31 ottobre 2008

Che sta succedendo all’Università italiana?

di Adriana Di Liberto e Emanuela Marrocu, economiste
22 ottobre 2008
Articolo originale: [QUI]



Questa settimana è stata pubblicata la classifica del Times sulle 200 migliori Università del mondo. L’unica Università italiana che compare nella lista è Bologna al 192 posto. Un dato negativo che dovrebbe far riflettere sui pericoli legati agli ultimi interventi del Governo in questo settore. E se si confrontano le scelte italiane con quelle di altri paesi (per esempio la Francia), la preoccupazione non può che aumentare.


Questa settimana è stato pubblicato il Times Higher Education-QS World University Rankings survey che fornisce una classifica delle prime 200 Università del mondo sulla base di dati relativi alla qualità della ricerca, al loro profilo internazionale e agli esiti nel mercato del lavoro degli studenti. In un articolo di commento alla classifica il Times si sorprende del fatto che tra le prime 100 migliori Università del mondo sia scomparso l’Ateneo di Bologna. A questo dato si può aggiungere che tra i primi 100 atenei non compare alcuna Università italiana. Le prime dieci università sono tutte statunitensi e britanniche. Ma nelle prime 100 compaiono anche atenei cinesi, irlandesi, svedesi, olandesi, coreani, francesi, svizzeri, australiani, belgi, russi, neozelandesi, tedeschi, canadesi, finlandesi, israeliani. In particolare, in questo gruppo le Università asiatiche sono ben 13. Scorrendo la classifica dal 101esimo posto al 200esimo troviamo il Messico, che piazza la sua migliore università al 150esimo posto e la Tailandia al 166esimo insieme a molti altri atenei presenti in nazioni a medio reddito.

Whatever happened to the University of Bologna?

E l’Italia? Bologna, unica università italiana presente tra le prime 200, è al 192esimo posto. Il fallimento dell’Università di Bologna ha colpito la fantasia del reporter inglese perché Bologna è stata la prima Università fondata nel mondo occidentale (nel 1158) e si era finora distinta nel mondo per la qualità dei suoi docenti e dei suoi corsi. La situazione dell'ateneo bolognese rispecchia perfettamente quella dell'Università italiana: un passato glorioso, un presente drammatico ed un futuro fosco a meno di interventi radicali. La nostra è proprio una Università (ed un paese) in declino.

Inutile ricordare come fa l’articolo che nel mondo attuale l’economia si basa sempre più sullo scambio di idee (brain power) più che di manufatti. Il mondo industrializzato ed i paesi in crescita hanno capito che bisogna essere attrezzati a capire e governare l’"economia della conoscenza" e che per fare questo la prima infrastruttura è costituita dalla presenza di buone Università. L’India, solo per fare un esempio tra i vari riportati nell’articolo, ha più laureati dell’intera europa ed il settore R&S indiano si è triplicato (non per magia, ma attuando i giusti interventi) in un decennio.

La politica italiana invece non l'ha ancora capito e presenta sempre una agenda in cui le priorità sono ben altre. L'attuale Governo ha appena varato una legge che taglia un miliardo e mezzo di euro per i prossimi tre anni e bloccato l’arrivo di nuovi giovani riceratori alla già impoverita e vecchia Università (su questo si veda anche un precedente articolo) senza alcuna misura che modifichi la disastrata governance del settore.

Questo taglio peggiora una situazione già seriamente pregiudicata. Se si considera la spesa per studente per l'istruzione terziaria in Italia e nei 13 paesi dell'area Euro, si scopre che nel 2001 quella italiana era pari al 91% di quella media dei 13 paesi, e che lo stesso indice era sceso al 77% nel 2005 (dati Eurostat).

L’articolo del quotidiano britannico si conclude invece con un invito a non cullarsi sugli allori (quello britannico risulta il secondo migliore al mondo) ed a sostenere ulteriormente il settore universitario nazionale. Questo, si dice, va considerato uno dei migliori investimenti che uno stato possa fare. Perché è chiaro che ormai “…the money will follow wherever the knowledge goes. And that is no longer to Bologna.”


Nel frattempo, in Francia...

Ancora qualche dubbio sul fatto che la risposta italiana alla crisi economica in atto è, in tema di istruzione universitaria, gravemente sbagliata e del tutto miope? Ecco un confronto tra le scelte francesi e quelle del nostro Governo. Un mondo di differenza di visione strategica, non a nostro vantaggio.


Italia ↓

Al comma 13 dell’art. 66 della legge italiana 133/2008 (disposizioni urgenti per lo sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria) si stabilisce che “…il fondo per il finanziamento ordinario delle università è ridotto di 63,5 milioni di euro per l'anno 2009, di 190 milioni di euro per l'anno 2010, di 316 milioni di euro per l'anno 2011, di 417 milioni di euro per l'anno 2012 e di 455 milioni di euro a decorrere dall'anno 2013”. In 5 anni il finanziamento ordinario delle università viene ridotto per un totale di 1 miliardo e 441,5 milioni di euro.


Francia ↑

Lo scorso 26 settembre Valérie Pécresse, ministro dell’università del governo francese, in un comunicato stampa annuncia che “Le budget de l'Enseignement supérieur et de la Recherche constitue la première priorité budgétaire du Gouvernement, notamment avec un effort supplémentaire de 1,8 Md € en 2009, 2010 et 2011. Il traduit l'engagement de campagne du Président de la République de faire de la connaissance un pilier d'une croissance durable et du développement social. L'augmentation des moyens budgétaires et fiscaux sera de 6.5% en 2009 et de presque 17% sur la période 2009-2011.”

Traduzione aggiunta rispetto all'articolo originale:

“Il budget degli studi superiori e della ricerca costituisce la prima priorità di bilancio del Governo, compreso uno sforzo supplementare di 1,8 mld € nel 2009-2010-2011. Riflette l'impegno elettorale del Presidente della Repubblica teso a fare della conoscenza un pilastro di una crescita duratura e dello sviluppo sociale. L'aumento delle risorse di bilancio e fiscali sarà del 6,5% nel 2009 e quasi del 17% lungo il periodo 2009-2001".


Il grafico che segue rappresenta l’andamento del finanziamento pubblico all’università ponendo uguale a 100 il livello di spesa nel 2008 in entrambi i paesi.*



E’ già di per sé curioso scoprire che, mentre in Italia riteniamo che sia urgente ridurre i finanziamenti alle università pubbliche per garantire lo sviluppo economico, in Francia si ritenga esattamente l’opposto, è ancor più curioso scoprire che in un altro articolo della legge 133/2008 (art. 14) si preveda che “Per la realizzazione delle opere e delle attività connesse allo svolgimento del grande evento EXPO Milano 2015 in attuazione dell'adempimento degli obblighi internazionali assunti dal governo italiano nei confronti del Bureau International des Expositions (BIE) è autorizzata la spesa di 30 milioni di euro per l'anno 2009, 45 milioni di euro per l'anno 2010, 59 milioni di euro per l'anno 2011, 223 milioni di euro per l'anno 2012, 564 milioni di euro per l'anno 2013, 445 milioni di euro per l'anno 2014 e 120 milioni di euro per l'anno 2015.” Il totale è di 1 miliardo e 486 milioni di euro, quasi la stessa somma che si “risparmia” riducendo i finanziamenti all’università.
E’ ovvio che la coincidenza è puramente casuale, altrimenti in Italia avremmo trovato una ricetta molto originale per garantire lo sviluppo economico: - università, +Expo.

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* Breve nota metodologica. Il grafico confronta gli annunci ufficiali di programmazione su fondi universitari, in Italia e in Francia. Il dato francese si riferisce alla spesa generale per l’università; quello italiano si limita al fondo ordinario. In altre parole, in via di principio potrà succedere che interventi futuri su altre voci di spesa compensino in parte il gap con la Francia. Per ora niente di simile è stato annunciato da parte del governo italiano, e dubitiamo che ciò possa accadere in seguito. Benché dunque il grafico confronti i trend di due grandezze fra loro non perfettamente omogenee, esso offre indicazioni preziose sulle diverse scelte strategiche odierne dei due governi. Se poi l’Italia annuncerà nuove risorse capaci di compensare ciò che oggi appare un gap crescente, saremo ben lieti di aggiornare il grafico.

30 ottobre 2008

Dalla Sardegna un nuovo biopetrolio

di Pino Cabras



Il settore dell'energia tira? Le innovazioni reggeranno? Eviteremo una guerra per le risorse energetiche?
In tempi di crisi finanziaria e di recessione, mentre si annuncia anche una vera depressione economica, non è facile immaginare come sarà il futuro delle imprese, considerate una per una o come settori.
Eppure - anche se una depressione economica significa una domanda di energia meno "impennata" - la crisi energetica arriva lo stesso, e quindi continuerà la corsa alle tante fonti che serviranno per una difficile transizione: passare dalle fonti fossili a una "collezione" di altre produzioni energetiche.
Alla corsa partecipa anche Biomedical Tissues (BT Srl), un'impresa con sede operativa al Parco scientifico e tecnologico della Sardegna.
Il 13 ottobre 2008 la BT ha depositato un brevetto nazionale dal nome promettente: “Procedimento per la produzione di biopetrolio che prevede l'impiego di CO2”.
I ricercatori sardi hanno definito un processo basato sull'uso di alghe. Per natura, le alghe utilizzano l’anidride carbonica e la luce del sole in modo da creare sottoprodotti oleici che partono da composti azotati. Se ne può estrarre un "biopetrolio" a sua volta trasformabile in biodiesel, carbone verde e “torte residue”. Lo stesso procedimento porta a ottenere altri composti da usare come materia prima in vari settori: alimentare, biomedicina, cosmetica e zootecnica.
Di recente la società BT ha concorso al bando Industria 2015 come parte di una cordata nazionale che punta al "sequestro" dell'anidride carbonica emessa dagli impianti che producono energia elettrica. Se il progetto fosse approvato sarebbero realizzati quattro impianti dimostrativi, uno in Sardegna.
Il tipo di produzione ipotizzato pare in grado di competere con un forte vantaggio sui cereali: i tempi di crescita e raccolta sono inferiori, solo 90 giorni, e le rese superano le 300 tonnellate per ettaro. Inoltre non sottrae altrettanto suolo all'agricoltura.
Interessante il parterre di collaboratori di BT. C'è innanzitutto il gruppo di ricerca coordinato dal prof. Giacomo Cao, che opera nel Dipartimento di Ingegneria Chimica e Materiali dell'Universita' di Cagliari. Collabora inoltre il Centro Interdipartimentale di Ingegneria e Scienze Ambientali dell'Universita' di Cagliari, il centro di ricerca CRS4 (con la sua Linea Process Engineering and Combustion), il Laboratorio di Cagliari del Consorzio Interuniversitario Nazionale ''La Chimica per l'Ambiente'', il centro Lince del Consorzio Interuniversitario Nazionale per la Scienza e la Tecnologia dei Materiali e l'unita' di Cagliari del Dipartimento Energia e Trasporti del Consiglio Nazionale delle Ricerche. E' prevista, inoltre, un'intensa collaborazione con il Laboratorio Biocombustibili e Biomasse del Cluster Tecnologico Energie Rinnovabili presso il Centro di Sardegna Ricerche.


