29 agosto 2011

11 SETTEMBRE 2001-2011 Dieci anni di indagini. Dieci anni di menzogne. Dieci anni di troppo.

NEXUS EVENTI
PRESENTA 
11 SETTEMBRE 2001-2011

Dieci anni di indagini. Dieci anni di menzogne. 
Dieci anni di troppo.
 
Logo_vigevano 

 con il Patrocinio dell'Amministrazione comunale

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Domenica 11 settembre 2011
dalle ore 15,00 alle ore 19,00

Teatro Cagnoni - C.so V. Emanuele II
Vigevano (Pavia)
 

Programma
14:30 - Apertura ingresso
15:00 - Presentazione e saluto alle autorità
15:15 - Tom Bosco
Giornalista e direttore delle riviste Nexus New Times e Punto Zero
11 settembre 2001 - 2011
Dieci anni di indagini. Dieci anni di menzogne.
Dieci anni di troppo
15:40 - Massimo Mazzucco
Regista, scrittore e giornalista
in videoconferenza da Los Angeles
16:30 - Pausa
17:30 - Maurizio Blondet
Giornalisita e scrittore
Dieci anni di destabilizzazione
17:40 - Pino Cabras 
Direttore editoriale di Megachip.info e scrittore
Da Osama a Obama: percorsi di un Impero in crisi
18:30 - Giorgio Iacuzzo
Cineoperatore e documentarista
Inspiegabili anomalie aeronautiche di quella tragica giornata
18:50 Conclusioni 
 
 Con la partecipazione straordinaria di Flavio Oreglio

Ingresso euro 15
orario di apertura: 14:30 

È gradita la prenotazione
 
In omaggio fino a esaurimento il DVD: 
9 - 11 IN PLANE SITE
Il documentario che cambia per sempre 
l'11 settembre 2001
Informazioni:
tel. 049 9115516
www.nexusedizioni.it



Oslo. “Lo stragista non era solo”. Un’inchiesta

da Megachip.


L’inchiesta di «Aftenposten», il maggiore quotidiano norvegese, sui retroscena della strage di Oslo continua con clamorose rivelazioni. Dopo l’articolo che confermava l’esistenza di esercitazioni delle forze speciali della polizia a ridosso degli eventi con uno scenario terroristico identico (una circostanza che si è verificata nei maggiori attentati, incluso l’11/9 e il 7/7), un nuovo reportage pubblicato il 28 agosto 2011 conferma che le testimonianze sulla presenza di più killer sull’isola di Utøya il 22 luglio sono state numerose e insistenti. Il caso sembra in grado di riservare ulteriori sorprese, ricche di implicazioni.
Vi proponiamo qui di seguito la traduzione dell’ultimo articolo di «Aftenposten».

I testimoni hanno descritto svariati terroristi dopo che Breivik fu arrestato.
Dopo l’arresto di Anders Behring Breivik, la polizia ha ricevuto diverse relazioni su una pluralità di esecutori presenti a Utøya.
aftenposten01di Hans O. Torgersen, Andreas Bakke Foss, Eivind Sørlie – «Aftenposten».
«Da tre a cinque terroristi con pistole e fucili. Ci potrebbero essere esplosivi nell’isola.» Questo è il modo in cui la situazione veniva descritta dagli agenti della polizia di Northern Buskerud e dagli ufficiali delle squadre di emergenza mentre si stavano dirigendo all’isola di Utøya lo scorso 22 luglio.
Emerge ora che la polizia riteneva che questa fosse la situazione non solo mentre era lungo la sua rotta per Utøya ma anche un bel po’ di tempo dopo che Anders Behring Breivik è stato arrestato.

Dettagli
Quando i primi gruppi delle squadre di emergenza sono sbarcati a Utøya alle ore 18:25, furono accolti, stando alle fonti della centrale di polizia di Oslo, da diversi giovani che produssero descrizioni dettagliate di coloro che avevano percepito come svariati esecutori.
I testimoni descrissero le sembianze e l’abbigliamento dei presunti killer.
Due minuti dopo, Anders Behring Breivik fu arrestato.
Ma anche se il rumore degli spari cessò dopo il suo arresto, il personale delle squadre di emergenza a Utøya ricevette ancora nuove concrete descrizioni da parte dei testimoni sulla presenza di complici
Gli fu detto che le sembianze e i vestiti osservati dai testimoni non corrispondevano a quelli della persona arrestata, Behring Breivik.

L’abbigliamento
Durante i minuti seguiti al suo arresto, continuarono a giungere numerose descrizioni dei presunti esecutori, intanto che Behring Breivik era condotto al caseggiato di Utøya sotto stretta sorveglianza.
Le squadre d’emergenza cominciarono gli interventi di pronto soccorso, ma contemporaneamente proseguirono la ricerca di ulteriori killer.
«Ci furono molti messaggi sulla connessione di varie osservazioni degli esecutori e su come si vestivano e su quale aspetto avevano», ha dichiarato una fonte interna alla polizia che intende mantenere l’anonimato.
In base a fonti attendibili, ci sono volute «ore» prima che la polizia decidesse di «abbassare la guardia» in merito al numero di terroristi che potevano essere nell’isola.

L’arresto di un diciassettenne innocente
La polizia ha arrestato a un certo punto un militante diciassettenne movimento giovanile laburista Arbeidernes Ungdomsfylking (AUF), apparentemente perché aveva dato risposte “anomale” sul massacro, divergenti da quelle della maggioranza dei sopravvissuti.
La polizia sospettò pertanto che potesse essere un potenziale colpevole.
Il diciassettenne venne trattenuto presso il principale caseggiato di Utøya per molte ore prima di essere rilasciato e non ebbe alcuna occasione di avvisare i familiari che era ancora vivo.
Nemmeno la polizia avvisò la famiglia del diciassettenne. La fotografia qua sotto fu scattata alle ore 21:40 e mostra il giovane militante dell’AUF mentre viene scortato fuori della casa dalla polizia.



Difficoltà
Magne Rustad, il capo del Distretto di Polizia di Nordre Buskerud, ha dichiarato che gli agenti avevano presunto che tutto fosse possibile e che l’eventualità che ci fossero da due a cinque terroristi si basava su dichiarazioni provenienti dalle persone che si trovavano a Utøya o da persone che erano state in contatto con loro.
«Non era un quadro sicuro e chiaro della situazione , bensì la nostra migliore valutazione possibile, derivante dalle molte e complesse informazioni raccolte nel corso di una situazione concitata e difficile», ha affermato.
Rustad ha confermato che la polizia, perfino dopo l’arresto, riteneva che ci fosse ragione di credere che potessero essere implicati più terroristi e forse degli esplosivi.
«In base alla situazione affrontata nell’isola dalla polizia, non potevamo tuttavia scartare che ci fosse questa ipotesi. Su queste considerazioni si sono basate ulteriori operazioni della polizia in relazione a Utøya nelle ore successive», ha dichiarato.

Da solo
Finora, nessuna indagine della polizia ha rivelato la presenza di vari terroristi a Utøya o nell’area dei ministeri, come invece immaginava la polizia a Utøya nelle primissime ore.
«Confermiamo che non abbiamo alcuna prova che Behring Breivik dovesse avere dei complici», dichiara Christian Hatlo, procuratore per l’accusa presso la polizia di Oslo.
C’è ancora qualche testimone che negli interrogatori mantenga ferma la posizione che a Utøya c’erano diversi esecutori?
«Non abbiamo fatto commenti su questo e non intendiamo dire nulla di più in merito al momento», ha affermato Hatlo.

