettili che hanno ucciso i civili a Mariupol sono stati lanciati dalle forze armate ucraine, UAF, e caduti su Mariupol per errore (d’altra parte spessissimo la UAF bombarda a casaccio o con vistosi errori). Quindi non sono state lanciate dalle forze armate della Novorussia, NAF, che in quel momento non avevano in corso nessuna operazione militare nella zona di Mariupol (stavano invece combattendo nella zona di Donetsk).
In secondo luogo, che le forze armate russe stiano intervenendo nel Donbass è stato escluso dal Capo di Stato Maggiore ucraino, generale Viktor Muzhenko. Una dichiarazione che ha irritato tutto il menzognificio atlantico: 
 

Le due motivazioni per le sanzioni quindi semplicemente non esistevano. 

Può essere che la presa di posizione della UE sia “diplomatica” e nasconda manovre dietro le quinte. 

Ma mentre la UE fa i suoi giochi diplomatici e non riesce ad esprimere nessuna politica estera indipendente, ogni ora che passa in Ucraina si muore. 

Il re è nudo ma la coscienza dei dirigenti europei è invece opaca e anche su di essa pesano le morti non solo dei civili e dei soldati della Novorussia, ma anche di tutti quei giovani ucraini mandati allo sbaraglio in missioni disperate, fallite già prima di iniziare.
In questi giorni ci sono frenetici incontri incrociati, a Monaco, Kiex e Mosca, tra Kerry, Mogherini, Poroshenko, Hollande, Merkel, Lavrov e Putin. È successo sempre così quando la junta è stata sull’orlo di un disastro militare. E, come vedremo subito, oggi la junta è sull’orlo dell’ennesimo disastro militare.


Da questi incontri uscirà qualcosa di più di un ennesimo cessate il fuoco ad hoc? Lo spero ardentemente, ma non ci credo, non riesco a trovare nessun ragionevole motivo per crederlo. E Dio solo sa quanto sarei immensamente felice di sbagliarmi.

La guerra in Europa nel 2015
Partiamo quindi da qui. Il 2015 sarà l’anno in cui la crisi ucraina raggiungerà il punto di catastrofe, in senso matematico. Cioè subirà un cambiamento di forma radicale.
E’ la prima volta che mi dovrò soffermare sui particolari di un conflitto armato, ma occorre farlo. La guerra è e sarà uno degli ingredienti centrali dello sviluppo della crisi sistemica.
I dati parlano chiaro. La NAF, benché in enorme minoranza numerica (circa 20.000 combattenti e 15-20.000 addetti alle retrovie, alla sicurezza e alla logistica) è estremamente più motivata e più efficiente della UAF, a parte gravissimi errori come a Peski e Avdeevki, dovuti probabilmente a scontri interni alla dirigenza della Novorussia.
Attualmente a Debaltsevo circa 6.000-8.000 soldati ucraini, presumibilmente quasi la metà delle forze ucraine oggi effettivamente in grado di combattere, stanno per essere definitivamente chiusi in una sacca. Anzi, recentissime notizie danno la sacca ormai chiusa. Una sorta di piccola Stalingrado che potrebbe essere feroce se gli ucraini non si arrendono. In tutti i casi una sconfitta pesantissima per la junta di Kiev.
La NAF si è mossa molto lentamente, evitando di utilizzare tutta la sua potente artiglieria perché la città è piena di civili. Civili russofoni, quindi considerati sottouomini dalla junta. Non dimentichiamo che la Timoshenko dopo il golpe li voleva eliminare tutti con le atomiche: 
 

Oggi dovrebbe iniziare l’evacuazione. Un’operazione delicatissima, perché potrebbe essere boicottata dalla UAF assediata, dato che i civili sono l’unica ragione per cui l’artiglieria della NAF non si scatena e perché si presta a sanguinose provocazioni false flag.

Guardando il conflitto nel suo complesso, osserviamo che la NAF deve comunque frenarsi nello slancio. C’è un motivo militare: spingendosi in avanti avrebbe il problema di consolidare e mantenere linee molto lunghe con pochissimo personale. Ma c’è un motivo ben più importante, ed è politico. Mosca non desidera affatto che la NAF si faccia attrarre dalla prospettiva di un’espansione e tiene a freno i comandanti militari e politici più focosi, suscitando così accuse a Putin da parte dei nazionalisti russi di “tradire” il Donbass. Basta informarsi un po’ per sapere che le cose stanno così. A noi, al contrario, viene raccontato che Mosca sta spronando la NAF alla conquista dell’Ucraina. Menzogne costruite scientemente e ripetute da media ignoranti.
