30 agosto 2014

Boeing: non vogliono dirci la verità che hanno scoperto

di Giulietto Chiesa e Pino Cabras.



Le chiavi del mistero della «Ustica ucraina» sono saldamente nelle mani del governo di Kiev, che potrà decidere se tenerle per sé. I risultati delle indagini sui resti del Boeing della Malaysia Airlines abbattuto il 17 luglio 2014 sul quadrante sudorientale dello spazio aereo ucraino sono segreti e potranno rimanere tali a discrezione di alcuni paesi interessati, tra cui la stessa Ucraina.

La clamorosa rivelazione è rimasta sotto traccia per diverse settimane, nonostante ne avessero già parlato diverse insospettabili fonti ucraine, tra cui l'Agenzia Interfax-Ucraina e l'agenzia filogovernativa UNIAN. I grandi media occidentali non l'hanno ripresa.

La notizia è questa: l’Ucraina, i Paesi Bassi, l’Australia e il Belgio hanno firmato, in data 8 agosto, un «Non Disclosure Agreement», ossia un accordo per non rendere noti i risultati ottenuti fin qui dall’inchiesta sul volo MH17. A parlarne è stato il portavoce del procuratore generale dell'Ucraina, Jurij Bojčenko, nel corso di un briefing tenutosi il 12 agosto.


L'esponente della magistratura ucraina ha definito questo accordo quadripartito «senza precedenti». È stato infatti firmato, irritualmente, mentre stavano indagando le autorità competenti, «senza il coinvolgimento dei ministeri degli esteri dei paesi» interessati. Pertanto il livello politico di governo è schermato, mentre la decisione formale sul segreto di Stato rimane in capo, in apparenza, solo a un livello “tecnico”. In realtà il peso politico dell'accordo internazionale è confermato da un passaggio successivo. Dopo la firma, infatti, la Verkhovna Rada (il Parlamento dell'Ucraina) ha ratificato l'accordo e ha consentito la partecipazione aggiuntiva alle fasi tecniche dell'inchiesta da parte di personale specializzato della Malaysia, paese direttamente interessato e colpito dalla tragedia. 
La squadra dei firmatari (e decisori) comprende dunque, oltre all'Australia, due paesi chiave della NATO, Belgio e Paesi Bassi, anche se il Belgio ha avuto solo quattro vittime. Ma non comprende – in sede di decisioni - la Malaysia. Tuttavia il vero paese-chiave è l'Ucraina, cioè il primo responsabile del controllo del proprio spazio aereo, che ottiene una sorta di diritto agli “omissis” dai partner dell'inchiesta.

I risultati dell'indagine saranno pubblicati una volta che essa sarà completata soltanto se prevale un accordo di consenso di tutte le parti che hanno firmato l'accordo. Cioè ognuna delle parti, se ha interesse, ha diritto di veto alla pubblicazione. Il tutto «senza dover offrire ulteriori spiegazioni». 

Si può star certi che l'insolito accordo quadripartito non esimerà la Russia dal sollevare la questione in termini giuridici e politici a livello internazionale. Al momento l'ICAO (International Civil Aviation Organization) non ha reagito alla notizia.

Sebbene i media e i governi occidentali avessero dichiarato all'istante la loro “certezza” su chi fosse responsabile dell'abbattimento, gli esperti internazionali ammettono che per l'indagine sui frammenti del Boeing 777 malaysiano ci vorranno parecchie settimane. La seconda fase riguarderà le ricerche sui resti delle vittime del disastro del volo MH17. 

Il grande silenzio mediatico che ha ormai avvolto la vicenda fa presumere che i risultati dell'indagine siano effettivamente secretati e che la perizia finale non verrà diffusa (o che lo sarà solo dopo qualche anno, quando le cause politiche del disastro avranno già perduto la loro rilevanza, sostituite da altre tragedie). 

Il sospetto è che risultati provvisori dell'inchiesta dimostrino già oggi che i responsabili del disastro non siano né a Mosca né fra i ribelli di Donetsk.




29 agosto 2014

Invasione russa? Una figura da Cioccolatenko

di Pepe Escobar
[con commento di Giulietto Chiesa e aggiornamento di Pino Cabras in coda all'articolo].



Moon of Alabama smonta tutta la bufala.  

Eccoti servita la tua "operazione di informazione"quotidiana dell'Impero del Caos: il tutto avviene tramite un"errore di traduzione" da parte dell'agenzia Reuterspoidistribuito in tutto il mondo.  

Citazione dalla Tagesschauil massimo telegiornale tedesco:  
«Sull'#Ucraina c'è stato un errore di traduzione da parte dell'agenzia Reuterssecondo la correzionePoroshenko non ha parlato di un'invasione».  
E poi c'è il pezzo sensazionalista del New York Times di oggi.  

Moon of Alabama lo spiega bene«Si noti che un autoredel pezzo del NYT è Michael Gordoncheinsieme a JudithMillerscrisse i sensazionali reportage in merito alle provesulle armi di distruzione di massa in Iraq.
L'attuale capo della NATO che sta promuovendo la guerracontro la Russiail sig. Foghadiguerra Rassmussenebbe a dire 11 anni fa"L'Iraq possiede armi di distruzione di massa. Non è qualcosa che pensiamoè qualcosa che sappiamo".  
Queste persone e le agenzie di stampa occidentali, ossia gli stessi soggetti che hanno fatto la campagna promozionale sulle le armi di distruzione di massa in Iraq,stanno ora asserendo che ci sia una "invasione" russa in Ucraina, pronti a ritrattare soltanto quando il danno è fattoGuerrafondaiTutti loro»

GiustoHo ricevuto una telefonata dall'emittente RT poche ore fa a questo proposito, e ne abbiamo discusso come diuna mossa disperata da parte di quel cioccolataio diCioccolatenkoMa per ora nessuno c'è cascatotranne quei boccaloni dei grandi media USA (e italiani, NdT).


Fonte: pagina Facebook di Pepe Escobar.
Traduzione per Megachip a cura di Fanny Milazzo.



