29 agosto 2010

Solidarietà con l'Occhio di Ground Zero

di Pino Cabras – da Megachip.


Il 25 agosto 2010, in una piazza storicamente importante per la difesa dei diritti umani e la resistenza alle persecuzioni, Plaza de Mayo, a Buenos Aires, esponenti di primo piano della società civile argentina hanno promosso una raccolta di firme in favore di Kurt Sonnenfeld, il cameraman di Ground Zero coinvolto in un’assurda vicenda giudiziaria.

In prima fila, a incontrare le sensibilità di cittadini e intellettuali argentini è Luis D’Elia, un dirigente politico combattivo che sin dagli inizi ha preso a cuore la sorte di Sonnenfeld, attualmente rifugiato in Argentina. È nel paese che lo ospita e dove si è rifatto una vita che Sonnenfeld ha raccontato in un libro, El Perseguido, la sua sorte di cittadino statunitense nel mirino del Governo di Washington, con gravissime accuse a suo carico in relazione alla morte della prima moglie, apparse in concomitanza del suo possesso degli scottanti filmati che raccontano un post 11 settembre diverso da quello ufficiale.
Come testimone diretto della tragedia dell’11/9, il suo resoconto contraddice molti punti delle verità divulgate dalle autorità USA.
«Gli Stati Uniti continuano a minacciare l’integrità della mi famiglia e pretendono di farsi beffe della sovranità argentina. Hanno incrementato le loro molestie e la loro aggressività, hanno hackerato il nostro sito web, ci contattano delle presunte persone le cui e-mail provengono dal Dipartimento della Difesa e ad oggi abbiamo preso conoscenza del fatto che hanno introdotto documenti falsi per ingannare le autorità argentine e sottoporle a pressioni», ha precisato Kurt Sonnenfeld.
Paula, la moglie argentina dell’uomo che è stato il vero occhio di Ground Zero, una giurista esperta di leggi di immigrazione, spiega la spettacolare irritualità delle azioni provenienti sul caso dal Nord America: «L’Interpol di Washington ha inviato un documento alla giustizia argentina carico di informazioni “inesatte”, nel quale si cerca di mettere in moto e dirigere il processo di estradizione, e nel quale si prega che li si informi “se si possono prendere delle misure” su mio marito. È degno di nota che, in base al proprio statuto e alle disposizioni generali di Interpol, è tassativamente vietato il suo intervento nei procedimenti giudiziari e politici.»
L’invito a firmare a sostegno di Sonnenfeld è rivolto «a tutte le persone di buona volontà» e mira a fargli ottenere il Rifugio Definitivo o l’Asilo Permanente in Argentina. Paula Sonnenfeld ricorda che «gli Stati Uniti hanno già tentato di disumanizzare e silenziare Kurt definitivamente; è stato torturato e incarcerato falsamente nel suo paese».
Kurt Sonnenfeld chiede di «lavorare insieme per salvare l'integrità della nostra famiglia e la mia vita. È angosciante l’incertezza e il disagio che colpisce le nostre vite e cosa questo significhi per le nostre piccole figlie».
Sonnenfeld ha ricevuto in tutti questi anni il soccorso e l'impegno delle più importanti organizzazioni sociali e dei diritti umani a livello mondiale.
Tra le iniziative di sostegno alla battaglia di Sonnenfeld nell’ottobre 2009 ci fu una conferenza di Giulietto Chiesa a Buenos Aires. Chiesa ricorda bene il clima emozionante di quell’incontro. E oggi? «È una vicenda ancora attuale e in corso di definizione – spiega Chiesa – e richiede il massimo di attenzione affinché non sia spenta una voce così importante: Sonnenfeld ha già pagato un tributo personale pesantissimo.» Il destino di chi rivela cose scomode per l’Impero, come dimostra la recente vicenda di Julian Assange di Wikileaks, trova subito canali di persecuzione molto insidiosi.
È necessario più che mai essere solidali con chi è “perseguido”.


Per maggiori dettagli si veda il sito: http://elperseguido.wordpress.com/como-ayudar.

23 agosto 2010

“Basta con queste dannate simulazioni”: i radar del NORAD visualizzavano falsi tracciati nel corso dell'11/9

di Shoestring911
Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.




Il personale militare responsabile della difesa dello spazio aereo USA aveva dei falsi tracciati visualizzati sui propri schermi radar per tutta la durata degli attentati dell’11 settembre 2001, come parte della simulazione per un esercitazione in corso quel giorno. I tecnici del NEADS (Northeast Air Defense Sector) del NORAD stavano ancora ricevendo le informazioni radar simulate intorno al momento in cui aveva luogo il terzo attacco, quello al Pentagono.

Coloro che si trovavano presso la centrale operativa del NORAD a Cheyenne Mountain, in Colorado, le stavano ricevendo diversi minuti dopo che il volo United Airlines 93 si era apparentemente schiantato nella Pennsylvania rurale. Nessuno ha indagato sul perché i falsi tracciati abbiano continuato a essere immessi sugli schermi radar del NORAD molto tempo dopo che i militari americani erano stati allertati per la crisi che stava avendo luogo nel mondo reale quella mattina. E ancora occorre di sapere di più in merito a questi “input” simulati e su quali effetti abbiano avuto nei confronti della capacità dei militari di far fronte agli attacchi dell’11/9.

I TECNICI NEADS DISSERO DI SPEGNERE I “PULSANTI DELLA SIMULAZIONE”
Gli attacchi terroristici dell'11 settembre 2001 hanno avuto luogo in uno spazio aereo la cui responsabilità spettava al NEADS, con sede a Rome, nello stato di New York. Il NEADS aveva pertanto il compito di tentare di coordinare la risposta militare ai dirottamenti. Eppure, nel bel mezzo di tutto questo, alle ore 9,30 quella mattina un membro dello staff al centro operativo del NEADS si è lamentato del materiale simulato che appariva sugli schermi radar del NEADS. Si è sfogato: «Sapete una cosa, dobbiamo sbarazzarci di questa dannata simulazione. Fate in modo che le vostre simulazioni si spengano. Sbarazziamoci di questa merda.» [1]
Quattro minuti più tardi, il tecnico sergente Richmond Jeffrey ha dato un ordine ai tecnici di sorveglianza del NEADS, «A tutta la sorveglianza, spegnere gli interruttori sim.» (Un "interruttore sim" permette presumibilmente a un tecnico di visualizzare o disattivare qualsiasi materiale simulato sullo schermo del radar.) [2]
Questo significa che almeno alcuni degli schermi radar al NEADS stavano ancora visualizzando informazioni simulate - presumibilmente falsi tracciati - 57 minuti dopo che un controllore del traffico aereo al Centro FAA di Boston aveva chiamato lì per annunciare: «Abbiamo un problema. Abbiamo un aereo dirottato che si dirige verso New York.» Quarantotto minuti erano passati da quando il primo attacco al World Trade Center era accaduto, e 31 minuti da quando la seconda torre fu colpita e divenne evidente che gli Stati Uniti erano sotto attacco. Fu appena tre minuti dopo che Richmond aveva impartito i suoi ordini, alle ore 9,37, che il Pentagono fu colpito nel terzo attentato riuscito di quella mattina. [3]
Perché gli schermi radar del NEADS stavano raffigurando informazioni simulate ancora per così a lungo durante la crisi non virtuale, quando risulta che i tecnici avrebbero potuto rimuovere tali informazioni con il semplice click di un interruttore? Sicuramente ogni falso tracciato avrebbe potuto ostacolare la capacità del personale NEADS di rispondere efficacemente agli attacchi, perciò avrebbe dovuto essere terminato al primo segno di un'emergenza reale.
Eppure questo comportamento inspiegabile non era un'eccezione. Una cosa simile è successa presso il Cheyenne Mountain Operations Center (CMOC) del NORAD in Colorado, dove sembra che i falsi tracciati radar siano stati esposti per molto più tempo che al NEADS.

