28 gennaio 2015

#Tsipras. Il gran botto nel Laboratorio Greco

di Pino Cabras.
da Megachip.

Se consideriamo la Grecia come un laboratorio, così come in molti fanno da anni, in occasione della vittoria di Tsipras abbiamo assistito all'incendio di molti alambicchi. Chi conduce l'esperimento, specie se si tratta di un test pericoloso, corre anche il rischio di collaudare qualcosa che non risponde ai suoi modelli di partenza: mette nel conto di sacrificare risorse, forzare i limiti, spingere al massimo le resistenze, scoprire cosa brucia subito e cosa provoca ritorni di fiamma imprevisti.
Se gli va bene, scopre una nuova formula che potrà ogni volta padroneggiare. Se gli va male, può provare e riprovare ancora sulle cavie, e solo dopo potrà estendere le esperienze sicure su un sistema più vasto. Oppure può circondare di misure di sicurezza quel piccolo e scoppiettante laboratorio isolato.
La Grecia è stata già altre volte un’officina per gli sperimentatori delle élite occidentali. Se ci pensiamo, negli stessi anni in cui in Italia gli ambienti atlantisti influenzavano la vita politica con la strategia della tensione e vari tentativi di colpo di Stato, ad Atene i militari andavano davvero al potere con un golpe, instaurando la Dittatura dei Colonnelli (1967-1974). Nella culla della civiltà europea si poté così sperimentare per qualche anno la soppressione delle normali libertà civili, lo scioglimento dei partiti politici, l’istituzione di tribunali militari speciali, il ricorso alla tortura e al confino per migliaia di oppositori. L’esperimento non funzionò. Il golpe classico suscitava troppa opposizione interna e internazionale, i più intraprendenti fuggivano e l’economia diventava insostenibile. Negli anni successivi, in Italia, appresa la lezione greca, si dimostrò che funzionava meglio un condizionamento di tipo piduista, che faceva sentire la minaccia della violenza, ma usava un approccio più graduale e tentacolare. Il prezzo del test lo avevano già pagato i greci.

Nel nuovo secolo, dall’instancabile cantiere oligarchico è partito un ulteriore “esperimento greco”, proprio negli anni in cui si è via via instaurato un nuovo tipo di regime europeo: cioè un regime che ha portato alle estreme conseguenze i difetti sempre più odiosi e antidemocratici della costruzione comunitaria e ha imposto le disfunzioni permanenti dell’euro, una moneta «che non dovrebbe esistere», (come ha scritto finanche il servizio studi del colosso bancario svizzero UBS), e che impone anche notevoli costi per un'eventuale uscita.

[Naturalmente debbo postulare che a carico dei greci sia stato realizzato un esperimento pienamente intenzionale, altrimenti dovrei concludere che l’Europa è governata da idioti e sprovveduti. Cosa sempre possibile, ma meno probabile, nonostante le facce stolide di molti governanti ed eurocrati.]

La Grecia sarebbe stata sufficientemente piccola da poter disinnescare il suo debito sovrano senza spargimenti di sangue, senza imporre fiscalità assassine, senza deprimere l’economia, ecc. Eppure le sono state imposte regole rigidissime, totalmente insensate e destinate a fare un buco nell'acqua. Solo un mondo intellettualmente fallito di pseudo-economisti traditori e ben pasciuti poteva insistere per anni sull’«austerità espansiva» (ossia praticare il salasso agli anemici aspettandosi di aumentare la massa sanguigna: puro nonsense). Si è abusato impunemente di un intero popolo, quello greco, che aveva la colpa di non essere numeroso e di avere un PIL che incideva sull’Europa quanto quello della provincia di Treviso sul PIL italiano.
La spirale del debito non veniva interrotta ma sovralimentata. Persino negli algidi trattati tecnocratici europei, da Maastricht in poi, è scritto il sacro principio della “Solidarietà fra gli Stati membri”. I padroni del laboratorio hanno invece deciso che quell’ingrediente doveva restare una lettera morta sul ricettario.
Sulla pelle dei greci, i padroni del laboratorio hanno così potuto misurare in una scala relativamente ridotta una serie di fenomeni: quanto può crescere la disoccupazione in un Paese e fino a che punto si deprezzano i beni, quand’è che un sistema sanitario crolla, qual è il punto di ebollizione da cui partono le rivolte violente e gli assalti ai fornai, come si dosa il monopolio della violenza affidato alla polizia, in che proporzione crescono i voti ai nazisti e quanto questi siano utilizzabili per dividere il popolo, quale livello di passività politica può raggiungere chi non ha più tempo per un proprio ruolo sociale e deve pensare solo a sopravvivere mentre evaporano stipendi e pensioni. Fino a che punto i partiti che reggono il sacco alle banche straniere resistono ancora all’erosione dei voti perché offrono ancora in cambio briciole residue per tenersi in vita? Qual è la chimica di una nazione disperata? Esplode, si evolve o implode?