Il prof. Giacomo Cao

29 ottobre 2008

L'Occidente revisiona la Guerra del Caucaso (caso n. 2)

La BBC trova prove di 'crimini di guerra' georgiani

di Pino Cabras - Megachip



Ad agosto – in piena guerra del Caucaso - a Londra si faceva la voce grossa con Mosca. Ora c’è un profondo ripensamento. In prima fila c'è la BBC, ma perfino la galassia delle organizzazioni di George Soros (uno dei grandi benefattori del sistema di potere che fa capo al presidente georgiano Mikhail Saakashvili) non lesina le denunce, come nel caso di Human Rights Watch. E qualche eco lambisce il governo.
Da cosa nasce il ripensamento? La BBC in un suo programma radiofonico riferisce di aver ottenuto prove. E le prove indicano che la Georgia avrebbe commesso veri e propri crimini di guerra durante il suo attacco all’Ossetia del Sud dell’agosto 2008. La grande rete televisiva britannica ha raccolto notizie e verifiche nel corso di una visita in territorio ossetino, la prima non sottoposta a limitazioni dall’inizio del conflitto.
Le accuse sollevano grandi preoccupazioni fra i tifosi occidentali del governo georgiano.
Nel descrivere l’assalto militare georgiano come “sconsiderato”, il ministro degli Esteri britannico David Miliband ha detto di aver sollevato il tema dei 'crimini di guerra' nei suoi contatti con il governo di Tbilisi.
Nel racconto presentato dal quarto canale radiofonico della BBC emergono storie circostanziate.
Georgy Tadtayev, uno studenti di odontoiatria 21enne, è stato uno dei civili ossetini uccisi nel corso del conflitto.
Sua madre, Taya Sitnik, 45 anni, lettrice all’università, ha raccontato alla BBC che Georgy è morto dissanguato fra le sue braccia il 9 agosto mattina dopo che una scheggia di un proiettile sparato da un carro armato georgiano lo aveva ferito alla gola, proprio quando entrambi si erano rifugiati nel sotterraneo del loro edificio per sfuggire al fuoco di artiglieria. Non era un incidente “normale”. Il carro armato cannoneggiava sistematicamente ogni piano del palazzo. Le rovine dell'edificio osservate dalla BBC sono perfettamente compatibili con il racconto, e concordano con le altre descrizioni di attacchi incessanti, mirati e sistematici che avevano come obiettivo i rifugi, ossia gli scantinati bui dove si riparavano i civili. Cannonate e razzi Grad come se piovesse. Armi intrinsecamente indiscriminate, se usate in un'area densamente popolata. Nei rari momenti di tregua si vedevano scorrazzare i soldati georgiani con scandalose uniformi NATO. Un abuso che aveva esempi altolocati: Saakashvili che si faceva ritrarre con la bandiera dell'Unione europea alle sue spalle.
La stima minimale di Human Rights Watch è che 300-400 civili siano stati massacrati così. La BBC chiosa: «Ciò corrisponde a più dell'1% della popolazione di Tskhinvali: l'equivalente di 70mla morti a Londra.» Impensabile commento, ad agosto 2008. Per noi, che già denunciavamo i fatti a tempo debito, sentirlo ora anche sui microfoni della vecchia Zia BBC è una piccola consolazione etica.
Il Presidente della Georgia, Mikhail Saakashvili, ha negato che l'esercito georgiano abbia commesso crimini di guerra durante il suo conflitto di 5 giorni con le forze dell'Ossetia del Sud sostenute dai soldati russi.
Il corrispondente della BBC Tim Whewell ha ribadito che diversi testimoni gli hanno raccontato che i soldati georgiani prendevano di mira – oltre che le case civili sud-ossetine – anche i civili che cercavano di scappare dai combattimenti lungo la strada verso l'Ossetia del Nord
A fine ottobre 2008, i segnali di guerra dal Caucaso sono di nuovo troppo forti e preoccupanti. Saakashvili sembra non aver imparato la lezione della severa sconfitta agostana. I media occidentali sembrano avere tuttavia qualche anticorpo in più contro le menzogne del Principe di Gomorra che domina Tblisi. Temo che ne sentiremo ancora parlare. Sarà importante seguire la vicenda con molta attenzione mediatica. Qualche spiraglio di verità sta bucando anche la corrente principale dei media.

Link al programma radiofonico di BBC on 4:

1) il testo di Tim Whewell:
http://news.bbc.co.uk/2/hi/in_depth/7692751.stm

2) audio (prima parte):
http://www.bbc.co.uk/mediaselector/check/worldservice/meta/dps/2008/10/081028_whewell_southossetia_part2?nbram=1&nbwm=1&bbram=1&bbwm=1&size=au&lang=en-ws&bgc=003399

3) audio (seconda parte):
http://www.bbc.co.uk/mediaselector/check/worldservice/meta/dps/2008/10/081023_georgia_whewell_len?nbram=1&nbwm=1&bbram=1&bbwm=1&size=au&lang=en-ws&bgc=003399

L'Occidente revisiona la Guerra del Caucaso (caso n. 1)

La guerra fredda che non c'era

di Mark Ames


da «Mirumir 2.0»
Link: http://mirumir.altervista.org/


Forse non ve ne siete accorti, ma un paio di settimane fa il New York Times ha pubblicato una storia che contraddiceva completamente la versione perfezionata per due mesi di fila, una versione che stava trascinando l'America in una nuova guerra, una cosiddetta “Nuova Guerra fredda”. L'articolo smascherava l'orribile volto autoritario della cosiddetta democrazia georgiana, dipingendo a fosche tinte un ritratto del regime del Presidente Mikheil Saakashvili che contraddiceva la favola confezionata dal Times e da tutti gli altri grandi media fin dallo scoppio della guerra in Ossezia del Sud, agli inizi di agosto.

La favola era questa: La Russia (cattiva) ha invaso la Georgia (buona) unicamente perché la Georgia era un paese libero. Putin odia la libertà e Saakashvili è il “leader democraticamente eletto” di un “piccolo paese democratico”. Sì, solo un mese fa eravamo così stupidi e folli da pensare che gli Stati Uniti non avessero altra scelta che dichiarare una costosa nuova guerra fredda contro una potenza nucleare, anche se non avevamo ancora chiuso i conti su un paio di mini-guerre contro gli avversari della 3ª divisione e ci trovavamo sull'orlo del fallimento.

Ah, essere beatamente ingenui e assetati di sangue nello stesso tempo!
Non era meraviglioso?
Mentre infuriava la guerra in Ossezia del Sud, nella prima metà di agosto, il Times ha pubblicato un editoriale che etichettava l'invasione georgiana come "Russia's War of Ambition" (La guerra d'ambizione della Russia); ha pubblicato anche una serie di editoriali isterici, come quello di William Kristol che paragonava la Russia alla Germania nazista (il teschio carbonizzato di Hitler si starà rivoltando nella sua teca per come è stato trasformato nel cliché più logoro dell'inventario di quello scribacchino) e quello di Svante E. Cornell dell'Istituto per l'Asia Centrale e il Caucaso della Johns Hopkins, proprio l'istituto con problemi di corruzione che – come ha scoperto ABC News – prendeva soldi dal tiranno del Kazakistan per pubblicare notizie positive sull'autoritario paese ricco di petrolio.
L'articolo di Cornell diceva che la Russia aveva attaccato la Georgia non in reazione all'invasione da parte della Georgia della provincia separatista dell'Ossezia del Sud ma perché la Russia era cattiva, e nello stile dei cattivi di tutto il mondo non aveva altra ragione se non quella di mostrare “le conseguenze che i paesi post-sovietici dovranno subire opponendosi a Mosca, attuando riforme democratiche e perseguendo legami militari ed economici con l'Occidente”.
L'isteria di due mesi fa sembra già così datata e perfino bizzarra, ora che ci troviamo nel mezzo del crollo dell'economia: è come se osservassimo quell'isteria da un'epoca in bianco e nero.
E però, anche se quell'isteria ha lasciato il campo a riflessioni più serie, e quella versione pericolosamente semplicistica dei fatti si è sbriciolata, il Times non ha mai ritrattato né si è corretto, non ha mai nemmeno finto di fare mea culpa come con l'Iraq, ammissione che giunse con anni di ritardo. Invece di ritrattare, il Times ha infilato alla chetichella un articolo in mezzo alle storie sul crollo economico, dicendo ai suoi lettori: “Ah, sì, sulla Georgia abbiamo toppato, speriamo che non ve ne siate accorti, e, insomma, buona giornata a tutti”. Ecco un assaggio, dall'edizione del 7 ottobre 2008 (“News Media Feel Limits to Georgia's Democracy”, “I media intravedono i limiti della democrazia georgiana”, di Dan Bilefsky e Michael Schwirtz):

TBILISI, Georgia – Il 7 novembre le telecamere del principale canale d'opposizione georgiano, Imedi, erano rimaste accese mentre poliziotti mascherati in assetto anti sommossa armati di mitragliatori hanno fatto irruzione negli studi televisivi. Hanno distrutto le attrezzature, ordinato ai dipendenti e agli ospiti di stendersi sul pavimento e sequestrato loro i cellulari. Per tutto il tempo un conduttore è rimasto al suo posto, davanti alle telecamere, a descrivere la baraonda. Poi lo schermo è diventato nero...
Ora, 11 mesi dopo, la credenziali democratiche della Georgia sono messe nuovamente in discussione, e alla prova, mentre il paese si trova in prima linea nello scontro tra la Russia e l'Occidente. La Georgia e i suoi sostenitori americani, compresi i candidati presidenziali repubblicano e democratico, hanno presentato la Georgia come una coraggiosa piccola democrazia in una regione instabile, un paese meritevole di generosi aiuti e di entrare nella NATO. Ma secondo un numero crescente di commentatori americani e stranieri la Georgia è ben lungi dal soddisfare i criteri democratici occidentali, e lo dimostra in modo lampante la mancanza di libertà di stampa.