IL CENTRO OPERATIVO DEL NORAD CHIEDE CHE ‘GLI INPUT PER LE ESERCITAZIONI’ SIANO FERMATI
Alle ore 10,12, un ufficiale al centro operativo NORAD, il “capitano Taylor”, chiamò il NEADS e parlò con il capitano Brian Nagel, la persona che capeggiava gli esercizi live che vi si svolgevano. Dopo essersi presentato, Taylor dichiarò: «Ciò che ci serve che voi facciate all'istante è di terminare tutti gli input delle esercitazioni in ingresso a Cheyenne Mountain.» Nagel dette a Taylor un numero interno e gli chiese di chiamarlo per far sì che gli input di esercitazione fossero bloccati. Taylor rispose: «Lo farò». [4]
Gli "Input", secondo un articolo di «Vanity Fair», sono scenari simulati che vengono messi in campo da una squadra di simulazioni durante le esercitazioni addestrative. [5]
Taylor presumibilmente si riferiva in particolare ai falsi tracciati che erano stati trasmessi sugli schermi radar presso il CMOC, dove più di 50 membri della squadra di battaglia stavano partecipando all'esercitazione condotta quella mattina. [6]
In effetti, il «Toronto Star» ha riferito che «Tutte le informazioni simulate, le cosiddette iniezioni, erano state «epurate dagli schermi» presso il CMOC in risposta alla notizia degli attacchi del mondo reale. (Tuttavia, l’articolo indicava, a quanto pare erroneamente, che i falsi tracciati che apparivano sugli schermi CMOC erano stati conclusi in precedenza, in un periodo poco prima delle ore 9,03, quando la seconda torre del WTC fu colpita.) [7]
Se del materiale simulato risultava ancora visualizzato sugli schermi radar CMOC alle ore 10,12, questo sarebbe sorprendente. A quel punto, 95 minuti erano passati da quando - secondo la Commissione sull’11/9 – i militari furono avvisati del dirottamento del Volo 11 dell’American Airlines, e più di un'ora era passata dopo che il secondo aereo aveva colpito il WTC. Il Volo 93 era apparentemente caduto in un’area rurale della Pennsylvania pochi minuti prima, e così gli attacchi dell’11/9 erano già finiti. [8]
Perché per qualcuno al CMOC c'è voluto così tanto tempo per chiamare il NEADS e chiedergli di porre fine a «tutti gli input in ingresso a Cheyenne Mountain?» Sicuramente qualsiasi informazione simulata avrebbe dovuto essere interrotta non appena il NORAD era venuto a conoscenza della crisi reale e non virtuale che stava avendo luogo quella mattina.
La centrale operativa era certamente in una posizione utile per coadiuvare la risposta agli attacchi terroristici, e dunque l'intrusione di falsi tracciati sui suoi schermi radar avrebbe verosimilmente ridotto in modo sensibile le capacità di risposta d’emergenza dei militari.
La rivista «Airman» ha descritto il CMOC come il «centro nevralgico del NORAD», e le sue truppe come «gli occhi e le orecchie del Nord America (...), nulla sfugge al loro sguardo insonne». [9]
Secondo il «Toronto Star», «che si tratti di una simulazione o un evento del mondo reale, il ruolo del centro è di fondere ogni pezzo critico di informazione che il NORAD possiede in un'istantanea concisa e cristallina».[10]
Il NORAD ha dichiarato che il centro raccoglie dati «da un sistema mondiale di satelliti, radar e altri sensori, e processa tali informazioni su sofisticati sistemi informatici a sostegno delle missioni critiche del NORAD e del Comando Spaziale degli Stati Uniti».
Il CMOC fornisce «preavviso su missili balistici o attacchi aerei contro il Nord America, assiste la missione sulla sovranità aerea per gli Stati Uniti e il Canada, e, se necessario, è il punto focale per le operazioni di difesa aerea volte a contrastare bombardieri nemici o missili da crociera». Il Centro di Gestione di Battaglia (Battle Management Center, nell’originale, ndt) in quel luogo forniva «comando e controllo per la sorveglianza aerea nonché una rete di difesa aerea per il Nord America». Nel 1994, per esempio, ha monitorato più di 700 tracciati radar "sconosciuti" che sono entrati nello spazio aereo nordamericano. [11]

Il NORAD INSERISCE INFORMAZIONI RADAR SIMULATE DURANTE LE ESERCITAZIONI
Delle informazioni simulate sono state trasmesse sugli schermi radar la mattina dell’11 settembre, nell'ambito di un’esercitazione annuale di comando e controllo denominata Vigilant Guardian. L’intero NORAD, compreso il NEADS, stava partecipando a questa esercitazione, che è stata descritta come una «guerra aerea simulata» e anche come «un’esercitazione di difesa aerea che simulava un attacco agli Stati Uniti». [12]
Una pagina di informazioni su Vigilant Guardian dichiarava: «Tutto il personale operativo del NEADS deve avere il proprio “sim switch” acceso su posizione “on” a partire dalle 1400Z 6 settembre 01 fino a “endex” [ossia la data di fine dell'esercitazione, originariamente fissata per il 13 settembre].»
La pagina delle informazioni aggiungeva: «Un tracciato di collaudo sim sarà in opera e riferito in avanti [cioè trasmesso a un livello di comando più elevato] sia al NORAD sia al CONR» della Regione NORAD Continentale degli Stati Uniti. Presumibilmente questo è stato il motivo per cui al centro operativo del NORAD era necessario contattare il NEADS per far sì che gli "input di esercitazione" fossero fatti cessare.[13]
Una nota che illustrava le istruzioni speciali per i partecipanti a Vigilant Guardian ha descritto il modo in cui le loro strumentazioni dovevano essere impostate per poter trattare con il materiale simulato. Vi si leggeva: «L'esercitazione sarà condotta in modalità sim sovrapposta alla diretta reale sulla stringa di sovranità aerea. Il Q-93 deve essere messo in modalità mista per consentire l’effettività [cioè la comunicazione di informazioni tra strumentazioni] dei tracciati sim». [14]
Il Q-93 è un pezzo importante delle strumentazioni utilizzate dal NORAD, descritto come «un insieme di computer e periferiche configurate per ricevere i dati dai sistemi radar a terra.» [15]
Ha «connettività con numerosi siti radar nazionali, riceve i piani di volo della FAA, e comunicazioni bi-direzionali con il quartier generale del NORAD nonché un collegamento in tempo reale con gli aerei AWACS [Airborne Warning and Control System].» Esegue «missioni di sorveglianza in tempo reale, identificazione, controllo degli armamenti.»[16]
Secondo il sergente maggiore Joseph McCain, tecnico del comandante di missione, del NEADS, «gli schermi radar Q-93 hanno la possibilità di condurre uno scenario di guerra con input multipli».[17]
In effetti, nel 1999, l'allora vice segretario della Difesa John Hamre ha rivelato che il NORAD potrebbe immettere «attacchi di massa» sui suoi schermi radar. [18]
Nel dicembre 1998, per esempio, ha condotto un esercizio chiamato Vigilant Virgo, che - a quanto riferito - «ha analizzato il grado di preparazione al [baco informatico] Y2K di tutta la rete a matrice dei radar di terra. Questi sistemi sono passati attraverso una serie di scenari che implicavano allerta tattico».[19]
Nel corso di questa esercitazione, il NORAD ha «iniettato trenta extra, ben oltre trenta eventi missilistici nei [propri] sensori». Si trattava di «dati che venivano iniettati come se fossero stati percepiti per la prima volta da un sito radar», secondo Hamre. Tra gli oltre trenta diversi scenari simulati, alcuni erano "attacchi di massa", mentre altri implicavano solo "singoli missili”.[20]

QUANDO FU TERMINATO VIGILANT GUARDIAN?
Dal momento in cui il NEADS e il centro operativo del NORAD stavano ancora ricevendo informazioni radar simulate molto dopo che gli attacchi dell’11/9 erano iniziati, si pone il problema di quando esattamente Vigilant Guardian è stata portata a termine.
Secondo alcune fonti, è stata cancellata "poco dopo" le ore 9,03, quando la seconda torre del WTC è stata colpita.[21]
Tuttavia, quando alle ore 9,15 un chiamante ha chiesto: «Hanno sospeso l'esercitazione?», il tecnico dei tracciati del NEADS Mark Jennings ha risposto: «Non in questo momento, no.» Jennings ha continuato: «penso che stiano per farlo», ma aggiunse: «Non lo so.» [22]
In effetti, un giornale militare ha indicato che Vigilant Guardian potrebbe essere stata interrotta più di mezz'ora dopo che gli attacchi erano finiti. Secondo un sito web di informazioni militari, GlobalSecurity.org, Vigilant Guardian si teneva ogni anno in concomitanza con un’esercitazione del comando strategico USA (Stratcom) denominata Global Guardian, e un rapporto del 1997 fornito dal Dipartimento della Difesa elencava similmente Vigilant Guardian come una delle diverse esercitazioni con le quali Global Guardian «si collegava». [23]
Un articolo di «The Bombardier», il giornale della base dell’aeronautica di Barksdale in Louisiana, ha affermato che lo Stratcom ordinò una pausa per Global Guardian alle ore 9,11 dell’11 settembre, ma soltanto alle ore 10,44 «interruppe formalmente» questa esercitazione.[24]
Considerando che i falsi tracciati erano ancora visualizzati sugli schermi radar del NORAD alle ore 10,12 - e che l'esercitazione del NORAD di quel giorno si svolgeva in congiunzione con Global Guardian – l’esercitazione Vigilant Guardian continuò similmente fino alle ore 10,44 circa, prima di essere "formalmente cancellata"?