NOTA DI GIULIETTO CHIESA: 
Poroshenko e le fonti occidentali stanno diffondendo la notizia che la Russia avrebbe invaso l'Ucraina. E' il ritornello ormai risaputo. La spiegazione è semplice: le forze governative sono in ritirata in tutta l'area. I ribelli del Donbass sono passati all'offensiva e stanno infliggendo gravissimi colpi alle forze di Kiev, con centinaia di soldati dell'esercito che defezionano o addirittura cercano rifugio nelle aree confinanti della Russia. Né Poroshenko, né nessun altro ha fornito alcuna prova di un intervento militare russo. "Si dice", "si suppone". 
Il fatto è che né Kiev, né l'Europa possono spiegarsi come mai l'esercito e la Guardia Nazionale di Kiev stanno perdendo la guerra. E preparano, evidentemente il terreno per chiedere l'intervento della NATO. Cioè accusano la Russia di intervento dall'esterno per giustificare in anticipo l'intervento dall'esterno della NATO. 


AGGIORNAMENTO A CURA DI PINO CABRAS

La Repubblica annuncia le prove, gente! Come sempre, del resto, quando devono pompare una certa isteria bellica. 
Poi guardi le foto, e c'è scritto in piccolo e in inglese che «L'area di dispiegamento e di addestramento si trova a circa 50 km a Est del confine ucraino», ossia in territorio russo.
Come se non bastasse, le diciture nelle foto spiegano anche che quella è l'area di Rostov (nei pressi della più grande città della Russia meridionale). 
Lì si stanno svolgendo massicce esercitazioni: Mosca mostra i muscoli. Ma a casa sua. 
Direi che può bastare per aggiornare lo stato di conclamata putrescenza del giornalismo italiano. 

Rimangono due foto satellitari. Anch'esse  come le altre, sono attribuite dalla Nato a un'agenzia privata (ottima tecnica per poter fare marcia indietro e lavarsene le mani). Quelle foto mostrano pochissimi mezzi di artiglieria in territorio ucraino che potrebbero benissimo essere ucraini o comunque conquistati dai ribelli alle migliaia di coscritti che si sono arresi in questi giorni, proprio mentre a Kiev (e a Washington) si ripassa la storia di Caporetto.
Insomma: prove zero. Fuffa tossica, tanta. E il giornalismo italiano non ha nemmeno più una linea del Piave.


26 agosto 2014

Alcune domande per i creatori del Califfo


di Pino Cabras.
da Megachip
 

Dopo un lungo sonno dalle parti del Palazzo di vetro, la Risoluzione n. 2170 del Consiglio di sicurezza dell’ONU finalmente condanna chiunque aiuti e fornisca armi all’ISIL [Stato (Emirato) Islamico dell'Iraq e del Levante] e ad altre entità jihadiste. Benissimo. Dunque la domanda da fare adesso all’ONU è molto semplice, ed è la stessa che fanno anche i politici iracheni: «Chi è che sta comprando il petrolio siriano all’Emirato Islamico del Califfo, e come fa questo petrolio ad arrivare sui mercati europei?».  

Sarebbero in tanti ad ammutolirsi.

Il sedicente Califfo che abbiamo visto nelle foto con John McCain, assieme ai suoi tagliagole che scorrazzano su fiammanti mezzi Made in USA, si è impossessato di parecchi pozzi petroliferi in Siria e in Iraq, e ricava dalle vendite – secondo fonti irachene - circa tre milioni di dollari al giorno.

La domanda può da qui articolarsi in tante sottodomande altrettanto cruciali.

Come mai un’organizzazione terrorista (oggi definita così anche dall’ONU, dopo che da sempre in quel modo la definiva anche – inascoltato - il presidente siriano Assad, quando ne subiva gli attacchi finanziati da Occidente, Turchia e petromonarchie arabe) ottiene di poter smerciare senza impedimenti l’oro nero rubato?

Il traffico passa per la Turchia, paese membro della NATO. Chi protegge questo traffico se non le alte sfere turche sotto l’occhio onnisciente di spie e satelliti occidentali? I turchi hanno consentito per anni che la galassia jihadista saccheggiasse intere fabbriche siriane, smontate pezzo per pezzo, e poi contrabbandate attraverso i suoi confini. Erdoğan non ha da dire nulla sulle fabbriche di ieri e sul petrolio di oggi?

E perché Abu Bakr al-Baghdadi e i suoi apostoli non figurano nella lista nera dei banditi per terrorismo internazionale? Perché i loro patrimoni non sono stati congelati? Perché non sono stati denunciati presso la Corte penale internazionale? Forse perché un processo risulterebbe compromettente per gli eminenti oligarchi statunitensi fotografati in compagnia di Al Baghdadi? Il sospetto viene quando la risoluzione specifica che Abu Bakr al-Baghdadi non viene messo in lista perché è già sulla lista dei terroristi sin dal 2011. Uau. Eppure ha incontrato allegramente McCain nel maggio 2013. Qualche giornalone ha voglia di rivolgere qualche domandina al senatore americano?

Più passano le ore e più la pretesa di Obama di intervenire in Siria contro l’ISIS non appare ai danni dell’ISIS ma della Siria: un modo per aggirare i mille ostacoli che gli si erano frapposti rispetto a un implacabile obiettivo di vecchia data: conquistare Damasco, o almeno seminarvi il Caos. 
A questo serviva lo spettacolo hollywoodiano e grandguignolesco imbastito intorno alla testa del giornalista americano in tuta arancione.
Assad, giustamente, non si fida dei bombardamenti USA sul suo suolo. In ogni caso, si apre per lui una nuova fase, ad altissimo rischio.