Traduzione dal norvegese (bokmål) a cura di Pino Cabras.

11/9, il ritorno del giornalismo

Giornalismo è diffondere quel che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda.
(Horacio Verbitsky)

di Pino Cabras - da Megachip.

Sul tema “11 settembre” per dieci anni la RAI ha avuto un grande assente, il giornalismo. La trasmissione di Giovanni Minoli “La storia siamo noi” del 25 agosto 2011 ha riportato il giornalismo nella fascia dei grandi ascolti, sottraendolo al ghetto del satellite: un giornalismo che pone tutte le domande e le questioni su questa materia che - per gran parte degli eredi di quel mestiere - sono un tabù invalicabile. Vediamo in questi giorni, durante la guerra di Libia, quanto estesa, acritica e disinvolta sia l’accettazione delle veline fornite dagli uffici che propagandano la guerra. 

E notiamo quanto faticosa sia l’opera di pochi giornalisti nel contrastare le bugie e la fiumana di propaganda. 

Non è un caso che si sia arrivati a questo punto. Le versioni finora considerate accettabili dall’establishment in merito ai fatti legati all’11 settembre hanno costruito un vero paradigma di antigiornalismo, una potente mitografia in cui il mainstream occidentale nel suo insieme ha agito come una sorta di blocco unico che nemmeno contemplava standard difformi, perché si blindava il linguaggio, la possibilità di esprimere concetti diversi, la capacità di cercare i nessi degli eventi: era un pensiero unico integrato con il messaggio unico.

Chi usciva da quello schema cercava quei nessi, trovava i fatti, e non poteva far altro che notare clamorose incongruenze in seno al mito ufficiale. 

Facendo le domande sgradite al potere si arriva a trovare una diversa correlazione fra i fatti. 

Per anni i film Inganno globale, Loose Change, Zero e altre opere che hanno fatto quelle domande hanno dovuto reggere all’urto di una campagna di attacchi molto scorretti di una minoranza di mitografi delle versioni ufficiali, laddove la maggioranza dei giornalisti si adagiava passivamente sulla corrente del mito. 

La redazione di “La storia siamo noi” ha fatto una scelta fra giornalismo e mito. Ha preferito il primo. 

Il documentario ripercorre lo stesso terreno delle inchieste di chi non era preso dall’esigenza di confermare la propaganda di governo. Facendo a meno della propaganda dei mitografi delle assurde versioni ufficiali - gravata com’è da una montagna di bugie, manipolazioni e omissioni, per non parlar degli insulti - Minoli ha fatto a meno di una fuffa giornalisticamente inservibile. Il risultato è un’ottima trasmissione, di cui raccomandiamo la visione.

119-minoli
Link alla trasmissione: www.rai.tv.

Articolo sullo stesso argomento su Luogocomune.net.

28 agosto 2011

26 minuti prima della strage di Oslo

di Pino Cabras – da Megachip.

 

Anche a Oslo l’esercitazione antiterrorismo c’era, eccome se c’era: il più importante quotidiano norvegese, «Aftenposten», il 26 agosto 2011 ha pubblicato nella sua versione on line un articolo inquietante. Un reportage di Andreas Bakke Foss conferma infatti che anche per la strage del 22 luglio 2011 si è avuto lo stesso pazzesco scenario di coincidenze presentatosi in occasione dell’11 settembre 2001 (in USA) e del 7 luglio 2005 (a Londra), così come in altre occasioni di rilevanti attentati terroristici. In tutti questi casi la scena del crimine ha letteralmente ricalcato simulazioni in corso degli apparati di sicurezza.

Il caso di Oslo in un primo momento si era prestato a un equivoco a causa di un altro articolo dello stesso «Aftenposten» che raccontava un’esercitazione del 2010, ma con la data apparente del 22 luglio 2011. Molti erano caduti nell’errore, compreso chi scrive. Mi sono scusato con i lettori di quella svista che avevo il dovere di rettificare, spiegando che avevano contribuito all’errore certi schemi interpretativi della cronaca che – visti i precedenti – mi avevano spinto subito, a caldo, a cercare se per caso anche a Oslo non vi fossero stati dei “war games” che si intersecavano con gli eventi reali. Ebbene, l’interrogativo sull’eventuale ruolo delle esercitazioni, dopo il nuovo articolo di «Aftenposten», ridiventa immediatamente una questione cruciale per il corso delle indagini sull’orribile massacro di Oslo, e riacquista una bruciante attualità.
Ho tradotto integralmente l’articolo, e consiglio di leggerlo qui di seguito. Alla fine cercheremo di trarre qualche momentanea conclusione.


C’era un’esercitazione sullo stesso scenario di Utøya del 22 luglio

di Andreas Bakke Foss - «Aftenposten»
Solo poche ore prima che Anders Behring Breivik iniziasse a sparare sui ragazzi di Utøya le squadre di emergenza della polizia avevano concluso un’esercitazione in cui avevano sperimentato una situazione quasi identica.
Fin da quattro giorni prima e nello stesso venerdì in cui l’attentato fu perpetrato, unità speciali della polizia si sono esercitate in un’operazione terroristica in corso che era quasi uguale alla situazione che poche ore dopo gli ufficiali della squadra di emergenza della polizia avrebbero affrontato nell’isola di Utøya.
 «Aftenposten» ha ricevuto una conferma da fonti certe presso i funzionari della polizia di Oslo che l’esercitazione si è conclusa alle 15 di quello stesso venerdì.
Tutti gli agenti delle squadre di emergenza che sono intervenuti nel quartiere degli edifici governativi dopo l’autobomba e che più tardi sbarcarono a Utøya per arrestare Anders Behring Breivik, avevano partecipato poco prima in quella stessa giornata - nonché nei giorni precedenti – a un addestramento basato su uno scenario similissimo.
Così alla polizia non è restato che sospendere a quel punto l’esercitazione per addestrarsi direttamente nella realtà.
In base a quanto appreso da «Aftenposten», l’esercitazione si rifaceva direttamente a quanto aveva affrontato la polizia nel lago di Tyrifjorden lo stesso giorno: un attacco terrorista mobile nel quale l’unico obiettivo di uno o più esecutori consisteva nello sparare a quanta più gente possibile e poi nel fare fuoco sui poliziotti al loro arrivo.
«Era assai simile allo schema. Così ha voluto il caso», dichiara una fonte attendibile della polizia, che ha chiesto l’anonimato.

Massacro
Lo scenario dell’esercitazione della polizia non prevedeva così tante vittime come quello verificatosi a Utøya.
Le unità speciali della polizia si addestrano in continuazione. Ma ogni tre mesi i “moduli” su cui si esercitano vanno su tipi di scenario diversi.
Ci sono diversi scenari che la polizia presume possano accadere e nei quali le squadre di emergenza dovranno inserirsi. Possono essere azioni in luoghi chiusi, nelle città o in altre ambientazioni.
Secondo la polizia, questo era uno scenario su cui si sono addestrati più volte all’anno e per vari anni, soprattutto dopo alcuni eventi accaduti in altri paesi.

