29 gennaio 2016

Bombe italiane da Cagliari a Riad

di Geraldina Colotti.



Un esposto in diverse Procure per chiedere un’indagine sulle spedizioni di bombe aeree dall’Italia all’Arabia Saudita. Questa l’iniziativa della Rete Italiana per il Disarmo, illustrata ieri durante una conferenza stampa alla Camera — dal titolo «Controllarmi» — e presentata in Procura da Alfio Nicotra, Lisa Pelletti Clark, Massimo Valpiana, Giorgio Beretta, Maurizio Simoncelli e Francesco Vignarca. 

L’articolo 1 della legge 185/90 — ha spiegato ieri Vignarca, coordinatore della Rete — vieta l’esportazione di armi verso paesi in stato di conflitto armato e che violino i diritti umani. Invece, partono dalla Sardegna «continue spedizioni con tonnellate di bombe aeree dirette in Arabia Saudita»: 5 dal 2015 a oggi. Bombe che servono a rifornire i velivoli della Royal Saudi Air Force che «dallo scorso marzo bombardano lo Yemen senza alcun mandato da parte delle Nazioni unite, esacerbando un conflitto che ha provocato quasi 6.000 morti, la metà dei quali vittime civili e sta determinando la maggior crisi umanitaria in tutto il Medio Oriente».

Le spiegazioni fornite dal governo, sono state tardive e ambigue, «al punto da farmi rimpiangere i governi Andreotti — ha detto Giuseppe Civati, presente in sala, e ha proposto che ogni parlamentare pubblichi gli allarmanti dati del traffico di armi e il testo dell’esposto. «Il Parlamento non è più la sede politica adatta per chi tiene alla pace e al rispetto delle norme», ha rincarato Giulio Marcon, criticando la risposta del governo secondo cui la vendita di armi viene «decisa caso per caso»: perché occorrerebbe comunque una decisione del Consiglio dei ministri e il voto delle Camere. 
Riccardo Noury, di Amnesty International, ha ricordato le violazioni dei diritti umani in Arabia Saudita.

Giorgio Beretta ha denunciato le complicità del governo Renzi «per le nuove autorizzazioni alle esportazioni rilasciate (almeno 5 monitorate, via aerea e via mare), ma anche per il mancato controllo per gli invii di materiali militari decisi in precedenza, com’è espresso compito dell’esecutivo».

Il senatore 5S Roberto Cotti e il deputato di Unidos, Mauro Pili hanno raccontato come «un carico di migliaia di bombe» sia partito in tutta segretezza ancora due settimane fa dall’aeroporto di Cagliari con destinazione la base dell’aeronautiva militare saudita di Taif, non lontano dalla Mecca. 
Dall’ottobre scorso, due spedizioni sono partite via aereo cargo, altre due dai porti di Olbia e Cagliari. Secondo il ministero della Difesa — ha detto Pili — si tratterebbe di materiale in transito: «Bombe in vacanza — ha ironizzato, attratte dalla bellezza del paesaggio». Bombe prodotte dalla RWM Italia, azienda tedesca del gruppo Rheinmetall con sede legale a Ghedi (Brescia) e stabilimento a Domunovas (Carbonia-Iglesias), in Sardegna. 
Per questo, l’esposto della Rete italiana è stato depositato, oltre che alla Procura di Roma, anche a quella di Brescia. Cotti ha chiamato in causa anche le responsabilità del governo della Regione Sardegna.

Significativa la considerazione finale di Beretta: «Le bombe — ha affermato — vengono costruite in una regione come la Sardegna dove le fabbriche chiudono e agli operai non resta che quel tipo di produzione. E vengono gettate in un’altra parte del mondo altrettanto povera, per i profitti di un paese ricco, attraverso l’impresa tedesca».







23 gennaio 2016

Occidente: i media al polonio

di Pino Cabras.


Quando nel 2013 alcuni scienziati svizzeri trovarono livelli di Polonio-210 diciotto volte più elevati del normale nella salma, riesumata, del primo presidente dell'Autorità Palestinese, Yasser Arafat, la notizia non aprì le edizioni dei telegiornali occidentali come invece è stato ieri per il delitto della spia russa Aleksandr Litvinenko. Preferivano bacchettare chi osasse alludere a quelle potenti strutture che avrebbero potuto procurarsi un veleno così difficile da maneggiare. Allora no, non si doveva parlare di "avvelenamento di Stato".