AGGIORNAMENTO del 27 agosto 2014:
Un troll che interviene spesso nei nostri forum seminando valanghe di notizie false in nome dei sacri interessi USA, per una volta ha portato un link utile che può emendare in modo significativo il mio articolo sulla innegabile liaison fra il senatore statunitense John McCain e gli jihadisti. Il troll mi ha perfino sfidato a correggermi, pensando che non lo farò. Ma egli non sa che io cerco la verità con tanto entusiasmo da apprezzarne i barlumi anche quando passano miracolosamente per le mani di qualche troll mentitore come lui. Il link in questione porta a un articolo di un sito web che non conoscevo, Breizitao, riconducibile a degli indipendentisti bretoni cattolici integralisti e antisemiti, ammiratori di Goebbels (ossia non esattamente il tipico sito che frequento sulla Rete). Il troll in questione, evidentemente, oltre che i nazisti dell'Illinois ama anche quelli della Bretagna.
L'autorevole sito nazi-bretone illustra una serie di immagini che appaiono smentire l'identità del sedicente Califfo recentemente attribuita da Thierry Meyssan a una delle persone che appare assieme ai maggiorenti jihadisti incontrati clandestinamente da McCain in Siria. Non è sempre facile riconoscere un viso, ma in effetti la persona indicata da Meyssan come Abu Bakr al-Baghdadi, pur somigliando al barbuto pagliaccio corvino che guiderebbe l'ISIS, in base alle nuove foto appare corrispondere a tale Abu Yussef, un funzionario dell'ESL, un'altra delle formazioni paramilitari armate da potenze straniere per aggredire lo stato siriano.
Dunque le foto non sembrano bastare a confermare definitivamente la presenza di Abu Bakr al-Baghdadi agli incontri di McCain. Bastano solo a confermare, scusate se è poco, che un importante politico americano che partecipa a tutte le possibili ingerenze a danno di stati guidati da governi sgraditi a Washington, ha partecipato anche a incontri in territorio siriano con gruppi di combattenti estremisti foraggiati da governi alleati degli USA, poi in gran parte confluiti nell'ISIS. Un altro senatore repubblicano statunitense, Rand Paul, impegnato in una direzione opposta all'ingerenza del collega, è molto chiaro sul fatto che armare e combattere a fianco dei ribelli più integralisti ed estremisti, ISIS inclusa, è stata una scelta disastrosa interamente imputabile agli USA.
Le domande da rivolgere al senatore McCain rimangono tutte. 






24 agosto 2014

Il chiarimento del caos. Perché gli USA usano l'ISIS per conquistare l'Eurasia

di Piotr.
da Megachip.

1. I corsari erano dei privati (spesso armatori) che ingaggiavano comandanti abili nella navigazione per perseguire propri interessi in condominio con quelli politici di una potenza che li forniva, appunto, di una “lettera di corsa”. Tale lettera li abilitava ad attaccare e saccheggiare navi di altre potenze sotto particolari condizioni (solitamente una guerra).
Le attività dei pirati e quelle dei corsari erano praticamente le stesse. Cambiavano solo le coperture politiche ufficiali. Diversi corsari finirono la loro carriera come pirati, a volte impiccati dagli stessi governi che li avevano ingaggiati.

Di fatto i corsari potevano permettersi di fare quelle cose che uno Stato riteneva politicamente e/o economicamente imprudente fare.

Una variante molto più in grande ed organizzata erano le Compagnie commerciali dotate di privilegi, come la famosa Compagnia Inglese delle Indie Orientali, che benché totalmente private (la Corona inglese non possedeva nemmeno un’azione delle Compagnie inglesi) avevano il nulla osta per condurre guerre e attività di governo.
Corsari e pirati hanno smosso le fantasie romantiche e libertarie di generazioni di persone che invece storcevano il naso per le imprese dei loro mandanti. 
Oggi la storia si ripete. In peggio.

2. I reparti armati dei (cosiddetti) fondamentalisti islamici sono da più di trenta anni una forma ancor più perversa di simili compagnie di ventura, al servizio dell’impero statunitense. I prodromi di questa alleanza-servizio furono gettati durante la Prima Guerra Mondiale da persone come St John Philby e Gertrude Bell, brillanti e preparatissimi agenti inglesi che lavoravano in stretto contatto con i principi sauditi.
L’alleanza è stata vista all’opera in Afghanistan negli anni Ottanta, sotto la sapiente regia criminale di Zbigniew Brzezinski, poi in Bosnia, in Kosovo, in Cecenia, in Libia, in Siria e ora in Iraq. È verosimile che la sua longa manus arrivi fino in India, via Pakistan, e nello Xinjiang Uyghur, in Cina.
L’ISIS, cioè lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante (Siria), è la forma più sofisticata di questa strategia corsara. Più ancora che Israele – che, essendo formalmente uno stato internazionalmente riconosciuto deve sottoporsi alla legalità internazionale, anche se non lo fa praticamente mai e si avvale di ampie deroghe e ha un’organizzazione politico-istituzionale complessa (ma questo conta sempre meno, lì come da noi) - l’ISIS è la quadratura del cerchio: uno stato-non-stato che essendo per definizione un’entità terrorista ha il “diritto” di essere al di fuori di qualsiasi legalità. Bene fanno, dal loro punto di vista, gli USA a chiamarla “organizzazione terrorista”: il sostegno politico diretto, quello organizzativo via Arabia Saudita e proprio quella stessa definizione costituiscono la “lettera di corsa” che la Superpotenza gli fornisce. In altri termini, hanno il diritto-dovere di essere terroristi.
Esattamente come succedeva coi corsari di un tempo, sotto le mentite spoglie di “combattenti per la libertà” (anti Assad) hanno smosso le fantasie romantiche di ingenui buonisti - a volte, ahimè, persino caduti nella mortale tela del ragno - e di sedicenti internazionalisti fatti perdere da Giove. Possiamo immaginare che ora essi si sentano confusi. Noi, al contrario, iniziamo a vedere con più chiarezza i contorni di un disegno sufficientemente preciso.