26 minuti
Appena 26 minuti dopo che l’esercitazione rivolta alle squadre di emergenza si era conclusa, è esplosa l’autobomba nel quartiere dei palazzi governativi. Le squadre di emergenza furono mobilitate prontamente.
Alle ore 17,30 il personale della polizia di Oslo ebbe notizia del fatto che a Utøya era in corso una sparatoria. Fu data così tanta importanza al messaggio che le squadre d’emergenza presero non solo le auto che già avevano a disposizione presso i loro uffici, ma anche le macchine che arrivavano dalla stazione di polizia di Grønland a Oslo.
Lungo il cammino, tentarono di mettersi in contatto con il distretto di polizia di Nordre Buskerud, finché alle 18,02, sei minuti prima di arrivare, presero contatto e concordarono d’incontrarsi a Storøya.
C’erano sette persone delle squadre di emergenza e tre agenti del distretto di polizia di Nordre Buskerud in un unico gommone lungo 4,9 metri. Era così appesantito che iniziava a imbarcare acqua. La polizia era assistita da un’imbarcazione civile e si diresse a Utøya.


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Ecco, dopo la lettura dell’articolo norvegese, è inevitabile che mi venga in mente un altro caso, quello di Londra. Gli attentati di Londra del 7 luglio 2005 hanno coinciso, per tempi e luoghi, con lo svolgimento di un’esercitazione anti-terroristica organizzata dall’impresa Visor Consultants. In base alla clamorosa testimonianza del direttore dell’azienda, Peter Power - registrata dal canale televisivo ITN - in corso d’opera i responsabili hanno constatato nella sala comandi che il loro scenario si realizzava ‘per davvero’ davanti ai loro occhi. Cosa disse lo stesso Peter Power?
Vale la pena leggere la trascrizione dell’intervista:

Power: Alle 9:30 stamani eravamo infatti in piena esercitazione, per una società che conta più di mille persone a Londra, un’esercitazione basata su delle bombe sincronizzate e pronte a esplodere esattamente in quelle stesse stazioni della metropolitana dov’è accaduto stamattina. Mi si rizzano ancora i capelli in testa.

ITN: Per esser più chiari, avevate organizzato un esercitazione per sapere come gestire tutto ciò ed è capitato mentre conducevate tale esercitazione?

Power: Esatto, erano circa le 9:30 stamani. Avevamo pianificato questa esercitazione per una società, per evidenti ragioni non vi dirò il suo nome, ma sono davanti alla TV e lo sanno. Eravamo in una sala piena di gestori della crisi che si incontravano per la prima volta. In cinque minuti abbiamo realizzato che quel che succedeva era vero e abbiamo attivato le procedure di gestione della crisi in modo da passare dalla riflessione lenta alla riflessione rapida, e così via.

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Di recente Miguel Martinez ha scritto sul suo blog un bell’articolo sul caso norvegese, che - oltre a spiegare in modo mirabile il côté “fallaciano” dello stragista nordico - consigliava implicitamente una prudenza estrema prima di ipotizzare scenari analoghi alla strategia della tensione e allo stragismo italiano. Suggeriva in particolare di semplificare la scena anche nel caso Breivik, applicando il famoso “rasoio di Occam”. In pratica un complotto per ragioni geopolitiche ai danni del governo norvegese avrebbe potuto realizzarsi meglio con altri mezzi e non con l’azione scellerata di Breivik, che al contrario ha compattato il popolo intorno ai governanti attuali e intanto fa sì che l’attentatore possa rimanere a lungo esposto al torchio delle autorità. Il rischio per gli ipotetici mandanti sarebbe troppo alto. Ergo è improbabile che ci siano mandanti.

Il consiglio è buono. Ma dissento su un punto: il “rasoio di Occam”. Occam era un filosofo medievale, e nel suo latino diceva: «entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem». Ossia «gli elementi non sono da moltiplicare più del necessario». Usando una sensibilità del XXI secolo il concetto può suonare così: «a parità di fattori, la spiegazione più semplice tende ad essere quella esatta».
Il punto è questo, Occam diventa estremamente inadatto quando si tratta di valutare il terrorismo di questo secolo. Nella scacchiera delle mosse terroristiche gli elementi si moltiplicano, e si complicano oltre ogni necessità normalmente misurata dall’uomo della strada o perfino dalle redazioni degli organi di stampa.
In quasi tutte le vicende terroristiche rilevanti degli ultimi decenni ci sono interferenze di strategie di apparati d’intelligence in grado di sopportare dei prezzi per ottenere risultati strategici. E in molti casi le azioni dei terroristi non si riassumono in rapporti fra mandanti ed esecutori, ma in relazioni molto più complicate e soggette a intermediazioni in grado di mascherare i padroni del gioco. È uno degli strumenti di lavoro preferiti da chi organizza operazioni coperte. Si chiama “plausible deniability”, ossia la possibilità di negare plausibilmente qualsiasi legame con un atto o con delle persone legate a quell’atto.
Sulla funzionalità delle esercitazioni nei casi di attentato rimando a questo articolo: Il caso di Tripod II e altri giochi di guerra dell’11/9. Un estratto potete anche leggerlo come appendice del presente articolo.

Oslo è decisamente un caso ancora aperto.



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Appendice:

Estratto da P. Cabras, Il caso di Tripod II e altri giochi di guerra dell’11/9, 10 settembre 2009.

Il vantaggio di una tale strategia appare del tutto comprensibile e plausibile, volendo iniziare su basi diverse dal passato una vera inchiesta.
In primo luogo dobbiamo ritenere che militari, funzionari governativi o membri dei servizi d’intelligence che avessero in mente azioni eversive non potrebbero organizzare degli attentati senza farsi scoprire. Da qui la prima funzione di un’esercitazione: essa offre agli organizzatori la copertura idonea a mettere in moto l’operazione, permette loro di utilizzare i funzionari e le strutture governative per realizzarla e fornisce una risposta soddisfacente ad ogni domanda che dovesse sorgere su stranezze e movimenti insoliti. Perché possa funzionare, è chiaramente necessario che lo scenario dell’esercitazione sia a ridosso dell’attentato progettato.
In secondo luogo, se prevista nella data dell’attentato, l’esercitazione permette di schierare legittimamente degli uomini sul terreno, uomini che indossano l’uniforme dei servizi di sicurezza o di soccorso. Piazzare fra questi coloro che sistemano delle bombe o coordinano dei movimenti è relativamente facile, senza che sorgano sospetti.
In terzo luogo, lo svolgimento delle esercitazioni in simultanea con i veri attentati permette di scompigliare la buona esecuzione delle risposte da parte dei servizi di sicurezza o di soccorso leali per via della confusione fra la realtà e la finzione. Le contraddizioni e le scoperte di singoli spezzoni dei fatti non intaccano l’insieme. Anzi, aiutano a truccare e rendere incomprensibile il mosaico. L’11 settembre – a un certo punto della mattinata – decine di aerei furono segnalati come dirottati, e si rincorrevano voci di ulteriori attentati. Dove dunque bisognava inviare le pattuglie, quali edifici occorreva proteggere per primi? Si può immaginare il caos che tutto ciò ha potuto sollevare nelle sale comando.
Le operazioni di questa natura sono modulari, mirano a diversi obiettivi compresenti e intercambiabili, altrettante strade a disposizione verso il medesimo effetto, e sono percorse in simultanea, finché la regia, ovunque si trovi, non sceglie una trama tra le diverse trame preordinate che intanto avanzavano alla pari.
Le persone incaricate di eseguire soltanto certi segmenti dell’operazione, obbediscono – spesso in perfetta buona fede - a ordini di personalità a loro sovraordinate che a loro volta conoscono solo un dettaglio, ma non l’intera pianificazione, né i suoi obiettivi.
Sto descrivendo meccanismi normalmente usati nelle azioni dei servizi segreti, che si esasperano nei casi in cui operano le “leve lunghe” e le operazioni coperte, fino a ingigantirsi in occasione di grandi operazioni terroristiche usate come base politica per drammatiche svolte costituzionali e per le guerre.