È interessante che il Times abbia pubblicato questo pezzo esattamente due mesi dopo l'invasione georgiana dell'Ossezia del Sud, una decisione così sproporzionatamente idiota che chiamarla “azzardo” è un insulto a gente come Bill Bennett [il politico neo-conservatore, ex ministro dell'istruzione e “zar” antidroga con un problema di dipendenza dal gioco d'azzardo, N.d.T.].
La vera domanda, dunque, è perché il Times abbia aspettato così tanto per rivedere la propria posizione: perché attendere che la guerra avesse ormai lasciato da tanto tempo le prime pagine per pubblicare un articolo su una cosa che chiunque possieda pochi grammi di curiosità giornalistica già sapeva, e cioè che le Saakashvili era un democratico quanto era un genio militare?
Il tentativo di testate occidentali come il New York Times e il Washington Post di alimentare una nuova guerra fredda si imperniava su due errori principali: (1) che la Russia avesse invaso la Georgia per prima, senza essere stata assolutamente provocata, perché la Georgia è una “democrazia”; e (2), che la Georgia è una “democrazia”.
È come se il Times avesse intenzionalmente dimenticato quello che aveva riferito di Saakashvili lo scorso anno, quando il presidente georgiano ha mandato le sue squadre di sicari a soffocare le proteste dell'opposizione:
“Penso che Misha abbia tendenze autoritarie”, ha detto Scott Horton, un avvocato dei diritti umani statunitense che è stato professore di Saakashvili alla Columbia Law School a metà degli anni Novanta, in seguito l'ha assunto in uno studio legale di New York ed è rimasto in buoni rapporti con lui. “La metterei così: c'è una notevole somiglianza tra Misha e Putin, per quanto riguarda i loro atteggiamenti nei confronti delle prerogative e dell'autorità del presidente”, ha detto Horton. Come Putin, ha aggiunto, Saakashvili ha emarginato il Parlamento e ha preso a minimizzare l'opposizione.
Intuendo forse che la versione di Saakashvili come novello Thomas Jefferson era un po' debole, il Times si è concentrato sull'altro vacillante pilastro di questa favola: che la Russia avesse invaso la Georgia per prima. Solo questo può spiegare la decisione di usare in prima pagina un tono “anche se non ci sono prove, le prove suggeriscono” in un articolo basato su prove così assurdamente deboli che sarebbe stato in grado di innervosire Sean Hannity (dall'edizione del 16 settembre 2008, “Georgia Offers Fresh Evidence on War's Start”, “La Georgia offre nuove prove sull'inizio della guerra”, di C. J. Chivers):

TBILISI, Georgia - Si è aperto un nuovo fronte tra la Georgia e la Russia, su chi sia stato l'aggressore che con le sue operazioni militari all'inizio di questo mese ha scatenato l'asimmetrica guerra dei cinque giorni. Al centro dell'attenzione ci sono nuove informazioni, in sé non conclusive [grassetto mio, N.d.A.], che nondimeno dipingono un quadro più complesso delle ultime critiche ore prima dello scoppio del conflitto....
La Georgia sta tentando di ribattere alle accuse in base alle quali lo scontro, che covava da molto tempo, sulla provincia confinante con la Russia dell'Ossezia del Sud, sarebbe sfociato in una guerra solo dopo l'attacco georgiano di Tskhinvali. La Georgia considera l'enclave proprio territorio sovrano.

Qualcuno qui sta proiettando: nell'ultimo paragrafo si sarebbe dovuto leggere “Il New York Times sta cercando di contrastare le imminenti conseguenze della realtà sulla credibilità già compromessa del giornale”. Ricordate che questo articolo è uscito quando la maggioranza delle dirigenze occidentali aveva ormai da molto tempo convenuto con l'opinione espressa settimane prima dall'ambasciatore degli Stati Uniti a Mosca, il quale aveva ammesso che i russi, invece di invadere senza essere stati provocati, “avevano reagito ad attacchi contro i peacekeeper russi in Ossezia del Sud, legittimamente”.
Ho chiamato un po' di giornalisti a Mosca che avevo lasciato lì ad agosto per chiedere loro cosa pensassero di questa storia, e la maggior parte di loro ha deriso lo “scoop” del Times.
“Era una versione così chiaramente fabbricata da Saakashvili per pura disperazione”, mi ha detto un giornalista americano. “Non posso credere che il Times sostenga ancora questa versione. Lo sanno tutti il casino che ha combinato [Saakashvili]. Anche se le intercettazioni telefoniche sono vere, sono convinto che i georgiani ascoltavano conversazioni del genere tutte le settimane, se non tutti i giorni. È imbarazzante, sul serio”.
Non è stato l'unico articolo in stile “anche se non ci sono prove, le prove suggeriscono” pubblicato dal Times sulla Georgia. Di tutte le facili favole sui cattivi del Cremlino che sono circolate ultimamente, la migliore è quella della presunta “guerra cibernetica” del Cremlino contro i suoi nemici.
Per ragioni che non riesco a comprendere, i lettori americani inorridiscono profondamente all'idea che un paese possa fare quello che qualsiasi gruppo di secchioni brufolosi già fa: entrare in server e siti internet o mandarli in sovraccarico per oscurarli. Per molti americani oscurare un qualche noioso e mal tradotto sito governativo è più sconvolgente che, mettiamo, bombardare matrimoni. La storia della “guerra cibernetica del Cremlino” è il chupacabra delle favole sulla Malvagità del Cremlino: non ci sono prove che il governo russo abbia condotto una guerra cibernetica, ma fa così paura e fa vendere così tante copie, dunque perché non scriverlo?
I primi a tentare di gabbare l'Occidente con il chupacabra cibernetico sono stati gli estoni, un anno fa, ma le successive indagini hanno rivelato che la cosa era come minimo “indimostrabile”.
Però è una storia che fa notizia.
Così il 13 agosto, con il conflitto tra Russia e Georgia ancora incandescente, il Times, alla disperata ricerca di nuovi lati della malvagità russa, ha pubblicato il suo bel chupacabra sul Cremlino, intitolato “Before the Gunfire, Cyberattacks” (“Prima degli spari, i cyber-attacchi”).


Secondo gli esperti di internet è stata la prima volta che un attacco cibernetico ha coinciso con una vera guerra... Non si sa esattamente chi stia dietro l'attacco cibernetico... Le prove sull'RBN [Russian Business Network, presunto gruppo criminale di San Pietroburgo, N.d.T.] e sul fatto che possa essere controllato dal Cremlino, o agisca in coordinamento con il governo russo non sono chiare. “Saltare alle conclusioni sarebbe prematuro”, ha detto il signor Evron, fondatore della Israeli Computer Emergency Response Team.


Sì, ma saltare alle conclusioni è così divertente, signor Guastafeste! Ma facciamo un altro salto in avanti per arrivare a metà settembre. A questo punto è ormai chiaro che Saakashvili non è né un democratico né una vittima innocente.

Ma il Times e altri mezzi di informazione americani sono ancora impantanati in quella interpretazione, così mentre si danno disperatamente da fare per puntellarla il tedesco Der Spiegel pubblica un articolo investigativo – “Did Saakashvili Lie? The West Begins to Doubt Georgian Leader” (“Saakashvili ha mentito? L'Occidente comincia a dubitare del leader georgiano”) – che istruiva la controparte americana sui rudimenti del giornalismo:

A cinque settimane dalla guerra del Caucaso le opinioni si stanno orientando a sfavore del presidente georgiano Saakashvili. Alcuni rapporti dei servizi segreti occidentali hanno minato la versione di Tbilisi, e adesso da entrambe le sponde dell'Atlantico si chiede un'indagine indipendente.


Questa storia è stata pubblicata lo stesso giorno dello “scoop” del Times sulle intercettazioni telefoniche che a detta dei georgiani dimostravano che la Russia aveva invaso per prima, anche se ormai quella teoria era stata abbandonata da tutti. L'articolo di Der Spiegel è un'inchiesta approfondita che passa in rassegna diversi paesi, punti di vista e organizzazioni. Per il Times “inchiesta” significa prendere delle cassette dalla scrivania di Saakashvili e metterle nelle prime pagine.

Come se questo non fosse già grave, pochi giorni dopo perfino Condi Rice ha incolpato la Georgia di avere iniziato la guerra (anche se in un discorso in cui condannava la reazione eccessiva della Russia).

La scelta dei tempi non avrebbe potuto essere peggiore: il Times, ancora infatuato di Saakashvili, era stato appena colto con le mani nel sacco in un modo che perfino i suoi rivali erano riusciti ad evitare. Presto avrebbe dovuto affrontare un grave problema di credibilità. E io non ne vedevo l'ora. Fin da quando sono andato in Ossezia del Sud per vedere la guerra con i miei occhi ho sviluppato una specie di curiosità morbosa per come il Times e tutti gli altri sarebbero usciti da quel vuoto di credibilità in cui si erano cacciati. Sentivo che il momento sarebbe arrivato, perché Saakashvili non era solo un evidente bugiardo, ma anche un pessimo bugiardo. Mi trovavo nell'Ossezia del Sud alla fine della guerra: ho visto la distruzione causata dai georgiani “amanti della libertà” e i cadaveri gonfi e in decomposizione nelle strade della capitale della provincia, Tskhinvali. Dunque ero particolarmente interessato a vedere quanto a lungo sarebbe durata la squallida storia del bene contro il male, e con quali contorsioni i media sarebbero usciti dal più grande fiasco giornalistico dai tempi della bufala sulle armi di distruzione di massa in Iraq. Il Times avrebbe fatto tirato fuori dalla gabbia il suo ombudsman per delle finte scuse?

“Oops! Chi avrebbe mai pensato che il nostro stimato giornale potesse toppare così alla grande per ben due volte di fila, trascinando l'America in un'altra guerra solo per la nostra incapacità di fare il nostro lavoro di giornalisti?! Sentite, vogliamo dire solo che ci dispiace tanto e passare ad altro, va bene? Dunque, siete passati ad altro, voi? Perché noi sì”.

E qui è intervenuto il dio laico-umanista dei media liberali. Il Times e tutti gli altri che avevano spacciato per vera la versione dei neocon e di Saakashvili sono stati salvati dall'ammettere il loro colossale fallimento da un disastro ancora più grande, il peggiore disastro che abbia colpito questo paese dall'11 settembre: il crollo dell'economia globale. Le preghiere di qualcuno sono state ascoltate. Uno dei segreti più grandi del regno della preghiera è quanto siano comuni questi bisbigli “Spero che venga un disastro a salvarmi”. Per esempio, quando andavo all'università ogni volta che si avvicinavano gli esami finali volevo essere investito da un'auto. Gli esami finali significavano affrontare l'insostenibile vergogna di quattro mesi buttati via. Così mi mettevo le cuffie, mi tuffavo dal marciapiede e saltellavo per le strade trafficate di Berkeley come un setter irlandese, aspettando di finire spiaccicato sul finestrino del furgone Volkswagen di qualche hippy. Se voleva dire passare i prossimi anni attaccato a un respiratore a me sembrava un affare onesto. Ma gli hippy, con il loro folle rispetto per i pedoni, non volevano collaborare. Come l'apocalisse cristiana, quel mega-disastro che mi avrebbe salvato dal mio mini-disastro privato non arrivò mai.In questo senso il Times e tutti i tifosi di Saakashvili sono stati fortunati: il furgone Volksvagen che non mi ha mai tirato sotto durante la settimana degli esami ha azzerato la tranquillità finanziaria del pianeta, risparmiando ai grandi nomi del giornalismo l'imbarazzo di ammettere il loro fallimento. E le inconfondibili prove di questo fallimento continuano ad arrivare: oggi, per esempio, Reporter Senza Frontiere ha messo la Georgia agli ultimi posti del suo indice per la libertà di stampa: ben dopo paesi tristemente noti per il loro dispotismo come il Tagikistan, il Gabon e perfino il cattivissimo Venezuela di Chávez. Dunque, grazie [NOME DI ESSERE ONNISCIENTE] per il crollo finanziario, perché anche se potrà significare il licenziamento di molti dei redattori e dei giornalisti che hanno taroccato la storia della Georgia ho come la sensazione che mentre faranno la fila per un piatto di minestra, tra qualche mese, penseranno comunque con sollievo: “Non avere un tetto sulla testa è una rottura, ma è un piccolo prezzo da pagare per avere evitato la vergogna colossale che stavo per affrontare per la storia della Georgia. Grazie, depressione globale! Hai fatto felice questo giornalista!”