3. Già negli anni Ottanta la Rand Corporation aveva “previsto” che le guerre future sarebbero state un misto di conflitti stellari e di conflitti premoderni condotti da entità substatali. Una previsione non difficile, visto che la Rand faceva parte di quel complesso che stava preparando tale scenario.
È una strategia sostenuta da un’ottima logica. Le “guerre stellari”, infatti, se condotte fino alle loro estreme conseguenze non posso trasformarsi che in conflitti nucleari. La guerra di corsa tramite entità substatali, condotta dagli USA dopo i primi colpi “ortodossi” inferti dalla genia dei Bush e da Clinton, ha invece permesso alla Superpotenza di lanciare quella serie di first strike che sarebbero stati rischiosissimi, e quindi impossibili, in termini di guerre ortodosse tra stati, sebbene fossero contemplati dalla New Nuclear Posture elaborata dai neocons sotto Bush Jr.
L’iniziale sbandamento dei competitor strategici dimostra che la mossa ha una sua genialità, ovviamente criminale. Anzi, c’è la sensazione che questi competitor preferiscano correre il rischio di guerre substatali terroristiche piuttosto che quello di un conflitto aperto contro un avversario spregiudicato e sempre più aggressivo perché sempre più in difficoltà. Una difficoltà, comunque, relativa e che cercheremo di precisare.

4. Cosa c’è di meglio per gli USA che installare nel centro nevralgico dell’Eurasia (già oggetto degli incubi e dei desideri del “veggente” consigliere di Carter per la sicurezza, Zbigniew Brzezinski) uno stato-non-stato, uno stato-zombie, un essere-non-essere, un’organizzazione territoriale che al riparo della sua bandiera nera pirata può minacciare di azioni raccapriccianti tutti gli stati vicini, a partire da Siria, Russia, Iran, Cina, repubbliche centroasiatiche e poi lungo il corridoio che tramite il Pakistan penetra in India e che attraverso lo Xinjiang Uyghur prende alle spalle la Cina? Difficile pensare a un’arma non convenzionale migliore. Proprio difficile. Un temibile cuneo piazzato nel bel mezzo dell’Organizzazione di Shanghai.
Non solo, ma anche l’Europa può essere minacciata (non è già stato fatto?). Può essere utile qualora si mostrasse troppo recalcitrante al progetto neoimperiale statunitense, con annessi e connessi tipo il rapinoso TTIP.
La difficoltà statunitense di cui si parlava prima, non sta nel fatto che gli Stati Uniti siano inesorabilmente in declino per chissà quali leggi geopolitiche o economiche. In realtà la difficoltà è insita nel sistema capitalistico stesso che oggi è ancora incentrato sugli USA, cosa che si può contestare solo se si pensa che il sistema capitalistico sia misurabile solo a suon di profitti, PIL, scambi commerciali e riserve valutarie. Anche, ma non “solo”, perché il sistema capitalistico è un sistema di potere.
In più, le potenze emergenti sono emerse, diciamo così, “in ritardo” (non poteva essere altrimenti) ovvero quando le capacità distruttive militari, industriali, ecologiche e finanziarie mondiali erano già state ipotecate massicciamente da uno stato-continente denominato Stati Uniti d’America e dai suoi vassalli. È vero che noi paesi occidentali a capitalismo maturo contiamo solo per un settimo della popolazione mondiale, ma questo dà proprio l’inquietante misura del problema, perché contiamo immensamente di più in quanto a capacità distruttiva.

5. Il regista Oliver Stone e lo storico Peter Kuznick con molto acume hanno fatto notare che con Hiroshima e Nagasaki gli USA non solo volevano dimostrare al mondo di essere superpotenti, ma anche - cosa ancor più preoccupante - che non avrebbero avuto alcuno scrupolo nella difesa dei propri interessi: erano pronti a incenerire in massa uomini, donne e bambini.
Le popolazioni libiche, siriane e irachene martirizzate dai corsari fondamentalisti sono la raccapricciante dimostrazione di questa mancanza di scrupoli, episodi di genocidi compiuti a rate al posto del singolo sterminio atomico, troppo rischioso. In questo senso preciso l’ISIS è utilizzato come arma di distruzione di massa a consumo.

6. In Occidente questa strategia rimane incomprensibile ai più. È vero che è complessa perché fa leva su un gioco intricato di interessi differenziati, da quelli puramente ideologici a quelli puramente mafiosi, ma la cosa è sorprendente perché oltre ad essere ormai chiara negli obiettivi - evidentemente perché gli USA stessi se li sono chiariti -, come si è visto è anche la riedizione di una strategia già nota e stranota.
Confusa poteva essere la sua percezione durante il conflitto afgano degli anni Ottanta. Era forse difficile capire allora la connessione tra Volker shock, invasione sovietica e nascita della guerriglia islamista sostenuta e organizzata dagli USA. Tuttavia alcuni studiosi, benché pochi e trattati come eccentrici, avevano già fatto notare le connessioni tra crisi sistemica, reaganomics, finanziarizzazione, conflitti geopolitici e la ripresa d’iniziativa neoimperiale degli USA dopo la sconfitta in Vietnam (quante volte gli Stati Uniti sono stati dati per spacciati?). Mi riferisco agli studiosi raccolti nella scuola del “sistema-mondo”.
È comunque singolare che una sinistra così determinata negli anni Sessanta e Settanta a lottare per la difesa del filosovietico Vietnam, pochissimi anni dopo si trovasse a strizzare l’occhiolino a fondamentalisti sostenuti dagli USA contro una Unione Sovietica ora considerata l’impero da sconfiggere a tutti i costi.
Con le Torri Gemelle, inizio della Terza Guerra Mondiale a Zone di cui oggi parla persino il papa (ci sono veramente voluti tredici anni per capirlo in Vaticano?), la deriva totale della sinistra veniva preannunciata con uno spettacolare canto del cigno: le enormi dimostrazioni contro le guerre di Bush Jr e le politiche neoliberiste globalizzate. Si era sulla strada giusta, perché erano esattamente i due lati complementari del connubio denaro-potere messo a nudo dalla crisi sistemica. Eppure è bastato il peggioramento di questa crisi e il suo irrompere nei centri capitalistici occidentali e l’elezione santificata di Barack Hussein Obama per far deragliare ogni ragionamento e centinaia di migliaia di ex militanti venivano trasformati in supporter attivi, passivi o incoscienti della nuova politica imperiale.