La troika FMI-UE-BCE è andata avanti registrando tutti i movimenti con i suoi schemi immutabili, continuando l’esperimento con impassibilità e recitando le sue orazioni neoliberiste. Naturalmente il messaggio mafioso arrivava agli altri PIIGS, maledetti maiali-cicala: avete vissuto troppo al disopra dei vostri mezzi, siete nati per soffrire e per «fare le riforme strutturali», con una svalutazione del lavoro in favore del capitale finanziario. Nel Laboratorio Grecia si esagerava, fino a volerla trasformare in una Zona Economica Speciale alla cinese, con salari da poche centinaia di euro, non senza aver distrutto quasi un milione di posti di lavoro.
Questo calvario è richiesto ai greci ancora una volta dalla comare secca che guida il FMI, Christine Lagarde, che ha rilasciato una tempestiva intervista su «Le Monde» e «la Repubblica», il 27 gennaio 2015. Sarebbe stato interessante chiedere alla Lagarde se è vero quel che dice su di lei il Gran Maestro Gioele Magaldi nel suo libro “Massoni”, cioè se appartenga a ben due logge massoniche ultraoligarchiche transnazionali, la “Pan Europa” e la “Three Eyes”, alla quale ultima – sostiene Magaldi – sarà possibile rivelare l’affiliazione anche di Giorgio Napolitano e Mario Draghi. Anche senza aspettare le risposte di Christine e i suoi fratelli, sappiamo comunque che la pensano tutti allo stesso modo sulla Grecia. A caldo, ieri, Draghi ha perfino fatto notare che la pressione fiscale in Grecia resta «ben inferiore sia alla media dell’area euro, sia a quella di tutta l’Unione europea a 28.» Ossia: c’è ancora un po’ di carne da staccare dall’osso, che cosa mai vorranno negoziare questi ellenici. Fabio Scacciavillani twitta: «Un popolo di parassiti elegge una banda di ferrivecchi falliti». Scacciavillani, per chi non lo sapesse, è Chief Economist del Fondo d'investimenti dell'Oman. Per la sua ideologia, un insegnante greco è dunque un parassita, laddove il Sultano dell’Oman è un adorabile filantropo e i grandi fondi speculativi sono immacolati agenti del Bene, purché ogni tanto li si foraggi con pubblico denaro: insomma, il solito neoliberista con il mercato degli altri, con proiezioni freudiane sul parassitismo.

L’ascesa di Syriza e del suo leader Alexis Tsipras è nata dunque in reazione a questo esperimento crudele e interminabile, perpetuato da tanti reggicoda e ideologi in seno all’establishment.

Dentro le vampe del laboratorio, Tsipras ha dovuto fare una cosa molto chiara: individuare il nemico sin da subito. Non ha mai pronunciato una frase come quella che invece pronunciò Nichi Vendola in un'intervista all'«Espresso» del 16 giugno 2011, quando vedeva tra i semi della svolta «l’impegno di due grandi cattedre: quella di Papa Ratzinger e quella del papa laico, Mario Draghi. Ambedue hanno colto nella precarietà un dato di crisi globale della nostra società. Il mondo mette in movimento tanti mondi. Tanti mondi mettono in movimento il mondo». Vendola associava uno dei più venerabili maestri della prassi oligarchica, Draghi il “papa laico”, nientemeno che a un nuovo «formidabile processo di critica verso le oligarchie» fra i giovani e i movimenti. Si spiegano molte cose sui diversi destini della sinistra radicale in Grecia e in Italia.
Così come non si sa cosa voglia dire oggi il vicepresidente dell’europarlamento, Gianni Pittella (PD), quando invita Tsipras ad «avviare da subito i negoziati con le forze progressiste ed europeiste greche, per formare un governo stabile e autorevole», cioè con i complici più ipocriti dell’austerity. Tsipras, che è un politico vero, si è guardato bene dal dargli retta, e un minuto dopo ha invece concluso un accordo di governo con un altro partito. Un partito di destra, ma con la faccia al posto della faccia, a differenza di Pittella. Il quale continua il comunicato invitando il buon Alexis ad affrontare insieme le «sfide enormi come la lotta alla corruzione, all’evasione fiscale e alla disoccupazione», cioè gli effetti secondari delle cause che Pittella e sodali hanno favorito, ad esempio promuovendo i Mario Monti e i Papademos, i Jobs Act e le iniquità strutturali dell’attuale moneta.
L’economista anti-euro Alberto Bagnai si è affrettato a dire che Tsipras è solo uno specchietto per le allodole e che serve ad anestetizzare il dissenso. Anche lui, come altri, ha notato che Tsipras non sta guidando la Rivoluzione. Bagnai trascura però un fatto che ha messo bene in luce Giuseppe Masala: le armi in mano al nuovo primo ministro greco sono poche e spuntate, mentre tante armi potenti sono in mano straniera. Tsipras potrà fare politica e trovarsi alleati in Europa, ma l’esperimento (e anche l’incendio del laboratorio) è ancora in corso.
Nelle condizioni attuali, Tsipras non vuole fare la forzatura di una spallata rivoluzionaria: il suo è puro realismo politico.
In troppi dimenticano che il primo partito greco, Syriza, ha ottenuto solo il 36,3% dei voti validi, i quali a loro volta sono da calcolare su appena il 64% del corpo elettorale. Tsipras conosce bene una famosa frase del segretario del Partito Comunista Italiano Enrico Berlinguer, a suo tempo molto meditata: «Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare... questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l'opera di un governo che fosse espressione di tale 51 per cento.»
La frase è del 1973: in Cile è appena andato al potere il generale golpista Pinochet che ha rovesciato Allende, mentre i colonnelli governano ancora Atene. Il dollaro da due anni non è più convertibile in oro, e la domanda di dollari esplode con il boom del prezzo del petrolio. In Italia settori rilevanti delle classi dirigenti atlantiste fanno sentire “tintinnio di sciabole”, in piena strategia della tensione. Berlinguer propone una forza di governo a un paese a sovranità limitata, condizionato da leve che non sono nelle sue mani, per lui ancora irraggiungibili. Con la proposta del “compromesso storico” punta a far tollerare al campo internazionale in cui si trova, all’interno del Patto Atlantico, l’arrivo al governo di una forza in crescita, eterodossa, formatasi con schemi diversi rispetto agli schieramenti organici alla politica occidentale, e per giunta in storici rapporti con l’URSS, nell’altro campo internazionale. Anni dopo, in un’intervista, Berlinguer arriva anche a dichiarare che si sente più sicuro sotto l’ombrello protettivo della NATO che sotto il Patto di Varsavia. Il segretario del PCI porta ai limiti estremi l’ipotesi difficilissima di cambiare la vita di uno Stato sulle ali di un risultato elettorale che non si prefigge un “cambio di campo” della nazione.
Finché in Italia ci furono partiti forti e di massa, questi esercitarono una semi-sovranità in grado di correggere e contenere l’esercizio di poteri sovrani esterni che limitavano la sovranità italiana. Ma c’era evidentemente un limite invalicabile, oltre il quale la semi-sovranità soccombeva ai rapporti di forza opachi del sistema atlantico.
Similmente, Tsipras ha massimizzato la forza politica ottenibile con il voto degli elettori in presenza di una proposta di governo riformatrice, consapevole di muoversi all’interno di vincoli letteralmente incontrollabili.
È soltanto con il senno del poi che possiamo dire che la strategia di Berlinguer non avrebbe mai potuto ottenere i suoi obiettivi. Ma con il senno di chi agiva allora era una scommessa difficilissima, purtuttavia degna di essere perseguita.
Allo stesso modo, anche la scommessa di Alexis Tsipras è estremamente difficile, perché è condizionata da un campo internazionale molto maldisposto verso spinte contrarie al vento neoliberista, nel momento in cui sul piano militare si moltiplicano i focolai di guerra lungo i confini sempre più larghi della NATO, e sul piano economico si va a grandi passi verso una “NATO economica” da regolare con i nuovi trattati atlantici sul commercio e la finanza, con l’obiettivo di abbattere il ruolo della Russia e consolidare un’Europa più debole, In quel contesto, avremmo una Germania gendarme, circondata da un immenso Mezzogiorno europeo impoverito: la versione upgraded del Laboratorio greco. Un incubo reale.
Per parte nostra, è però interessante notare che le strade non siano state tutte percorse, e il futuro riservi quote di imprevedibilità in grado di scottare gli scienziati pazzi. Il nuovo ministro greco delle Finanze, Yanis Varoufakis, un comunista determinato e molto preparato, parla l’inglese meglio dei maggiordomi europei che biascicano un misero anglofinanziese. Il suo è l’inglese con cui conversa ogni giorno con il suo carissimo amico James Galbraith, figlio del grande economista John Kenneth, a sua volta primo consigliere economico di John F. Kennedy e indimenticato autore di “L’economia della truffa”, un libro che faceva già anni fa il ritratto dei nemici della Grecia. I nemici di tutti noi.