Viceversa, tutti gli organi della NATO (ossia l'intero grande sistema informativo occidentale) sanno invece di dover per forza aprire le notizie con le accuse britanniche a Putin per l'omicidio Litvinenko (con la ridicola innovazione giuridica della responsabilità "probabile", che nei titoli diventa però certissima).

Nel terreno immenso delle notizie di rilevanza mondiale, i grandi media sanno a memoria quali piste battere e quali trascurare del tutto. La redazione è il dio che decide cosa devono sapere milioni di persone, quando innalza piccole notizie al rango di scoop planetario o invece sommerge le grandi notizie annacquandole a pagina 17 o tacendole del tutto.

Eppure proprio in questi giorni emergono notizie sempre più raccapriccianti sui bombardamenti della popolazione civile yemenita da parte dell'Arabia saudita. Pensate all'effetto devastante che avrebbero le foto dell'infanzia spezzata. Ma sulle prime pagine non se ne parla. Il dio redazionale decide che non contano nulla, e nessuno sarà ritenuto responsabile, nemmeno "probabile".

Tutto questo avviene nonostante abbiamo notizie certe sui tappeti rossi con cui David Cameron e i suoi colleghi in Europa e oltreoceano accolgono i piranhas della dinastia saudita.

Così come abbiamo notizie certe sulle bombe - di Cameron e italiane - vendute a Riad per dilaniare migliaia di bimbi in Yemen. Cause ed effetti passano sotto silenzio, e nessuna immagine è usata per scuotere le coscienze.

Dunque abboccate pure, giornalisti, alla lista delle notizie che fanno piacere al cerchio magico della NATO! Non abbiate schiena dritta! Bevetevi di tutto, e soprattutto, fatelo bere alle masse! Magari evitate di raccontare che in Ucraina i nazisti protetti dagli apparati repressivi dello Stato danno una caccia spietata e assassina agli oppositori più eminenti, uccidendoli senza che voi scriviate un solo rigo, nemmeno quando le vittime sono vostri famosi colleghi. Oppure continuate pure a nascondere la repressione selvaggia di Erdoğan sul giornalismo turco, non sia mai che la vostra narrazione atlantista ne risenta.

La notizia 'Made in UK' su Litvinenko aveva in realtà un'importanza molto più modesta: l'indagine per un omicidio che fu certo eclatante per le sue modalità non ha portato a prove certe e si è persa in un labirinto di sospetti, come accade a molti delitti di mafia e certi assassinii politici, quando purtroppo non si trovano dimostrazioni sufficienti.

Dunque: trasformare in una notizia mondiale e in un affare di Stato il caso Litvinenko (un vicolo cieco di illazioni del tutto carenti presso qualsiasi tribunale) è una precisa scelta politica, una chiara provocazione, sulla linea delle recenti provocazioni antirusse giocate con l'abbattimento di aerei civili e militari.

Tra sanzioni e isteria mediatica, si crea in tal modo un clima di guerra, mentre i riflessi di un pubblico continuamente aizzato alla russofobia allontaneranno milioni di europei dai loro interessi, per primo l'interesse a costruire un sistema di sicurezza comune con la Russia.

L'edizione del 22 gennaio di «la Repubblica» ha dedicato al caso addirittura le pagine 2, 3 e 4, cioè il blocco principale delle notizie, con tutti i tromboni russofobi in gran spolvero contro «lo Zar Oscuro». Mentre in prima pagina campeggia la fotonotizia della vedova che invoca sanzioni a Putin.

Possibile che in quelle quattro paginate non ci sia stato spazio per riportare cosa ne pensa un altro congiunto di Litvinenko, suo fratello Maksim? Il quale, mentre nel 2006 chiedeva indagini sul governo russo, oggi sostiene che Aleksandr sia stato ucciso da servizi occidentali perché era un agente doppiogiochista che in realtà raccoglieva informazioni presso russi residenti in Regno Unito, nemici di Mosca. E dice anche che la lettera del suo consanguineo che puntava il dito contro Putin era semplicemente un falso. Interessante, no?

Si badi bene, è quasi impossibile avere la più pallida idea di chi menta e chi no, ma chiediamoci: perché - se l'intento fosse davvero una genuina volontà di investigare - i giornali trascurano questo lato della vicenda, nascondendolo alla vista di un pubblico adulto e vaccinato che potrebbe giudicare autonomamente?