Fonte: The Nation
Originale pubblicato il 22 ottobre 2008
Manuela Vittorelli è membro di Tlaxcala, la rete di traduttori per la diversità linguistica. Questi articoli sono liberamente riproducibili, a condizione di rispettarne l'integrità e di menzionarne gli autori e la fonte.


"Golpe di Velluto" in Repubblica Ceca


di Pino Cabras – Megachip


Nel cuore dell'Europa si modificherà pesantemente l'equilibrio strategico sui missili grazie a due nuove basi USA nell'ambito del progetto NMD (sistema missilistico nazionale). È una nuova classe di basi che dispiegano nuove armi in vari punti del pianeta.
Il primo passo in Europa è l’installazione di un radar in Repubblica Ceca e una base con missili intercettori in Polonia. La NATO ha taciuto a lungo sulla vicenda. L'Unione europea ha fatto pure scena muta, a ridosso della Russia che risponderà alla modifica dell'equilibrio con atti di peso corrispondente.
Nel silenzio europeo, Praga però discute. La senatrice ceca Anna Curdova, del partito socialdemocratico, ha invitato perciò l'europarlamentare Giulietto Chiesa a un incontro intitolato “US NMD – difesa o attacco?”, il 29 ottobre 2008 alle ore 17,00 al Parlamento della Repubblica Ceca, con la partecipazione anche di Jan Tamas, portavoce del movimento nonviolento contro le basi.

Di seguito un comunicato dello stesso Jan Tamas denuncia le gravissime implicazioni costituzionali della forzatura che spinge a ratificare in fretta e furia il trattato che darà via libera al super-radar. Non è solo un “golpe di velluto” che attenta alla democrazia nata dalla “rivoluzione di velluto” del 1989, ma una ferita alla sicurezza europea, al futuro di tutti noi.




Sistema di difesa nazionale degli USA in Repubblica Ceca: siamo in presenza di un golpe di velluto?
Il Governo vuole ratificare il trattato con gli USA questa settimana.

Nonostante la grave sconfitta elettorale nelle elezioni regionali e del Senato, il Governo vuole silenziosamente e in brevissimo tempo ratificare il trattato con gli Stati Uniti per l’installazione della base militare USA. Rendendosi conto dei grandi cambiamenti politici che si annunciano in America e di quelli che già stanno accadendo qui da noi in tutta evidenza, vogliono affrettare i tempi per paura che il loro progetto non si realizzi.
Mercoledì 29 ottobre ci sarà una prima votazione al Parlamento e giovedì 30 al Senato. Il governo vuole approfittare del fatto che ancora possono votare i senatori uscenti: si tratterebbe della votazione fatta da un Senato che non corrisponde più al voto espresso dagli elettori. Infatti nel nuovo Senato c’è un grande cambiamento delle forze politiche.
Qualcuno si potrebbe chiedere: ma conviene a ODS e a KDU-CSL, i partiti di governo, fare questo sapendo che perderebbero la fiducia di moltissimi elettori, come d’altra parte già sta succedendo? La mossa che vogliono fare può portare alla spaccatura di questi due partiti, come è già successo al Partito Verde.
Sicuramente ai politici che pensano al futuro del loro partito tutto questo risulta molto chiaro; allora perché forzare la situazione ben sapendo che la popolazione è contraria e tutto questo si rivolgerà contro di loro?
La spiegazione è purtroppo molto semplice. Chi oggi muove la nostra politica e ha il poter di influire sia sulle scelte del governo sia su quelle dei partiti, sono poche persone strettamente legate agli interessi economici degli USA. Sono molti i documenti che circolano in internet che mostrano nei dettagli gli stretti legami tra alcuni personaggi del nostro mondo politico e le industrie produttrici di armi direttamente interessate alla costruzione del radar.

(Vedi http://www.nenasili.cz/cs/2026_kdo-prosazuje-radar-v-cr - solo in ceco)

A questi personaggi non interessa il futuro della nostra povera Repubblica e nemmeno il futuro dei loro partiti.
Purtroppo i mass-media non hanno voluto dare spazio a queste verità. E così, con il silenzio complice dei mass-media più importanti, compresa la televisione di Stato, assistiamo impotenti alla pagina più oscura della nostra storia dopo il 1989.
Abbiamo anche scritto al Presidente della Repubblica chiedendo il suo intervento in questa situazione così grave. Aspettiamo una sua risposta.
Dopo lo sciopero della fame di Jan Bednar e Jan Tamas, ogni giorno un personaggio del mondo ceco – artisti, politici, scienziati, dottori, sportivi, ecc. – partecipa allo sciopero della fame a staffetta per chiedere la sospensione per un anno delle trattative. Tutto questo mostra chiaramente che i cechi hanno grandi dubbi su questo progetto e in più, superando la paura di esprimersi pubblicamente, cominciano a dichiarare chiaramente la loro opinione. Un video sullo sciopero della fame mostra chiaramente come è ampia questa partecipazione:
(http://www.nenasili.cz/cs/videa, solo in ceco)
Quello che sta succedendo fa pensare a un colpo di Stato di velluto.
Ci appelliamo a tutti i senatori e deputati di CSSD e KCSM – i partiti dell’opposizione - affinché usino tutti gli strumenti democratici per impedire che questa votazione abbia luogo.
Chiediamo ai senatori e deputati dei partiti della coalizione, che in buona fede credono che sia giusta la presenza militare USA sul nostro territorio, di riflettere sulla loro posizione una volta in più e soprattutto di non essere complici di chi tutto vuole, tranne che il bene comune. In altre parole: se credete che il radar sia una cosa utile è giusto che facciate di tutto per realizzarlo. Ma non in questa forma che degrada la parola stessa “democrazia”! Ed è bene ricordare che alla fine ognuno è responsabile verso la propria coscienza, nei confronti della popolazione che rappresenta, verso i propri figli e verso le future generazioni, e non verso il proprio partito.
Il nostro è un grido di dolore che speriamo qualcuno ascolti.
Per ultimo ricordiamo quanto si sta chiedendo con lo sciopero della fame:
“Chiediamo di sospendere i negoziati per un anno, di aprire una profonda discussione sull’argomento in Repubblica Ceca, di ottenere la posizione dell’Unione Europea su questo piano e di attendere la posizione della nuova amministrazione statunitense.
“L’installazione del radar in Repubblica Ceca è una decisione storica, che andrebbe presa solo dopo un’ampia discussione pubblica e con l’accordo della maggioranza dei cittadini. Prenderla in questa atmosfera avvelenata e colma di sfiducia avrebbe una conseguenza negativa sulla società ceca per molto tempo. La speranza di libertà e democrazia reale diffusa dopo la Rivoluzione di Velluto si trasformerebbe ancora una volta in sfiducia nei confronti delle istituzioni, impotenza e tradimento”.

Praga, 28 ottobre 2008

Jan Tamas
Movimento nonviolento contro le basi
Link petizione: http://petice.nenasili.cz/?lang=it

28 ottobre 2008

Il piano di salvataggio finanziario

Sull'11/9 il coraggio del PD. Quello giapponese

di Pino Cabras



È un politico molto determinato, il giapponese Yukihisa Fujita. Quest'anno ha portato in parlamento per ben tre volte la sua forte critica alle versioni ufficiali dell'11 settembre 2001, con crescente solennità e consenso. Il suo discorso del 22 ottobre 2008 ha fatto spellare le mani dei colleghi parlamentari, specie quelli del Minshutō, il Partito Democratico del Giappone. Questo partito è la principale forza di opposizione all'eterno Partito Liberaldemocratico, la Balena Bianca nipponica. Come il Partito Democratico nostrano, il Minshutō è nato dalla fusione di diverse formazioni socialiste e moderate. Diversamente dall'omologo italiano, tuttavia, ha una politica estera molto coraggiosa e molto ferma contro la guerra. La leadership del partito ha capito che smontare l'11/9 è la chiave di volta di una qualsiasi questione di pace. Perciò Fujita non è solo. Si badi, è importante. Il Minshutō non è un partitello dello zerovirgola. Ha perfino la maggioranza relativa (109 seggi su 242) alla camera alta (la Camera dei Consiglieri, o Sangiin), e da molti osservatori è ritenuto in grado di diventare alle prossime elezioni, per la prima volta, la forza trainante di un governo alternativo.
Il fatto che un partito con queste concrete ambizioni di governo non consideri la critica all'11/9 un argomento tabù, ma un tema da approfondire perentoriamente, deve fare riflettere.
Intorno a Fujita c'è molta attenzione e rispetto, anche da parte dei parlamentari di altri gruppi.
In questo clima, Fujita ha buon gioco per chiedere al governo di fermare il sostegno alle operazioni militari a guida statunitense nelle quali è coinvolta anche Tokyo. Nel suo discorso, dopo aver presentato precisi dettagli sulle gravi perdite civili e militari in Iraq e Afghanistan, Fujita va a descrivere il dibattito sollevato al Congresso USA dalla richiesta di impeachment di Bush formulata dal democratico Dennis Kucinich, sostenuta nell'estate 2008 da una maggioranza di rappresentanti. Il parlamentare nipponico ha inoltre riferito delle richieste espresse dal repubblicano Ron Paul, favorevoli all'impeachment e a nuove indagini sull'11/9.
Fujita ha dapprima sottolineato che non c'è mai stata un'indagine di polizia sulla morte di 24 cittadini giapponesi uccisi nei mega-attentati di New York, e ha quindi parlato delle domande sollevate dai familiari delle vittime dell'11/9 al cospetto del governo, rimaste senza risposta.
La richiesta di aprire una nuova inchiesta è ampiamente sostenuta dal Partito Democratico ed è stata presentata ai membri di altri partiti.
Yukihisa Fujita è fortemente impegnato a formare una coalizione internazionale intesa a chiedere un'inchiesta indipendente e internazionale sull'11/9 ed è in contatto con esponenti politici in Europa e negli Stati Uniti.