Rispetto agli anni settanta prima descritti ora interviene una dose maggiore di caos sistemico. Ai piani alti scommettono sulla controllabilità di questo caos per ottenere nuovi vantaggi, ma non è affatto detto che possano controllare tutto. Attori politici sufficientemente coraggiosi potrebbero cambiare lo scenario. Anche in Italia. Purché sia gente che studi a fondo la figura di Gennaro Migliore, per poi comportarsi in maniera esattamente contraria. Purché sia gente che studi il M5S, ne colga la carica innovativa e ne rigetti le sue tristi derive che portano a un vicolo cieco.

Non ci stancheremo infine di far notare che in Europa hanno voluto aprire un altro importante laboratorio di sperimentazione, stavolta in chiave militare, la crisi ucraina, un golpe a trazione americana, con Kiev occupata da plenipotenziari neocoloniali dell’élite oligarchica e finanziaria, e il Donbass percorso da milizie nazistoidi e da mercenari. Le stesse classi dirigenti che hanno consentito per anni lo scempio della Grecia, chiudono gli occhi di fronte allo scempio dell’Ucraina, dove si stanno incubando i germi di un nuovo modello violento e nazistoide, magari da ibridare con il laboratorio finanziario greco. È perciò significativo che uno dei primissimi pronunciamenti del governo Tsipras sia stato quello di sconfessare il comunicato dei leader europei che prefigurava nuove sanzioni contro la Russia, con tanto di telefonata di Tsipras all'Alto rappresentante UE Federica Mogherini per esprimerle solennemente «il suo malcontento».
La Grecia diventerà un soggetto combattivo. L'Europa che ha affossato il gasdotto South Stream ma non vuole rinunciare al gas dovrà passare proprio dalla Grecia, visto che le pipelines convergeranno in Turchia. L'esperimento greco riserverà sorprese inattese.
Intanto, un fenomeno elettorale nuovo, Podemos, in Spagna, anch'esso con il vento in poppa, individua già un tema chiave: uscire dalla NATO. Il concetto può diventare a sua volta un laboratorio, questa volta in mani popolari, per costruire le premesse della vera libertà e della pace europea. 




21 gennaio 2015

Un generale francese: 'L'ISIS l'hanno creato gli USA'

Il generale Desportes rinuncia a parlare con "langue de bois", e in Parlamento denuncia le responsabilità dirette di Washington nell'espansione dell'ISIS.


da Agence Info Libre.

Il 17 dicembre 2014 la commissione per gli Affari Esteri, per la Difesa e per le Forze Armate ha dibattuto in seduta pubblica la proroga dell'operazione “Chammal” in Iraq. Presieduta da Jean-Pierre Raffarin, la commissione ha sentito − durante la discussione – il generale di seconda sezione Henri Bentégeat [1], ex capo di stato maggiore delle forze armate, il generale di corpo d’armata Didier Castres, vicecapo operativo di stato maggiore, l’on. Hubert Védrine, ex ministro degli Esteri, il generale di divisione a riposo Vincent Desportes − professore associato presso la facoltà di Scienze Politiche di Parigi − e l’on. Jean-Yves Le Drian, ministro della Difesa.