26 agosto 2011

La “falsa” Piazza Verde di Al-Jazeera

di Massimo Mazzucco - luogocomune.net. Con nota di Pino Cabras in fondo all'articolo.

Questa mattina ho aperto l’e-mail e ho trovato tre persone diverse che mi segnalavano con grande eccitazione questa pagina del sito Stopwarcrimes. L’articolo si intitola “La falsa Piazza Verde di Al-Jazeera”, e sostiene che le immagini dei libici festanti nella Piazza Verde di Tripoli, trasmesse anche da SkyNews, in realtà siano state girate su un set costruito appositamente nel Qatar.  Immediatamente la pressione mi è salita a mille, e ho pensato “I soliti bastardi! Ormai la guerra mediatica è totale”.
A supporto della sua tesi, l’articolo mostra le immagini della (presunta) Piazza Verde trasmesse l’altra sera da Al-Jazeera (foto 1), e le confronta con diverse immagini della vera Piazza Verde (2, 3 e 4), scattate in epoche diverse. (Vedi immagini di seguito).
 tripoli2
Giudicando dai modelli di automobile, la foto 3 sembra risalire agli anni ’40, la foto 4 agli anni ’50/’60, mentre la foto 2 è attuale. Le segnature in verde suggeriscono una differenza nell’arcata della porta di sinistra, e sottolineano la mancanza del rilievo geometrico sopra l'arcata centrale, quella più piccola.
Sotto le immagini dell’articolo si legge: “Quella che vedete non è la “Porta della Libertà” originale (Bab al-Hurriya) con accanto le sue mura di 600 anni. Vedete con i vostri occhi che dalle mura del video di Al-Jazeera mancano diversi dettagli importanti”.
I miei occhi però, almeno a prima vista, non mi indicavano niente di anormale. Mi sono allora procurato un’altra foto recente della piazza, con una prospettiva più simile a quella del video di Al-Jazeera.
tripoli3
Dopodichè ho scaricato il video incriminato, ho aumentato luminosità e contrasto, e ne ho confrontato un fotogramma con quello della piazza attuale:
tripolicompare
Come vedete, tutto torna. Ci sono i lampioni a forma di “fiore cadente” (A), c’è la cabina telefonica (B), c’è la parabola sul tetto (C), e persino gli edifici “in fuga” sotto l’arcata (D) sembrano avere la stessa struttura. Di solito è proprio sugli sfondi che casca l'asino (come accade in molte delle foto lunari).
Ma soprattutto, si vede anche il rilievo geometrico (E) sull'arcata centrale. Ovviamente, con la luce del sole è molto più marcato, ma di certo quel disegno non “manca” dalle inquadrature di Al-Jazeera, come sostenuto da Stopwarcrimes.
Attenzione però, a questo punto, a non commettere la fallacia di Attivissimo della “eccezione che annulla la regola”: il fatto che non sia vero che quel video è falso non significa che non siamo in un’epoca di guerre mediatiche, non significa che molto probabilmente guardiamo spesso immagini manipolate, e soprattutto non significa che i media mainstream non filtrino a priori quello che dobbiamo e quello che non dobbiamo vedere.
Fortunatamente ci restano sempre la logica e il buon senso per capire in che modo stiano andando veramente le cose.

Fonte: http://www.luogocomune.net/site/modules/news/article.php?storyid=3821

Nota di Pino Cabras:
Qualche giorno fa segnalavo - nell'articolo Nebbia di guerra - la circolazione, accanto alle evidentissime menzogne del mainstream, di materiali dubbi che prendevano la via contorta del Web, in particolare la foto ora analizzata da Mazzucco. Scrivevo: "Mi appello con urgenza a fotografi esperti che valutino prospettive e parallassi, trovino immagini recenti della piazza. E che analizzino eventuali ristrutturazioni, modifiche, ecc. Sul web circola infatti un accostamento fra le immagini della manifestazione anti-Gheddafi (le migliaia di persone temerariamente festanti nel pieno di un bombardamento) e le immagini degli edifici visibili [...]. Possiamo sfruttare la rete, le competenze collettive per capire se queste immagini sono vere, visto l’accumulo rapido di falsità che via via hanno reso non credibile la narrazione del mainstream mediatico."
Mi sento di ringraziare a nome di tutti Massimo Mazzucco, per aver accertato in modo definitivo i dettagli giusti di quelle immagini, che sono state riprese, almeno per quella porzione, sulla Piazza Verde.
Altra cosa sono i campi lunghi utilizzati da Al Jazeera su una piazza festante, con inquadrature che mostravano migliaia di persone che sventolavano le bandiere dei "ribelli". Lì il dubbio ormai attraversa anche i giornalisti dei grandi organi di informazione. Sono sempre più numerose le testimonianze sulle immagini riprese in altri luoghi e spacciate per fotogrammi catturati nel centro di Tripoli. Finiranno nei manuali sulla guerra psicologica, ma non sui media, che preferiscono continuare ad assecondare la propaganda bellica secondo i copioni redatti da poche agenzie legate all'intelligence dei paesi coinvolti nei bombardamenti.
La sera del 24 agosto al TG3 il giornalista Flavio Fusi, nel descrivere le scene degli uomini armati che a Tripoli abbattevano i simboli gheddafiani, faceva paragoni con la scena della statua di Saddam Hussein abbattuta "dalla folla" a Baghdad nel 2003. Il paragone calzava in un senso opposto a quello inteso da Fusi. Nelle redazioni lo sanno anche i portapenne che la scena della statua di Saddam è un abile falso: i presenti furono ripresi strategicamente in modo da non far notare che intorno a quella manciata di persone la folla non c'era proprio. Fusi, come la maggioranza dei suoi colleghi, si è adeguato al ruolo di portapenne. A forma di pappagallo. Triste fine per il TG che ospitava le bellissime corrispondenze di Lucio Manisco.

23 agosto 2011

Nebbia di guerra

di Pino Cabras - da Megachip.