Nel campo ucraino solo i battaglioni di volontari sono motivati; e l’ideologia che li motiva purtroppo la conosciamo. La UAF è in seria difficoltà. Tutti gli ultimi attacchi (quelli che hanno rotto la tregua) sono stati di fatto missioni suicide, spiegabili solo dalla volontà statunitense di fare dell’Ucraina un punto di crisi permanente e di permanente divisione tra Europa e Russia. “Combatteremo la Russia fino all’ultimo ucraino”, non è più solo lo slogan virtuale di Washington, ma un dato di fatto. A volte i comandanti ucraini mentono apertamente ai soldati sull’obiettivo della missione. 
Come quei poveracci inviati a riconquistare il Nuovo Terminal dell’aeroporto di Donetsk ai quali avevano fatto credere fino all’ultimo che dovevano andare a “recuperare i feriti”. 
E’ stato un massacro, come si può capire da un video:
Avvertiamo che questo video è la versione non censurata delle immagini solitamente divulgate; non è un bello spettacolo ma nel vederlo si capisce l’orrore di quella guerra in mezzo all’Europa, a cui noi, colpevolmente, non prestiamo la minima attenzione.

Un alto responsabile degli uffici di reclutamento ucraini ha rivelato che interi villaggi sfuggono alla coscrizione rifugiandosi in Russia, aggiungendo “si stenta a crederlo, proprio in Russia”. Solo una persona obnubilata dall’ideologia di guerra può stentare a crederlo. Un quotidiano ucraino ha scritto che la 4ª mobilitazione, l’ultima, ha visto l’80 per cento dei coscritti rifiutarsi di andare a combattere.
Per contro la Novorussia ha proclamato la mobilitazione generale. Sarà su base volontaria, tuttavia i responsabili si aspettano un afflusso di 100mila uomini e potrebbe non essere solo propaganda.
Se non interverranno altri fatti, cioè un intervento diretto o indiretto massiccio della Nato o nuovi negoziati di pace, ciò che si può quindi prevedere è che la NAF nel 2015 conquisti Odessa e Mariupol, dando così continuità territoriale alla Crimea e tagliando fuori Kiev dall’accesso al mare. A quel punto si fermerà. Non andrà ad assediare Kiev, ma attenderà la mediazione internazionale. Se ci sarà. E si può anche prevedere che Mosca a quel punto avrà parecchie difficoltà a rifiutare per la seconda volta la richiesta dei territori controllati dalla NAF di essere annessi alla Russia.
La junta di Kiev è nel panico e in questo 2015 rischia di frantumarsi. Assediato dalla destra ultrà (a Kiev ci sono ripetute manifestazioni antigovernative dei battaglioni di volontari nazisti che protestano contro il progetto di loro scioglimento) e prostrato dal disastro della sua “offensiva invernale”, nessun analista sano di mente oggi scommette un euro sulla vita dell’oligarca Poroshenko, primo ministro della junta (se il governo pre-golpe faceva gli interessi degli oligarchi, il governo dopo-golpe è direttamente in mano agli oligarchi, un gran passo in avanti).
Poroshenko ha capito che l’esistenza sua e quella dell’Ucraina dipendono dalla pace con la Novorussia (per questo vuole sciogliere i battaglioni di volontari, che vedono la pace come il fumo negli occhi, visto che la sola ragione per cui esistono e hanno un ruolo è la guerra). Oggi la sua propensione al compromesso è spalleggiata anche dal mondo degli affari, persino dai settori che erano più oltranzisti. E non a caso Putin gli ha fin da subito teso la mano, riconoscendo le elezioni di maggio, pur pesantemente viziate dall’esclusione dei partiti di opposizione e di larghe regioni del Paese, e non riconoscendo invece ufficialmente le elezioni di novembre nel Donbass (attirandosi anche in questo caso feroci critiche dai nazionalisti russi).
Come è stato detto, Putin preferisce una cattiva pace a una buona guerra. Una verità che in Occidente è da nascondere, perché il presidente russo deve essere a tutti i costi demonizzato. Anche nel suo caso è iniziato l’accostamento a Hitler. Un classico: Hitler- Milosevic, Hitler-Saddam, Hitler-Ahmadinejad, Hitler-Gheddafi, Hitler-Assad e adesso Hitler-Putin.
Putin invece sa che un’Ucraina unita e federale sarebbe lo scenario più vantaggioso per la Russia e un punto di ricucitura con la UE. Lo sanno bene anche negli Usa. E quindi se il deciso hard-power statunitense avrà la meglio sull’indeciso soft-power di Obama le cose si metteranno molto male per Poroshenko, per l’Ucraina e per l’Europa intera.
Ci si può immaginare la signora Clinton, che stufa di una politica estera in confusione, stufa delle micro-fronde e delle micro-diplomazie sotterranee europee, dice; «Obama, move over there, let me work! And you, European ”leaders”, shut the fuck up! Line the fuck up! Fuck the Eu!».