Il caso Litvinenko, come minimo, è molto controverso, per nulla lineare, maturato a ridosso di uno degli ambienti più torbidi del pianeta - la mafia russa di Londra - dove da anni si riscontra un alto tasso di delitti, tradimenti, doppiogiochismi intrecciati con le grandi partite della finanza e dei servizi segreti di tanti paesi. Una zona grigia che non consente il complottismo semplicistico delle redazioni ossessionate dalla Russia.

Eppure - come suggerisce il caso Arafat che richiamavamo all'inizio - nel mondo risulta che non sia solo la Russia a possedere veleni radioattivi.

Una nebbia così povera di fatti certi dovrebbe forse giustificare questo volume di fuoco usato contro un unico bersaglio, il Cattivissimo Putin? Certo, le 329 pagine del rapporto sul caso Litvinenko citano 186 volte il nome di Vladimir Putin (niente male in mancanza di prove), e una cinquantina di volte citano il nome di Anna Politkovskaya, la giornalista uccisa dieci anni fa e che da sempre deve scandire il rosario delle accuse a Putin, anche quando non c'entra con un'indagine.

Bastava a metterci in allarme un altro esempio recente: il caso doping negli sport olimpici. Anche lì, stessa procedura standard: tutti i media dell'Occidente - con perfetta sincronia totalitaria - aprono con pagine e pagine (le prime) sul "doping di Stato" russo e riportano persino false dichiarazioni di Putin, che nemmeno si curano di correggere. Poi nei giorni successivi si scopre che il doping riguardava molti altri paesi: notizia in taglio basso, quasi invisibile. Al pubblico rimane l'imprinting della prima notizia urlata.

Non si dimentichino nemmeno le notizie più assurde, diffuse pur di insudiciare con ogni mezzo la nomea di un leader nemico, come quella dello «sperma di Putin inviato via posta a ogni cittadina russa per fecondarsi». E si potrebbero fare molti altri esempi.

Emerge chiarissimo il meccanismo pavloviano stimolato dal sistema dei media NATO, teso a consolidare ogni giorno un'immagine stereotipata e negativa del potere russo, in un quadro che tace notizie che bucherebbero la bolla mediatica in cui siamo affondati.

18 gennaio 2016

Italia-UE, una crisi dentro una crisi più grande


di Pino Cabras.
da Sputnik e Megachip.