Non è un’esagerazione: basta confrontare i 3 milioni di persone in piazza a Roma nel 2003 contro la guerra all’Iraq e le 300 (trecento) persone in piazza a Roma nel 2011 contro la guerra alla Libia.
Quel che era peggio, è che questo non era il risultato di un sofisticato programma di condizionamento, ma l’esito delle strategie di comunicazione introdotte ai suoi tempi dal nazista Goebbels ricanalizzate attraverso i vecchi e i nuovi media, con una variante decisiva. Non solo balle grosse come case ripetute all’unisono ovunque e con ogni mezzo, ma anche condite coi termini e coi concetti che più piacevano alla sinistra: se gettare bombe faceva storcere il naso, bastava dire che esse erano intelligenti o addirittura umanitarie, se non proprio aiuti umanitari sic et simpliciter. L’impero ora parlava con un linguaggio ad ampio spettro, da quello reazionario a quello del progresso, tecnico, sociale e politico. Non proprio una novità, ma il bersaglio era una società in via di disarticolazione a causa della crisi sempre più feroce, abbandonata e addirittura tradita dagli intellettuali e politici a cui si era affidata e dove purtroppo anche nelle poche roccaforti rimaste gli effetti mutageni del linguaggio imperiale facevano danni.
Come commentava allora una vignetta di Altan: “Il trucco c’è, si vede benissimo, ma non gliene frega niente a nessuno”. Il perché dovrebbe essere studiato a fondo per capire come uscire da questo limbo sospeso sopra il baratro.
Ad ogni modo la “guerra al terrorismo” non sconfiggeva alcun terrorismo, banalmente perché non c’era nessun terrorismo da sconfiggere. In compenso distruggeva stati, prima l’Afghanistan poi l’Iraq.
Il terrorismo nel frattempo entrava “in sonno” e si rifaceva vivo con alcune necessarie dimostrazioni di esistenza a Madrid e a Londra, nel cuore dell’Europa. In realtà era in fase di riorganizzazione, nel senso che lo stavano riorganizzando per i nuovi teatri operativi, forse all’inizio ancora non molto chiari nelle menti degli strateghi statunitensi perché nelle crisi sistemiche anche chi genera e utilizza il caos risente delle sue conseguenze.

7. Con Obama gli obiettivi e la strategia si sono progressivamente chiariti. Una volta riorganizzato e potenziato l’esercito corsaro, scattava la nuova offensiva che ha avuto due preludi: il discorso di Obama all’Università del Cairo nel 2009 e le “primavere arabe” iniziate l’anno seguente.
In entrambi i casi la sinistra ha sfoggiato una strabiliante capacità di non capire nulla.
Avendo ormai scisso completamente l’anticapitalismo dall’antimperialismo, la maggior parte del “popolo di sinistra” si faceva avviluppare dalla melassa della coppia buonismo-diritti umanitari (inutile ricordare i campioni italiani di questa pasticceria), elevando ogni bla-bla a concetto e poi a Verbo. Obama dixit. Che bello! Che differenza tra Obama e quel guerrafondaio antimusulmano di Bush! Avete sentito cosa ha detto al Cairo?
Nemmeno il più pallido sospetto che l’impero stesse esponendo la nuova dottrina di alleanza con l’Islam politico (alleanza che ha il centro logistico, finanziario e organizzativo nell’Arabia Saudita, il partner più fedele e di più lunga data degli USA in Medio Oriente).
Peggio ancora con le “primavere arabe”. Nemmeno a bombardamenti sulla Libia già iniziati la sinistra ha avuto il buon senso di rivedere il proprio entusiasmo per quelle “rivolte”. Apodittico è stato il demenziale e sgradevole appello di Rossana Rossanda ad arruolarsi nelle fila dei tagliagole di Bengasi (il cui capo veniva direttamente da Guantánamo con copertura della Nato), come gli antifascisti avevano fatto in Spagna. Un appello che è stato il segno di una corruzione aristotelica non già di un cervello anziano, bensì di alcune generazioni di sognatori cresciuti sotto il cielo dell’impero americano, naturale come il firmamento e invisibile come il tempo, quindi non percepibile. Sotto questa cupola stellata e globalizzata il capitalismo diventava non più un rapporto sociale vivente in società e luoghi geografici materiali, bensì un concetto che si contrapponeva a un altro concetto: il “capitale” al “lavoro”. La cosa meno materialista dai tempi delle discussioni sul sesso degli angeli.
Disaccoppiare il capitalismo dall’imperialismo è come pretendere di dissociare l’idrogeno dall’ossigeno e avere ancora acqua. Per un cristiano è come dissociare Cristo dallo Spirito Santo. Rimane qualcosa che pendola tra il libresco e il buonismo istintivo in preda ad ogni demonio furbo e determinato.
Si è giunti al punto che un capo di stato maggiore statunitense, il generale Wesley Clark, rivela che Libia e Siria erano già nel 2001 nella lista di obiettivi selezionati dal Pentagono e che sedicenti marxisti continuino incuranti a credere a “rivolte popolari”, quelle rivolte popolari che loro non sono stati e non sono in grado di suscitare nel proprio paese. Insomma, effetti da crisi di astinenza.