Purtroppo gli ultimi sviluppi mostrano un Obama assediato e costretto, almeno apparentemente, ad adeguarsi alle richieste dei falchi, cioè aiuti letali all’Ucraina e sostegno massiccio anche politico al partito della guerra, ovvero all’ultra destra nazionalista. In questo scenario Poroshenko sarà visto con crescente sospetto dagli Usa e sempre più contestato da nazisti e nazistoidi.
Alla fine, potrebbe essere più utile come vittima sacrificale di un attacco terroristico false flag, mettiamo al Parlamento di Kiev. Una sorta di incendio del Reichstag.
Altre opportune vittime dello stesso attentato, cioè i capi dell’ultra destra, farebbero scattare una decomposizione tribale dell’Ucraina, con presa del potere da parte di isterici signori della guerra e con bande di nazisti alla caccia degli oppositori e specialmente dei russofoni che sarebbero costretti a formare bande di autodifesa. Il caos imperiale al suo apogeo. Il massimo a cui possono attingere gli Usa a meno di dichiarare apertamente guerra alla Russia. O a meno di una revisione radicale della loro strategia. Evento ad oggi inconcepibile, e vedremo perché.

Il caos imperiale nel 2015
La crisi sistemica genera caos sistemico che decompone le società in quelle formazioni sociali che lo sviluppo aveva incastrato e accomodato in un sistema garantito da patti costituzionali. I nazionalismi etnici e religiosi, tutta la varietà di particolarismi oggi sotto i nostri occhi, sono un risultato di questa decomposizione, iniziata in una larga parte del mondo all’inizio degli anni Novanta, quando le riforme neoliberiste hanno codificato la crisi sistemica. Ecco perché anche le Costituzioni devono essere “riformate”. Perché in quella guisa oggi non servono più.
Laddove si ha interesse a limitare o tenere sotto controllo la decomposizione sociale occorre che si instauri uno stato autoritario, che imponga un nuovo senso comune, che non può più far leva su uno sviluppo esistente ma dovrà ricorrere alla mitologia di un nuovo sviluppo legata alla realtà di una situazione di guerra. Guerra con un nemico interno o esterno. È ciò che sta succedendo negli Usa e nella UE.
Ma altrove l’impero del caos cerca di utilizzare per i suoi fini ogni forma di divisione, sociale, etnica, culturale, religiosa, per far fallire compagini statali non asservibili. Che altro è il Piano per il Medioriente del ministro degli Esteri israeliano, Oded Yinon, presentato nel 1982? Che altro voleva dire il “take out” di Iraq, Siria, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran, deciso dal Pentagono fin dal 2001 e rivelato dal generale Wesley Clark?
A questi Paesi si è aggiunta da un anno l’infelicissima Ucraina, centro di snodo dell’Europa geografica e politica.
La UE non ha nessuna intenzione di pagare la sopravvivenza dell’Ucraina, e nemmeno gli Usa. L’insidioso Soros ha calcolato che servirebbero 50 miliardi di dollari all’anno. Ma gli alleati della junta hanno pianificato solo 20 miliardi in tre anni. Aspettiamoci una migrazione biblica da quel Paese, in parte verso la Russia e in parte verso la UE. Una migrazione che porterà con sé rancori per il nostro tradimento e la consapevolezza che li abbiamo usati come carne da macello contro i Russi. Una migrazione che porterà nella UE anche un gran numero di persone radicalizzate a destra, piene di rabbia e a volte addestrate militarmente; una sorta di rientro di jihadisti.
Per molti osservatori l’Ucraina è ormai uno Stato fallito. Obama è entrato nell’usuale trip decisionale (armo la junta, non armo la junta, armo la junta). Quella confusione e quella indecisione che gli sono state rimproverate. L’ultima mossa è stata una rivendicazione della paternità del regime change, ammettendo pochi giorni fa alla CNN che Washington “had brokered a deal to transition power in Ucraine”. Vuol dire che armerà veramente la junta prima della fine dell’inverno, quando è verosimile un’offensiva della NAF? O sta prendendo tempo nei confronti dei falchi, mentre pensa che la strategia migliore sia lasciare l’Ucraina nel caos imperiale, come immensa gatta da pelare per la UE e la Russia? Con il rischio però che questa gatta da pelare invece che fonte di dissidio diventi motivo per una riconciliazione tra Bruxelles e Mosca? Ma se c’è riconciliazione, le probabilità di successo della Transatlantic Trade and Investment Partnership (il Ttip) si riducono al lumicino. E gli Usa si ritroverebbero potenti ma quasi isolati, essendo a un punto morto anche le trattative per la parallela Trans-Pacific Partnership (Tpp).
Sono eventualità che Obama non può controllare e che impensieriscono i falchi.
Ed è possibile un’escalation in Ucraina e una de-escalation in Medioriente? C’è da dubitarne.