Le guerre che circondano l’Europa alimentano una parte importante del flusso migratorio, e ora quel flusso si abbatte sui contrasti interni dell’Unione europea, disunita e fiaccata da troppi anni di austerity.
La Turchia, soggetto attivo e passivo della guerra siriana, ha in mano il rubinetto che regola l’intensità del flusso migratorio verso l’Europa, mentre l’Europa ha il rubinetto delle risorse finanziarie da dare alla Turchia: solo che sul rubinetto dei soldi le mani in lotta per controllarlo sono più d'una. Si ricorderà che a novembre 2015 fu firmato un accordo da 3 miliardi di euro fra la UE e la Turchia, a sostegno di un pacchetto di interventi pluriennali per i rifugiati, da spendere soprattutto sul suolo turco. Il problema è che quei 3 miliardi bastano a malapena per un anno (mentre Ankara chiede 3,5 miliardi l’anno per due anni), e nessuno sa chi metterà - e in che modo – già da ora, i due terzi della cifra.
Si presume che paghino in gran misura gli Stati membri, ciascuno in base al suo peso economico. Per Stati già sottoposti a vincoli di spesa sempre più penetranti rimane il dilemma: tagliare ancora le spese o chiedere all’Europa più libertà di spesa?
L’Italia, ad esempio, aveva già chiesto qualche flessibilità alla Commissione europea, sforando in modo concordato i rigidi parametri del deficit. Questo è bastato al presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, per dire "abbiamo già dato". Ovverosia: niente ulteriore flessibilità per Roma. Il contributo dell'Italia alla crisi dei migranti ricadrebbe nei soliti vincoli, con prevedibili conseguenze sul bilancio e sull'economia.
Ecco perché il governo italiano non ci sta e dichiara di non volersi sottomettere alla Commissione europea (né alla Germania): esige che quanto sarà speso in più per i rifugiati non faccia scattare la tagliola di Bruxelles. L'attacco di Matteo Renzi ha avuto una risposta durissima da parte di Juncker: «Il presidente del Consiglio italiano sbaglia ad offendere la Commissione in ogni occasione. La mia irritazione è in tasca, sono pronto a tirarla fuori.» Quando i pezzi grossi della troika usano questo linguaggio, la battaglia sarà durissima. È la fine di una sorta di "periodo di grazia" accordato a Renzi. Infatti, sebbene l'Italia sia stata fra i paesi membri più solerti nell'aderire al famigerato "Fiscal Compact", ossia il Patto di bilancio europeo, non ha dovuto applicare da subito il suo pesantissimo obiettivo: ridurre entro vent'anni il debito pubblico dal 130% al 60% del PIL (cioè mazzate pazzesche ogni anno), l'impegno ad avere un deficit pubblico strutturale che non deve superare lo 0,5% del PIL (cioè impossibilità di fare politica economica), l'obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio (che unicamente l'Italia ha introdotto in Costituzione), nonché altre vessazioni che formano l'ossatura della dittatura europea, quella forma di tirannia che pensa di curare l'anemia con i salassi. Per tutto questo meccanismo infernale, in grado di distruggere definitivamente l'economia italiana (e di tutto il Sud Europa), al "premier-mai-eletto" è stato concessa una sorta di sospensione del Fiscal Compact, per non far cadere subito il suo governo e non creare perciò un'altra Grecia, molto più grande e incontrollabile.
È grazie al poter stare in questo limbo che Renzi ha potuto presentare come una svolta epocale un PIL che non calava più, anche se cresceva di pochi spiccioli, così come ha potuto maneggiare qualche risorsa per giochi di prestigio fiscali, senza però intaccare nessuna delle ragioni del declino italiano.
Ora Renzi non sarà più graziato, mentre rimane il nodo di fondo della dittatura fiscale europea: un nodo scorsoio che tornerà a stringersi, non lasciando più margini di manovra. Con regole simili e con interlocutori così rigidi ai piani alti dell'eurocrazia, la strada dell'austerity è già segnata.
Per questo motivo il caso turco anticipa il problema.
Il presidente turco Erdoğan, uno dei grandi perturbatori del Levante, dopo aver fornito il retroterra militare ai combattenti jihadisti che hanno generato una catena di catastrofi umanitarie in Siria e dintorni, è la diga che oggi trattiene due milioni di rifugiati, ma che domani può anche non trattenere più. Sa bene che l'Europa è un continente ripiegato sui suoi problemi. Sa che i suoi Stati reggono male l'arrivo devastante di una fiumana di disperati, perché su questo sono culturalmente e politicamente impreparati. Sa che quasi tutti questi Stati sono anche vincolati dalla NATO e che la Turchia può coinvolgerli in guerra, dentro quel disastro che essi stessi hanno contribuito a creare destabilizzando il Medio Oriente e il Nord Africa. Insomma, Erdoğan ha potenti strumenti di ricatto per pretendere il pizzo all'Europa, che però non ha ancora deciso chi paga.
È quella stessa Europa che finge che l'Ucraina non sia in bancarotta mentre continua ad appoggiarla diplomaticamente e militarmente, intanto che contro la Russia intraprende la battaglia autolesionista delle sanzioni.
Gli alibi e i rinvii non funzionano più, e le contraddizioni si presentano tutte insieme, in forma di crisi migratorie, finanziarie, sociali, militari e diplomatiche. Se si solleva lo sguardo è un'unica crisi politica europea, nel momento in cui non esiste alcun "sogno europeo" che possa funzionare. Nessun sogno funzionerà finché resterà nella doppia morsa della NATO e delle istituzioni deviate del costrutto comunitario. Rimangono solo i ricatti e i rapporti di forza, oltre a leggi europee che acuiscono i contrasti e creano le basi per ulteriori sconvolgimenti. La battaglia su "quanto deficit si può sforare" è ancora poca cosa rispetto alla vera portata della crisi.