Siamo in piena nebbia di guerra. Circolano immagini di Gheddafi morto, che sono evidenti falsi, ma molti siti dei giornali le presentano lo stesso con il dubbio, e intanto colpiscono l'immaginario collettivo e lo predispongono al parossismo della battaglia finale. Era accaduto così anche per quell'incredibile farsa dell'uccisione di Bin Laden. Poi che succede? Annunciano la cattura del figlio di Gheddafi, i media la amplificano in mondovisione, ma Seif el Islam in persona si incarica di smentirla pomposamente. La Repubblica scrive nei titoli che il rais ha ordinato di sparare ai bambini, cosa falsa, ma nasconde che ospedali e obitori sono al collasso per i morti causati dai bombardamenti NATO. Molti i bambini.
Si nasconde da parte di tutta la fabbrica della menzogna mondiale che sono presenti in forze a Tripoli le truppe speciali dei paesi NATO, in spregio perfino della vergognosa risoluzione 1973 che ha ucciso l'ONU prima della Libia. Il mainstream è totalmente inattendibile.
Le poche voci indipendenti fanno un lavoro impossibile, svuotano uno tsunami con i cucchiaini.
La portata delle falsità e delle complicità delle redazioni dei giornali non ha forse precedenti altrettanto clamorosi. Di fronte a una simile mole di operazioni psicologiche, menzogne, annunci inattendibili, foto false, in queste ore concitate - per chi non ha mezzi redazionali sufficienti - è un ottimo modo di cominciare il lavoro fare una piccola operazione preliminare: non credere per principio ai grandi media e ai governi. Chi si fida ancora di Al Jazeera e CNN? Sono enormi strutture embedded.
Il corollario è che occorre cercare fonti alternative, che possono però fuorviare o essere soggette anch'esse all'influenza di false notizie, imbeccate in modo funzionale all'operazione propagandistica nel suo insieme.
Ma deve essere chiaro che il livello di manipolazione è tale che occorre apertamente ipotizzare che esistano interi set allestiti per creare una narrazione totalmente inventata. In Qatar esistono: ufficialmente per addestrare soldati alla guerriglia urbana, ma adatti a creare – perché no? – lo sfondo per qualche abile video, o qualche foto glamour sui ribelli eroici. I precedenti abbondano.
Circola anche un raffronto fra le immagini mostrate dalle TV della Piazza Verde - dove la sera della "spallata" a Tripoli si sarebbero radunate decine di migliaia di persone che festeggiavano "la fine del regime" - con immagini precedenti di quella piazza senza i "ribelli".
Mi appello con urgenza a fotografi esperti che valutino prospettive e parallassi, trovino immagini recenti della piazza. E che analizzino eventuali ristrutturazioni, modifiche, ecc. Sul web circola infatti un accostamento fra le immagini della manifestazione anti-Gheddafi (le migliaia di persone temerariamente festanti nel pieno di un bombardamento) e le immagini degli edifici visibili, in particolare la porta di Bab al-Azizya.
Come nel “trova le differenze” dei settimanali enigmistici, si notano alberi e lampioni che mancano, difformità negli intonaci e nei fregi, ecc.
Non sto annunciando uno scoop. Non cerco scoop. Non c’è tempo. Ma possiamo sfruttare la rete, le competenze collettive per capire se queste immagini sono vere, visto l’accumulo rapido di falsità che via via hanno reso non credibile la narrazione del mainstream mediatico.
Il sospetto non è complottismo: è sfiducia nel lavoro del grande giornalismo, grande solo nei mezzi soverchianti. Faccio appello ai lettori per capire se non siamo dentro il set di una guerra mondiale, posto che siamo dentro la nebbia di guerra.


22 agosto 2011

La tragedia di Tripoli e del Mediterraneo

di Pino Cabras - da Megachip. Con aggiornamenti.



Si consuma una grande tragedia, in queste ore, sulle altre sponde del nostro mare, tra Tripoli e Gaza. Sono le avvisaglie di un dramma e di un disordine più vasto, che arriverà addosso anche a milioni di cittadini europei inconsapevoli. In Libia, le notizie provengono in prevalenza dalla NATO, nel suo ruolo di armata coloniale. È una fonte interessata, ed è una fonte che finora è stata smaccatamente inattendibile. Pur scontate le sue menzogne, la spallata contro Tripoli registra un successo militare reale, perfino mettendo da parte le notizie esagerate sulle folle festanti. C’è morte e distruzione e c’è la fine di uno stato sovrano.
La spallata si è sostanziata nella stessa tattica usata dalla NATO nelle altre città fatte conquistare per poche ore ai “ribelli”, altrimenti incapaci di qualsiasi progresso: anche a Tripoli la condotta militare è consistita in un attacco aereo spietato che ha colpito i civili, creato panico, subissato di fuoco le difese locali, in modo da far penetrare le forze minoritarie e caoticamente disgregatrici dei "ribelli". In parte Iraq e in parte Somalia, con in più l’accanimento contro la capitale lealista. E con in più, ancora, una copertura mediatica che sforna una serie interminabile di notizie false. I media sono stati usati come un’arma psicologica chiave con una potenza mai usata prima. È una tragedia nella tragedia, perché i media sono sempre più docili verso il flusso di notizie che garba al potere militare. E questo aprirà le porte al peggio. Non è un caso che le voci giornalistiche non embedded presenti a Tripoli siano soggette proprio adesso a un attacco fisico diretto e implacabile. Cecchini hanno sparato a Mahdi Nazemroaya, che sinora ha smascherato molte menzogne di guerra (da ultimo la conquista dell’aeroporto di Tripoli) e copre i fatti libici anche per Russia Today. E' scampato all'agguato. Intanto, l’hotel Marriott sarebbe in fiamme dopo che i cecchini hanno tentato di assassinare anche un altro giornalista indipendente, Franklin Lamb. Non abbiamo ancora notizie di Thierry Meyssan.

Aggiornamento delle ore 12 del 22 agosto 2011: abbiamo appreso che Meyssan è per ora al sicuro.
Data la capacità e la visione strategica dimostrata dal regime di Gheddafi rispetto allo strapotere tecnologicamente superiore ma indiscriminato della NATO, alla fine la NATO ha dovuto dare massima priorità alla manipolazione, fino a raccontare nei giorni scorsi conquiste inesistenti, espugnazioni di aeroporti, basi militari, strade e altri luoghi, tutti mai raggiunti fino ad allora dalle modestissime forze dell’Armata Brancaleone di Bengasi.
Era “fumo di guerra” che nascondeva il vero martellamento, l’azione della NATO che bombardava le condotte idriche, i potabilizzatori, le autostrade, le centrali elettriche, le famiglie dei dirigenti libici, i media. Senza risparmio di uranio impoverito. Questa non è una battaglia di civili contro un dittatore. Questa è una tipica Guerra NATO del XXI secolo. L’ennesima guerra «Shock and Awe», che colpisce, sgomenta, sfrutta il potenziale demoralizzante delle stragi di bambini: metodi da guerra totale. Cosa tutto questo abbia a che fare con la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, che chiedeva l'istituzione immediata di una tregua e la fine completa delle violenze e degli attacchi ai danni dei civili, sarà materia di valutazione degli storici, visto che i politici nostrani accettano ogni bugia, mentre il fu movimento pacifista italiano è una barzelletta, sempre più oscena.
La sconfitta di Gheddafi non aprirà la strada a nessun processo democratico. Aprirà semmai nuovi corridoi al precipitare delle crisi geopolitiche contemporanee.


19 agosto 2011

Audite audite!

di Pino Cabras - da Megachip.