8. Ma questi ormai sono dettagli residuali, che riguardano cioè residui storici, privi di valore politico. Servono al più ad illustrare il ben più grave fenomeno di una sinistra tutta che è di fronte alla Terza Guerra Mondiale e ci arriva totalmente disattrezzata, teoricamente, politicamente e ideologicamente. Più disattrezzata del “popolo di destra” e spesso apertamente dalla parte dei guerrafondai.
Ah, Pasolini, quanta ragione avevi di inveire contro gli “irresponsabili intellettuali di sinistra”! A che punto siamo giunti!
C’è solo qualche sprazzo di sereno in questa estate nuvolosissima. Non si può che essere d’accordo con Movimento 5 Stelle e SEL per la loro opposizione all’invio di armi ai Curdi (intanto: a quali Curdi?). Diversi ragionamenti ci accomunano, come l’indecenza di esportare armi e l’inutilità della cosa per la risoluzione del conflitto. Ma la vera inutilità e l’indecenza stanno nel fatto che quel conflitto è una partita di giro in cui ci andranno di mezzo migliaia di persone, al 90% civili, come succede in tutti i conflitti moderni e da tempo avvertono organizzazioni come Emergency.
Il senatore John McCain, in apparenza battitore libero ma nella realtà executive plenipotenziario della politica di caos terroristico di Obama, si è messo d’accordo sia coi leader del Governo Regionale Curdo in Iraq sia con il Califfo dell’ISIS, Abu Bakr al-Baghdadi, già Abu Du’a, già Ibrahim al-Badri, uno dei cinque terroristi più ricercati dagli Stati Uniti con una taglia di 10 milioni di dollari. 

Ci sono testimonianze e prove fotografiche (e su queste si basa la denuncia all’autorità giudiziaria del senatore McCain come complice del rapimento in Libano da parte dell’ISIS di alcune persone, sporta dai loro famigliari).
Così come Mussolini aveva bisogno di un migliaio di morti da gettare sul tavolo delle trattative di pace, gli USA, l’ISIS e i boss curdo-iracheni hanno bisogno di qualche migliaio di morti (civili) da gettare sul palcoscenico della tragedia mediorientale, per portare a termine la tripartizione dell’Iraq e lo scippo delle zone nordorientali della Siria (altro che Siria e USA uniti contro i terroristi, come scrivono cialtroni superficiali e pennivendoli di regime). Il tutto a beneficio del realismo dello spettacolo.
Caro Di Battista e caro Movimento 5 Stelle e anche cara SEL (mi rivolgo a loro perché sono gli unici che in Parlamento abbiano mostrato barlumi di intelligenza e di decenza), avete avuto ottime intuizioni, ma cercate di andare oltre alle intuizioni, perché con questa tremenda crisi sistemica destinata a peggiorare la pura intuizione alla lunga non basta più e tutti i racconti di fate diventeranno racconti di orchi, specialmente in politica internazionale dove dovreste attrezzarvi un po’ meglio.
Nel 1979 Zbigniew Brzezinski aveva capito e scritto che il futuro problema degli Stati Uniti era l’Eurasia e che quindi occorreva balcanizzarla, in particolare la Russia e la Cina. All’inizio del secolo scorso, in piena egemonia mondiale dell’impero britannico, il geografo inglese Halford Mackinder scriveva «Chi controlla l’Est Europa comanda l’Heartland: chi controlla l’Heartland comanda l’Isola-Mondo: chi controlla l’Isola-Mondo comanda il mondo».
L’indefesso girovagare di McCain tra Ucraina e Medio Oriente non è dunque un caso. Il pensiero dominante è sempre lo stesso. Ciò che è cambiato è che gli USA hanno capito che non è necessario che siano le proprie truppe a fare tutto il lavoro sporco.



22 agosto 2014

L'Occidente sulla strada sbagliata


Nota introduttiva di Pino Cabras:

Gabor Steingart, il direttore editoriale del più importante quotidiano economico tedesco, Handelsblatt, nonché autore di svariati bestseller e notevoli saggi di politica internazionale, in questo articolo offre forti argomenti in favore di un'Europa che faccia il contrario di quanto fatto finora in Ucraina. 
Naturalmente nessun giornale italiano ha pubblicato sinora questo potente editoriale, rivelatore di quanto le forzature antirusse imposte dagli USA alle classi dirigenti tedesche ed europee tocchino i loro nervi scoperti e stiano portandole a un bivio drammatico.
Il linguaggio di Steingart è a tratti felpato, molto attento al pubblico cui si rivolge, che sicuramente ricomprende tutta l'élite. Ma ha frequenti guizzi in cui richiama ironicamente la vera portata mondiale della partita ucraina, come quando invita ad avere «la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri. Dovremmo smetterla di accusare 143 milioni di russi di guardare al mondo in modo diverso rispetto a John McCain».
Propongo questo articolo (che Handelsblatt ha pubblicato in tedesco, inglese e russo) all'attenzione dei lettori raccomandandone, oltre alla lettura, la massima diffusione.

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Alla luce degli avvenimenti in Ucraina, il governo e molti media sono passati dalla modalità “equilibrato” alla modalità “agitato”. Lo spettro delle opinioni è stato ridotto alla visuale di un fucile di precisione. La politica dell’escalation non ha un obiettivo realistico e nuoce agli interessi tedeschi.

di Gabor Steingart.

Düsseldorf - Ogni guerra è accompagnata da una sorta di mobilitazione mentale: la febbre di guerra. Nemmeno le persone intelligenti sono immuni da attacchi controllati di questa febbre. «Questa guerra, in tutte le sue atrocità, è tuttora una cosa grande e meravigliosa. Si tratta di una esperienza che vale la pena vivere», esultava Max Weber nel 1914 mentre le luci si spegnevano in Europa. Thomas Mann sentiva un senso di «pulizia, liberazione, e di una grandissima speranza».

Persino quando erano già in migliaia a giacere senza vita sui campi di battaglia belgi, la febbre di guerra non si placava. Esattamente 100 anni fa, 93 pittori, scrittori e scienziati composero l’«Appello al mondo della cultura». Max Liebermann, Gerhart Hauptmann, Max Planck, Wilhelm Röntgen, e altri ancora, incoraggiavano i loro connazionali a impegnarsi in crudeltà da infliggere al prossimo: «Senza il militarismo tedesco, la cultura tedesca sarebbe stata spazzata via dalla faccia della terra già molto tempo fa. Le forze armate tedesche e il popolo tedesco sono una cosa sola. Questa consapevolezza rende 70 milioni di tedeschi fratelli senza distinzioni di istruzione, di status, o di partito.»