Putin per ora non ha sbagliato una mossa. Ha usato le sanzioni per rendere autonoma la Russia in molti settori e ha stretto un numero straordinario di accordi economici e finanziari coi sei settimi di umanità che circondano l’Occidente in crisi (senza contare che lo stesso interscambio tra Usa e Russia è aumentato del 7% da quando sono iniziate le sanzioni). È riuscito a non far coinvolgere il suo Paese nel conflitto e a riprendersi la Crimea senza colpo ferire. Ma nonostante la sua accortezza e pazienza, la crisi ucraina potrà finire solo con tre scenari: a) una provocazione diretta contro la Russia con suo inevitabile coinvolgimento nel conflitto; b) un’Ucraina a pezzi e al collasso, abbandonata dall’Occidente e lasciata come problema alla sfera d’influenza della Russia e - nelle intenzioni, ma non è detto - come causa di perenne discordia con l’Europa; c) una negoziazione seria tra Russia e UE con all’ordine del giorno la denazificazione dell’Ucraina, la sua neutralità e la ricostruzione del Paese.
Per ora l’unica mossa consentita alla UE dal suo padrino d’oltre Atlantico è stata l’estensione di sanzioni talmente imbarazzanti e controproducenti che vengono proclamate a gran voce ma la cui precisa definizione viene rimandata nella speranza che succeda qualcosa.

L’Europa nel 2015
Le nuovi sanzioni, se saranno prese, non hanno nessuna possibilità di danneggiare la Russia. Ma sono un pesante segnale di subordinazione alla logica della contrapposizione. Segnali che costano morti.
Tuttavia sembra che la diplomazia della Grecia di Syriza abbia giocato un ruolo importante nel frenare la UE da decisioni affrettate e troppo pesanti riguardo Mosca. Io non sono un tifoso tripudiante di Syriza, ma prendo le distanze da una sinistra italiana che, dimenticandosi di essere la più incapace d’Europa, si è lanciata in una sequenza di critiche massimaliste e puriste al nuovo governo greco, senza nemmeno dargli il tempo di insediarsi e orientarsi nel potere. Vedo anch’io alcuni segnali preoccupanti ma credo che sia d’obbligo non affrettarsi nel giudizio.
Secondo molti puri e duri, il governo greco in due giorni avrebbe dovuto: a) proclamare il default, b) uscire dall’Euro, c) uscire dalla Nato, d) opporsi con un veto alle nuove sanzioni contro la Russia.
L’unica maniera che il nuovo governo greco avrebbe per fare queste cose dall’oggi al domani senza un contraccolpo catastrofico passa attraverso una militarizzazione della società, previa sostituzione di tutte le linee di comando dei militari greci (che hanno espresso i famigerati “colonnelli” negli anni Sessanta-Settanta) a sostegno di una mobilitazione di massa continua.
La nostra sinistra, maestra delle concettualizzazioni pure e dure, ha da tempo perso di vista la realtà materiale, sperduta così com’è nel concetto e nei modelli. Si dimentica ad esempio che la Grecia ha 11 milioni di abitanti, non 1.100 milioni. Non ha la bomba atomica ma un esercito striminzito di meno di 90.000 uomini. Ha meno di 132.000 kmq e non 9 milioni. Dove va con la Dracma un Paese così? Qual è la potenza politica, militare, economica e finanziaria che starebbe dietro alla nuova Dracma, che la sosterrebbe in una crisi sistemica teatro di battaglia di contendenti colossali? Una Dracma non ereditata dalla storia e quindi inserita in qualche modo nei giochi finanziari ed economici attuali, ma nata da una rottura con l’Europa, con la Nato e con gli Stati Uniti?
Non è lecita la prudenza? Non è lecito sondare il terreno, cercarsi prima degli alleati sicuri e con la possibilità di intervenire? È difficile ricordarsi cosa succedeva ai Paesi in odore di defezione durante la Guerra Fredda? Ci siamo già scordati di Gladio? Ci siamo già scordati delle bombe in Italia per dieci anni consecutivi? Ci siamo scordati, per l’appunto, dei Colonnelli greci? E la guerra allora era fredda mentre oggi è già molto calda. E la crisi sistemica era agli inizi, non era arrivata ai livelli di oggi che non lasciano più molto spazio di manovra.
È vero, ripeto, ci sono indizi preoccupanti su come si muoverà Syriza. Ma per ora sono solo indizi, non prove. Alla fine dell’anno ci saranno le elezioni spagnole. Ma già da prima, con la semplice prospettiva di una vittoria di Podemos, l’Unione Europea dovrà fare parecchi conti. Senza parlare delle elezioni britanniche in maggio che potrebbero dare molto fiato alle posizioni cosiddette “euroscettiche”. E spero che non si obietti l’ovvietà che l’Ukip non è di sinistra. Il quadro sta cambiando. Potrebbe non essere un cambiamento sufficiente, ma un cambiamento è in atto.