12 gennaio 2016

Dov’erano i paladini della libertà di parola quando la Francia ha passato tutto l’anno scorso a stroncarla?


di Glenn Greenwald

The Intercept


È passato quasi un anno da quando milioni di persone - guidate dai tiranni più repressivi al mondo - marciarono su Parigi apparentemente  per la libertà di parola. Sin da allora, il governo francese - che ha dato l'esempio strombazzando ai quattro venti l'importanza della libertà di parola dopo gli attentati di Charlie Hebdo  - ha ripetutamente perseguitato persone per le visioni politiche espresse oppure ha sfruttato la paura collegata al terrorismo per far fuori i diritti civili in generale. Ha fatto tutto questo senza il minimo accenno di protesta da parte di coloro che, attraverso tutto l'Occidente, avevano sventolato le bandiere della libertà di parola in supporto ai fumettisti di Charlie Hebdo.
Ciò perché, come argomentai all'epoca, molti di questi neo-paladini della libertà di parola non sono autentici e costanti sostenitori di essa. Al contrario, essi evocano quel principio solo nei casi più facili ed egocentrici: ovvero, la difesa delle idee che sostengono. Ma quando la gente viene punita per esprimere delle idee che questi signori odiano, allora si fanno silenziosi oppure supportano quella stessa soppressione: proprio il contrario della genuina difesa della libertà di parola.

Giorni dopo la Marcia su Parigi, il governo francese ha arrestato il comico Dieudonné M'bala M'bala "per 'apologia di terrorismo', dopo aver insinuato su Facebook di simpatizzare con uno degli uomini armati". Due mesi dopo è stato giudicato colpevole ed ha ricevuto una condanna - poi sospesa -  a due mesi di carcere. In novembre, dietro accuse diverse, è stato giudicato da un tribunale belga per "commenti razzisti ed anti-semiti durante uno show in Belgio", che lo ha condannato a due mesi di reclusione. Non c'è stata nessuna catena di hashtags # JeSuisDieudonné ed è quasi impossibile trovare i paladini più accesi della libertà di parola post-Hebdo  denunciare il governo francese e quello belga per questi attacchi alla libertà di espressione.

Nelle settimane che hanno seguito la marcia per la libertà di parola, decine di persone in Francia "sono state arrestate per discorsi di incitamento all'odio o per azioni di oltraggio di altre fedi religiose o per fare il tifo per gli autori degli attentati". Il governo " ha ordinato agli inquirenti di dare un giro di vite su incitamento all'odio, anti-semitismo e glorificazione del terrorismo". Non c'è stata alcuna marcia in difesa dei diritti di libertà d'espressione di queste persone.



In ottobre la Corte suprema di Francia ha confermato l'accusa mossa verso alcuni attivisti, i quali promuovevano il boicottaggio e le sanzioni contro Israele come strumento per porre fine all'occupazione. Cos'hanno fatto questi criminali? Sarebbero "arrivati al supermercato indossando magliette con su le scritte 'Lunga vita alla Palestina, boicottiamo Israele' ed inoltre distribuivano volantini che dicevano 'comprare prodotti israeliani vuol dire legittimare i crimini in Gaza'" Dal momento che il boicottaggio verso Israele viene considerato "anti-semitico" dalla corte francese, era un crimine promuoverlo
Dov'erano tutti i crociati post- Hebdo  quando questi 12 individui sono stati giudicati criminali per aver espresso le proprie opinioni politiche,  critiche verso Israele? Da nessuna parte.

Più in generale, il governo francese ha acquisito "poteri d'emergenza" all'alba degli attentati di Parigi, poteri che in origine dovevano durare 12 giorni. Poi sono stati estesi a tre mesi ed ora, all'avvicinarsi della scadenza, si parla di estendere quelle misure indefinitamente o permanentemente. Quei poteri sono stati utilizzati esattamente dove si sospetterebbe: per presentarsi senza mandato nei luoghi d'incontro dei musulmani francesi, per chiudere moschee e bar, per detenere persone senza capi d'accusa e ad ogni modo per abolire libertà fondamentali. Ora sono stati usati anche al di là della comunità musulmana, contro gli attivisti ambientalisti
Se questa sorta di classica repressione strisciante non vi disturba, allora potete dire di essere molte cose, ma non genuini difensori della libertà di espressione in Francia.

Persino prima degli omicidi di Hebdo, le persecuzioni in Europa contro i musulmani per via delle loro opinioni politiche erano piuttosto comuni, specialmente nel caso in cui tali opinioni fossero critiche delle politiche occidentali. In effetti, una settimana prima dei fatti di Charlie Hebdo, avevo scritto un articolo in cui esponevo in maniera dettagliata la minaccia montante verso la libertà di parola in Regno Unito, Francia ed in tutto l'occidente. Quel tipo di misure - portate avanti dai governi più potenti del mondo - erano e rimangono la più grande minaccia alla libertà di parola in occidente. Tuttavia ricevono una piccolissima frazione dell'attenzione ricevuta dalle uccisioni di Hebdo.