Rivediamo in dettaglio l'intervento del generale Vincent Desportes. Iniziando il suo discorso con una breve presentazione dell’ISIS (Daech), nel mettere soprattutto in evidenza il vero pericolo di questo gruppo terroristico rispetto ai nostri interessi vitali, ha detto senza mezzi termini :
Chi è il dottor Frankenstein che ha creato questo mostro? Diciamolo chiaramente, perché ciò comporta delle conseguenze: sono gli Stati Uniti. Per interessi politici a breve termine, altri soggetti – alcuni dei quali appaiono come amici dell'Occidente − hanno contribuito, per compiacenza o per calcolata volontà, a questa creazione e al suo rafforzamento, ma le responsabilità principali sono degli Stati Uniti. Questo movimento, con la fortissima capacità di attrarre e diffondere violenza, è in espansione. È potente, anche se è caratterizzato da punti profondamente vulnerabili. È potente, ma sarà distrutto. Questo è certo. Non ha altro scopo che quello di scomparire.
Ecco chi ha il pregio di essere chiaro!
Mettendo in guardia i membri della commissione sulle implicazioni di una guerra in un contesto di ridimensionamento delle nostre forze, il generale Desportes ha aggiunto:
In bilancio, di qualsiasi esercito si tratti, ci siamo impegnati oltre situazioni operative standard, nel senso che ogni esercito sta usando le proprie risorse senza avere il tempo di rigenerarle. In termini reali abbiamo forze insufficienti: per compensare, a livello sia tattico che bellico, le facciamo girare a un elevatissimo ritmo di utilizzo. Vale a dire che, se continua questo sovraccarico di impiego, l'esercito francese si troverà nella situazione dell’usurato esercito britannico in Iraq e in Afghanistan, costretto da alcuni anni a interrompere gli interventi e rigenerare le proprie risorse “a casa". Il notevole sforzo prodotto ora a favore degli interventi avrà ripercussioni forti e quantificabili sulle forze nel nostro Paese, in particolare in termini di prontezza operativa. Il senso di responsabilità impone di sfatare definitivamente il mito della guerra breve.
Dopo alcuni cenni sulle basi della strategia militare, il generale Desportes ha delineato una serie di cinque principi che dovranno guidare qualsiasi decisione di intervento .

Secondo il primo principio, ci si deve impegnare solo se si può controllare il livello strategico. Se questo precetto non è rispettato, è evidenziato il rischio di usare le proprie forze armate col discredito e la perdita d’immagine che ne conseguono.
È il caso della Francia in Afghanistan: ha fatto una "guerra americana" senza un controllo strategico d'insieme, senza controllo sullo svolgimento delle operazioni e senza controllo sulla direzione della coalizione.

Il secondo principio dice che si deve intervenire solo laddove ci sia “senso strategico”.
La Francia è grande nel mondo, in particolare per il suo posto nel Consiglio di sicurezza dell'ONU, ma poiché questo posto le viene contestato ogni giorno, deve difenderlo e legittimarlo ogni giorno. E può farlo solo attraverso la sua capacità di gestione utile dei focolai di tensione del mondo. Il che, tra l'altro, richiede assolutamente la necessità di rafforzare la nostra capacità di agire come "nazione guida" e di "entrare per primi". Non ci sono dubbi: il nostro posto tra i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell'ONU e la nostra influenza nelle questioni mondiali si basano in primo luogo sulla nostra capacità di agire concretamente nelle situazioni di crisi (capacità e credibilità).
Terzo principio: occorre definire obiettivi raggiungibili. Prendendo l'esempio dell'Afghanistan, Desportes dice che «gli obiettivi hanno assai rapidamente deviato e superato i mezzi di cui disponeva la coalizione (soprattutto in termini di tempi e di capacità di controllo dello spazio terrestre)».

Quarto principio: intervenire solo quando l'azione considerata è compatibile con i mezzi a disposizione, immediatamente e nel lungo termine. Essendo uno dei primi ad avere criticato pubblicamente il Libro bianco sulla difesa del 2013, il generale Desportes ha dichiarato:
Il Libro bianco 2013 parla di «volume di forze sufficienti». In effetti, come è noto, l'operazione “Serval” è stata una scommessa estremamente rischiosa, a causa del basso volume di forze dispiegate combinato con la grande obsolescenza della maggior parte delle attrezzature impiegate. L'operazione “Sangaris” un azzardo finito male, poiché la scommessa fatta sulla "sorpresa iniziale" non è stata vinta. Poi la negazione della realtà unita alla nostra mancanza di risorse ha impedito l'adattamento della forza alla reale situazione sul campo e allo schieramento immediato dei cinquemila uomini che erano indispensabili.
Quinto principio: non fare il primo passo senza considerare l'ultimo.
Ciò significa che si devono valutare − senza condizionamenti ideologici, senza essere ciechi − le conseguenze di un intervento, soprattutto se non si intende arrivare fino in fondo.
Al termine del suo discorso, il generale Desportes ha continuato a mettere sull’avviso i membri della Commissione sul decadimento delle nostre forze armate.
L’evidente sottodimensionamento della spesa operativa produce significativi effetti negativi di cui deve essere consapevole chi decide. Anzitutto, apprendere dai media − senza una chiara smentita − che i corpi militari spendono ingiustificatamente il magro bilancio francese evidenzia il fallimento morale, dal momento che i nostri soldati combattono su tutti i fronti, per la Francia e ai suoi ordini, con risorse veramente troppo scarse. Inoltre c’è che siamo sempre sotto il livello della "massa critica": questo sottodimensionamento del budget ha un impatto diretto sia sul successo delle operazioni sia sulla sicurezza dei nostri soldati, che finiscono per ritrovarsi messi in pericolo.
A proposito dell’operazione “Chammal”, il generale dichiara:
Giungo a Chammal dopo un paio di giri, lo ammetto, ma non si perde mai tempo a prendere un momento di distanza strategica, in un’epoca in cui la tendenza è proprio quella di ragionare in fretta, in termini di spese di cassa, su problemi che richiedono tempi lunghi e investimenti pesanti. Non mi trattengo sull’attuale sconcertante contraddizione tra, da un lato, il conflitto del mondo alle nostre porte, nel nostro est, nel nostro sud-est, nel nostro sud, la moltiplicazione dei nostri interventi e, dall’altro lato, il deterioramento rapido e profondo delle nostre capacità di bilancio con, a valle, quello delle nostre capacità militari. A destra e a sinistra lo sanno tutti; alcuni, troppo pochi, lo dicono. [...] E allora? Atteniamoci al ben noto principio della guerra, il principio di concentrazione... o alla sua versione popolare: “chi troppo vuole nulla stringe”. Smettiamo di espanderci! Guardiamo in faccia la realtà.
Stato islamico. "ISIS delenda est": certamente! Siamo profondamente solidali, ma non siamo in alcun modo responsabili. I nostri interessi esistono, ma sono indiretti. Da quelle parti le nostre capacità sono limitate e irrisorie, rispetto agli Stati Uniti, e la nostra influenza strategica è estremamente limitata.