Ci sono bei momenti in cui puoi fare quelle belle cose inutili che ti riconciliano contemplativamente con il passare del tempo. C’è chi ha questi momenti mentre si taglia le unghie. Chi quando si affaccia dalla finestra e conta le auto rosse che passano in strada nel prossimo quarto d’ora. Io leggo Paolo Attivissimo.
Come al solito Attivissimo guarda il dito e non la luna. Ha letto anche lui un recente articolo di Giulietto Chiesa, che è stato uno dei primi e dei pochi a raccontare una questione importantissima, su cui la grande corrente dei media non ha voluto sinora raccontare niente. Si tratta di un audit delle attività della Federal Reserve, la banca centrale USA, la famosa FED, l’architrave della moneta creata dal nulla su cui si regge tutta la baracca del debito mondiale.
L’audit eseguito nel 2011 è stato il primo in cent’anni, e ha violato la secolare opacità di un’istituzione chiave del mondo contemporaneo, finora mai osservata abbastanza da vicino nonostante la sua rilevanza primaria: questa è già un’enorme notizia. Il fatto che gran parte del giornalismo l’abbia omessa è in sé scandaloso. Direi che è una vergogna mondiale che spiega benissimo perché economisti, politici e giornalisti di punta si dicano sempre «sorpresi dalla dimensione della crisi», mentre Giulietto Chiesa ne parla da dieci anni. Ma andiamo avanti. Com’è nato questo audit? Il controllo contabile dettagliato è stato sollecitato da alcuni parlamentari statunitensi, incluso Ron Paul. E qui si entra in un altro campo in cui la notizia diventa miracolosamente una non notizia e un personaggio una non persona. Chi sarà mai costui? Ron Paul, pur essendo fra i primi due candidati presidenziali finora preferiti dai militanti repubblicani – come risulta dal recente “sondaggio di partito” dell’Iowa – e pur essendo il candidato che ha raccolto finora più donazioni, persino più di Obama, è totalmente e letteralmente sparito dalle cronache, anche sui media italiani. Succede ai personaggi davvero scomodi che sollevano questioni tabù, come per l'appunto l’audit che ha ficcato il naso nel focolaio della finanza mondiale.
Cosa ha scoperto dunque l'audit, al quale la FED e Wall Street si erano opposte per anni con furia leonina? Ha smascherato un’assistenza finanziaria a tasso zero a beneficio delle banche, per una somma aggregata di 16 mila miliardi di dollari in tre anni. Giulietto Chiesa nel suo articolo ha ripreso – niente più, niente meno - lo stesso allusivo accostamento fatto dal senatore Bernie Sanders, il quale sottolineava scandalizzato come il PIL di un anno degli Stati Uniti è di circa 14,2 trilioni (ossia 14.200 miliardi) di dollari e che il debito federale USA sta ora superando i 14,5 trilioni, ossia 14,5 milioni di milioni di dollari. Essendo cifre molto diverse da quelle che chiunque possa normalmente maneggiare nei propri portafogli, i termini di paragone aiutano: l’ordine di grandezza dei numeri messi in mano dalla FED al sistema bancario come motore di avviamento delle sue immense operazioni è effettivamente confrontabile con le grandezze che pesano sugli equilibri degli Stati.
Detto in altri termini: entità non trasparenti (così opache che per cent’anni non avevano nemmeno subito un audit) stanno maneggiando risorse finanziarie raffrontabili a quelle delle maggiori potenze industriali del pianeta. In un recente e bellissimo articolo Gaetano Colonna ha messo in luce che certe realtà della finanza mondiale - che oggi sappiamo tra le dirette beneficiarie dei servizietti segreti della FED - possono essere definite «degli Stati finanziari totalmente indipendenti», tanto grande e incontrollato è il loro rilievo politico. Agisce, ciascuna di loro, come uno Stato: “superiorem non recognoscens”. Masse enormi di liquidità, emesse in modo non trasparente, sono la linfa di queste entità. Chiunque voglia capire il potere mondiale di questi anni deve partire da qui. Questo è il cuore della questione.
Ma prima di entrare nel cuore della questione, e visto che ci ha messo mano Attivissimo, armatevi di un vocabolario, come si conviene davanti ai manipolatori della sua risma. La prima parola da cercare, come sempre al suo cospetto, sarà “sussiego”: «atteggiamento e contegno sostenuto e serioso che lascia intravedere, dietro la gravità dei modi, dei gesti e delle parole, una componente di altezzosità e di boria confortata da un sentimento di supposta superiorità». Sussiego. Perché sappiate che il Torquemada del Ticino crede perfino di avere il monopolio dei vocabolari. Infatti l’assessore alle bufale proclama:
«l'uso di "trilione" come equivalente italiano di "trillion" da parte di Giulietto Chiesa è errato. In italiano, "trilione" è 1 seguito da diciotto zeri (un miliardo di miliardi); in inglese corrente (britannico e americano), "trillion" è 1 seguito da dodici zeri (mille miliardi).»
Bum! Qualcuno avverta Attivissimo che il Concise Oxford Paravia Italian Dictionary precisa che trillion / tri'ljən/ si traduce sia con quintilione (un milione di milioni di milioni), sia – guarda un po’ – con trilione.
Questo accademico della crusca OGM ama così tanto i documenti ufficiali, che per impartire a Giulietto Chiesa e a tutti noi la sua lezioncina di lingua italiana ha fatto ricorso alla definizione di trilione contenuta nell’autorevolissima ma ahinoi sconosciuta Direttiva europea “concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri relative al trasporto di merci pericolose su strada”. Figuratevi se uno come lui userebbe mai la definizione di trilione della Treccani, o la definizione di trilione della Hoepli («In Italia, Francia e USA, mille miliardi»), o la traduzione del Sansoni.
Stabilito dunque che la cattedra del Piero Angela dei poveri è tarlata da far paura già sulle piccole cose, andiamo a vedere come funziona sulle grandi cose, quelle che ci stanno a cuore. Andiamo perciò all’interpretazione dell’audit che ha messo a nudo la banca centrale statunitense.