Dov'erano e dove sono tutti gli auto-proclamatisi paladini della libertà di parola rispetto a tutto questo? È stato solo quando i fumetti anti-Islam erano in questione e pochi musulmani coinvolti in atti di violenza, che essi sono diventati improvvisamente appassionati riguardo alla libertà di parola. Questo perché la loro vera causa era legittimare la retorica anti-Islam e demonizzare i musulmani; la libertà di parola era solo un pretesto.

In tutti questi anni in cui mi sono battuto in difesa della libertà di parola, non ho mai visto - come nel caso degli omicidi di Hebdo  - questo principio sfruttato così spudoratamente per altri scopi da gente che chiaramente non ci crede. È stato tanto trasparente quanto disonesto : la loro vera agenda si vede da come hanno inventato un nuovo standard di libertà di parola adatto a quell'occasione: al fine di difendere la libertà di parola, uno non deve solo difendere il diritto di esprimere un'idea, ma deve anche sposarla.

Questo "principio" appena coniato è in effetti l'antitesi esatta delle genuine protezioni della libertà di parola. Centrale per una vera credenza nei diritti di libertà d'espressione è la posizione per cui tutte le idee - da quelle che uno condivide ferventemente a quelle che uno condanna, con tutto quel che ci sta in mezzo - hanno il diritto di essere espresse e difese senza per questo essere punite. Le più importanti e più coraggiose difese della libertà di parola sono arrivate tipicamente da coloro i quali, contemporaneamente, esprimevano disprezzo per un'idea mentre difendevano il diritto di altre persone di esprimerla liberamente. Questo è il principio che da tempo definisce l'autentico attivismo collegato alla libertà di parola: quelle idee espresse sono spregevoli, ma io mi batterò per difendere il diritto di altri di esprimerle.

Coloro che hanno sfruttato gli omicidi di Hebdo  cercavano di abolire questa distinzione vitale. Hanno insistito nel dire che non era abbastanza denunciare o condannare gli assassini dei fumettisti di Hebdo . Hanno provato invece ad imporre un nuovo obbligo: uno deve celebrare ed abbracciare le idee dei disegnatori di Hebdo, supportare il fatto che vengano premiati, esultare per il contenuto delle loro opinioni. Il non condividere le idee di Charlie Hebdo (invece che solamente il loro diritto alla libertà di parola) avrebbe comportato le accuse - da parte degli artisti più viscidi al mondo - di non sostenere la loro libertà d'espressione o, peggio, di simpatizzare con i loro killers. 

Questa facile tattica di bullismo - provare a forzare la gente non solo a difendere il diritto alla libertà di parola di Hebdo  ma anche di sposarne le idee espresse - è durata fino adesso (ma solamente quando si tratta di discorsi che criticano i musulmani). Un anno dopo, è ancora molto comune sentire dei sostenitori del militarismo occidentale accusare falsamente porzioni "della sinistra" di aver approvato o giustificato l'attacco a Charlie Hebdo, per il mero fatto che si son rifiutati di esultare per il contenuto delle idee di Hebdo.

Quest'accusa è un'assoluta, dimostrabile bugia, un'ovvia calunnia. Non ho mai sentito una singola persona a sinistra esprimere qualcosa di diverso dalla repulsione per l'omicidio di massa dei fumettisti di Hebdo , nè ho sentito qualcuno a sinistra insinuare che gli omicidi fossero "meritati" o che i disegnatori "se la fossero cercata". Di sicuro ho sentito, e l'ho espresso io stesso - opposizione verso l'instancabile targhetizzazione di una minoranza marginalizzata in Francia da parte dei fumettisti di Hebdo  (tale critica, a proposito, è stata espressa in maniera molto eloquente da un ex membro dello staff di Hebdo , Olivier Cyran: "il martellamento ossessionante contro i musulmani al quale Hebdo  si è dedicato per più di un decennio ha avuto davvero degli effetti. Ha contribuito potentemente a popolarizzare, fra le opinioni 'di sinistra', l'idea che  l'Islam sia uno dei problemi principali della società francese"). Ma le obiezioni al contenuto di un'idea ovviamente non denotano e neppure insinuano il fallimento nel sostenere il diritto alla libertà di parola di coloro che esprimono tale idea: a meno che non si stia abbracciando il dannoso,  ingannevole, interamente nuovo concetto che uno possa solo difendere la libertà di parola di quelli con cui concorda. 