Traduzione per Megachip a cura di Emilio Marco Piano.


NOTA

[1] Il termine “di seconda sezione” significa che il generale ha lasciato il servizio attivo ed è passato a disposizione del ministro della Difesa, NdT.

19 gennaio 2015

NON Cooperanti

di Pino Cabras.
 
La giovane età di Vanessa Marzullo e Greta Ramelli corrisponde alla stagione coraggiosa degli eroi che si immolano per una causa così come a quella dei combattenti che attraversano consapevolmente i piani bassi dei doppiogiochismi. Non mi convincono minimamente i discorsi che le trattano da "ragazzine". Alla loro età ero già una persona strutturata, bene o male. Sento una continuità profondissima con quel che pensavo o sentivo allora: il contenuto è lo stesso di quel tempo, solo la busta è un po' sgualcita. Vanessa e Greta hanno fatto dunque delle scelte adulte, nella loro busta ancora nuova e fortunatamente intatta.
Quindi sgombriamo il campo dall'altro aggettivo/sostantivo. Marzullo e Ramelli NON hanno agito da "cooperanti", laddove con questo termine s'intendano agenti pubblici o non governativi che portano avanti azioni di Cooperazione allo Sviluppo inquadrate ufficialmente nella politica estera italiana, gestita dalla Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri. L'attribuzione del termine "cooperanti" non è mai stata appropriata quando già sapevamo del loro coinvolgimento attivo in favore di una parte belligerante che aggrediva uno stato sovrano, composta da gruppi di estremisti che sono prevalentemente confluiti nell'ISIS, dietro lo schermo delle cancellerie europee che volevano favorire i gruppi "moderati". Tanto meno la definizione risulta giusta ora che conosciamo i contenuti delle intercettazioni dei carabinieri, che hanno registrato i colloqui delle due italiane con i militanti siriani. È invece calzante e oggettivo definirle "attiviste schierate", perché la loro prima preoccupazione non era lo sviluppo rurale né l'ambiente o l'educazione: era il retroterra sanitario dei combattenti impegnati in azioni militari.
Se la loro fosse ingenuità o corresponsabilità lo chiariranno le indagini. Queste vanno fatte, perché al tempo dei loro contatti con i combattenti ribelli siriani, erano già accessibili centinaia di video sui metodi della galassia jihadista in Siria. Le decapitazioni più patinate e hollywoodiane son venute dopo, ma YouTube offriva già tutto quel che c'era da sapere in proposito, comprese le teste tagliate, filmate da cellulari con mano malferma. E non era un bel vedere. 
Le due donne italiane intrattenevano rapporti che le portavano a casa di combattenti inquadrati fra i responsabili di quelle azioni, non presso un'ipotetica società civile.
Infine alcune considerazioni sul dopo. Se si è pagato un riscatto che salva la vita di due persone occidentali, dobbiamo domandarci quali effetti potrà avere questo versamento per molte persone siriane. Con dodici milioni di euro - ammesso che la cifra sia quella - si può pagare un anno di stipendi di centinaia e centinaia di miliziani, che potranno integrarli con altri aiuti ufficiali e ufficiosi di vari Stati che da quattro anni in qua forniscono armi, addestramento e denaro per tenere in piedi la guerriglia in Siria. L'esercito siriano, dovendosi occupare di questa spina nel fianco, ha perciò meno forza sul fronte dell'ISIS, che infatti non sta indietreggiando.
Aggiungo: chi ci dice che il flusso di denaro che alimenta lo jihadismo si ferma in Siria? I soldi passano veloci di mano in mano, possono andare anche in Nigeria, dove qualcuno starà pure equipaggiando l'armata jihadista di Boko Haram, che in certi giorni ammazza mille persone, eppure non si guadagna le nostre prime pagine. Sono gli stessi media che si chiedono ancora chi mai abbia addestrato i massacratori di Parigi. Che fine fanno queste distrazioni del nostro mondo, mentre interi mondi geopolitici si surriscaldano lasciando in terra migliaia di vittime?
È questo quel che vogliamo?
Queste sono le ragioni per cui ritengo che la vicenda di questo strano rapimento non sia da trattare in modo sbrigativo, che vada indagata a fondo, e che non si debba fermare al dibattito tutto emotivo sulle ragazze che volevano il Bene.