Non per nulla la Bce cerca di arrivare a più miti consigli, e vara in barba a una quasi impotente Germania il quantitative easing (QE) di Mario Draghi. Ovviamente, come vedremo, non è l’unico motivo per cui lo fa. E inoltre bisogna vedere i vincoli e le costrizioni a cui la Germania cercherà di sottoporre la decisione di Draghi. Ad esempio il QE potrebbe venire incontro alla Grecia. Sarebbe la cosa più naturale. Ma potrebbe anche essere usato in modo discriminatorio per ricattare ancora di più Tsipras. Le recentissime dichiarazioni di Mario Draghi sembrano accreditare quest’ultima ipotesi. Ma attenzione alle apparenze. Attenzione alle declamazioni. Attenzione allo spettacolo che avviene sul palcoscenico, perché è più importante il backstage. Attenzione a non urlare “al lupo! al lupo!” prima di controllare se il lupo è alla catena.
Ad ogni modo c’è chi dice che è tardi per il QE e chi dice che è insufficiente. La realtà è che comunque vada servirà solo come lenitivo per guadagnare un attimo di respiro e avrà come effetto netto finale l’inasprimento della crisi. A meno che non si riconsideri tutta la costruzione europea e il nostro “modello di sviluppo” (termine che non amo) fin dalle radici.

La crisi finanziaria nel 2015
Con molta probabilità il 2015 sarà infatti anche l’anno della nuova crisi finanziaria. Non possiamo dire molto sul futuro dell’Europa se non vediamo più da vicino questo punto.
La prossima crisi finanziaria sarà peggiore di quelle precedenti per il semplice motivo che tipicamente nel tentativo di superare una crisi si creano effetti che vanno a ingigantire esponenzialmente la crisi successiva, e così via.
È impressionante constatare sui grafici come dal 2000 il prezzo dell’oro fisico sia cresciuto nella stessa ragione della sua crescita dopo il Nixon shock, cioè dopo l’inizio della crisi sistemica attuale. Solamente negli ultimi tre anni si è abbassato grazie alle manovre sull’oro cartaceo (futures) tese a sostenere il corso del Dollaro.
Cosa che - classico effetto inintenzionale - ha consentito alla Cina e alla Russia di acquistare quantità straordinarie di oro fisico in vista della prossima crisi finanziaria globale e della progressiva sostituzione del Dollaro nel commercio mondiale.
Poco da stupirsi se “Holt unser Gold heim!”, rimpatriamo il nostro oro, sia da tempo un motto molto popolare in Germania. Non si sa mai, meglio far ritornare alla base le 2.400 tonnellate d’oro depositate negli Usa e in altri Paesi, in particolare in Inghilterra e Francia. Ma i tedeschi quell’oro non lo avranno mai indietro. Gli Stati Uniti praticamente non hanno più un’oncia di quel metallo e i pochissimi lingotti che hanno restituito alla Germania erano probabilmente quelli rubati alla Libia, un furto che è costato qualche decina di migliaia di morti. Farne sparire le origini è infatti una delle più plausibili spiegazioni che sono state date all’inspiegabile fatto che i lingotti sono stati rifusi dalla Bundesbank. Ad ogni modo, con una media di 78 tonnellate all’anno, stando alle dichiarazioni della stessa BuBa, la Germania dovrà attendere 30 anni per rivedere tutto il suo malloppo. Ma tutti sanno che sarà un’attesa vana. A partire dalla BuBa, che infatti aveva inizialmente chiesto indietro solo 300 delle 1.500 tonnellate depositate a New York e si era preoccupata poco del ritmo lentissimo di rientro, fino a dichiarare che in fin dei conti l’oro tedesco stava benissimo anche negli Usa. Per poi ricredersi per le pressioni di un agguerrito comitato e probabilmente per i nuovi calcoli economici, finanziari e politici che si sono fatti.
Un analogo problema lo stanno sperimentando Belgio e Olanda, gli unici in Europa che abbiano iniziato un piano di rimpatrio dell’oro. L’Italia, che ufficialmente possiede la terza riserva del mondo, cosa aspetta? Non vuole irritare la Fed o ha stabilito che tanto è fiato sprecato? Qualcuno si sta chiedendo perché i Paesi europei di “area tedesca” stiano cercando di rimpatriare il loro oro? Qualcuno si è chiesto perché Russia e Cina lo accumulino a ritmi mai visti prima nella storia?
Facciamoci allora un’altra domanda: il QE di Mario Draghi seguirà la stessa sorte del QE di Shinzo Abe (o più precisamente del QQE, perché il Governatore Kuroda-san pretende che sia anche “qualitative” oltre che quantitative - non per nulla son giapponesi)?