QUESTIONI CRITICHE
Il fatto che figure chiave del personale dei centri operativi del NEADS e del NORAD avevano false informazioni che comparivano sui loro schermi radar durante gli attacchi dell’11/9 solleva interrogativi critici che devono ancora essere investigati. Abbiamo bisogno di sapere chi era responsabile per la trasmissione degli “input da esercitazione” sugli schermi radar. È stato riferito che c'era un "team per le simulazioni" che operava al NEADS la mattina dell’11 settembre. [25]
Era questo team a diffondere i falsi tracciati?
Se è così, chi erano i suoi membri? Perché hanno continuato con la simulazione, quando avrebbe dovuto essere evidente che si stava svolgendo una crisi del mondo reale? E perché i loro superiori non hanno loro ordinato di interrompere la trasmissione dei falsi tracciati?
Abbiamo anche necessità di scoprire quanti schermi radar al NEADS, al CMOC e presso altre strutture del NORAD lungo gli USA stessero ricevendo le informazioni simulate. E quali scenari sono stati trasmessi sugli schermi? Considerando che Vigilant Guardian è stato descritto come una "guerra aerea simulata", si potrebbe supporre che molti falsi tracciati venivano visualizzati.
Inoltre, occorre sapere se il personale era in grado di distinguere i tracciati radar autentici da quelli simulati. Vale la pena notare che sin da metà anni novanta era disponibile uno strumento denominato PAC-3 Mobile Flight Mission Simulator (MFMS), in grado di simulare una vasta gamma di veicoli aerei nemici. Il MFMS è stato utilizzato dalla US Army in esercitazioni prima dell’11/9. Soprattutto, è stato riferito che «le rappresentazioni grafiche dei tracciati MFMS» sugli schermi radar erano «niente di diverso da quelle dei tracciati reali». Per distinguere tra tracciati reali e simulati, l'operatore doveva osservare la risposta "Identify Friend or Foe" (amico o nemico, ndt) di un tracciato. «Semplicemente, un aereo vero genererà una risposta a un’interrogazione mentre l'aereo simulato non restituirà alcuna risposta».[26]
Se il NORAD usava apparecchiature che simulavano aerei nemici in un modo simile al MFMS, ciò implicherebbe verosimilmente che il compito di distinguere tra i tracciati radar veri e falsi durante l’11 settembre era tutt’altro che semplice, soprattutto se si considera che tre dei quattro aerei presi di mira quel giorno avevano i trasponder spenti. [27] Questi aerei non avrebbero quindi trasmesso alcun segnale del tipo “Identify Friend or Foe”.

In sintesi, occorre verificare in che misura alle forze armate USA siano state tarpate le ali nella loro capacità di risposta dell’11/9 a causa del fatto che i loro schermi radar stessero ricevendo informazioni simulate per tutto il tempo degli attacchi terroristici.
Sembra possibile che l'iniezione di informazioni radar false abbia potuto essere un modo in cui le normali risposte di emergenza siano state sabotate, così da garantire il successo degli attacchi su New York e Washington. Se questo è il caso, i responsabili devono essere indagati e assicurati alla giustizia.

NOTE

[2] NEADS Audio File, Air Surveillance Technician Position, Channel 15. North American Aerospace Defense Command, September 11, 2001; NEADS Communications 9:20 a.m.-9:54 a.m. September 11, 2001. 9/11 Commission, n.d.
[3] 9/11 Commission, The 9/11 Commission Report: Final Report of the National Commission on Terrorist Attacks Upon the United States. New York: W. W. Norton & Company, 2004, pp. 20, 22, 27.
[8] 9/11 Commission, The 9/11 Commission Report, pp. 20, 22, 30.
[12] Leslie Filson, Air War Over America: Sept. 11 Alters Face of Air Defense Mission. Tyndall Air Force Base, FL: 1st Air Force, 2003, pp. 55, 122; William M. Arkin, Code Names: Deciphering U.S. Military Plans, Programs, and Operations in the 9/11 World. Hanover, NH: Steerforth Press, 2005, p. 545; "Vigilant Guardian." GlobalSecurity.org, April 27, 2005.
[21] Jason Tudor, "Inner Space"; Leslie Filson, Air War Over America, p. 59.
[24] "Unlikely Chain of Events." The Bombardier, September 8, 2006. Si noti che i tempi indicati in questo articolo sono riferiti al fuso orario centrale USA, che ho convertito al fuso orario dell’Est.
[25] Lynn Spencer, Touching History: The Untold Story of the Drama That Unfolded in the Skies Over America on 9/11. New York: Free Press, 2008, p. 25.
[27] 9/11 Commission, The 9/11 Commission Report, p. 16.


Fonte: Shoestring911.


File Audio: un operatore del NEADS  avverte gli altri di guardarsi bene da cosa dire sul nastro



Un operatore del Northeast Air Defense Sector (NEADS) in occasione dell'11/9 avverte gli altri operatori affinche siano "attenti a quanto dicono nel nastro, poiché questo viene registrato e sarà poi consegnato." I nastri formavano la base del resoconto della Commissione sull'11/9 su quanto è accaduto.
Una linea temporale molto dettagliata sui fatti di quel giorno si può ritrovare qui: http://www.historycommons.org/timelin... Questo brano proviene dal nastro 15, al 37:52, che probabilmente corrisponde a circa le ore 9:16 del tempo reale.

9 agosto 2010

11/9: i segreti dell’analisi sul crollo dell’Edificio 7

di reopen911.info.
tratto da Megachip


Riepiloghiamo i fatti: il World Trade Center 7 è l'edificio di 47 piani crollato l’11 settembre 2001, sette ore dopo le Torri Gemelle, senza essere colpito da alcun aereo. L'agenzia governativa NIST, National Institute of Standards and Technology, incaricata dall'amministrazione Bush di far luce sul crollo, non ha presentato la sua relazione sino all’agosto 2008, più di sette anni dopo i fatti. La sua analisi tecnica la si vorrebbe convincente e "definitiva": d’altronde, ha nominato il suo rapporto "Final WTC 7 Investigation Report". Ma ecco che ben lungi dal convincere gli scienziati, questa analisi li lascia perplessi perché il modello informatico utilizzato dal NIST rimane segreto.
Come una scatola nera dove fossero stati inseriti i parametri desiderati, e che avrebbe, dopo i calcoli, dato esattamente i risultati attesi. [Si veda: Il crollo dell'Edificio 7. Morta una teoria ufficiale se ne fa un'altra].
Gli architetti e ingegneri per la verità sull’11/9 hanno ripetutamente chiesto informazioni su questo modello matematico utilizzato dal NIST per simulare il collasso della struttura. Non hanno ottenuto nulla. Più di recente, un ex responsabile di volo della NASA, Dwain Deets, che si è già espresso sulle velocità anomale dei due aerei che hanno colpito le torri, ha pubblicato una lettera su un giornale californiano.
Si sorprende delle ragioni invocate dai funzionari del NIST per NON pubblicare i dettagli della loro analisi tecnica, con totale disprezzo della legge statunitense sulla libertà di informazione "Freedom of Information Act", che prevede di declassificare i documenti "top secret" su richiesta motivata del pubblico.
Ecco la lettera di Dwain Deets.

Proteggere il pubblico dalle informazioni

di Dwain Deets.
Noi abbiamo un'agenzia federale che mostra disprezzo per il Freedom of Information Act. Il dottor Patrick Gallagher, direttore del National Institute for Standards and Technology, ha negato la richiesta proveniente dall’ingegnere strutturale Ronald Brookman, che cercava informazioni dettagliate di analisi strutturali raccolte dal NIST quando ha stabilito la causa del crollo dell'edificio 7 del World Trade Center. Il motivo dichiarato di Gallagher per il diniego è stato che rilasciare quelle informazioni «potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza pubblica.»
Ciò che potrebbe mettere a repentaglio la sicurezza pubblica è il "non" permettere ai professionisti del settore dell’edilizia quali il signor Brookman di studiare autonomamente l'analisi del NIST sul crollo altamente anomalo dell’edificio. Un grattacielo di 47 piani è crollato improvvisamente all’interno del proprio perimetro: altamente anomalo.
Il Presidente Obama ha dato il benvenuto alla trasparenza e all'apertura nell’attività di governo al primo giorno della sua nuova amministrazione. Gallagher ha rilasciato questa determinazione il 9 luglio 2009, più di cinque mesi dopo: l'esatto contrario di uno spirito di apertura da parte del governo. Cosa dovrebbe pensare l’opinione pubblica di tutto ciò?
E dove è il nostro Congresso? Non un membro del Congresso ha sollevato una sola parola di preoccupazione. Il Congresso non ha più responsabilità di supervisione? Vi sta bene che le autorità vi prendano per i fondelli?