14 gennaio 2015

Solidali con la stampa libera: altre vignette blasfeme

NOTA PRELIMINARE DI PINO CABRAS 
da Megachip.


Sulla vicenda di Charlie Hebdo consigliamo vivamente la lettura di questo potente e documentato articolo di Glenn Greenwald, il giornalista che ha fatto emergere con forza il caso di Edward Snowden (e tutto il "Datagate" sullo spionaggio totalitario in capo agli USA). Greenwald va dritto alla questione: la libertà di espressione vantata da governi e media occidentali, nonostante il motto "Je suis Charlie", è una costruzione ipocrita, nella quale a lungo si era inserito il pezzo di narrazione della rivista francese. Il grande giornalista americano lo spiega con molti esempi, link, e anche molti disegni. 

Aggiungiamo qui alla sua casistica una vicenda eclatante: proprio oggi la cronaca ci propone il caso del comico francese Dieudonné: da un anno in qua gli viene impedito di lavorare con ogni tipo di vessazione politica, mediatica, legale, amministrativa e fiscale, viene perseguitato e accusato ingiustamente di aver inventato un saluto nazista rovesciato (la famosa "Quenelle", che non ha nulla a che fare con il nazismo), ogni sua battuta viene soggetta a un linciaggio mediatico, travisata, piegata paranoicamente fino a leggervi perfino l'apologia del terrorismo. Il primo ministro Manuel Valls, lo stesso che figurava fra i lugubri potenti che marciavano a Parigi in nome della libertà anche dei pensieri più estremi, dice a proposito di Dieudonné «Il razzismo, l’antisemitismo, il negazionismo e l’apologia di terrorismo non sono opinioni, sono reati» aggiungendo che occorre essere «implacabili» nel battersi «contro il terrorismo, certamente, ma anche contro la parola che uccide, la parola di odio»
Orwell chiamava questo modo patologico di pensare con la parola "bispensiero". Tutto l'Occidente ne è permeato, come illustra bene l'articolo di Greenwald, e ciò ci dovrebbe far molta più paura di qualsiasi falso spauracchio agitato dai politicanti atlantisti.

Buona lettura.
P.C.

AGGIORNAMENTO DEL 14 GENNAIO 2015, h. 10.00. Dieudonné arrestato
Stamattina Dieudonné è stato arrestato per "apologia del terrorismo". Il livello di pericolo per le libertà civili in Europa è tale da dover accendere tutte le lampadine dell'emergenza democratica.

Solidali con la stampa libera: altre vignette blasfeme 

di Glenn Greenwald.

Difendere il diritto alle libertà di parola e di stampa, che in genere significa difendere il diritto di diffondere proprio le idee che la società trova più ripugnanti, è stata una delle mie principali passioni durante gli ultimi vent’anni, primacome avvocato e ora come giornalista. Ritengo quindi positivo quando un gran numero di persone si appella a gran voce a questo principio, come sta accadendo nelle ultime 48 ore in risposta al terrificante attacco al Charlie Hebdo a Parigi.

Di solito la difesa del diritto alla libertà di parola è molto più di un compito isolato. Il giorno prima degli omicidi di Parigi, per esempio, ho scritto un articolo su parecchi casi in cui dei musulmani sono stati perseguiti e perfino incarcerati da governi occidentali per loro opinioni politiche espresse online: attacchi che hanno provocato proteste relativamente piccole, anche da parte di quei paladini della libertà di parola che si sono tanto fatti sentire questa settimana.

Mi sono già occupato di casi in cui dei musulmani sono stati reclusi per molti anni negli Stati Uniti per cose come traduzione e pubblicazione di video "estremisti" in Internet, l’ho fatto scrivendo dotti articoli in difesa di gruppi palestinesi ed esprimendo dure critiche su Israele, perfino includendo un canale tv di Hezbollah nell’abbonamento via cavo. Tutto questo è ben al di là dei numerosi casi di posti di lavoro persi o delle carriere distrutte per aver espresso critiche a Israele o (fatto molto più pericoloso e raro) all'ebraismo. Spero che la celebrazione dei valori della libertà di parola di questa settimana genererà in occidente una diffusa opposizione a tutte queste annose e crescenti violazioni dei diritti politici fondamentali, non solo ad alcune.

Centrale per l’attivismo in difesa della libertà di parola è sempre stata la distinzione tra la difesa del diritto di divulgare l’Idea X e l’approvare l’Idea X, una cosa che solo i più ingenui fra noi non sono in grado di comprendere: si difende il diritto di esprimere idee ripugnanti pur essendo in grado di condannare l'idea in sé. Non c'è una contraddizione indiretta in questo: l’Unione Americana per le Libertà Civili (ACLU) difende con vigore il diritto dei neonazisti di manifestare davanti a una comunità piena di sopravvissuti all'Olocausto a Skokie, Illinois, ma non si unisce alla manifestazione; essi invece a gran voce disapprovano come grottesche le idee in questione pur difendendo il diritto di esprimerle.
Ma la difesa, questa settimana, del diritto di libertà di parola era così vivace che ha dato origine a un principio nuovo di zecca: difendendo la libertà di parola non solo si difende il diritto di divulgare il pensiero, ma si approva il contenuto del pensiero stesso. Molti scrittori hanno quindi chiesto che per mostrare “solidarietà” con i disegnatori assassinati non si debba semplicemente condannare gli attacchi e difendere il diritto dei disegnatori di pubblicare, ma si debba pubblicare e persino celebrare quelle vignette. «La miglior risposta all’attacco a Charlie Hebdo», ha dichiarato l'editore di Slate, Jacob Weisberg, «è quella di intensificare la satira blasfema».