Ma ciò evidenzia come la libertà di parola non fosse il principio sostenuto qui; essa è stata usata come arma da alcuni occidentali tribali per costringere la gente ad approvare i fumetti anti-Islam ed anti-musulmani (non ad approvare meramente il diritto a pubblicare i fumetti senza punizione o violenza, ma ad approvare i fumetti stessi).

E ciò che ancora più potentemente dimostra la falsità al cuore di questo spettacolo post-Hebdo  è che prima della Marcia di Parigi, e specialmente dalla Marcia in poi - c'è è stato un assalto sistematico al diritto di libertà di parola per un altissimo numero di persone in Francia ed in tutto l'Occidente, a musulmani e/o ai critici dell'occidente e di Israele ed i nuovi crociati della libertà di parola per Hebdo  non hanno esibito alcuna contrarietà al riguardo, anzi, tacito od esplicito consenso. Questo perché la libertà di parola era la loro arma cinica, non il loro vero credo. 


7 gennaio 2016

La disperata corsa saudita


di Pino Cabras.


La scena che si sta mostrando al mondo, dopo l'esecuzione dello sceicco sciita Nimr al-Nimr da parte delle autorità saudite, spiega bene dove volesse andare a parare Riad con questa macabra provocazione politica. Di fronte alle reazioni iraniane, prevedibili e tanto cercate, gli Stati più interconnessi con l'Arabia Saudita hanno fatto a gara a chi rompeva prima le relazioni diplomatiche con l'Iran. Il Bahrein, il Sudan e il Kuwait sono stati i più solerti nell'accodarsi alla scelta saudita. Ma è prevedibile che Riad premerà da subito su tutta la sua "clientela vicina", tutti gli stati arabi su cui ha gettato il grande peso dei propri petrodollari, a partire dall'Egitto, affinché chiudano le ambasciate iraniane e richiamino i propri ambasciatori a Teheran, blocchino i collegamenti aerei, rendano più accidentato il rientro dell'Iran nei salotti buoni della diplomazia.
Riad fa un calcolo forse disperato, ma certamente determinato: vuole sabotare con ogni possibile mezzo i risultati dell'accordo sul nucleare consacrato dalle massime potenze del pianeta, che ha finalmente riconosciuto un ruolo e un peso che l'Iran ha conquistato in mezzo ai disastri della "guerra infinita" angloamericana nel cosiddetto "Medio Oriente allargato". Dove gli altri hanno seminato caos, Teheran ha offerto un ordine politico più efficace, fino a porsi al centro di un crocevia di portata mondiale.
Pochi in Occidente ricordano che il presidente iraniano Rouhani è anche il presidente del Movimento dei paesi non allineati, che raccoglie 120 Stati che rappresentano i due terzi della popolazione mondiale. Ma soprattutto, dopo l'accordo sul nucleare, l'Iran recupera le essenziali relazioni con gli Stati più potenti, cosicché il suo peso nella regione mediorientale aumenta. All'Arabia saudita tutto questo non piace, come possiamo dedurre da altri fatti.
Le azioni dei sauditi di questo drammatico inizio del 2016 vanno infatti legate ad altre loro recenti azioni. L'intervento aereo russo in Siria è stato abbastanza forte da togliere ogni velo con cui l'Arabia saudita provava fin qui a coprire il suo sostanzioso appoggio alle milizie jihadiste. Di fronte al tentativo della grande diplomazia - che intende replicare per la Siria l'esperienza di successo del negoziato 5+1 per l'Iran - il Regno saudita è stato costretto in fretta e furia a organizzare nel dicembre 2015 una "sua" conferenza internazionale delle opposizioni contro il presidente siriano Assad. Come per dire: non ci escluderete di certo, anche quando la nostra mostruosa creatura Frankenstein, l'ISIS-Daesh, dovesse risultare definitivamente sconfitta.
Nel frattempo l'Arabia Saudita, in coalizione con i suoi "clientes", ha continuato la sua aggressione allo Yemen, scaricando su uno dei paesi più poveri del mondo (ma che è la porta del Mar Rosso) una quantità impressionante di bombe, con risultati che risultano criminali dal punto di vista dei costi umani, disastrosi dal punto di vista dell'efficacia militare e astronomici dal punto di vista finanziario.
Sempre sul fronte finanziario, i sauditi da un anno in qua stanno scommettendo su una grande operazione: pompare tantissimo petrolio, così tanto da far abbassare il prezzo, in modo da strangolare i paesi la cui economia si regge in grande misura sull'esportazione di idrocarburi. Tra questi, ancora l'odiato Iran, ma soprattutto la Russia (ripetendo uno schema che sul finire degli anni ottanta aveva piegato l'URSS), e persino l'industria nordamericana dello shale oil, che risulterebbe soffocata nella culla dopo qualche anno di prezzi così bassi.
Solo che la coperta è corta: i ricavi sono crollati anche per l'Arabia saudita, che ha meno denaro con cui comprare alleati e che sperimenta deficit inediti, in grado di farla collassare. Non è ancora crollata, certo, ma la classe dirigente gioca ormai con un elemento di disperazione in più.
È in questo contesto che si legge meglio anche la recente stretta che i sauditi hanno imposto ai media, fino a far oscurare Al Manar, la TV degli Hezbollah libanesi, dal satellite Arabsat, assieme ad altri canali sgraditi, ugualmente testimoni scomodi delle tragedie militari causate o sponsorizzate da Riad.
Altre mosse sono andate in controtendenza, come accade nelle scacchiere geopolitiche, che muovono i pezzi in modi strani e difficili da leggere. Ad esempio, perfino Riad non può estraniarsi dalla rinascita della Russia come grande potenza, tanto che si sono moltiplicati i viaggi dei dignitari sauditi a Mosca, alla ricerca di un nuovo "modus vivendi" in Medio Oriente, con promesse di affari reciprocamente vantaggiosi, forniture militari, disponibilità a considerare un ruolo meno preponderante degli USA negli equilibri regionali. Tutti sanno la misura dei danni che possono infliggere e subire (e che viceversa possono non infliggere e non subire). Ad esempio il wahhabismo saudita ha una forte influenza ideologica e militare sulla galassia jihadista che potrebbe intensificare le sue azioni nel Caucaso e in tutto il fianco sud dell'ex URSS, ponendosi come una minaccia concreta alla sicurezza russa e ad ogni tentativo di "Via della Seta" dell'Eurasia del futuro. Per contro, i sauditi hanno capito benissimo il messaggio recapitato dai missili da crociera Kalibr che dal Mar Caspio hanno colpito in Siria: quei missili russi hanno un raggio d'azione in grado di colpire con precisione devastante qualsiasi punto della penisola arabica.
Le cancellerie di mezzo mondo ora sono in allarme. La cadenza dei cambiamenti diplomatici avvenuti in una sola settimana va a una velocità troppo insostenibile, perciò tutti, a partire dal Segretario generale dell'ONU, invitano a trovare canali di dialogo. Gli scenari di guerra e di pace lungo l'arco di crisi mediorientale somigliano sempre di più a una corsa contro il tempo. Fra tutti i giocatori che sfidano il calendario, i sauditi sembrano essere i più impazienti.