La domanda da porsi è se il QE, o QQE, europeo sia, parimenti a quello asiatico, un tentativo di aumentare l’inflazione nella speranza di rilanciare l’economia reale. È una domanda importante perché in Giappone, come si sa, non ha funzionato. Il reddito delle famiglie è sceso del 6% e il Pil del 7%. In compenso si sono formate bolle speculative più grandi di quelle già rovinose del “decennio perso” dell’economia nipponica. Un periodo nero, voglio ricordare, innescato dal Plaza Accord del 1985 che di fatto è da considerare come il canto del cigno del potere di lobbying dell’economia reale statunitense prima della finanziarizzazione selvaggia iniziata alla fine degli anni Ottanta e consacrata nel 1995 da un accordo opposto chiamato, infatti, Reverse Plaza Accord (gli accordi del 1985 non erano altro che l’imposizione forzata da parte degli Usa della rivalutazione dello Yen - che viene però incensato da qualcuno in quanto esempio di “moneta indipendente”).
Un effetto sicuro della Abenomics è stato quello di indebolire lo Yen senza per altro riuscire a ridurre l’enorme debito pubblico, 240% del Pil. In altre parole il Giappone è come un’enorme Grecia, col vantaggio formale di avere una moneta e una banca centrale indipendenti e quello sostanziale di essere la terza economia del mondo, quindi too big to fail, e, soprattutto, di essere geopoliticamente strategico per gli Usa.
Ciò nonostante, più di un analista non esclude un futuro default del debito sovrano e un collasso dell’economia del Sol Levante.
L’Europa sta per diventare il Giappone occidentale?
Il QE europeo è un aiuto agli Usa per bilanciare il famoso tapering della Fed, che stenta ad essere implementato, dopo trilioni di dollari stampati e messi in circolazione? Trilioni che non hanno sortito sull’economia reale un grande effetto, se sono veri i dati di una caduta a picco dei prezzi dei beni industriali negli Usa, cosa che farebbe direttamente a pugni col +5% di Pil sbandierato da Obama.
La realtà è che questi trilioni, come vedremo, hanno gonfiato nuove bolle speculative.
Analisti di lungo corso operanti quotidianamente sui mercati, suggeriscono di sostituire il termine “Teoria monetaria” con “Bubbleology”, scienza delle bolle monetarie. La loro analisi della crisi solitamente non va molto indietro al 2008, anno dello scoppio della bolla immobiliare (d’altronde da noi non si va quasi mai indietro al 2000, anno dell’Euro), tuttavia sono persone concrete, poco avvezze alla (inconsistente) teoria ma spaventate dalla (consistente) pratica. E quindi il suggerimento è molto pertinente.
La Cina dal canto suo ha deciso di utilizzare lo stesso antidoto per contrastare l’indebolimento della propria economia. E quindi non c’è da stupirsi che lo stesso effetto sia stato raggiunto: una bolla borsistica. Per loro fortuna la bolla è scoppiata abbastanza alla svelta. Forse perché sono cattivi “comunisti” e hanno un governo centrale molto occhiuto. Ad ogni modo, dato che l’Impero di Mezzo ha i migliori “fondamentali” economici del mondo, la vicenda cinese è una riprova di quanto stiamo dicendo: quando la crescita della base monetaria e degli strumenti creditizi diventa non una leva per la crescita dell’economia reale ma il sostituto di questa crescita, le bolle speculative sono inevitabili.
La discesa a picco del prezzo del petrolio ha solo parzialmente danneggiato l’economia del babau russo, ma avrà invece effetti molto brutti in Occidente. È fantastico che fino a ieri il prezzo crescente del petrolio fosse visto come il peggior incubo - tanto che una delle giustificazioni dell’Euro era che costituiva uno scudo rispetto alla crescita dei prezzi dell’energia - e oggi ci dicono invece che è tutto il contrario. Come mai? Schizofrenia?
Il fatto è che il prezzo alto del barile era un problema per l’economia reale. Ma il prezzo basso è un grossissimo problema per un’economia finanziarizzata. Solo per fare un esempio, si prenda il Canada, dove l’enorme bolla immobiliare (più grande di quella statunitense del 2008, secondo gli esperti) rischia di scoppiare dato che non è più sostenuta dall’alto prezzo del petrolio. Ed è solo un esempio.
Di tipo peculiare sono poi le sofferenze per il circuito “mercato delle armi-mercato del petrolio”, col risultato che uno dei pochi settori dell’economia reale che ancora tira, quello (orrendo) della produzione di armamenti, rischia una forte riduzione.
La situazione in Canada è un esempio di come l’economia finanziarizzata e quella reale, non solo divergano in misura geometrica, ma abbiano anche logiche contrastanti.
Per quale motivo Renzi e Padoan hanno deciso di rendere scalabili le Banche Popolari? Per quale motivo stanno stravolgendo la natura e la missione della Cassa Depositi e Prestiti? Perché hanno deciso di svendere quei pochi istituti finanziari che ancora avevano legami con l’economia reale e coi cittadini? Perché vogliono privatizzare quel mondo e quell’altro? C’è un unico vero motivo, al di là dei side-effect: per fornire alle fauci insaziabili della finanza un po’ di carne fresca e rimandarne per qualche tempo il suo collasso. Perché il nostro debito pubblico aumenta nonostante un’austerity feroce, se non, essenzialmente, per la trasformazione delle sofferenze finanziarie private in sofferenze pubbliche?