Alcune delle vignette pubblicate da Charlie Hebdo non erano solo offensive ma faziose, come quella che deride le schiave del sesso africane di Boko Haram mostrandole come regine dei servizi sociali. 

Altre vignette sono andate molto oltre, inventando false violenze da parte di estremisti che agiscono in nome dell'Islam o anche solo raffiguranti Maometto con immagini degradanti, contenendo invece un fiume di scherno nei confronti dei musulmani in generale, che in Francia non sono per niente potenti ma sono principalmente una popolazione di immigrati presi di mira ed emarginati.

Ma non importa. Le loro vignette erano nobili e dovrebbero essere celebrate, non solo per motivi di libertà di parola ma per il loro contenuto. In un articolo di fondo intitolato "La bestemmia di cui abbiamo bisogno”, Ross Douthat del New York Times ha sostenuto che «il diritto di bestemmiare (e altrimenti di offendere) è essenziale per l'ordine liberale» e «quel tipo di blasfemia [che provoca la violenza] è proprio il tipo che ha bisogno di essere difeso perché è ciò che evidentemente serve al bene superiore di una società libera». Jonathan Chait del New York Magazine effettivamente ha dichiarato che «non si può difendere il diritto [di bestemmiare] senza difenderne l’esercizio». Matt Yglesias di Vox ha dato una visione molto più sfumata, ma ha comunque concluso che «bestemmiare il Profeta trasforma la pubblicazione di queste vignette da un atto inutile in uno coraggioso e perfino necessario, mentre l'osservazione secondo cui il mondo se la caverebbe bene senza tali provocazioni diventa una forma di acquiescenza».
Per conformarci a questo nuovo principio, su come ci si mostra solidali con il diritto di libertà di parola e con una energica stampa libera, pubblichiamo alcune vignette blasfeme e diversamente offensive sulla religione e i loro seguaci:








Ed ecco alcune vignette (ristampate con l’autorizzazione) per nulla-blasfeme-o-faziose però molto mordaci e pertinenti di un disegnatore brasiliano acutamente provocatorio, Carlos Latuff:

Trad:
- Religione dell’odio!
- Stop all’immigrazione!


Trad.:
Vignetta sui musulmani… «È libertà di parola!»
Vignetta sugli ebrei… «È antisemitismo!»







È giunto il momento per me di essere celebrato per la mia coraggiosa e nobile difesa del diritto di libertà di parola? Ho inferto un colpo potente a favore della libertà politica e dimostrato solidarietà col libero giornalismo pubblicando vignette blasfeme? Se, come ha detto Salman Rushdie, è fondamentale che tutte le religioni siano sottoposte a «mancanza di rispetto senza paura», ho fatto la mia parte per sostenere i valori occidentali?
Quando ho cominciato a vedere richieste di pubblicare queste vignette anti-islamiche, il cinico in me ha pensato che forse questo significava davvero solo sanzionare alcuni tipi di pensiero offensivo nei confronti di alcune religioni e dei loro seguaci, mentre proteggeva i gruppi più avvantaggiati. In particolare, l'Occidente ha passato anni a bombardare, invadere e occupare paesi islamici uccidendo, torturando e imprigionando senza legge musulmani innocenti, e il pensiero anti-islamico è stato un motore fondamentale per sostenere tali politiche.
Quindi è tutt’altro che sorprendente vedere un gran numero di occidentali celebrare vignette anti-islamiche non per motivi di libertà di parola ma perché ne approvano il contenuto. Difendere la libertà di parola è sempre facile quando ti piace il contenuto delle idee prese di mira o quando non appartieni al gruppo che viene diffamato (o decisamente non ti piace).
Infatti, è evidente che se uno scrittore specializzato in arringhe apertamente contro i neri o antisemitiche venisse ucciso per le proprie idee non ci sarebbero diffusi appelli per ripubblicare questa spazzatura per "solidarietà" con il suo diritto alla libertà di parola. Effettivamente, Douthat, Chait e Yglesias si sono sforzati di affermare in modo chiaro che il loro era un appello solo per la pubblicazione di tali idee offensive nel caso limitato in cui la violenza è minacciata o perpetrata in risposta (in pratica riferendosi, per quanto ne so, al pensiero anti-islamico). Douthat ha anche utilizzato il corsivo per evidenziare quanto fosse limitata la sua difesa della blasfemia: «Questo tipo di blasfemia è proprio quello che ha bisogno di essere difeso».
Si dovrebbe riconoscere una valida considerazione contenuta nella tesi Douthat/Chait/Yglesias: quando i mezzi di comunicazione si astengono dal pubblicare del materiale per paura (piuttosto che per una volontà di evitare la pubblicazione di materiale gratuitamente offensivo), come molti dei principali organi d’informazione occidentali hanno ammesso di fare con queste vignette, questo è veramente preoccupante, una reale minaccia per la stampa libera. Ma in Occidente ci sono tutti i tipi di tabù deleteri che si traducono in autocensura o nella repressione forzata di idee politiche, da azioni penali e incarceramenti alla distruzione di una carriera: perché la più minacciosa è la violenza dei musulmani? (Qui non sto parlando della questione se i media dovrebbero pubblicare le vignette perché fanno notizia, voglio porre l’attenzione sulla richiesta che siano pubblicate decisamente, con approvazione, per "solidarietà").
Quando all’inizio abbiamo discusso la pubblicazione di questo articolo per fare queste considerazioni, la nostra intenzione era quella di incaricare due o tre disegnatori di creare vignette che deridono l'ebraismo e denigrano le figure sacre per gli ebrei come Charlie Hebdo ha fatto con i musulmani. Ma questa idea è stata impedita dal fatto che nessun disegnatore occidentale normale avrebbe osato mettere il proprio nome su una vignetta antiebraica, neanche se fatta con intenti satirici, perché così facendo avrebbe immediatamente e definitivamente distrutto la propria carriera, come minimo. Nei media occidentali i commenti (e le vignette) contro l’Islam e i musulmani non valgono niente; il tabù − che è almeno altrettanto forte, se non di più − sono le immagini e le parole contro gli ebrei. Perché Douthat, Chait, Yglesias e i crociati per la libertà di parola che la pensano come loro non chiedono la pubblicazione di materiale antisemita in solidarietà o come mezzo per tener testa a questa repressione? Sì, è vero che organi di stampa come il New York Times in rari casi pubblicano immagini del genere, ma solo per documentare il fanatismo odioso e condannarlo, non per pubblicarlo per “solidarietà” o perché merita una divulgazione seria e rispettosa .
Con tutto il rispetto per la grande disegnatrice Ann Telnaes, non è vero che quelli di Charlie Hebdo «recavano offesa con parità di trattamento». Così come Bill Maher, Sam Harris e altri con l’ossessione islamofoba, prendere in giro l’ebraismo, gli ebrei e/o Israele è qualcosa che raramente (se non mai) fanno.
Se costretti, possono mostrare rari e isolati casi in cui pronunciano qualche critica al giudaismo o agli ebrei, ma la grande maggioranza dei loro attacchi sono riservati all'Islam e ai musulmani, non all'ebraismo e agli ebrei.
La parodia, la libertà di parola e l’ateismo secolare sono i pretesti; il messaggio anti-islamico è l'obiettivo principale e il risultato finale. E questo messaggio – questa speciale passione per l’offensivo pensiero anti-islamico – casualmente coincide, per alimentarla, con l'agenda e la cultura di politica estera militarista dei propri governi.