Ora, Attivissimo si aggrappa a una questione certo importante messa in luce dall’audit. Che cosa dice lo schiacciabufale? «In sintesi, queste cifre enormi vengono fuori perché se una banca riceve in prestito per un giorno dieci miliardi e poi il prestito viene prorogato per 30 giorni, vengono conteggiati 300 miliardi. Ma il prestito effettivo è di dieci. Faccio un esempio pratico: presto a un amico cento euro e lui me li restituisce il giorno dopo. Glieli ripresto il giorno dopo e lui me li restituisce l'indomani. Andiamo avanti così per dieci giorni. Quanti soldi gli ho prestato in tutto?».
In sostanza la lettura dei prestiti nella tabella aggregante ripresa anche dall’articolo di Chiesa andrebbe corretta e ridimensionata in base alla durata dei prestiti, al fatto che non sono omogenei, al fatto che sono spesso erogati svariate volte e restituiti altrettante volte e perciò la loro somma non varierebbe.
Trionfalmente Attivissimo conclude che «i 2500 miliardi di dollari riguardanti la Citigroup, che costituivano il grosso della cifra incriminata, sono in realtà 67».
Il che già sarebbe più della manovra che questo autunno affosserà il ceto medio italiano. Ma non è questo il punto.
Il punto è che Attivissimo non riesce ad accorgersi della gravità di quei prestiti rinnovati e restituiti a cadenza giornaliera nel grande casinò delle banche, e del perché non sia affatto cosa balzana valutare l’effetto che si ha a sommarli. Non si chiede ad esempio a cosa possano servire. Qualcuno gli spieghi ad esempio cos’è il “carry trade”, magari qualche islandese che lo ha appreso a proprie spese. Si tratta di uno dei giochetti finanziari più noti e spiegabili anche a chi non è specialista di finanze. Il “carry trade” è una speculazione che consiste in questo: io banca prendo a prestito il denaro in paesi che hanno tassi di interesse più bassi, e lo cambio nella valuta di paesi che pagano un rendimento maggiore: in questo modo ripago il debito che avevo contratto e ci guadagno anche con la stessa operazione finanziaria, con pochi clic sullo schermo del mio computer. Magia.
Le banche avevano fatto così per anni con l’Islanda. Si facevano prestare i soldi in Giappone, dove pagavano poco più dello zero in interessi, e reinvestivano a Reykjavík lucrando interessi ben più alti, così creando una bolla finanziaria molto più estesa delle masse monetarie impiegate. Trilioni di dollari (quelli del vocabolario italiano e non quelli dei manualetti di Attivissimo) alla fine scoppiarono in tutta la loro virtualità e gli islandesi si trovarono sul groppone un debito impagabile. In parte si son rimessi in piedi ripudiando il debito e mettendo in galera qualche banchiere. Cosa che occorrerà fare anche altrove.
Come ha notato John Mason, professore di Finanze presso la Penn State University ed ex-economista senior presso la Federal Reserve, la maggior parte dello stimolo monetario generato dal sistema della Federal Reserve a tasso zero sembra essersi indirizzato sul mercato dell'Eurodollaro. Anche questo è "Carry Trade". Il prestito avviene off-shore, ed è sottoscritto proprio dal sistema della Federal Reserve. Ciò che era nato per stimolare Main Street (ah, la retorica obamiana!) è finito invece a Wall Street, in una grande pratica speculativa, senza quasi che un dollaro sia andato a sanare il motore ingrippato dell’economia USA, tecnicamente già fallita. “Pratica speculativa” significa che non c’è stato nessun moltiplicatore del credito nel sistema dei prestiti alle imprese e al lavoro, come promesso, ma si è innescato invece un moltiplicatore del credito nel sistema bancario ombra, quello dei dollari che viaggiano in un nanosecondo.
I 67 miliardi di dollari “effettivi” - di cui parla Attivissimo fra un lazzo, un insulto e un cachinno - innescano esattamente manovre per 2500 miliardi create dal nulla, perché Citigroup ha bisogno di questo doping per tenere in piedi il suo motore sovralimentato, senza più legami con l’economia reale. È così sbagliato considerare anche il loro effetto aggregato? Io ritengo di no. E penso che anzi perfino quelle cifre nominali, riportate dal senatore Bernie Sanders e poi da Chiesa sulla scorta dell’audit, non riescano nemmeno a tenere conto della reale dimensione delle masse monetarie realmente attivate.
Lo so che il gergo finanziario è pesante, ma questo è, e ce lo dobbiamo tenere: questo mastodontico flusso di transazioni parallele, da cliente a cliente, è definito «Over The Counter» (OTC). È un mondo ancora più irraggiungibile da qualsivoglia audit o da indagini tributarie. Chi voglia farsi rassicurare dal genio finanziario dei debunker, si accomodi. Chi voglia saggiamente preoccuparsi, consideri invece che il mondo parallelo delle transazioni Over The Counter vale - almeno dal punto di vista nominale - decine di volte il PIL degli USA e dell’Europa. I giochetti della FED hanno consentito a banche stracolme di attivi “tossici” di proseguire ancora, di farsi alcuni nuovi giri di giostra.
Con alcuni soggetti i giri di giostra erano lenti. Con altri erano velocissimi.
Se ho un giorno intero per restituire un prestito e mi chiamo Goldman Sachs, e ho dei sistemi che mi permettono di investire e disinvestire in una frazione di secondo e di ripetere il giochino sfruttando i margini e i differenziali subito dopo per milioni di volte, spostando i soldi in qualsiasi punto del pianeta, capite bene che quel giorno intero non lo sto misurando con il metro della massaia linguista di Lugano, e nemmeno con i riflessi da bradipo dei governi. Quel giorno è per me un’eternità piena di fatti che riempiono i miei forzieri. E così i giorni interi successivi in cui ho a disposizione quella provvista extra e autoliquidante che mi regalano alla FED. Magari i forzieri si riempiono "nominalmente": i fantastiliardi (cercali nel vocabolario, Attivissimo) si convertono in denaro reale solo in piccole percentuali, quelle che fanno yacht e Saint-Tropez. Il resto è garanzia per ulteriori prestiti. È riserva frazionaria fittizia per moltiplicare la massa monetaria non circolante. È innesco di urti irresistibili per condizionare il potere politico, quando si inchina “ai Mercati” e la maggior parte dei lettori sotto i quarant’anni non vedrà realisticamente una pensione, al netto delle preziose assicurazioni anti-apocalisse di Attivissimo. Il quale non è nemmeno un agente del Nuovo ordine globale. E' solo uno che usa a suo modo la lingua