Interrompiamo il nostro stesso processo di pensiero: «La storia non si ripete!»
Ma possiamo esserne così sicuri anche in questi giorni? Se si osservano gli eventi della guerra in Crimea e nell’Ucraina orientale, i capi di Stato e di governo dell’Occidente improvvisamente non hanno più domande e hanno tutte le risposte. Il Congresso USA sta discutendo apertamente di dare armamenti all’Ucraina. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski raccomanda di armare i cittadini laggiù per i combattimenti casa per casa e in strada. La Cancelliera tedesca, come è sua abitudine, è molto meno esplicita ma non meno inquietante: «Siamo pronti a prendere misure severe».
Il giornalismo tedesco è passato dalla modalità “equilibrato” alla modalità “agitato” nel giro di poche settimane. Lo spettro delle opinioni è stato ridotto al campo visivo di un fucile di precisione.
I quotidiani che credevamo fossero fatti in tutto e per tutto di pensieri e idee, ora marciano allo stesso passo con i politici nei loro appelli per sanzioni contro il presidente russo Putin. Anche i titoli tradiscono una tensione aggressiva, la stessa che di solito caratterizza gli ultrà quando fanno il tifo per le loro rispettive squadre.
Il Tagesspiegel: "Basta parole!" Il FAZ: "Mostrare la forza". La Süddeutsche Zeitung: "Ora o mai più" Lo Spiegel tuona: "Finiamola con la vigliaccheria": «Ecco l’intrico di menzogne, propaganda e inganni di Putin. Il relitto del volo MH 17 è anche il frutto di una diplomazia sfracellata».
La politica occidentale e i media tedeschi sono d'accordo.
Ogni stringa riflessiva delle accuse finisce allo stesso modo: senza che ci sia il tempo, le accuse e le contro-accuse si attorcigliano a tal punto che i fatti risultano quasi completamente oscurati.
Chi ha ingannato per primo?
È iniziato tutto con l'invasione russa della Crimea oppure è stato prima l'Occidente a promuovere la prima destabilizzazione dell'Ucraina? La Russia vuole espandersi a Ovest o è la NATO che intende allargarsi verso Est? O forse le due potenze mondiali si incontrano alla stessa porta nel bel mezzo della notte, guidate da intenzioni molto simili verso un terzo indifeso che adesso paga il prezzo del risultante intralcio con le prime fasi di una guerra civile?
Se a questo punto state ancora aspettando una risposta che dica di chi è la colpa, potreste anche semplicemente smettere di leggere. Non vi mancherà nulla. Non stiamo mica cercando di portare alla luce questa verità nascosta. Noi non sappiamo come è iniziata. Né sappiamo come finirà. E siamo seduti proprio qui, in mezzo a tutto questo. Almeno Peter Sloterdijk ha poche parole di consolazione per noi: «Vivere nel mondo significa vivere in mezzo all’incertezza»
Il nostro scopo è quello di spazzare via una parte della schiuma che si è formata sulle bocche di chi discute, per togliere di bocca le parole sia di chi stuzzica sia di chi è stuzzicato, e mettervi invece nuove parole. Una parola entrata in disuso negli ultimi tempi è questa: realismo.
Le politiche di escalation dimostrano che all'Europa manca gravemente un obiettivo realistico.
È una cosa diversa negli USA. Minacce e posture bellicose sono semplicemente parte dei preparativi elettorali. Quando Hillary Clinton paragona Putin a Hitler, lo fa solo per attrarre il voto repubblicano, cioè le persone che non possiedono un passaporto. Per molti di loro, Hitler è l'unico straniero che conoscono, onde per cui Adolf Putin risulta una figura immaginaria molto gradita per una campagna elettorale. A questo proposito, la Clinton e Obama hanno un obiettivo realistico: fare appello al popolo, per vincere le elezioni, per conquistare un'altra presidenza democratica.
Angela Merkel può difficilmente chiedere queste attenuanti per sé. La geografia obbliga ogni Cancelliere tedesco ad essere un po’ più serio. Come vicini di casa della Russia, in qualità di membri della comunità europea cui siamo vincolati dal destino, come destinatari di energia e fornitori di ogni ben di dio, noi tedeschi abbiamo un evidente interesse vitale ad avere stabilità e a comunicare. Noi non possiamo permetterci di guardare alla Russia attraverso gli occhi del Tea Party americano.
Ogni errore inizia con un errore nel pensiero. E stiamo facendo questo errore, se crediamo che solo le altre parti si avvantaggino delle nostre relazioni economiche e perciò solo loro debbano soffrire quando queste relazioni si interrompono. Se i legami economici erano stati mantenuti per una reciproca convenienza, il loro aggravamento porterà a perdite reciproche. Punizione e auto-punizione sono la stessa cosa, in questo caso.
Anche l'idea che la pressione economica e l’isolamento politico mettano la Russia in ginocchio non è stata davvero meditata fino in fondo. Perfino nell’ipotesi che potessimo avere successo: cosa ci porterebbe di buono il mettere la Russia in ginocchio? Come puoi voler vivere insieme nella casa europea con un popolo umiliato la cui leadership eletta viene trattata come un paria e i cui cittadini potresti doverli sostenere nel prossimo inverno.
Naturalmente, l’attuale situazione richiede una forte presa di posizione, ma soprattutto una forte presa di posizione contro noi stessi. I tedeschi non hanno né voluto né causato questa realtà, ma nondimeno ora questa è la nostra realtà. Considerate solo quel che Willy Brandt dovette ascoltare quando il suo destino di sindaco di Berlino lo pose all'ombra del Muro. Quali sanzioni e quali punizioni gli furono suggerite. Ma decise di saltare a pie’ pari questa sagra degli indignati. Non ha mai dato un solo giro di vite alla volontà di rappresaglia.
Quando gli è stato conferito il Premio Nobel per la Pace ha messo in luce quel che gli capitava intorno nei giorni frenetici in cui il muro fu costruito: «C'è ancora un altro aspetto, quello dell’impotenza mascherata da verbosità: nell’assumere posizioni giuridiche che non possono diventare una realtà e nel pianificare contromisure per situazioni contingenti che sono sempre diverse da quelle a portata di mano. Nei momenti critici fummo lasciati soli con i nostri mezzi; i parolai non avevano nulla da offrire».