Per vedere quanto questo sia vero, si consideri il fatto che Charlie Hebdo − trasgressore secondo “parità di trattamento” e difensore di tutti i tipi di linguaggio offensivo – nel 2009 aveva licenziato uno dei propri autori per avere scritto una frase che qualcuno ha definito antisemita (l’autore era stato accusato di reato d'odio e ha poi avuto una sentenza favorevole contro la rivista per licenziamento senza giusta causa). “Parità di trattamento” vi sembra offensivo?
Non è vero nemmeno che minacciare violenza in risposta a opinioni offensive sia pertinenza esclusiva di estremisti che affermano di agire in nome dell'Islam. Corpus Christi, un’opera teatrale di Terrence McNally del 1998 raffigurante Gesù come gay, è stata ripetutamente annullata dai teatri a causa di minacce di attentati. Larry Flynt fu reso paraplegico da un evangelico fautore della supremazia bianca che si opponeva alla rappresentazione pornografica di coppie interrazziali nella rivista Hustler. Nel 2003, dopo che ebbero pubblicamente criticato George Bush per la guerra in Iraq, le Dixie Chicks furono sommerse da minacce di morte che resero necessaria una protezione massiccia e che alla fine le costrinsero a chiedere scusa per paura. La violenza provocata dal fanatismo ebraico e cristiano è diffusissima, dai medici abortisti assassinati ai locali gay bombardati e ai 45 anni di brutale occupazione della Cisgiordania e di Gaza a causa in parte della convinzione religiosa (che accomuna Stati Uniti e Israele) secondo cui Dio avrebbe sancito che loro sono i proprietari di tutto il territorio.
E questo è del tutto indipendente dalla sistematica violenza di Stato in Occidente sostenuta, almeno in parte, dal settarismo religioso .

David Brooks del New York Times oggi sostiene che il pregiudizio anticristiano è talmente diffuso in America – in cui non è mai stato eletto un presidente non cristiano − che «l’Università dell’Illinois ha licenziato un professore che insegnava la visione cattolica romana sull'omosessualità». Brooks ha dimenticato di dire che lo stesso ateneo ha appena rescisso il contratto di ruolo con il professor Steven Salaita per i tweet che ha pubblicato durante l'attacco israeliano a Gaza, che l'università ha giudicato eccessivamente ingiuriosi verso i leader ebrei, e che al giornalista Chris Hedges è stato appena revocato l’invito a parlare presso l'Università della Pennsylvania per il reato d’opinione di tracciare somiglianze tra Israele e l’ISIS.
Questo è un vero tabù − un'idea repressa − potente e assoluto come nient’altro negli Stati Uniti, tanto che Brooks non riuscirà nemmeno a riconoscerne l’esistenza. Negli Stati Uniti è certamente più un tabù questo che criticare i musulmani e l'Islam, critica che si sente così spesso negli ambienti mainstreamcompreso il Congresso − che si nota a malapena di più.

Questo sottolinea il punto chiave: in Occidente ci sono idee e punti di vista di tutti i tipi che vengono repressi. Quando quelli che richiedono la pubblicazione di queste vignette anti-islamiche cominceranno a chiedere anche la pubblicazione favorevole di quelle idee, io crederò alla sincerità dell’applicazione molto selettiva dei loro principi di libertà di parola. Si può difendere la libertà di parola senza dover pubblicare, figurarsi accettarle, le idee offensive prese di mira. Ma se non è così, diamo uguale applicazione a questo nuovo principio.


Foto di Joe Raedle/Getty Images; ulteriori ricerche a cura di Andrew Fishman

Fonte: https://firstlook.org/theintercept/2015/01/09/solidarity-charlie-hebdo-cartoons.
Traduzione per Megachip a cura di Emilio Marco Piano.



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