E allora ci si domanderà: perché di quell’enorme flusso di soldi generato finora negli Usa e in Europa, solo miseri rivoli sono arrivati all’economia reale, e la stessa cosa è destinata a ripetersi col QE europeo?
Esiste una risposta sbagliata e una risposta giusta.
La risposta più semplice è nota ed è divulgata sia a destra sia a sinistra: è in atto da tempo un complotto dei banchieri massonico-giudaici. Questa è la risposta sbagliata! I banchieri e i finanzieri, che siano framassoni o non lo siano, che siano ebrei o gentili, sono solo agenti (non innocenti) di un fenomeno più generale e oggettivo.
La risposta giusta, infatti, è che imprestare soldi a una economia reale che non produce sufficienti profitti o non ne produce affatto, equivale a un prestito a fondo perduto. I soldi vanno solo dove se ne producono altri e in Occidente questo luogo da decenni è la finanza speculativa. E se il denaro prodotto dal denaro è carta straccia tanto quello prestato lo si vedrà solo se qualcuno non ne riconosce più il valore. Chi minaccia di farlo è, ovviamente, passibile di eliminazione fisica. Lo potranno fare, quando lo riterranno conveniente, solo in pochi, bene armati: la Cina, la Russia, forse l’India. Succederà nel 2015? Sarà una catastrofe o sono ancora possibili sgonfiamenti pilotati delle bolle? Chi ne farà le spese?

L’impero nel 2015
Ecco allora l’importanza centrale dei giochi geopolitici di alleanza e di conflitto nella crisi sistemica. Gli Usa sanno benissimo che il bluff finanziario smetterà di reggere quando esso metterà seriamente a repentaglio lo sviluppo cinese e quello russo, oltre a quello dei loro alleati di fatto o di diritto. Questo bluff serve a mantenere l’egemonia planetaria statunitense sul mondo e, di converso, l’egemonia serve a sostenere il bluff. Per gli Usa è vitale, a meno di riformare la propria società fin dalle radici. Cosa che nemmeno il più audace dei candidati alla Casa Bianca oserebbe mettere nel suo programma: per cose infinitamente più timide, l’esclusione a priori dalla corsa presidenziale è certa e l’eliminazione fisica quasi.
Allora occorre indebolire i competitor. Si suscitano così “primavere” sulla sponda Sud del Mediterraneo per escludere da quei paesi la Russia e la Cina e contemporaneamente creare un cordone sanitario rivolto all’Europa, per scongiurare ipotesi di politiche indipendenti del Vecchio Continente; e per completare l’opera, dopo aver capito che un attacco diretto in Medioriente era troppo rischioso, si è consentito che un esercito di decapitatori, lapidatori e tagliagole dilagasse nella Mezzaluna Fertile. Poi ci si rivolge all’Europa e si scatena un golpe nazista a Kiev con tanto di minaccia di pulizia etnica degli ucraini russofoni, per suscitare la prevista reazione della Russia, sanzionarla, aprire un fronte orientale di guerra anche in Europa e stringere così a coorte il Vecchio Continente, per metà imbelle e per metà comprato.
Ma gli effetti sono spesso inintenzionali. Russia e Cina cementano un’alleanza inimmaginabile fino a qualche anno prima, che riguarda infrastrutture, energia, armamenti, cibo, tecnologia. L’India tiene i piedi in due staffe e rifiuta di sbilanciarsi verso gli Usa.
Il Dollaro, che gli Usa vogliono strenuamente difendere, si trova così sempre più alla mercé dei grandi competitor, specialmente della Cina. Se gli Stati Uniti non riescono a imbrigliare l’economia cinese in una nuova mondializzazione, innanzitutto finanziaria, l’affondamento del Dollaro può essere solo questione di tempo e di scelta politica. In sole due mosse: 1) vendita degli immensi asset finanziari denominati in dollari posseduti dalla Cina, 2) vendita dei dollari guadagnati con la prima vendita. In pochi minuti, anni di Quantitative Easing verrebbero vanificati (si veda quanto ha scritto in proposito l'ex sottosegretario al Tesoro di Reagan, Paul Craig Roberts). Questa sarebbe la mossa finanziaria, quella cinese. Dal canto suo la Russia potrebbe attuare la mossa energetica, tagliando gas e petrolio all’Europa Occidentale.