Dwain Deets
Encinitas, California.

Fonte: www.reopen911.info.
Traduzione per Megachip a cura di Cipriano Tulli.

8 agosto 2010

Incendi russi: quali cause umane?

di Pino Cabras – da Megachip.


8 agosto 2010. Mentre Mosca è paralizzata da quasi un mese di canicola e ora da una densa coltre tossica, sospinta dai tanti smisurati incendi, colpisce leggere quanto ha scritto Andrej Arešev, un politologo di «International Affairs», la rivista pubblicata da quella parte dell’establishment russo più istituzionalmente legata alla politica internazionale. Arešev sospetta che la gigantesca anomalia che oggi sta colpendo l’immenso e disomogeneo territorio da Kalingrad alla Kamčatka sia l’effetto di una qualche arma climatica di nuovo tipo.
È lo stesso tipo di armi evocate dal generale Fabio Mini in un articolo di qualche anno fa (vedi: La guerra ambientale c'è già).
L’analisi è solo un tassello della complessa riflessione che ci dovrà imporre questa sconcertante catastrofe, che per le sue dimensioni si presta subito a diverse letture.
In un’intervista su «Le Monde», ad esempio, Marie-Hélène Mandrillon, una storica e specialista dell’ambiente russo, nonché ingegnere del CNRS (la più grande e prominente organizzazione di ricerca pubblica in Francia), non fa sconti a Vladimir Putin: per lei il disastro ha sì cause umane, ma per via dello smantellamento dell’efficiente corpo degli agenti forestali ereditato dall’era sovietica.
«Con l’implosione del regime e la crisi economica che è seguita, il mezzo trovato per assicurare il loro sostentamento è consistito nell’autorizzarli a vendere il bosco assegnatogli», ricorda la Mandrillon. «Questa funzione ha presto prevalso sulle altre. Dal 1990, nessuno sul terreno si è più preoccupato di protezione, di manutenzione. La soppressione del ministero dell’ambiente nel 2000 e l’incorporazione, nel 2004, dell’agenzia federale della forestazione al ministero delle risorse naturali, che ha il compito dello sfruttamento e non della protezione dell’ambiente, hanno consolidato questa evoluzione».
Dunque: una gestione scellerata del territorio, concepito come deposito di materiali e non più come sistema dai delicati equilibri, combinandosi con un cambiamento climatico brusco e drammatico, avrebbe creato le premesse dell’attuale calamità, dove tutti fronteggiano scenari mai visti prima.
Si tratta di una spiegazione che calca la mano sulle responsabilità umane, ma non richiama uno scenario di guerra. Che invece è quanto fa Andrej Arešev. Per questo abbiamo tradotto di seguito l’articolo in cui si affaccia questo atroce sospetto.
Qualunque sia la causa dei fatti, con il diverso grado di implicazioni di ciascuna causa ipotizzata, rimane la sensazione che l’impatto dell’uomo sulle risorse ambientali si stia scontrando con problemi di crescente drammaticità, negli stessi giorni in cui si misura l’ampiezza inaudita dello scioglimento dei ghiacci artici e un iceberg vasto quattro volte Manhattan si stacca dalla Groenlandia.
Buona lettura.

Armi climatiche: solo un’ipotesi di complotto?

di Andrej Arešev, politologo – «International Affairs».
Il tempo così insolitamente caldo nelle regioni centrali della Russia ha già causato pesanti danni economici. Ha distrutto i raccolti in circa il 20% dei terreni agricoli del Paese, con l’effetto di far sì che i prezzi alimentari aumenteranno questo autunno. Come se non bastasse, i roghi si sono accesi nelle torbiere attorno a Mosca.
In questi giorni, gran parte delle previsioni relative al clima sono allarmanti: siccità, uragani e inondazioni saranno ancora più frequenti e gravi.
Il direttore del programma energetico e climatico del Wildlife Fund, Aleksey Kokorin, sostiene che l’attuale tendenza non sia un fenomeno casuale e che non ci si deve attendere che debba diminuire d’intensità (1).
In questo particolare contesto, la credibilità delle proiezioni emanate dal Wildlife Fund, un influente organizzazione internazionale che svolge in tutto il mondo operazioni caratterizzate come programmi di protezione ambientale, è fuori discussione (2).
Il motivo è che il riscaldamento globale, che è oggetto di infervorati dibattiti accademici (o, talvolta, del tutto non accademici) non è necessariamente un processo incontrollato. O perlomeno, l’incidenza delle attuali temperature insolitamente elevate esclusivamente in Russia e in alcuni territori adiacenti, induce a delle spiegazioni alternative.
Andando indietro fino agli anni settanta, Zbigniew Brzezinski invocava nel suo libro Between Two Ages (“Tra Due Ere”, ndt) il tema del controllo del tempo atmosferico, che considerava una forma di più ampia regolazione sociale. Senza dubbio i pesi massimi del pensiero geopolitico degli Stati Uniti si sono dovuti interessare non solo alle implicazioni sociali immediate, ma anche alle potenziali implicazioni geopolitiche di un’influenza sul clima. Non fu l’unico autore a cimentarsi sull’argomento ma, in ragione di ovvie cautele, le informazioni sui progressi nella sfera delle armi climatiche è improbabile che fuoriescano dalle barriere della segretezza, nel prevedibile futuro.
Michel Chossudovsky, un professore di economia presso l’Università di Ottawa, scriveva nel 2000 che, in parte, il cambiamento climatico in corso potrebbe essere innescato dall’uso di armi non letali di nuova generazione. Gli USA stanno certamente esplorando le possibilità di controllare il clima in varie regioni del mondo. La relativa tecnologia è stata sviluppata nel quadro del ‘High-Frequency Active Aural Research Program’ (HAARP) (3), stante l’obiettivo di costruire la capacità di provocare siccità, uragani, inondazioni e terremoti. Dal punto di vista militare, si ritiene che HAARP dia vita a un nuovo tipo di armi di distruzione di massa, e sia uno strumento di politiche espansionistiche che può essere usato per destabilizzare selettivamente sistemi agricoli e ambientali di determinati paesi obiettivo (4).
Tecnicamente, si sa che il sistema è un insieme di sorgenti di radiazioni elettromagnetiche che concernono la ionosfera. Esso include 360 fonti e 180 antenne aventi un’altezza di 22 metri (5). Complessivamente, la stazione emette 3.600 kW verso la ionosfera, il sistema di questo tipo più potente al mondo (6). Il programma, aperto nel 1990, è finanziato congiuntamente dallo US Office of Naval Research e dallo US Air Force Research Laboratory, ed è messo in opera da diversi laboratori universitari.
Ipotesi che vanno molto lontano si presentano in modo naturale in una tale situazione. Il leader venezuelano Hugo Chavez è stato ridicolizzato per l’attribuzione del terremoto di Haiti all’impatto di HAARP ma, per esempio, un simile sospetto si è fatto strada a seguito del terremoto nel 2008 nella provincia cinese del Sichuan.
Inoltre, vi sono prove che il programma USA di influenza sul clima non si estenda solo a un certo numero di paesi e regioni, ma risieda anche in parte nello spazio. Per esempio, del veicolo senza pilota X-37B, messo in orbita il 22 aprile 2010, si riferisce che trasporti nuovi tipi di armamenti laser. Secondo il «New York Times», il Pentagono smentisce qualsiasi legame tra l’X-37B e una qualunque arma meteorologica, ma riconosce che il suo scopo è quello di sostenere le operazioni di terra e di gestire un certo numero di compiti ausiliari (7).
Il veicolo è stato costruito 11 anni fa, come parte di un programma della NASA che è stato rilevato dall’US Air Force, 6 anni fa, e completamente sottoposto a classificazione (8).
Le domante volte a far svelare i dettagli del programma sperimentale messo in pratica in Alaska sono state reclamate sia negli Stati Uniti che in diversi altri paesi.
La Russia non si è unita al coro, ma l’impressione è che gli sforzi intesi a modificare il clima deliberatamente, non siano un mito, e che in un futuro più vicino, la Russia – insieme con il resto del mondo – dovrà affrontare una nuova generazione di minacce. Al momento, le armi climatiche potrebbero raggiungere le loro capacità obiettivo ed essere utilizzate per provocare siccità, cancellare coltivazioni e indurre diversi fenomeni anomali in certi paesi.