11/9: Le importanti allusioni di Richard Clarke (da prendere con le pinze)

di Giulietto Chiesa – da Megachip.


Nel decimo anniversario dell’11 Settembre 2001 erano prevedibili bombe e bombette, nel senso di rivelazioni (e speriamo solo di quelle). Una ce la regala Richard Clarke, l’ex capo dell’antiterrorismo americano, che fu liquidato qualche settimana dopo l’11 settembre dall’Amministrazione Bush e che ora si toglie qualche altro sassolino dalla scarpa.
Ma, come vedremo, non tutto è chiaro dalle sue indiscrezioni. Procediamo con ordine. Clarke rilascia un’intervista (nel 2009) a due giornalisti investigativi americani che stanno facendo un film sull’anniversario.
Sono Ray Nowolinski e John Duffy, già autori di un’inchiesta cinematografica sulla madre di tutti gli attentati, “9/11 Press Truth”. L’intervista dovrebbe essere andata in onda l’11 agosto su una stazione televisiva del Colorado, affiliata alla Public Broadcasting Company. Di essa hanno già parlato in molti, tra cui Philip Shenon, autore del famoso Omissis: tutto ciò che non hanno voluto farvi sapere sull’11 settembre. Il “dunque” di Richard Clarke edizione 2009 è questo: la CIA sapeva dell’esistenza di almeno due presunti terroristi; sapeva dov’erano, sul territorio degli Stati Uniti; sapeva dove abitavano; li stava seguendo e sorvegliando ben prima dell’11 settembre. Ma non lo disse alle altre agenzie speciali americane. Anzi lo tenne accuratamente nascosto e impedì alle consorelle di trovarli.
Come ben si comprende l’accusa è gravissima e va ben al di là della questione dell’«incompetenza» di alcuni o molti funzionari dell’Amministrazione americana. Sfortunatamente questa accusa non è corroborata da prove, sebbene sia abbondantemente farcita di indizi e di dettagli assai importanti. Come questo: Clarke precisa che di queste informazioni erano al corrente non solo George Tenet, allora direttore della CIA, ma anche altri 50 importanti agenti, ripete agl’intervistatori, sottolineando le parole: “five-zero”. Tra questi dovrebbero esserci Cofer Black, capo dell’Unità antiterrorismo della CIA, e Richard Blee capo dell’unità che si occupava specificamente di Osama bin Laden. Unità denominata “Alec Station”. Tutti personaggi-chiave, che risulta fossero presenti in una cruciale riunione dei vertici dei servizi segreti al completo, che si svolse all’inizio di luglio 2001 alla Casa Bianca, presenti George Bush, e lo stesso Clarke (ancora – per poco - al suo posto di capo di tutto l’antiterrorismo americano). La consultazione, per giunta, erano stati Tenet e Blee a promuoverla. Ma “non dissero nulla di quello che sapevano”. Se lo avessero rivelato, “noi quei farbutti li avremmo presi”.
Clarke allora avanza una “ipotesi”, attribuendola esplicitamente a «certi invertigatori dell’FBI», secondo la quale la CIA «stava conducendo una joint venture con l’intelligence saudita», forse «pensando che l’intelligence saudita avesse migliori possibilità degli americani di reclutare quei tizi». Richard Clarke, che se ne intende, aggiunge il suo commento: «Ciò avrebbe cancellato ogni traccia di una presenza della CIA nell’operazione». Chi erano quei tizi è noto. Ne parlava diffusamente Philip Shennon, nel suo libro, dopo avere intervistato la gran parte dei funzionari della Commissione Ufficiale d’inchiesta, che poi produsse il “9/11 Report”. Erano Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar, coloro che, sempre secondo la Commissione Ufficiale, avrebbero dirottato il volo AA 77 che si sarebbe schiantato sul Pentagono.
Tra breve ripercorreremo questa storia. Ma prima bisogna tornare alle rivelazioni di Richard Clarke. Il quale punta tutto sull’accusa alla CIA di avere impedito di scoprire i terroristi. Secondo Clarke sarebbero così stati neutralizzati sia l’FBI (che aveva un team speciale antiterrorismo, chiamato “Squad I-49”), sia il Pentagono, che aveva anch’esso un team specialissimo, chiamato “Able Danger”. Risulta che tutti, già allora, sospettavano che la CIA giocasse carte false (e, tra spioni, non dovrebbe essere strana la reciproca diffidenza). Eppure tutti furono bloccati a causa della CIA? Sembra quasi che Richard Clarke abbia un obiettivo preciso: scaricare di ogni responsabilità l’FBI e anche il Pentagono.
Ma c’è qualcosa che non quadra affatto in questa rivelazione. E, soprattutto, c’è più di una impressione che Richard Clarke stia lanciando dei segnali e stia invitando qualcuno a andare a vedere le carte in mano a tutti i giocatori. Prima di dire dove si vedono i buchi del ragionamento, vediamo come si è mosso Clarke. Di tutte queste cose, prima di tutto, non disse nulla quando fu sentito dalla Commissione Ufficiale. Se n’è ricordato dopo? E adesso tira fuori accuse pesantissime contro i vertici di allora della CIA, dichiarando in partenza di non avere prove? Non appare subito come un gesto imprudente? Oppure come un segnale lanciato a qualcuno?
In secondo luogo Clarke pubblicò un libro, subito dopo la pubblicazione del “9/11 Commission Report”, intitolato, assai significativamente, “Against All Enemies” (Contro tutti i nemici). Quel titolo non dice molto a uno straniero, ma dice moltissimo a tutti i funzionari americani che hanno giurato fedeltà alla bandiera e alla patria. Perchè è una citazione da quel giuramento: “Against all enemies foreign and domestic”. Attenzione al “domestic”! C’erano dunque “nemici interni” da cui difendersi? E ci sono ancora? Si noti che si tratta di “nemici”, non di incompetenti pasticcioni. Richard Clarke, in quel libro, non contraddiceva affatto la teoria ufficiale (e, per questo, fu ignorato da tutti gli scettici dei movimenti per la verità sull’11/9). Ma forniva, per così dire, dei fili di Arianna che lettori attenti avrebbero potuto seguire per “uscire” da quella teoria. Qualcosa di molto simile ai trucchi usati dagli scrittori russi per sorpassare indenni la censura di stato. Bisogna pur vivere negli Stati Uniti di oggi. E Clarke è uno che vuole vivere, anche se pericolosamente.
Veniamo dunque alla storia di Nawaf e Khalid, per scoprire presto che Richard Clarke non ce la racconta tutta. Nel gennaio 2000 si tiene in Malaysia, a Kuala Lumpur, una riunione di terroristi per pianificare attentati contro gli Stati Uniti. Prima circostanza: questo gruppo è già stato infiltrato (non si sa da chi). Infatti la National Security Agency (altro servizio segreto USA, uno dei più importanti) sa in anticipo di questo incontro e ne informa la CIA. L’incontro, segretissimo, avviene letteralmente sotto gli occhi degli agenti americani, che registrano tutto e fotografano perfino tutti i partecipanti. Tra gli altri presenti ci sono Nawaf al-Hazmi e Khalid al-Mihdhar. Risulta che, tra gli agenti della CIA che monitorarono l’incontro c’era anche Jennifer Matthews e un’altra donna, “dai capelli rossi” che è ancora operativa e il cui nome non può essere adoperato (su richiesta della CIA al sito Truthout, per non danneggiare gl’interessi americani).
Comunque questa Jennifer doveva essere un tipetto niente male. Secondo Joby Warrick, reporter del Washington Post, nel suo libro “Triple Agent”, la Matthews era presente in Thailandia , nella prigione segreta (un’altra delle tante, che emerge solo ora) in cui Al Zubaydah fu waterboarded nel 2002, dopo essere stato catturato, presumibilmente in Pakistan. Peccato che non possa più né confermare, né smentire: risulta essere stata uccisa nel 2009 in un attentato terroristico suicida a Khost, in Afghanistan, insieme ad altri sette agenti della CIA. All’epoca Jennifer Matthews era a capo della Base Operativa Avanzata Chapman.
Torniamo ora a Kwala Lumpur. Tre dei partecipanti alla riunione (al-Hazmi, al-Mihdhar e Walid bin-Attash, quest’ultimo sarebbe stato l’organizzatore dell’attacco alla USS Cole, che provocò la morte di 17 marines americani) prendono l’aereo e vanno in Thailandia. Qui – sorpresa delle sorprese – la CIA perde le loro tracce. Risulta agli atti che i loro pedinatori (tra cui la Matthews) inviarono una sconsolata comunicazione in tal senso al team della CIA Alec Station.
Da quel momento – se questa storia fosse vera – la CIA sarebbe uscita di scena, appunto avendo perduto le tracce. Ma noi sappiamo (chi ce lo dice? Altra sorpresa, l’FBI)) che due dei tre – Walid bin-Attash seguì un altro percorso – appunto Nawaf e Khalid, arrivano a Los Angeles il 15 gennaio 2000. Accolti all’aeroporto da Omar al-Bayoumi, funzionario saudita ma anche agente dell’FBI. Qui il racconto viene ampiamente corroborato dall’indagine di Philip Shenon. I due vengono ospitati nella casa di San Diego di un altro “storico confidente” dell’FBI, tale Abdulsattar. Vivono per undici mesi almeno in casa sua; ricevono denari da al-Bayoumi; al-Hazmi ha addirittura il suo nome sull’elenco telefonico; pagano con carte di credito intestate ai loro veri nomi. E risulta anche che sono entrati negli Stati Uniti addirittura con un visto multiplo. Tutte queste notizie – scrive e documenta Shenon – erano negli archivi dellFBI di San Diego. Dunque affermare che l’FBI è stata bloccata dalla CIA non è affatto fondato. Anzi si può dire con certezza che al-Bayoumi o Abdulsattar, o entrambi, hanno dato informazioni giuste all’FBI, guadagnandosi onestamente la paga. Altrimenti dovremmo supporre che i due erano seguiti da uno stuolo di agenti di diverse agenzie. Ma, certo, questi dati erano tutti in possesso dell’FBI. Le informazioni furono così ricche e precise da permettere di sapere che Khalid al-Mihdhar ripartì alla volta dello Yemen nel giugno 2000 e ritornò in California il 4 luglio 2001, con un nuovo passaporto e “inosservato”.
Ma come avrebbe potuto passare inosservato se il suo arrivo è stato registrato ed è presente agli atti?
Dunque l’FBI – qualcuno dell’FBI – faceva parte del gruppo che proteggeva i terroristi. Probabilmente anche qualcuno della CIA faceva parte, e con alta probabilità anche qualcuno di Able Danger. Ma noi, come Clarke, possiamo fare solo ipotesi. Dunque, ancora, Richard Clarke non dice tutta la verità e vuole difendere qualcuno. Non sappiamo chi e perchè. Ma, seguendo il suggerimento di Ian Henshall (autore di “911:the New Evidence”) potremmo provare a seguire uno dei fili di Arianna lasciato pendente da Richard Clarke quando ipotizza che la CIA avesse una joint venture con l’intelligence saudita. «Se voi sostituite Mossad con i sauditi – scrive Henshall – allora troverete una spiegazione per gli israeliani danzanti, arrestati (a New York, ndr) mentre filmavano e celebravano festanti le torri che crollavano, e poi rilasciati per ordine dell’Amministrazione Bush». Se è così allora Richard Clarke è disposto a vivere pericolosamente. E vuole vivere. Per questo, dieci anni dopo, dice quello che dice e non dice quello che non può dire.

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