Sarebbero mosse rischiosissime, è più che evidente, ma potrebbero essere obbligate in assenza di negoziazioni serie e globali sul disarmo, l’economia e la finanza. E quindi, in definitiva, sul Potere. L’alternativa per Cina e Russia è attendere nella speranza che Washington non lanci un attacco nucleare. Una speranza e un’attesa che rischiano seriamente di essere vane, perché tutte le mosse intermedie degli Stati Uniti hanno mostrato ritorni progressivamente decrescenti ed effetti inintenzionali disastrosi. E le mosse rimaste sono poche e verosimilmente non migliori di quelle precedenti.
Come conseguenza, la forza di attrazione degli Usa e dell’Occidente scema senza soste, mentre quella del nuovo asse euroasiatico aumenta allo stesso ritmo.

La guerra e la pace nel 2015
Dato questo quadro, si capisce perché l’hard power statunitense accusi Obama di avere una strategia confusa e proponga invece un uso diretto e massiccio della forza militare. Un uso, però, rischiosissimo, perché di fronte ci sono potenze che a detta di Paul Craig Roberts, possono singolarmente far polpette degli Usa. Roberts non afferma ciò per perorare un massiccio riarmo statunitense. Al contrario, quel che vuole è un ridimensionamento della potenza degli Usa e la loro accettazione di negoziati globali. Cioè il riconoscimento che l’epoca dell’egemonia incontrastata degli Usa sta tramontando. Un processo testimoniato dal fatto che dall’inizio del millennio gli Stati Uniti sono permanentemente in guerra con quasi tutto il mondo.
Con gli Usa presi in mezzo a queste contraddizioni, si capisce perché il boccino del QE, che anche in Europa non potrà mai essere un QQE, sia ora passato all'Unione Europea.
Nell’ambito di questa nuova politica monetaria espansiva è verosimile un allentamento dell’austerity e l’accomodamento di parte delle esigenze dei PIIGS, a partire dalla Grecia (a meno di un’impuntatura da parte della Merkel per far saltare tutto e uscire dall’Euro dando la colpa agli altri). Anzi, i PIIGS potrebbero diventare i migliori alleati di questa novella politica Fed-Bce che soppianterebbe quella della Troika.
Cosa ciò possa significare per il futuro dell’Euro e della UE non è facile da capire. Innanzitutto perché nonostante le apparenze sarà più una scelta politica che non economica. In secondo luogo perché nel corso del processo potrebbero prendere forza dinamiche più radicali dovute alla crescente paura per l’aggressiva politica imperiale e all’insoddisfacente recupero economico e sociale (se la fonte finanziaria all’origine è più copiosa, il rivolo che arriverà all’economia reale sarà più grande, ma sarà sempre un rivolo). Non solo. È da escludere un effetto uniforme nel tempo, nelle regioni europee e in tutti i settori dell’economia europea. Gli effetti saranno a macchia di leopardo sia nel tempo che nello spazio.
Anche i quattro QE statunitensi hanno generato effetti contrastanti. Ad esempio dopo i primi due c’è stato un ribasso della Borsa, ma dopo il terzo e il quarto un rialzo. L’effetto netto comunque è stato l’indebolimento del Dollaro e l’approfondimento della frattura del mercato internazionale.
L’annuncio del QE europeo ha già provocato la nota reazione della Banca Nazionale Svizzera, una reazione che alla Borsa di Zurigo è costata 100 miliardi di franchi. Certo, l’Euro indebolito sta facendo tirare un po’ il fiato agli esportatori, ma in un mercato mondiale diviso in due, quanto lunga sarà questa boccata d’aria? Certo, se il Ttip verrà firmato i grandissimi esportatori ne avranno notevoli guadagni, ma per il resto della società si tratterà di raschiare il fondo del barile a prezzi altissimi in termini di democrazia, diritti, salute e ambiente.
Tuttavia il problema centrale rimane l’accumulo mostruoso di capitale fittizio rispetto alle possibilità dell’economia reale. Un accumulo che come il famoso tirannosauro di Jurassic Park si avventa su tutto ciò che si muove nell’economia reale e, soprattutto, si configura come il più grande problema economico della nostra epoca.
Ci sono troppi capitali accumulati per un singolo mondo. Figurarsi per un mondo diviso in due. E “troppi” significa che questi capitali rischiano di essere considerati per quel che sono, cioè carta straccia. Quadrilioni di potere, ovvero di possibilità di mobilitare risorse, che diventano improvvisamente carta straccia. Questo è l’incubo. Il loro incubo. Capitali in forte “esubero” possiamo dire. Milioni di miliardi pronti per essere macellati. E non è solo un problema occidentale. È un problema dell’accumulazione di capitale, anche se oggi è principalmente un problema storico dell’Occidente.
Non c’è quindi da stupirsi che qualcuno in Occidente pensi che la guerra sia la sola igiene del mondo. D’altra parte, non ha mica tutti i torti: senza più il mondo ogni vincolo materiale scompare e di conseguenza i problemi. L’apogeo dell’economia virtuale.