Ecco il testo dell’intervento di Fujita, [tradotto da «Luogocomune» (QUI)]:

“Nel novembre dello scorso anno ho chiesto alla Camera Superiore se il terrorismo fosse un crimine o uno strumento di guerra.
Il primo ministro Fukuda ha dichiarato che un tipico caso di terrorismo non costituisce un crimine.
Riguardo all’11 settembre, il Primo Ministro ha detto che gli attacchi mostravano un grande livello di capacità professionale e di pianificazione intenzionale.
Se prendiamo questo assunto per buono, e l’11 settembre mostra le caratteristiche di essere stato ben organizzato e pianificato, dobbiamo capire chi ha organizzato l’11 settembre per riuscire a capire come rapportarci con la guerra al terrorismo.
Voglio anche chiedere per chi e contro chi sta avendo luogo questa guerra. Per favore rispondete a queste domande con chiarezza.
Sono passati sette anni dell’11 settembre, e il Ministero di Giustizia americano non ha ancora incriminato bin Lāden.
Sulla pagina [web] internazionale dell’FBI dei terroristi più ricercati al mondo, bbin Lāden appare ricercato solo come sospettato negli attentati alle ambasciate americane in Tanzania e Kenya, ma non in relazione agli attacchi terroristici dell’11 settembre.
Dopo l’11 settembre, il governo americano ha identificato i 19 principali sospettati, ma si è poi saputo che otto di loro vivevano come normali cittadini in Medio Oriente.
Queste contraddizioni sono state rese note dalla BBC, il servizio di informazione statale inglese.
Nel 2002 è stato riconosciuto dal capo dell’FBI che non vi fossero valide prove, che reggessero in un tribunale, contro i 19 sospettati dell’11 settembre.
Tutto questo però è stato il punto di inizio della guerra al terrorismo.
Non dovrebbe il governo giapponese pretendere risposte su questi fatti fondamentali da parte del governo americano?
Se non fosse possibile verificare questi fatti, diventa evidente che non vi siano le basi per cooperare in queste attività navali, che sono al centro del nostro dibattito.
Non dovremmo quindi interrompere immediatamente la nostra collaborazione [con gli Stati Uniti]?
Il governo parte dal presupposto che vi sia una giustificazione per il nostro coinvolgimento nella guerra al terrorismo, poichè 24 giapponesi sono rimasti uccisi [negli attentati].
La guerra al terrorismo non è soltanto un problema di altri, ma è anche un problema per il popolo giapponese. Voi questo lo avete espresso ripetutamente.
Ma in realtà il governo giapponese non ha quasi mai avuto contatti con le disperate famiglie di quelle 24 vittime degli attacchi dell’11 settembre.
In aprile il Vice Ministro della nazione Kimura ha dichiarato davanti alla Commissione della Difesa che non abbiamo ricevuto alcuna richiesta da parte dei familiari delle vittime su questa materia.
Ma io vi dico che ciascuna di quelle disgraziate famiglie che ho incontrato vuole che sia data una risposta a queste domande.
Non è forse la responsabilità del governo giapponese di assicurarsi che queste disgraziate famiglie possono porre le loro domande e ricevere le loro risposte?
Vi è ora la volontà di costituire una commissione di indagine?
Voi sapete che la seguente risoluzione è stata approvata e consegnata alla Commissione dei Servizi Legali della Camera dei Deputati americana l’11 di giugno di quest’anno?
L’articolo numero 2 della risoluzione dice: per giustificare una invasione illegale sono state create delle false minacce da parte dell’Iraq.
Intenzionalmente, con intenti criminali, l’11 di settembre è stato usato a questo fine. I motivi per questa guerra erano falsi e artificiali.
Il punto numero 2 della risoluzione dice: agli americani e al parlamento è stato fatto credere che l’Iraq avesse armi di distruzione di massa.
Al punto numero 8 la risoluzione dice: in violazione del trattato delle Nazioni Unite la nazione sovrana dell’Iraq è stata invasa.
Al punto 33 la risoluzione dice: prima dell’11 settembre furono ignorati avvisi ad alto livello sui terroristi, e le comunicazioni furono bloccate.
Al punto 35 la risoluzione dice: vi è stata un’ostruzione nell’indagine sugli attacchi dell’11 settembre 2001.
Tutto questo fa parte della richiesta di impeachment contro il presidente Bush.
La risoluzione è stata presentata dal deputato Kuchinic del partito democratico. E’ stata approvata con 251 voti, compresi 24 repubblicani, contro un totale di 156 voti.
L’ex-candidato presidenziale repubblicano Ron Paul era a favore della risoluzione.
Questa risoluzione non sembra aver avuto risultati ulteriori, ma nel frattempo è già avvenuto un importante cambiamento negli Stati Uniti.
Io penso che le politiche di guerra della presidenza Bush dovranno avere fine.
Da oggi in poi il futuro richiederà dei grandi cambiamenti negli Stati Uniti. Sono segnali che la gente sente in ogni parte del mondo.
Io voglio chiedere al primo ministro che cosa pensa di tutto questo.
Io pretenderò di sapere esattamente quello che i familiari delle vittime dell’11 settembre, e l’innocente popolo afghano, vogliono sapere.
Io chiederò ai tre ministri di rispondere per favore con parole loro, e non in modo burocratico.
Qui terminano le mie domande.”
(La traduzione è dai sottotitoli in inglese del filmato).


Aggiornamento del I novembre 2008:
Il presente post è stato ripreso anche su
«Megachip» [QUI], su «ZeroFilm» [QUI] e su «Luogocomune», che ha anche aggiunto la traduzione in italiano del video del discorso di Fujita [QUI].

27 ottobre 2008

Fine corsa



di Giulietto Chiesa - «MegaChip»

Di seguito potete leggere l'editoriale di Giulietto Chiesa comparso sul n. 4 della rivista «MegaChip».
Testo originale
[QUI]

Alcune note utili, forse, per affrontare il problema della transizione a un'altra società, che sia compatibile con la sopravvivenza del genere umano. Né più né meno. E non perché, stanti così le cose, come si dirà tra qualche riga, il nostro destino sia quello di essere eliminati dalla faccia del pianeta per manifesta incompatibilità con la natura di cui siamo parte impazzita, in quanto incapace di convivere con la sua entropia.

1) La prima considerazione-constatazione è che l'umanità ha già raggiunto, da oltre 25 anni, la situazione di "insostenibilità". Il termine usato dal Club di Roma, nel suo update del 2002, è "overshooting". Siamo in overshooting da 25 anni. E' una situazione che non si era mai verificata nella vicenda, lunga 5 miliardi di anni, della ecosfera.

Dal 1980 in avanti, circa, i popoli della Terra hanno utilizzato le risorse del pianeta, ogni anno, più di quanto esse siano in condizioni di rigenerarsi.

Cos'è esattamente l'overshooting? E' “andare oltre un limite”, anche senza volerlo. In primo luogo perché non lo si sa. Ciò avviene – dicono gli scienziati del Club di Roma - in condizione di crescita accelerata, oppure quando appare un limite o una barriera, oppure a causa di un errore di valutazione che impedisce di frenare, ovvero quando si vorrebbe frenare ma non ci sono più freni disponibili.

Overshooting contiene anche un altro aspetto: che, a un certo punto, si verifica un “picco”, doppiato il quale non si può più tornare indietro. Dove si trovi questo picco, questo Capo di Buona Speranza, è molto difficile da calcolare, perché siamo dentro problemi di altissima complessità

Siamo esattamente in una situazione in cui tutti e quattro questi aspetti sono in funzione. Inoltre si calcola che ci vorranno oltre dieci anni prima che le conseguenze dell' overshooting diventino chiaramente visibili. E ci vorranno 20 anni prima che l'overshooting diventi un'idea comunemente accettata. Bisognerà agire in questi limiti di tempo.

Ma è già evidente oggi che l'attuale architettura istituzionale della politica e dell'economia mondiale non è in grado di risolvere il problema del freno.

Quanti conoscono questa situazione? Un numero insignificante di specialisti. Pochi governanti di questo pianeta. Ecco perché questa situazione deve trovare posto in una rivista che si occupa di comunicazione e di informazione: perché questa situazione non viene comunicata e, quando lo è, è comunicata male e in forme ingannevoli.

Per esempio perfino l'opinione dei gruppi più avanzati, intellettualmente e culturalmente (per esempio Al Gore e i suoi consiglieri) è che noi "corriamo il rischio" della insostenibilità. Cioè nemmeno i più avveduti sanno che ciò è già accaduto. Di conseguenza si prendono decisioni gravemente errate.

2) Cosa occorrerebbe fare, da subito?

a) Sviluppare a ritmi forzati la ricerca scientifica e tecnologica in direzione del risparmio energetico, della riduzione dell'aumento demografico del mondo povero, dell'aumento del consumo alimentare dei poveri e della crescita delle loro condizioni di vita (perché questo riduce la natalità), dell'aumento della produzione di energie alternative, della riduzione dell'inquinamento ambientale e degli scarti: in poche parole andare verso la riduzione dell'impronta umana sull'ecosistema, sulla biosfera.

b) Pianificare gl'interventi sull'unica scala che conta, cioè su scala planetaria. Cioè dotarsi di un'architettura decisionale mondiale (si spera democratica) in grado di realizzarli. Solo una tale architettura può ampliare l'orizzonte temporale della programmazione degl'interventi e consentire effetti di lunga durata per il governo della crisi.

c) Organizzare il cambiamento di abitudini di miliardi di persone. Ciò richiede un drastico mutamento dei sistemi di informazione e comunicazione, delle istituzioni educative in generale. Mutamento che non può essere spontaneo o casuale, e che va dunque organizzato dai poteri pubblici e democratici. E' evidente che esso influirà sugli assetti proprietari del sistema mediatico, e anche per questa ragione sarà duramente osteggiato.

Vi sono alcuni corollari a queste considerazioni:

Corollario n.1. Tutti questi temi programmatici richiederebbero decenni per essere realizzati. Cioè bisognerà non dimenticare che, anche se cominciassimo oggi stesso a proporre cambiamenti, ci vorrà molto tempo prima che si producano effetti. In altri termini l 'overshooting peggiorerà nel corso del prossimi vent'anni.

Corollario n.2. Non abbiamo altri trent'anni a disposizione. Il sistema economico-sociale in cui viviamo non reggerà, senza grandi cataclismi (sociali, politici, militari) entro questo lasso di tempo.

Corollario n.3. Occorrerà rendere consapevoli grandi masse popolari, in tutti i continenti, ma soprattutto nel mondo occidentale, che i limiti dello sviluppo sono già stati raggiunti. Il fatto che non lo si veda ancora non è che la conferma che il sistema mediatico nasconde la realtà invece di renderla nota e spiegarla.

Corollario n 4. Non stiamo discutendo dell'eventualità che qualcuno, da qualche parte, decida di ridurre la crescita. La crescita, nei termini in cui è avvenuta nel corso dell'ultimo secolo, sarà fermata non da decisioni umane ma dagli eventi che derivano dalla natura dell'ecosfera, cioè dalle leggi della fisica e della chimica.

Corollario n 5. Le resistenze al cambiamento saranno enormi. In primo luogo tra i padroni del nostro tempo, le corporations, e i governi. Agli uni e agli altri sarà richiesto di perdere molto e di sottostare a condizioni e discipline che rifiuteranno di rispettare. Si imporrà una visione del “Bene Comune”, contro la quale verranno scagliate mille risposte corporative, di interessi particolari che non accetteranno di essere messi in forse. Ma non sarà solo il problema di élites egoiste. Anche miliardi di individui non vorranno, non sapranno, rinunciare alle loro abitudini, fino a che gli eventi non ve li costringeranno.

Corollario n. 6. La possibilità che scenari di grande mutamento, improvvisi, non preceduti da adeguata informazione e preparazione, provochino ondate di panico, apre la strada a forti pericoli di instabilità e a formidabili pressioni per soluzioni di guerra.

Un ulteriore aspetto della questione deve essere evidenziato.