Le Note
(1) Odnako 2010, 28, p. 33.
(2) Per dettagli riguardanti la Wildlife Foundation, si veda: http://www.globoscope.ru/content/articles/2892/
(3) Sito del programma: http://www.haarp.alaska.edu/. La stazione HAARP si trova in Alaska, 250 chilometri a nord-est di Anchorage.
(4) Chossudovsky M., Washington’s New World Order Weapons Can Trigger Climate Change: http://www.mindfully.org/Air/Climate-Change-Weapons.htm
(7) Surveillance Suspected as Spacecraft’s Main Role, William J. Broad, http://www.nytimes.com/2010/05/23/science/space/23secret.html?_r=1&hp
(8) Il Times ha affermato che il veicolo senza equipaggio segreto potrebbe sperimentare armi laser: http://www.newsru.com/world/24may2010/kosmorazved.html.


Fonte: http://en.interaffairs.ru/read.php?item=46.

5 agosto 2010

Un alto dirigente NASA: la velocità dell'aereo dell'11/9 non quadra

A cura di PilotsFor911Truth.org.


Di recente il gruppo Pilots for 9/11 Truth (Piloti per la verità sull’11/9, ndt) ha analizzato le velocità registrate per gli aeromobili utilizzati in occasione dell’11 settembre. Numerosi esperti di aviazione hanno espresso le loro perplessità per quanto riguarda la velocità di gran lunga al di sopra di quella massima operativa prevista per i Boeing 757 e 767, in particolare, alcuni Comandanti di 757/767 della United e dell’American Airlines che vantano ore di volo effettive in tutti gli aeromobili che si dice siano stati utilizzati l’11/9.
Questi esperti dichiarano che tali velocità sono impossibili da ottenere in prossimità del livello del mare nell’aria densa, nel caso che l'aereo sia un 757/767 standard come riferito. Se si combina questo con il fatto che il velivolo di cui si è narrato che abbia colpito la torre sud del World Trade Center stava anche generando elevati fattori di carico mentre virava e si tirava fuori da una picchiata, tutta la questione diventa incomprensibile per indagare in che modo un 767 standard sia in grado di eseguire tali manovre a velocità così intense, oltre i limiti massimi di funzionamento del velivolo.
Soprattutto per coloro che fanno ricerca in modo approfondito sull'argomento e hanno esperienza nel settore dell'aviazione.
Il co-fondatore di Pilots For 9/11 Truth, Rob Balsamo, ha recentemente intervistato un ex direttore di volo della NASA, responsabile dei sistemi di controllo di volo al centro di ricerca sul volo NASA di Dryden, il quale si è anche espresso dopo aver visto l'ultima presentazione curata da Pilots For 9/11 Truth - "9/11: World Trade Center Attack".
L’alto dirigente in pensione Dwain Deets ha rappresentato le sue preoccupazioni in materia all’American Insitute of Aeronautics and Astronautics (AIAA) nel modo seguente:
La responsabilità di spiegare un’improbabilità aeronautica di Dwain Deets
Centro di ricerca sul volo NASA di Dryden (alto dirigente in pensione)
ricercatore associato AIAA

L’aeroplano era l’UA175, un Boeing 767-200, appena prima dell’impatto con il World Trade Center Torre 2.
Basandosi sull’analisi dei dati radar, il National Transportation and Safety Board (NTSB, il Consiglio nazionale sulla sicurezza bei trasporti, ndt) ha stabilito che la velocità a terra appena prima dell’impatto era di 510 nodi (945 km/h, ndt). Questo è ben oltre la massima velocità di crociera di 360 nodi (667 km/h), nonché della massima velocità in picchiata di 410 nodi (759 km/h). Le possibilità per come la vedo io sono queste:
  1. non si trattava di un 767-200 standard;
  2. i dati radar sono stati in qualche maniera compromessi;
  3. le analisi dell’NTSB erano errate;
  4. il 767 volava ben oltre il suo diagramma di manovra, era controllabile, e manovrato per colpire un obiettivo relativamente piccolo.
Quale organizzazione ha maggiore responsabilità nel non riconoscere una così enorme evidenza (“elephant in the room” nell’originale, ndt)? L’NTSB, la NASA, la Boeing, o l’AIAA? Gli ingegneri hanno posto la loro firma a dei documenti, ma l’AIAA o la NASA non li pubblicherà? Oppure, la responsabilità morale non risiede nelle organizzazioni ma spetta a singoli ingegneri aeronautici? Gli ingegneri hanno semplicemente guardato da un'altra parte?
Le obiezioni sopracitate sono rimaste nel Forum soggetto a moderazione dell’AIAA Aerospace America per circa due settimane, prima di essere rimosse senza spiegazione. Potete cliccare su "Who is Ethically Responsible" (“Chi è il responsabile morale”, ndt) inserito da Dwain Deets al Forum del “Pilots For 9/11 Truth” per una discussione su queste obiezioni all’AIAA.
Le credenziali e l’esperienza di Dwain Deets sono esposte qui di seguito:
Dwain Deets - Master of Science in fisica e in ingegneria;
- Ex direttore dei progetti aerospaziali presso il Centro di Ricerca sul Volo della NASA a Dryden;
- Ex direttore della Research Engineering Division a Dryden;
- Insignito del premio “NASA Exceptional Service”;
- decorato con la “medaglia presidenziale al merito” per la sua attività di alto dirigente (1988);
- Presentatore scelto alla “Wright Brothers Lectureship” presso l’Aeronautics Associate Fellow - American Institute of Aeronautics and Astronautics (AIAA);
- Incluso nel “Who's Who in Scienza e Ingegneria” 1993 – 2000;
- Ex presidente della Aerospace Control and Guidance Systems;
- Membro del Comitato della Society of Automotive Engineers (associazione degli ingegneri del settore automobilistico)
- ex membro dell’AIAA Committee on Society and Aerospace Technology
- 37 anni di carriera nella NASA
E’ lampante - sulla base di affermazioni dettate da riconosciuta esperienza nonché sulla base dei dati grezzi e dei precedenti - che la velocità riferita dell’aeromobile dell’11/9 sia incredibilmente eccessiva: ciò è di un’evidenza abbagliante e necessita di essere indagato a fondo.
Per un’analisi sommaria della velocità, vedi l’articolo 9/11: Speeds Reported For World Trade Center Attack Aircraft Analyzed (“11/9: analisi sulle velocità riportate per l’aeromobile dell’attacco al World Trade Center”, ndt).
Per osservare la scena da "9/11: World Trade Center Attack" che analizza le velocità riportate con più dettaglio, clicca qui.
Per un’analisi completa e dettagliata che descriva gli eventi che ebbero luogo a New York l’11 Settembre 2001, interviste con esperti, incluse le analisi sull’abilità di pilotaggio del "dirottatore", il recupero della Scatola Nera e altro....
Si veda l’ultima presentazione di "9/11: World Trade Center Attack" dei “Pilots For 9/11 Truth”.
Fondata nell’Agosto 2006, “Pilots For 9/11 Truth” è un’organizzazione in crescita composta di professionisti dell’aviazione di tutto il globo. L’organizzazione ha anche analizzato i dati di volo forniti dal National Transportation Safety Board (NTSB) per l’attacco al Pentagono e gli eventi di Shanksville, Pennsylvania. I dati non supportano la versione governativa. La NTSB/FBI si rifiuta di commentare. “Pilots for 9/11 Truth” non indica una teoria né una colpa specifica al momento. Comunque, c’è una crescente montagna di informazioni e dati contraddittori che le agenzie governative e ufficiali si rifiutano di riconoscere. Il nucleo della lista di membri di Pilots For 9/11 Truth continua a crescere.
Cliccare http://pilotsfor911truth.org/core.html per una lista completa degli aderenti. Cliccare
http://pilotsfor911truth.org/join per unirsi all’organizzazione.
Commenti? Cliccate qui per discutere.

Intervista registrata successiva all’articolo – 30 giugno 2010:
http://pilotsfor911truth.org/interviews/Dwain_Deets063010.mp3
10mb download, circa 22 minuti.

Fonte: http://pilotsfor911truth.org/911_Aircraft_Speed_Deets.html.
Traduzione per Megachip di Cipriano Tulli.

4 agosto 2010

Quando finì la crescita

di Pino Cabras – da Megachip.



Molte analisi si accontentano di guardare ai tempi recenti, per capire dove stiamo andando, intendere cosa sia accaduto al capitalismo e – scrutando con più interesse il luogo in cui viviamo – intuire perché si sia inceppata l’Italia. Tuttavia non dobbiamo limitarci a vedere le ragioni dello sfacelo nei comportamenti attuali dell’associazione a delinquere raccolta intorno al Piccolo Cesare, né nell’insipienza delle caste concorrenti.