3 gennaio 2016

Il regno saudita vuole incendiare il mondo

di Pino Cabras


La decisione saudita di giustiziare barbaramente una personalità venerata dal mondo sciita, come lo sceicco Al-Nimr, è un atto cinico che vuole bruciarsi tutti i ponti alle spalle, una disperata intenzione di alimentare un conflitto totale in seno al mondo islamico per impedire ogni barlume di pacificazione che dovesse nascere dalla sconfitta militare dell'ISIS e degli altri jihadisti (sponsorizzati dai piranhas delle petromonarchie e dal sultano hitleriano di Ankara con la complicità dell'Occidente). 

Non è dunque una faccenda interna all'orrendo regno oscurantista dei Sauditi, bensì un innesco bellico studiato per alimentare caos e guerra su scala internazionale, dentro uno scacchiere sconfinato. 

Le complicità del mondo NATO con queste classi dirigenti ci hanno messo ormai in grave pericolo come popoli. 
Per difenderci dovremo fare una grande "operazione verità'" sulla pace e sulla guerra, sugli amici e i nemici del jihadismo, sugli affari sporchissimi che coprono le premesse di un vasto conflitto che può sconvolgere il mondo.
Nel frattempo, l'Arabia Saudita è solo un ISIS che ce l'ha fatta.



Tratto da: http://megachip.globalist.it/Secure/Detail_News_Display?ID=124988&typeb=0.