Molte risposte fino ad ora formulate a questo tipo di considerazioni affermano che vi sono due meccanismi in azione che potranno risolvere, se non tutte, almeno una parte rilevante delle attuali e future contraddizioni. Si tratterebbe della tecnologia e del mercato. E di una combinazione di entrambi. Entrambi, in effetti, possono esercitare una influenza, ma nessuno dei due, singolarmente e insieme, sarà sufficiente. Per diversi e concomitanti motivi. La tecnologia sostitutiva e integrativa dei processi in corso non è in grado di fare fronte alla rapidità della crisi. Gli aggiustamenti tecnologici necessari per produrre mutamenti nella qualità dello sviluppo (cioè verso la sostenibilità almeno parziale, cioè verso il restringimento dell' overshooting , sicuramente non verso la sua eliminazione) richiedono tempi non inferiori ai 30-50 anni per entrare in funzione. Le tecnologie costano. Le tecnologie richiedono anch'esse ulteriori flussi di energia e di materiali. Cioè, mentre cercheranno di alleviare i problemi, ne creeranno altri. In parole più semplici: crescita della popolazione mondiale, crescita geometrica dello sviluppo dei consumi, crescita della domanda di energia in presenza di costi crescenti di estrazione dell'energia fossile organica e inorganica, saranno tutti fattori che non potranno essere fermati dalla sola crescita tecnologica (neppure nell'ipotesi ottimale che, per essa, si trovino le immense risorse necessarie) .

Per quanto concerne il mercato, esso ha proceduto fino ad ora in direzione della totale insostenibilità. E' il mercato ad avere prodotto questa situazione insostenibile. Il mercato implica una crescita esponenziale (proporzionale a ciò che è già stato accumulato) , che è racchiusa nella logica del Prodotto Interno Lordo. Ma una crescita esponenziale non può procedere indefinitamente in un qualsiasi spazio finito con risorse finite .

In altri termini, l'economia capitalistica, esattamente come la popolazione, non sempre cresce, ma entrambe sono strutturate per crescere e, quando crescono, lo fanno in modo esponenziale. Questo modo non è sostenibile.

Chiedere al mercato di risolvere questa equazione à una cosa priva di senso. Esiste una grande confusione, e un grande equivoco, su questa questione, nel quale gli economisti cadono sistematicamente perché non riescono a distinguere tra denaro e le cose materiali reali che il denaro rappresenta.

L'economia fisica (le merci, i servizi, e la loro produzione) è una cosa reale.

L'economia del denaro è un'invenzione sociale che non è soggetta alle leggi fisiche della natura.

Dunque, riassumendo, il problema non è se la crescita dell'impronta umana sull'ambiente (effetto della crescita esponenziale) si fermerà: la sola questione è quando e in che modo.

Il Club di Roma trae questa conclusione, che io ritengo assolutamente fondata: “Se noi saremo capaci di anticipare queste tendenze, allora potremo esercitare un certo controllo su di esse, scegliendo tra le varianti disponibili. Se noi le ignoreremo, allora i sistemi naturali sceglieranno l via d'uscita senza riguardo al benessere dell'Uomo”

Un'ultima notazione. Secondo una studio recentissimo dell'Unione Europea, soltanto per fare fronte al riscaldamento climatico in atto, le risorse mondiali necessarie, ogni anno che verrà, oscilleranno tra le due cifre di 230 e 614 miliardi di euro.

La quota europea di questa spesa - che, si noti, concerne soltanto le spese per fare fronte alle esigenze di adattamento e di riorganizzazione sociale e industriale - sarà pari, mediamente, ogni anno, a 70 miliardi di euro. Tutto ciò in condizioni normali. Si immagini soltanto cosa potrebbe significare, in una prospettiva di medio termine, lo spostamento di 200 milioni di persone, previsto dalle organizzazioni delle Nazioni Unite, in caso di mutamenti climatici catastrofici.

E si tenga presente un dato emerso negli ultimi mesi. Dato che ci informa che, se non fossimo folli, potremmo risolvere molti dei problemi qui esposti: la sola guerra irachena è costata (secondo diverse e autorevoli valutazioni) dai tre ai cinque trilioni di dollari.

26 ottobre 2008

Roubini: Panico e fallimenti di hedge founds – Alert chiusura mercati



Articolo originale su «Wall Street Italia» [QUI]
23 ottobre 2008


Centinaia di fondi hedge falliranno e i governi saranno costretti a chiudere i mercati per almeno una settimana a causa della crisi finanziaria che spingerà gli operatori a stare lontani da qualsiasi forma d’investimento. Ad affermarlo è l’economista Nouriel Roubini, professore alla New York University.
«Abbiamo raggiunto una situazione di puro panico» ha affermato Roubini, che aveva previsto correttamente la crisi finanziaria nel 2006, durante una conferenza a Londra. «Ci sarà una massiccia fuga dagli investimenti, salteranno centinaia di hedge funds».
Nelle scorse settimane si è assistito ad un taglio coordinato dei tassi d’interesse da parte dei governi a livello globale, sono stati varati piani di salvataggio sulle banche nel tentativo di contenere l’impatto della crisi. «Il rischio sistemico sta divenendo sempre più grande. Non stupitevi se i governi decideranno di chiudere i mercati per una o due settimane nei prossimi giorni» ha continuato Roubini.
Roubini ha sottolineato, secondo quanto riferisce «Bloomberg», che la situazione sta peggiorando sopratutto per i mercati emergenti. «Ci sono una dozzina di mercati emergenti che si trovano in guai finanziari molto severi», ha precisato Roubini, sottolineando che «anche un Paese piccolo può avere un effetto sistemico sull'economia globale».
Proprio oggi i tassi interbancari nei Paesi emergenti sono saliti ai massimi da sei anni per via del fatto che la Bielorussia si è aggiunta all' Ungheria, all' Ucraina e al Pakistan nel chiedere aiuti al FMI.




25 ottobre 2008

Fonzie & C. pro Obama

di Pino Cabras




Scende in campo Ricky Cunningham. Il rosso (di capelli) protagonista del serial tv "Happy Days", torna ancora in scena, per sostenere la candidatura presidenziale di Barack Obama.
L'attore è sempre Ron Howard, oggi affermatissimo regista (ha diretto tra l'altro la versione cinematografica de "Il Codice Da Vinci"). Di nuovo in perfetta tenuta anni cinquanta, un credibile toupet color carota a coprire la sua odierna pelata, tonnellate di makeup a nascondere le rughe, incontra un altro apparente sempreverde, Arthur "Fonzie" Fonzarelli, ancora interpretato da Henry Winkler, in brillantina e giubbottino nero in pelle. Fonzie è anche lui nella parte: non riesce ad ammettere direttamente di essersi sbagliato.
"Otto anni fa decisi di dare una possibilità a George W. Bush - rivela a Ricky, nel parcheggio del tipico diner di Milwaukee che milioni di persone hanno immaginato vero - e come mi sono sb-sba-sb...". "Come, ti sei sbagliato?", interviene il "giovane" Cunningham.
Fonzie annuisce: "Ok, quella è la parola".
Howard si toglie il parrucchino e abilmente ammette che la gag lo rende ridicolo, ma dice che è stata l'emergenza elettorale a spingerlo a schierarsi per la prima volta nella sua ormai lunga carriera.
Lo spot è geniale, pieno di chiavi di lettura. L'Età dell'Oro del sogno americano, l'America dei Giorni Felici dei tempi di Eisenhower vista con gli occhi smaliziati degli anni Settanta, si presenta ancora negli anni Duemila ostentando una giovinezza che non c'è (come i consumi tenuti su dai debiti) e tenta disperatamente di rivitalizzare il sogno con Obama. Ma Howard ce lo dice alla fine in modo dimesso, senza il parrucchino (il debito che nascondeva la verità materiale del tempo), contando sulla sua dignitosa carriera, il duro lavoro da cui ricominciare.

L'eroe del WTC, intervista alla TV britannica




William Rodriguez, il custode delle Torri Gemelle, è stato testimone delle anomalie dell'11/9, che lo hanno spinto a contestare con forza le versioni ufficiali di quel giorno. Rodriguez è in visita in Gran Bretagna, dove rilascia molte interviste. L'intervista che vediamo in video è stata trasmessa su Sky News il 21 ottobre 2008.

23 ottobre 2008

Joe Biden: "vi garantisco, arriva una supercrisi"

di Pino Cabras



Certo che suona molto strano il discorso pronunciato lo scorso 19 ottobre a Seattle da Joe Biden, il candidato di Obama alla vicepresidenza USA. Biden profetizza con una certa enfatica disinvoltura che Barack Obama – una volta in carica come presidente - dovrà subito ballare al ritmo di una crisi internazionale di enormi proporzioni. Lo “garantisce”, addirittura. E aggiunge che «non passeranno sei mesi prima che il mondo metta alla prova Barack Obama come fece con John Kennedy». Ricordiamo che JFK dovette subito fronteggiare la crisi dei missili a Cuba, a un passo dal conflitto nucleare con l’URSS di Kruščëv.
Biden tiene a sottolineare davanti al pubblico lì presente: «Ricordate quel che vi ho detto in piedi qui se non ricordate nessun altra cosa che ho detto. Badate, stiamo per avere una crisi internazionale, una crisi provocata, per mettere alla prova la stoffa di quest’uomo».
Una crisi «provocata». In inglese la parola usata da Biden è «generated». Un vocabolo che comunque rimanda a un’idea di produzione consapevole e sofisticata di un fatto.
Biden insiste: «segnatevi le mie parole, segnatevi le mie parole», mentre aggiunge che dovranno essere prese decisioni «dure» e «impopolari» in materia di politica estera. E per chi non avesse percepito ancora la gravità del tono, ricalca: «Io prometto che accadrà». Biden sottolinea: «da studioso di storia e avendo collaborato con sette presidenti, io vi garantisco che sta per succedere».
“Garantire” è un altro concetto di grande peso e grandissime implicazioni, per il ben informato Biden. Se l’esordio della presidenza di George W. Bush fu segnato dagli eventi dell’11/9, cosa dunque è atteso - anzi, “promesso”, “garantito” – che accada nell’esordio della nuova Amministrazione?
Biden appartiene a un’élite in possesso di informazioni privilegiate, una classe di individui che reagisce alle crisi con strumenti concettuali e materiali diversi da quelli propri del senso comune e diversi dal velo banalizzante e bugiardo dei media più importanti. Le prospettive di crisi estrema sono tante, prese da sole o in combinazione. L’élite sa che la crisi finanziaria, ad esempio, è ben lungi dall’essersi conclusa. Così come l’11 settembre 2001 l'élite sapeva già prima degli altri che l’economia era in recessione, così già oggi guarda con sgomento alle prossime bolle della grande finanza (carte di credito e massa dei derivati in primis). Quale evento è pronto a farle precipitare? Altre crisi ci parlano di Iran, di Russia e Ucraina, di Venezuela, di conflitti potenziali che - una volta scatenati – cambierebbero l’agenda mondiale.
È degli stessi giorni una dichiarazione di tenore analogo a quella di Biden, pronunciata da un fresco sostenitore di Obama, l’ex Segretario di Stato repubblicano Colin Powell, che si è spinto a prevedere un grave scenario di crisi per fine gennaio 2009. Un altro membro dell’élite che parla, e fa quasi l’oracolo.
Come un altro ex Segretario di Stato, la democratica Madeleine Albright, la quale a sua volta ritiene molto plausibile lo scenario di emergenza previsto da Biden, un contesto che ai suoi occhi assume le sembianze di un mega-attentato terroristico.
E non è finita. Anche il rivale repubblicano di Obama, John McCain, cerca di decantare la necessità di mettere al comando supremo la propria esperienza proprio perché il nuovo presidente «non avrà tempo di abituarsi alla carica».
Mentre anche ai soldati USA vengono attribuiti compiti di ordine pubblico (è una tendenza planetaria), intanto che la tempesta finanziaria perfetta incombe, l’immensa potenza americana sembra essere condotta verso un profondo mutamento della sua natura. I segnali sono forti in questa direzione.