Di recente un arco di riflessioni molto profonde è stato a più riprese pubblicato da Marino Badiale e Massimo Bontempelli. È uno dei tentativi più interessanti di costruire un pensiero politico all’altezza della grande crisi in corso. Un percorso di lettura utilissimo.
In effetti occorre uscire dalle riflessioni contingenti, e spaziare lungo una vicenda storica più estesa. Da dove viene questa crisi? In quale momento certe svolte sono diventate irreversibili?
Possiamo dire prima di tutto che la vera faccia del capitalismo, non solo italiano, si palesava completamente già nell’arco di tempo ricompreso fra la metà degli anni settanta e la seconda metà degli anni novanta.
Perché quel periodo è così importante? Dal punto di vista economico e sociale è proprio in quella fase che si è chiuso il ciclo aperto dalla seconda guerra mondiale. Poi è venuta la fase post 11/9, le crisi convergenti, l’emergere multipolare di altre potenze, ecc. Ma è la fase che precede questi sviluppi a interessarci per via di una sua compiutezza, che qui voglio rievocare.
Quella fase era il compimento del piano Marshall, lo strumento dell’affermazione egemonica del capitalismo anglosassone, dominato da un’élite transnazionale che tendeva a distinguersi dalle «nazioni» e che non calcava l’appartenenza a una comunità nazionale (per quanto teorizzasse comunque la ‘Leadership Americana’). Era questa élite a promuove senza sosta l’apertura dei mercati dei beni, dei servizi, delle persone e dei capitali.
L’egemonia anglosassone subiva e riassorbiva anche gli effetti di disegni concorrenti, quelli che hanno portato poi all’Euro o alla crescita della Cina come “fabbrica del mondo”, dentro un inesorabile progetto di riproduzione allargata del capitale su una scala che coinvolgeva e sconvolgeva l’intero globo.
La “globalizzazione” era il livello superiore verso cui convergeva l’accumulazione estesa del capitale nel sottosistema della manifattura e della diffusione dei beni. Per qualche decennio il motore dell’accumulazione permetteva che si allargasse la socializzazione e l’acquisizione dei saperi e delle capacità degli individui, cosa che facilitava alla crema del capitale l’appropriazione del plusvalore. Scuole, formazione, crescita diffusa di nuovi desideri per nuovi consumi: erano tutti elementi ben funzionali a una tale riproduzione. Fino a un certo punto la classe media era fondamentale per l’espansione.
Il punto di svolta, con tutte le sue importanti conseguenze, fu superato già negli anni settanta. Come ricorda Richard K. Moore in un suo saggio interessante e visionario, da lì in poi, «il capitale non ha cercato la crescita attraverso un aumento della produzione quanto piuttosto estraendo maggiori rendimenti da livelli di produzione relativamente piatti. Da qui la globalizzazione, che ha spostato la produzione verso aree a bassi salari, fornendo maggior margini di profitto. Da qui la privatizzazione che trasferisce i flussi di entrate a investitori che prima si rivolgevano nazionalmente al Tesoro. Da qui, i derivati e i mercati valutari che creano l’illusione elettronica della crescita economica, senza effettivamente produrre nulla nel mondo reale.»
Il processo trasformava la struttura demografica e la società, determinando costi che allora non erano percepiti interamente. Erano già presenti i presagi di quanto sarebbe stato conosciuto più avanti in pieno nei paesi ricchi: la de-industrializzazione, l’alba della crisi sociale delle classi medie, le nuove povertà in Europa e negli Stati Uniti. Il boom del Pacifico preannunciava l’emergere di un capitalismo neo-industriale e finanziario destinato a cambiare il pianeta. Qualcuno più sensibile e attento, come un altro Moore, il Michael Moore di Roger and Me, intuiva la portata devastante della nuova pelle di cui si rivestiva il capitalismo. Ma nel 1989 Michael Moore era uno sconosciuto.
Enormi fette di popolazione un tempo assoggettate a lavori servili in agricoltura, a ridosso dei livelli di sussistenza e sotto il tallone di poteri oligarchici molto chiusi, erano state definitivamente “liberate”, fino a entrare nei meccanismi sociali moderni dominati dal capitalismo. Quote mai viste della popolazione avevano praticamente perso la percezione della millenaria fatica agricola. Il tutto era avvenuto con una rapidità che concentrava non solo i tempi, ma anche i costi della “modernizzazione senza sviluppo”.
I circoli virtuosi della crescita erano giunti però al capolinea, proprio nel momento in cui sembravano interminabili. Anche in Europa non si sapeva ancora quanto moriva dei decenni precedenti, né cosa davvero si affacciava, in vista dei decenni successivi.
Finivano i protezionismi continentali e nazionali. A dispetto delle aperture di mercato sub-sistemiche, che avvenivano in dosi crescenti verso la dimensione globale, resistevano ancora le strutture portanti della ricostruzione regolata dei mercati iniziata alla fine della seconda guerra mondiale, quando si erano impennati tassi di crescita del PIL mai visti prima di allora né mai dopo.
L’economia postbellica era cresciuta in fretta. Quella crescita appariva il modo di essere normale dell’economia. Le tecnologie erano meno facilmente trasferibili. Il mercato del lavoro aveva perimetri nazionali. Le elevate capacità di saper fare erano merce diffusa, trasferibile solo scontando gravose asimmetrie. C’erano meno concorrenti. Le imprese si concentravano radunando e inquadrando vere e proprie “popolazioni organizzate”. Non c’era la polverizzazione sociale che abbiamo visto dopo. Funzionavano le barriere all’entrata nei confronti di nuovi concorrenti. Il capitale aveva bisogno di nuovi sbocchi.
In seguito il progetto capitalista si proiettava verso i punti più avanzati della sua agenda. Era la marcia trionfale della globalizzazione macro-regionale e della globalizzazione planetaria.
Parliamo del cuore del progetto sospinto dalle forze contrarie all’isolazionismo del colosso nordamericano: veri poteri forti che puntavano all’estensione massima del mercato globale, al fine di assicurare la riproduzione dilatata e intensiva del capitalismo. Era l’unico modo per non far crollare i livelli dei consumi in Nord America, senza i quali sarebbe stato messo in discussione lo stesso ordine sociale, intanto che si ampliavano le differenze fra il superclan al vertice della piramide sociale e l’enorme base sociale del ceto medio che considerava invece acquisito il suo pur minacciato tenore di vita.
La svolta liberista estesa su tutto il pianeta aveva la sua “window opportunity”: non c’era più – a un certo punto - il contrappeso sovietico a frenare la sua carica egemonica. E questa nuova egemonia era da rilanciare con una nuova potente fase di crescita - ancora crescita - costasse quel che costasse, stavolta senza vincoli e macroregole, tranne quelle che potevano facilitarle il compito. Nessuna prudenza sociale, nessun vincolo al “consumo di futuro”, da nascondere semmai nelle pieghe dell’indebitamento crescente.
La globalizzazione nella sua dimensione “macro-regionale” in Europa venne attuata con la scorciatoia monetarista. Non c’è stata un’unificazione “virtuosa” dei mercati: quelli delle merci, dei capitali, dei servizi e delle forze di lavoro.
Ha prevalso l’impostazione germanica: una moneta forte, l’obiettivo dell’alta produttività, l’innovazione nei servizi, nei processi e nei prodotti.
Dove sarebbe il problema, direte? Il problema è che questi erano solo obiettivi retorici per la maggior parte delle classi dirigenti dei vari stati. Per perseguire simili politiche sarebbero occorse consistenze statuali e nazionali molto forti, in grado di adattarsi con forza alle regole eurocratiche senza devastare la propria sovranità e le basi della propria legittimità, partendo proprio dall’economia.
La via tedesca alla globalizzazione europea poteva reggere solo per due protagonisti europei: uno era il suo interprete più autentico e già egemone, cioè proprio la Germania, l’altro era il soggetto egemone nel campo cruciale e “atlantico” dei mercati finanziari che guidavano la deregulation planetaria: la Gran Bretagna, che peraltro si teneva fuori dall’Eurozona.
È proprio in quel momento che da noi è finito per sempre il matrimonio fra crescita e occupazione, cioè fra la crescita e le condizioni basilari che creano consenso e prassi per lo sviluppo.
Le classi dirigenti nazionali che nei decenni scorsi non capivano questo punto di svolta della storia hanno avuto un limite culturale e politico macroscopico, con la scusante di vivere certi fenomeni con la sorpresa della prima volta. Le classi dirigenti che non lo capiscono oggi rivelano invece una colpa gravissima e una condotta scellerata, che apre altre praterie alle scorrerie dei poteri occulti dell'élite globalizzatrice.
Questo quadro storico, politico ed economico ricco di interconnessioni offre il contesto giusto per riflettere anche sull’origine delle questioni domestiche attuali della Repubblica Italiana.
Il primo crollo delle potenzialità industriali fu quello della siderurgia e dell’industria di base di mano pubblica, sotto i colpi esogeni della concorrenza internazionale e quelli endogeni del deterioramento dello stato amministrativo, degradatosi nello stato dei partiti.
Oggi giustamente si lamenta il disastro dei conti Telecom per come la compagnia è stata spolpata e indebitata nel suo processo di privatizzazione, ma va anche ricordata la condizione di profondo degrado della holding pubblica Iri, nel cui seno stavano le uniche realtà “salvabili”, ossia proprio il monopolista telefonico e le industrie a produzione militare. Il disastro della Telecom privata di oggi non è insomma l’opposto di una presunta Età dell’Oro pubblica, ma è figlio di un altro disastro che si era consumato chiudendo per sempre un intero ciclo del capitalismo italiano.
Altro discorso riguarda l’Eni, per ragioni storiche e specifiche del settore. La sua missione è sopravvissuta ad assalti e parassitismi di ogni tipo che pure a più riprese le sono entrati in casa. Ma di certo è finita da decenni la sua funzione propulsiva per l’industrializzazione di base all’interno dei territori italiani. Ne è seguito un lungo ripiegamento che ha accompagnato la deindustrializzazione di vaste aree, che non hanno visto sostituirsi qualcosa di paragonabile.
Così come da decenni avremmo già dovuto constatare il decesso della capacità di dar vita a diversi poli industriali del sistema oligopolistico chimico-meccanico-tessile-informatico. Esemplari i meccanismi ciclici di salvataggi-privatizzazioni-pubblicizzazioni-salvataggi, sempre con denaro pubblico, associati al settore meccanico-automobilistico, cioè alla Fiat. Intanto che il quondam Gianni Agnelli, come ora viene rivelato grazie alle beghe ereditarie, su conti cifrati esteri faceva riparare valori dell’ordine dei miliardi di euro sottratti al fisco, la Fiat diveniva quel che è tuttora, dapprima in scala nazionale, poi su scala globale: un’impresa zombi specializzata nel succhiare risorse pubbliche, impegnata non più a segnare il passo della crescita, bensì l’esatto opposto: una ritirata industriale contrattata e costosissima, con il corollario della fine delle vecchie “popolazioni organizzative”.
Nella fase che stiamo rievocando si esauriva anche qualsiasi capacità espansiva del settore chimico, un perfetto esempio del nostro capitalismo senza capitali, incapace di reagire al restringersi del suo piccolo giro monopolistico-finanziario. Molti sistemi di ricatti politici fra protagonisti della vita economica e politica degli anni successivi, con scie proiettatesi sino a oggi, hanno avuto origine nelle “guerre chimiche” di fine anni ottanta.
Un altro ciclo esauritosi negli anni novanta era quello del sistema oligopolistico-bancario. Il sistema delle caste politiche lo aveva avviluppato con un reticolo di mostri giuridici e fondazioni che cercavano di accedere alle risorse finanziarie in modi diversi dai più rozzi ladrocini precedenti. Le privatizzazioni che sono seguite non hanno intaccato il meccanismo. Hanno comportato razionalizzazioni verticali e concentrazioni che hanno trasferito interamente nel Nord del paese il cuore del sistema bancario. Ma l’insieme è tutto tranne che un motore di crescita. Anche qui un inceppamento con effetti permanenti.
Fino agli anni novanta si credé nell’ultimo grande ciclo ritenuto irreversibile e innovatore, autopropulsivo e all’altezza della globalizzazione: l’interminabile ciclo della piccola e media impresa, dei distretti industriali della Terza Italia, fucine di occupazione e di nicchie di mercato aperte al mondo. Quanti politici cercarono di cavalcare l’illusione che i distretti sarebbero entrati in sistema, portando un nuovo capitalismo al centro del mondo? I capannoni vuoti - nel Nordest italiano e non solo - oggi ci raccontano quell’abbaglio. La scala gerarchica chiusa del nostro mercato dei capitali non si è mai schiodata dall’affidare alle sole seconde e terze linee della liquidità la gestione finanziaria delle imprese sottocapitalizzate dei distretti, negli stessi anni in cui le manifatture cinesi interagivano invece con risorse coordinate, programmi di vasta portata, proiezioni decennali e investimenti nel sapere.
Niente di meglio che osservare la faccia di Pierluigi Bersani in visita a un’industria decotta per vedere che c’è sempre chi non capisce quando un’epoca è finita senza rimedio.
Poteva compiere quel salto – da distretto a sistema - solo una società in cui fossero diffuse le competenze e le capacità. Solo che negli anni novanta non l’ultima delle regioni, ma l’opulenta Lombardia aveva tassi di scolarizzazione inferiori alla media europea. E da allora la Lombardia ha regalato al sistema scolastico – via Calabria – la ministra Gelmini, per dire. Potete capire quale “crescita” potrà venire da un ordinamento che taglia le risorse dell’istruzione di un quarto in un anno. Potevamo già saperlo registrando il deficitario standard nell’epoca in cui si chiudevano i cicli del capitalismo italiano. Oggi basta vedere l’unanimità di sguardi attoniti di coloro che hanno ancora memoria di cosa debba essere l’istruzione, quando contemplano il paesaggio di macerie di scuole e atenei, intanto che Cina e India sfornano ciascuna più di mezzo milione di ingegneri all’anno.
Abbiamo tralasciato un altro importantissimo ciclo sullo sfondo. Anch’esso è un ciclo che ha trovato una sua chiusura tra gli anni settanta e gli anni novanta: l’industria dei media di massa. Berlusconi ebbe la funzione di accentrare e blindare in un kombinat politico-televisivo-editoriale dominante tutti i meccanismi di remunerazione dei media, in modo da rendere preponderante la risorsa pubblicità. L’80% del gettito pubblicitario proveniva dal cartello mondiale delle agenzie di pubblicità che investiva per conto dei propri utenti-inserzionisti, in notevole misura società multinazionali, che ridisegnavano con enorme forza di penetrazione i meccanismi della vendita dei beni e servizi secondo i loro interessi, e facevano evaporare un flusso senza precedenti di fatturati che finivano all’estero e restringevano il bacino di riferimento industriale nazionale per i nuovi consumatori “rieducati”.
I meccanismi residuali di remunerazione dei media lasciati dal moloch pubblicitario dominato da Berlusconi erano due: i ricavi da vendite dirette o indirette, e i contributi di istituzioni e amministrazioni pubbliche. I primi favorivano e favoriscono tuttora soltanto i prodotti importati. I secondi erano in ruolo ancillare rispetto al kombinat berlusconiano e sono stati via via ridotti (si legga Glauco Benigni, Le tre risorse per i media). Nel complesso il ciclo in questo settore si è congelato intorno all’uomo di Arcore. Contrariamente a una delle leggende più tenaci diffuse da Berlusconi, ossia che il sistema di raccolta pubblicitaria da lui realizzato con Dell’Utri abbia fornito sbocchi prima preclusi al Made in Italy, si creò invece un gigantesco spostamento di potere verso il bi-polo produzione/consumo a tutto svantaggio dell’industria italiana, dei suoi insediamenti precedenti, di tutte le dinamiche del lavoro e delle loro rappresentanze. Il sigillo politico ha chiuso questo equilibrio politico ed economico, rendendogli culturalmente satellite anche gran parte dei presunti oppositori.
Questa asfissia dei vecchi cicli economici ha reso l’Italia un ambiente chiuso, provinciale, con classi dirigenti incapaci di ripensare la missione del Paese. Nulla ha sostituito le protezioni finite all’epoca in cui terminavano questi cicli economici e politici assistiti da un sistema daziario e da una qualche autarchia.
Il blocco patrimoniale del vecchio controllo familistico sulle grandi imprese ha operato da quel punto in poi rifuggendo l’innovazione imprenditoriale, per specializzarsi ulteriormente nel sistema di pubbliche relazioni che gli assicurava nicchie, rendite di posizione monopolistiche mascherate da privatizzazioni, con pedaggi e contributi sicuri. C’è una inclinazione ormai totalmente parassitaria del capitalismo mondiale che ci è testimoniata dalle vicende della grande crisi finanziaria globale. In Italia questa fase si è saldata con la selezione di una classe dirigente alla fine dei cicli anzidetti, fino ad esprimere quel tratto cialtrone delle nostre “cricche” incistate nella “casta”. La compagnia di giro dei profittatori all’inseguimento delle Grandi Opere in Italia ha ormai palesemente l’intento di non concluderle. Il sistema non si è mosso dal neopatrimonialismo fondato sul debito statale, un sistema di gruppi affaristici e clan politici che saccheggiava la spesa pubblica e il territorio, né ha abbandonato i tratti dell’economia politico-collusiva. Il paradosso è che – si tratti di Alta Velocità, di Expo, di Piani Casa, di ricostruzioni post-sisma – ogni depredazione che vada a erodere le basi già compromesse dalla fine dei grandi cicli economici si presenta in modo bipartisan come una promessa di “crescita”, impossibile da mantenere.