In tempi non sospetti, nel 2004, nell’osservare l’aumento eccessivo del debito che sormonta di gran lunga la solvibilità del paese, l’economista Robert Freeman si era chiesto quali possibili strategie avrebbe potuto usare l’amministrazione statunitense (“ Come How Will Bush Deal With the Deficits? Connecting the Dots to Iraq”, «CommonDreams.org»).
La prima strategia è aumentare le imposte, specie sui redditi elevati, e pagare i creditori. Non è ciò che fa l’amministrazione Bush.
La seconda è stampare dollari. L’abuso di una tale soluzione porterebbe però a un collasso economico.
Una terza soluzione strategica, secondo il modello imposto dall’FMI ai cosidetti ‘paesi in via di sviluppo’, è la privatizzazione degli asset nazionali e la loro vendita all’estero. Lasciando deprezzare il dollaro, l’Amministrazione USA dà così non solo respiro alle esportazioni: ma consente anche agli investitori diretti esteri di usare i loro capitali per acquistare aziende statunitensi. Alla cinese Lenovo che a suo tempo ha acquistato il ramo hardware di IBM è andata bene. Ai petrolieri cinesi che volevano acquistare la Unocal sono stati opposti invece ostacoli politici persuasivi. Ma la pressione ‘compradora’ dall’estero aumenterà.
Una quarta strategia è una sorta di ‘soluzione bolscevica’ come quando i rivoluzionari che assunsero il potere in Russia rifiutarono di onorare i debiti dello stato zarista. Per Robert Freeman, è una possibilità «molto più vicina di quello che possa immaginare la maggior parte dei cittadini americani». Possiamo sospettare le enormi implicazioni in termini di impoverimento generale e di fine del dollaro.
Ma secondo Freeman è una quinta strategia a essere in campo più di tutte. Freeman chiarisce:

«Come ultima risoluzione, resta il saccheggio. Quando il rimborso del debito di una nazione diviene così imponente che diventa impossibile rassicurare i creditori, questo paese deve cercare una qualche sorgente di ricchezza, non importa quale sia la fonte».

Il castello di carte starà in piedi fino a quando le banche centrali di Cina e Giappone compreranno titoli in dollari. L’alternativa è non pagarli, quei debiti. Sparigliare le carte. Giocare fino in fondo sul terreno che si domina con più mezzi di tutti, quello militare e della propaganda. Controllando prima di tutto lo scacchiere dell’energia (altro fronte in crisi), e muovendo tutte le pedine.
Sui media italiani non c’è quasi traccia delle dichiarazioni di Biden. Il massimo che dicono è che si tratta di un gaffeur. Ma stavolta non sembrava una gaffe. Solo che i media avrebbero dovuto fare qualche sforzo in più per descrivere un contesto complicato. Meglio banalizzare, in attesa della tempesta.

Aggiornamento del 25 ottobre 2008:
Il presente post è stato ripreso anche su «ComeDonChisciotte» [QUI], su «AriannaEditrice» [QUI], su «MercatoLiberoNews» [QUI] e su «Antimafia Duemila» [QUI].

Guerra e verità. La difficile classifica della libertà di stampa

di Pino Cabras



Una classifica dal più buono al più cattivo nel campo della libertà di stampa, dalla Norvegia alla Corea del Nord. La leggiamo in un recente e istruttivo comunicato di Reporter Senza Frontiere: il comunicato è pieno di dati che insieme compongono una foto allarmante della libertà di stampa nel mondo.
In apparenza, è acqua al nostro mulino.
Il curriculum di questa reputata organizzazione non governativa fa sempre rumore. Sono tanti i giornalisti colpiti da censure, minacce, arresti e violenze che non vengono dimenticati né lasciati troppo soli grazie a queste opportune ingerenze.
Reporter Senza Frontiere (Reporters sans frontières - RSF) è una Ong internazionale, il cui obiettivo dichiarato è proprio la difesa della libertà di stampa. Raccoglie fondi per pagare gli avvocati dei giornalisti oppressi e così via. Messa così, un comunicato di RSF si potrebbe lasciare senza chiose e commenti. Eppure la critica non deve venire meno, neanche in questo caso, tanto meno su una materia così delicata: la libertà di parola, di espressione, di stampa; la nostra libertà nel mondo.
Il punto è che RSF stila delle classifiche molto discutibili. A tratti ben argomentate, ma magistralmente sbilanciate a favore del sistema dei media egemonizzato da poche corporation anglosassoni, tutte compartecipi delle grandi linee strategiche dell’Impero.
Ci sono nel resoconto di Reporter Senza Frontiere anche alcune significative critiche al sistema dominante dei media. Si stigmatizza in particolare l’effetto devastante della mobilitazione bellica sulla libertà di stampa in capo ai paesi occidentali. Ma per il resto, c’è un’esaltazione del modello: una società aperta dove ci sono pluralismo, leggi, magistrature, divisioni dei poteri, libertà di stampa, competizioni aperte, libertà di pensiero e istituti legali che la tutelano. Bella, la società aperta. Nelle società aperte, il governo è responsabile e tollerante, e i meccanismi della politica sono trasparenti e flessibili. Lo Stato non si tiene per sé i segreti al cospetto del discernimento pubblico; è una società non autoritaria in cui tutti sono meritevoli di fiducia e tutti hanno accesso alla conoscenza reciproca. Le libertà politiche e i diritti umani sono le fondamenta della società aperta. Henry Bergson e Karl Popper avrebbero gradito una simile definizione. È un idealtipo di liberaldemocrazia che si contrappone ai totalitarismi, alle oligarchie, alle società in cui il potere è contendibile solo con i colpi di Stato, gli intrighi e il denaro di pochi.
Ma in realtà, di tutte queste belle cose, che pure sentiamo connaturali ai nostri sistemi, ci è rimasta tutta la retorica, ma molta meno sostanza di quanto siamo disposti ad ammettere. Su queste cose RSF non affonda il colpo, mai. Non entra in dettaglio a descrivere l’ampiezza delle ferite inferte alla democrazia con la complicità dei nostri governi e delle grandi concentrazioni mediatiche. Affonda invece oltre ogni dire il suo colpo sul Venezuela, per esempio, in funzione anti-Chavez, tralasciando fatti importanti sul pur malfermo pluralismo di quel paese. Idem in Russia, con qualche falsità e vaghe insinuazioni, come nel caso Politkovskaja.
L’influenza dei think-tank “parastatali” americani nei confronti di RSF si manifesta se non altro in termini di finanziamenti. Fra i finanziatori troviamo ad esempio l’Open Society Institute di George Soros o il Center for Free Cuba (estrema destra anticastrista con base a Miami), così come il National Endowment for Democracy, un’organizzazione finanziata quasi esclusivamente dal Congresso USA per «promuovere la democrazia», di fatto un’agenzia in grado di condurre legalmente azioni a sostegno di selezionati media e partiti politici esteri altrimenti inibite alla CIA.
Per scelta, Reporter Senza Frontiere non entra nel campo della critica ai media, alle autocensure, al soft power. Ha il facile target della Corea del Nord, bersaglio comodo e maglia nera della classifica dei cattivi, al quale cerca di far avvicinare il più possibile tutti i nemici strategici dell’Impero in declino.
Perciò il comunicato di Reporter Senza Frontiere che annuncia il Rapporto del 2008 va assaggiato con un pizzico di sale. Certo, non racconterà il senso di fallimento dell’avventura imperiale che sta precipitando con Bush, ma almeno ammette che Guerra e Verità sono due temi che tendono a cancellarsi a vicenda. E questo è un fatto fondamentale dell’odierna comunicazione di cui qualsiasi operatore deve tenere conto.
Il lavoro di RSF è insomma solo un pezzo della critica che possiamo fare al sistema della comunicazione. È un utile compendio di notizie da raccogliere e rilanciare per tutelare con atti concreti chi rischia di suo per voler raccontare le cose del potere. Ma questa lettura del problema va legata a una critica più completa nei confronti dei meccanismi di pressione sulla libertà di parola. Cambiando alcuni parametri la classifica sarebbe molto meno rassicurante per il nostro sistema informativo, e meno utilizzabile per ammassare gli avversari dell’Occidente in una galleria di spauracchi totalitari.
Per il resto buona lettura.


Solo la pace protegge le libertà nel mondo post-11/9
Le democrazie coinvolte in guerre fuori dal loro territorio, come gli Stati Uniti e Israele, cadono ulteriormente nella classifica ogni anno mentre vari paesi emergenti, specie in Africa e nei Caraibi, offrono garanzie sempre migliori per la libertà dei media.


Articolo originale: Dans le monde de l’après-11 septembre, seule la paix protège les libertés
Link: http://www.rsf.org/article.php3?id_article=28879.
(Traduzione di Pino Cabras)


Non è la prosperità economica ma la pace a garantire la libertà di stampa. Questa è la lezione principale da
trarre dall’indice della libertà di stampa nel mondo stilato ogni anno da Reporter Senza Frontiere e dalla sua edizione 2008, diffusa il 22 ottobre 2008.
Un’altra conclusione dell’indice – i cui tre gradini più bassi sono di nuovo occupati dal “trio infernale” di Turkmenistan (171°), Corea del Nord (172°) ed Eritrea (173°) - è che la condotta della comunità internazionale nei confronti di regimi autoritari come Cuba (169°) e Cina (167°) non è abbastanza efficace da ottenere risultati.

«Il mondo post-11/9 non è chiaramente delineato», sostiene Reporter Senza Frontiere. «Destabilizzate e sulla difensiva, le principali democrazie stanno gradualmente erodendo lo spazio per le libertà. Le dittature economicamente
più potenti proclamano arrogantemente il loro autoritarismo, sfruttando le divisioni della comunità internazionale e le devastazioni delle guerre condotte in nome della lotta al terrorismo. I tabù religiosi e politici stanno avendo grande presa quest’anno in paesi che erano abituati ad avanzare sulla strada della libertà». «I paesi chiusi del mondo, governati dai peggiori predatori della libertà di stampa, continuano a imbavagliare a volontà i loro media, in totale impunità, mentre organizzazioni come l’ONU perdono tutta la loro autorità nei confronti dei loro membri», ha aggiunto Reporter Senza Frontiere. «In contrasto con questo generale declino, ci sono paesi economicamente deboli che nondimeno garantiscono alle loro popolazioni il diritto di essere in disaccordo con il governo e di dirlo pubblicamente».

Guerra e pace

Due aspetti emergono nell’indice, che copre i dodici mesi che precedono il I settembre 2008. Uno è la preminenza dell’Europa. A parte Nuova Zelanda e Canada, le prime 20 posizioni sono tenute da paesi europei. L’altro aspetto emergente è il posizionamento rispettabilissimo acquisito da certi p
aesi centroamericani e caraibici. Giamaica e Costarica sono al 21° e 22° posto, spalla a spalla con l’Ungheria (23°). Appena poche posizioni sotto ci sono il Suriname (26°) e Trinidad e Tobago (27°). Questi piccoli paesi caraibici hanno fatto molto meglio della Francia (35°), ulteriormente precipitata quest’anno, o di Spagna (36°) e Italia (44°), paesi trattenuti all’indietro da violenze politiche o mafiose.
La Namibia (23°), un vasto e ora pacifico paese dell’Africa australe posizionatosi al primo posto in Africa, davanti al Ghana (31°), era a un passo dai primi venti paesi. Le disparità economiche tra le prime 20 sono immense. Il PIL pro capite islandese è dieci volte quello della Giamaica. Quel che hanno in comune è un sistema democratico parlamentare, e il non coinvolgimento in alcuna guerra.

Non è questo il caso degli Stati Uniti (al 36° posto in relazione al proprio territorio, ma al 119° lontano da esso) e di Israele (46° a livello nazionale, ma 149° fuori dal proprio suolo), le cui forze armate hanno ucciso un giornalista palestinese per la pr
ima volta dal 2003.
Un ricominciamento di conflitti è andato anche a carico della Georgia (120°) e del Niger, che è franato dal 95° posto del 2007 al 130° di quest’anno. Sebbene abbiano sistemi politici democratici, questi paesi sono coinvolti in conflitti di bassa o elevata intensità e i loro giornalisti, esposti ai pericoli dei combattimenti e della repressione, sono facili bersagli.
La recente scarcerazione provvisoria di Moussa Kaka, il corrispondente dal Niger di Radio France International e di Reporter Senza Frontiere, dopo 384 giorni di prigione a Niamey e il rilascio del cameraman Sami al-Haj’s dopo sei anni nell’inferno di Guantanamo servono a ricordarci che le guerre spazzano via non solo vite umane ma anche, e soprattutto, la libertà.

Sotto tiro dei belligeranti o dei governi intrusivi

I paesi che sono stati coinvolti in conflitti violentissimi dopo che non sono riusciti a risolvere seri problemi politici, com
e l’Iraq (158°), il Pakistan (152°), l’Afghanistan (156°) e Somalia (153°) continuano a essere pericolosissime “aree nere” per la stampa, luoghi in cui i giornalisti sono quotidianamente obiettivi di omicidi, rapimenti, arresti arbitrari o minacce di morte.
Possono finire sotto tiro da tutte le parti in guerra. Possono essere accusati di parteggiare per una frazione.
Qualsiasi scusa sarà usata per sbarazzarsi di “piantagrane” e “spie”.
È il caso ad esempio dei Territori Palestinesi (161° posto), specie la Striscia di Gaza, dove la situazione è peggiorata dopo che Hamas ha preso il potere. Contemporaneamente, in Sri Lanka (165°), dove c’è un governo eletto, la stampa deve fronteggiare violenze che sono solo troppo spesso organizzate dallo Stato.

Nel fanalino di coda troviamo delle dittature – alcune mascherate, altre no – dove i dissidenti e i giornalisti favorevoli alle riforme si adoperano per aprire brecce nei muri che li rinchiudono. L’anno delle Olimpiadi nella nuova
potenza asiatica, la Cina (167° posto), è stato l’anno in cui Hu Jia e molti altri dissidenti e giornalisti sono stati incarcerati. Ma ha anche offerto delle opportunità a quei media liberali che stanno cercando gradualmente di liberarsi dal tuttora pervasivo controllo poliziesco del paese.
Essere un giornalista a Pechino o Shanghai – o in Iran (166°), Uzbekistan (162°) e Zimbabwe (151°) - è un’attività ad alto rischio che implica infinite frustrazioni e costanti noie poliziesche e giudiziarie. In Birmania (170°), governata da una giunta xenofoba e inflessibile, i giornalisti e gli intellettuali, persino quelli stranieri, sono stati visti per anni come nemici da parte del regime, e ne pagano il prezzo.


Immutabili inferni

Nella Tunisia (143°) di Zine el-Abidine Ben Ali, nella Libia (160°) di Muammar Gheddafi, nella Bielorussia (154°) di Aleksandr Lukašenko, nella Siria (159°) di Bashār al-Asad e nella Guinea Equatoriale (156°) di Teodoro Obiang Nguema, l’onnipresente ritratto de
l leader sulle strade e sulle prime pagine dei giornali è sufficiente a rimuovere ogni dubbio sulla mancanza di libertà di stampa.
Altre dittature fanno a meno di un culto della personalità ma risultano comunque soffocanti. Nulla è possibile in Laos (164°) né in Arabia Saudita (161°) se non si conforma alle politiche di governo.

Infine, la Corea del Nord e il Turkmenistan sono degli immutabili inferni nei quali la popolazione è tagliata fuori dal mondo ed è sottoposta a una propaganda degna d’altri tempi. E in Eritrea (173° posto), risultata ultima per il secondo anno consecutivo, il presidente Issaias Afeworki e il suo piccolo clan di nazionalisti paranoici continuano a governare la più giovane nazione dell’Africa come una vasta prigione all’aperto.

La comunità internazionale, compresa l’Unione Europea, ripete senza fine che l’unica soluzione continua a essere il “dialogo”. Ma il dialogo ha avuto chiaramente scarso successo e anche i
governi più autoritari sono ancora in grado di ignorare le proteste senza rischiare alcuna ripercussione che non sia il rammarico senza conseguenze del diplomatico di turno.

Pericoli di corruzione e di odio politico
L’altra malattia che divora le democrazie a e fa loro perdere terreno nella classifica è la corruzione. Il cattivo esempio della Bulgaria (59° posto), ancora ultima in Europa, serve da promemoria sul fatto che il suffragio universale, il pluralismo dei media e alcune garanzie costituzionali non sono sufficienti per garantire l’effettiva libertà di stampa. Il clima deve anche favorire il flusso di informazioni e di espressione delle opinioni.
Le tensioni sociali e politiche in Perù (108°) e Kenya (97°), la politicizzazione dei media in Madagascar (94°) e Bolivia (115°) e la violenza contro i giornalisti investigativi in Brasile (82°) sono tutti esempi dei tipi di veleno che intossica le democrazie emergenti. E l’esistenza di persone che violano la
legge per arricchirsi e colpiscono impunemente i giornalisti investigativi è un flagello che mantiene molti "grandi paesi" - come la Nigeria (131°), il Messico (140°) e l’India (118°) - in posizioni vergognose.
Alcuni potenziali "grandi paesi" si comportano deliberatamente in modi brutali, ingiusti o semplicemente inquietanti. Gli esempi includono il Venezuela (113°), dove i decreti e la personalità del presidente Hugo Chávez sono spesso devastanti, e il duo russo Putin-Medvedev (141°), dove i media statali e dell’opposizione sono strettamente controllati, e giornalisti come Anna Politkovskaija ogni anno sono uccisi da killer "non identificati" che si rivelano spesso in stretti legami con i servizi di sicurezza del Cremlino.


Resistere ai tabù

Il “ventre molle” della classifica comprende anche i paesi che oscillano tra repressione e liberalizzazione, dove i tabù sono ancora inviolabili e le leggi sulla stampa si rifanno a un’altra epoca
. In Gabon (110° posto), Camerun (129°), Marocco (122°), Oman (123°), Cambogia (126°), Giordania (128°) e Malaysia (132°), per esempio, è severamente vietato riportare qualsiasi cosa che si rifletta negativamente sul presidente o sul monarca, o sui loro familiari e amici stretti.
I giornalisti sono regolarmente mandati al carcere in Senegal (86°) e in Algeria (121°), sotto una legislazione repressiva che viola gli standard democratici sostenuti dalle Nazioni Unite.
Anche nella repressione online si manifestano questi tenaci tabù.
In Egitto (146°), dimostrazioni lanciate online hanno sconvolto la capitale e allarmato il governo, che guarda ormai a ogni utente di Internet come a un potenziale pericolo. L’uso di filtri su Internet sta crescendo nel corso dell’anno e la maggior parte dei governi repressivi non esita a incarcerare i blogger. Mentre la Cina guida ancora la classi
fica mondiale del "buco nero di Internet", mettendo in campo notevoli risorse tecniche per il controllo degli utenti della Rete, la Siria (159°) è il campione mediorientale nella cyber-repressione.
La sorveglianza di internet è così profonda che anche la minima critica che sia pubblicata online prima o poi è seguita dall’arresto.
Solo pochi paesi sono risaliti in modo significativo nella classifica. Il Libano (66°), per esempio, si è arrampicato di nuovo su una più plausibile posizione dopo la fine degli attentati con bombe a danno di influenti giornalisti in anni recenti. Haiti (73°) continua la sua lenta risalita, così come l’Argentina (68°) e le Maldive (104°). Ma la la transizione democratica si è arrestata in Mauritania (105°), impedendole di continuare la sua risalita, mentre i magri guadagni di pochi anni fa in Ciad (133°) e Sudan (135°) sono stati dispersi dall’improvvisa introduzione della censura.

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Obiettivo ravvicinato su Europa e
d ex URSS
Ci sono pochi cambiamenti in testa all’indice di quest’anno. A parte il Canada e la Nuova Zelanda, i primi 20 paesi sono tutti europei. Nessuno dei 27 membri dell’Unione Europea è fuori della top 60. La pecora nera dell’Europa, la Bulgaria (59° posto), si trascina dietro agli altri a causa della sua incapacità di affrontare con fermezza la corruzione e la violenza di origine sia mafiosa che politica. L’Italia (44° posto) e la Spagna (36°) hanno inoltre ricevuto mediocri piazzamenti a causa, nel primo, di un brutto clima generale e delle minacce e violenze della mafia, e nel secondo, per la paura imposta dal gruppo armato separatista basco ETA.

La Francia (35°) negli ultimi due anni ha detenuto il record europeo interventi di polizia e magistrati in merito alla riservatezza delle fonti dei giornalisti, con cinque indagini, due rinvii a giudizio e quattro citazioni in giudizio.
L’arresto di Guillaume Dasquié di «Geopolitique.com» da parte del servizio segreto interno DST e l’arresto di un cronista di «Auto Plus», accompagnata da perquisizioni a casa sua e nel
suo ufficio, dimostrano che la riservatezza delle fonti non è sempre adeguatamente tutelata nella "terra dei diritti umani."
Il più significativo sviluppo nell’ex periferia sovietica è il deterioramento nel Caucaso, dove due su tre paesi indipendenti - Armenia (102°) e Georgia (120°) - hanno avuto grossi problemi e introdotto stati di emergenza. Diversi giornalisti sono state vittime a causa dell’improvviso scoppio della guerra in Georgia.
I paesi dell’Asia centrale continuano ad arrancare in posizioni arretratissime, con l’Uzbekistan (162°) e il Turkmenistan (171°), giunti fra gli ultimi 20 insieme alla Bielorussia (154°). La situazione in Russia (141°), dove la stampa continua a essere oggetto di violenza e di fastidi, è stata poco cambiata dall’elezione a presidente di Dmitrij Medvedev.


Un giornalista ucciso in Messico, 2006.