La crescita a debito degli anni ottanta alla fine si risolse nell’aumento delle sclerosi corporative della società italiana, gestite da un potere oligarchico e oligopolistico fra i più avidi del pianeta. Nulla fa pensare che una pur improbabile «crescita» oggi potrebbe essere gestita virtuosamente, anzi. Sarebbe iattura novella aggiunta a ventennale iattura. Di cosa parlano allora i politici che auspicano un “Patto per la crescita”, oggi come negli anni novanta?
La crisi nel nostro Paese va al cuore del processo che tiene insieme la nazione, come accade sempre in Italia per le crisi serie. La disgregazione degli anni quaranta o la crisi del 1992-1993 si accompagnarono a spinte che mettevano in discussione la tenuta dell’Italia in quanto stato unitario. Se oggi appare di nuovo attuale la possibilità di una disintegrazione del Paese, significa che c’è stata come una lunga «gelata» che lo ha mantenuto nelle stesse condizioni dei primi anni novanta. La lunga egemonia di Berlusconi ha sin qui congelato il problema.
Sempre più appare chiaro alle potenze della finanza e degli Stati che hanno guidato la globalizzazione, e che a suo tempo avevano puntato su Berlusconi per americanizzare l’Italia e renderla un paese compiutamente consumista e in via di deindustrializzazione, come ora egli non appaia in grado di reggere l’urto del declino della repubblica. Come in altre occasioni puntano su tanti e disparati cavalli, altrettanto incapaci di un alternativa al declino: ad esempio Gianfranco Fini, ma perfino Nichi Vendola, come decantano certe centrali massoniche. E finanche il depotenziato e filobritannico Beppe Grillo potrebbe far loro gioco. Nel frattempo magari un governo tecnico toglierà qualche castagna dal fuoco e venderà un po’ di argenteria per poter narrare ancora per qualche anno la favoletta della futura ripresa. Il racconto della crescita è stato il punto cardine degli interventi sulle crisi: non sarà dismesso facilmente, se perfino i sei punti in meno di PIL sono spesso pazzescamente definiti «crescita negativa».
L’obiettivo cardine della crescita è stato una forzatura, una chimera che ha fatto perdere importanti occasioni, quando forse si poteva rimettere ordine nella “missione” della nostra strana nazione. Anche nel fatidico 1992.
Allora, gli industriali esportatori da una parte, la Comunità europea dall’altra, spinsero a svalutare la lira dell’8%. L’azione coordinata di pochi speculatori trascinò i mercati internazionali a un tasso di svalutazione cinque volte maggiore, superiore al 40%. Nel 1988 si scambiava un marco tedesco con 800 lire, ma nel 1992 non ne bastavano 1200. Era diventata insostenibile la classica crescita con la droga della svalutazione.
Il ponte di comando del capitalismo finanziario internazionale mise i piedi nel piatto e sostituì definitivamente il potere del capitalismo industriale e bancario su basi nazionali fino a prescrivere ai governanti italiani una diversa “promessa” di crescita. Sempre lei.
La nuova regolazione si presentava con un precedente che aveva funzionato: in fondo, il boom degli anni cinquanta e sessanta era partito con bassi livelli di consumi, salari non in espansione, apertura internazionale, forti controlli alla spesa pubblica, bassi tassi d’inflazione.
L’unica differenza, enorme, era la crescita delle imposte a servizio del mostruoso debito pubblico accumulato negli anni ottanta, più un vasto programma di privatizzazioni.
La caduta dei consumi del 1993, in mezzo a una tempesta di sacrifici che fecero dimagrire le classi medie e lavoratrici, si accompagnò a un calo dei tassi d’interesse e dell’inflazione, nonché a una lira che si rafforzava nei confronti del marco, fino a un rapporto di cambio di 1000 a 1.
Ma la disoccupazione si portò al 12%, che significava tendere al 30% nel Sud, cifra ulteriormente scomponibile per età fino a fotografare intere coorti di nuove generazioni che nel Mezzogiorno non trovavano lavoro. La svalutazione aveva ampliato gli squilibri storici fra Settentrione e Meridione. Al Nord si esportava e si conservavano posti di lavoro. Il Sud sperimentava la fine dell’industrializzazione dall’alto e il termine dell’espansione del blocco clientelare d’intermediazione della spesa pubblica.
Il debito accennava a un lieve calo nel paese che però già sborsava meno di tutti nella comunità europea in favore della spesa sociale, per la sanità, per la scuola: un paese che aveva per giunta un sistema pensionistico squilibrato a discapito delle nuove generazioni, e che subiva un’altissima evasione fiscale.
Gli accordi sindacali del 1993 pattuirono una ritirata dei lavoratori in nome del difficilissimo equilibrio di un sistema che non intaccava i suoi difetti di fondo. I sindacati dei lavoratori accettavano un arretramento in nome di una futura crescita del PIL.
Nulla cambiava invece per il magmatico blocco sociale che si estendeva dalle classi dominanti assistite fino a un vasto ceto medio improduttivo. Da quelle parti, il mito della crescita era più irresponsabile ancora, più sperperatore, più prono all’illegalità di massa. Negli anni successivi quel mito ha consumato ulteriori porzioni di futuro, e ha selezionato intere generazioni di individui e dirigenti del tutto impreparati ad affrontare una crisi di proporzioni epocali.
Si è selezionata cioè una nazione che non sa dirsi la verità, con giornali e politici che non la sanno e non la saprebbero raccontare.
Perché così tanti hanno creduto al mito, anche quando scricchiolava, perfino oggi che sopravvive ormai di decenni alle sue reali basi materiali?
Il nesso fra la corruzione e il capitalismo delle collusioni e delle rendite di posizione poteva nascondersi dietro la crescita della Milano da bere e a rimorchio di tutte le baldorie degli anni ottanta.
Le statistiche Istat sui consumi delle famiglie – registrate negli anni cruciali della trasformazione e del compimento dei cicli economici - a rileggerle, fanno impressione: dal 1973 al 1985 i consumi in alimentari e bevande quintuplicavano, mentre i consumi non alimentari crescevano di oltre sei volte. E questo avveniva in modo omogeneo dal punto di vista geografico e sociale. In termini di riproduzione capitalistica era una forte polarizzazione verso i consumi che si accompagnava a una depolarizzazione sociale. Era una mutazione antropologica già in atto, alla quale l’apparato berlusconiano poi mise un motore che la sovralimentava.
Il debito appariva sostenibile in base alle aspettative di crescita. E la crescita, in base al modello dominante occidentale degli ultimi decenni -soprattutto in Nord America e in Gran Bretagna - era pressoché totalmente affidata al consumo. L’esperimento italiano ha teso verso quel modello, ma non ha più cartucce da sparare.

Oggi i debiti sono tutti da pagare. La generazione dei babyboomers, dei consumatori-massa irresponsabilmente edonisti, riparati dalle certezze previdenziali a lungo capaci di adempiersi ma ora non più, specie quando evaporano in borsa, ebbene, quella generazione non ha più nessun margine. Invecchierà più povera di quanto si aspettasse. E alla generazione che segue decrescono le risorse mentre le certezze previdenziali si azzerano.
È significativo che si torni a un livello di tensioni economiche, finanziarie e politiche ancora fermo al momento che ho tentato di descrivere, quello della fine dei cicli di crescita nei decenni scorsi. La differenza rispetto ad allora è che si è perso tempo, si son consumate nel precariato dequalificante le prospettive di intere generazioni, e nulla ha sostituito il paradigma bloccato della crescita-che-non-potrà-mai-più-tornare. Il processo di ricollocazione della “missione Italia” partirà da questi duri fatti, in grado da soli di sconvolgere i vecchi modi di schierarsi.
Il livello travolgente e inusitato dell’astensione nelle recenti tornate elettorali descrive bene un’offerta politica – quella esistente - incapace di affrontare la crisi e il baratro di impoverimento che si apre. Qualcuno riempirà questo vuoto.