I parolai sono tornati e il loro quartier generale si trova a Washington DC. Ma nessuno ci costringe a piegarci ai loro ordini. Il seguire questa guida - sebbene in un modo furbesco e in qualche modo riluttante come nel caso di Merkel - non protegge il popolo tedesco, ma semmai lo mette in pericolo. Questo fatto resta un fatto, anche se non fossero stati gli americani ma i russi ad essere responsabili del danno originale in Crimea e in Ucraina orientale.
Willy Brandt decise in modo chiaramente differente da quello scelto dalla Merkel al giorno d’oggi, e ciò avvenne durante una situazione indubbiamente più acuta. Come ricorda, si era svegliato la mattina del 13 Agosto 1961 «ben desto e insensibile al tempo stesso». Era fermo ad Hannover per una sosta durante un viaggio quando ricevette segnalazioni da Berlino sul fatto che si stavano realizzando dei lavori di costruzione di un vasto muro che separava la città. Era una domenica mattina e l'umiliazione difficilmente avrebbe potuto essere più grande per un sindaco in carica.
I sovietici glielo presentarono come un fatto compiuto. Gli americani non lo avevano informato, anche se probabilmente avevano ricevuto alcune informazioni da Mosca. Brandt ricorda che una "rabbia impotente" si era impadronita di lui. Ma cosa fece? Trattenne i suoi sentimenti di impotenza e palesò il suo grande talento di uomo politico ancorato alla realtà, che più tardi lo avrebbe portato a essere per un certo tempo Cancelliere e infine anche Premio Nobel per la Pace.
Con la consulenza di Egon Bahr, accettò la nuova situazione, sapendo che nessuna dose di indignazione proveniente dal resto del mondo avrebbe abbattuto di nuovo quel muro ancora per un bel po’. Addirittura ordinò alla Polizia di Berlino Ovest di utilizzare manganelli e idranti contro i manifestanti vicino al muro in modo che non si scivolasse dalla catastrofe della divisione verso la catastrofe ancora più grande della guerra. Si adoperò per il paradosso che Bahr espresse più tardi come segue: «Abbiamo riconosciuto lo Status Quo al fine di cambiarlo».
E sono riusciti a compiere questo cambiamento. Brandt e Bahr fecero gli interessi specifici della popolazione di Berlino Ovest per la quale erano al momento responsabili (da giugno 1962 in poi questa comprendeva chi scrive) nella misura della loro politica.
A Bonn negoziarono le agevolazioni per Berlino, una sovvenzione esentasse dell'otto per cento sui salari e sull'imposta sul reddito. In gergo fu chiamato il "premio per la paura". Negoziarono inoltre un trattato sui permessi di viaggio con Berlino Est che rese il muro nuovamente permeabile appena due anni dopo la sua edificazione. Tra il Natale 1963 e il Capodanno 1964, 700mila abitanti di Berlino visitarono i loro parenti nella parte orientale della città. Ogni lacrima di gioia si trasformò in un voto per Brandt poco tempo dopo.
Gli elettori si resero conto che qui c'era qualcuno che voleva influire sul modo in cui vivevano ogni giorno, non solo generare un titolo di giornale per la mattina dopo. In una situazione quasi del tutto senza speranza, quest'uomo della SPD combatté per i valori occidentali - in questo caso i valori della libertà di movimento - senza megafoni, senza sanzioni, senza la minaccia della violenza. L'élite di Washington cominciò a sentire parole che non erano mai state sentite prima in politica: Compassione. Cambiamento attraverso il riavvicinamento. Dialogo. Riconciliazione di interessi. E questo nel bel mezzo della Guerra Fredda, quando si pensava che le potenze mondiali si sarebbero attaccate reciprocamente con il veleno, quando il testo della trama conteneva solo minacce e proteste; impostare ultimatum, applicare blocchi navali, condurre delle guerre per procura, questo è il modo in cui si pensava che la guerra fredda dovesse essere messa in atto.
Una politica estera tedesca che si impegnava per la riconciliazione - all'inizio solo la politica estera di Berlino - non solo appariva coraggiosa ma anche assai strana.
Gli americani - Kennedy, Johnson, e poi Nixon – andarono dietro ai tedeschi; questo diede il via a un processo che è senza precedenti nella storia di nazioni nemiche. Infine, ci fu un incontro a Helsinki, finalizzato a fissare le regole. All'Unione Sovietica era garantita la «non ingerenza nei suoi affari interni» che riempì di soddisfazione il capo del partito Leonid Brezhnev e fece ribollire invece il sangue di Franz Josef Strauss. In cambio, la direzione del partito comunista di Mosca doveva garantire all'Occidente (e quindi alle sue società civili) «il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, compresa quella di pensiero, coscienza, religione o credo».
In questo modo la "non interferenza" fu acquistata attraverso il "coinvolgimento". Il comunismo aveva ricevuto una garanzia eterna per il suo territorio, ma all'interno dei suoi confini i diritti umani universali improvvisamente cominciarono a fermentare. Joachim Gauck ricorda: «La parola che ha consentito alla mia generazione di andare avanti era Helsinki».
Non è troppo tardi per il duo Merkel/Steinmeier usare i concetti e le idee di quel tempo. È senza senso limitarsi ad assecondare un Obama del tutto privo di idee strategiche. Tutti possono notare come lui e Putin stiano guidando come in un sogno direttamente verso un cartello con scritto: Vicolo Cieco.
«Il test per la politica non è il modo in cui qualcosa comincia, ma come va a finire», così ha sentenziato Henry Kissinger, anch'egli un vincitore del premio Nobel per la pace. Dopo l'occupazione della Crimea da parte della Russia ha dichiarato: dovremmo volere la riconciliazione, non il dominio. Demonizzare Putin non è una politica. E un alibi per la sua mancanza. Da qui il consiglio di condensare i conflitti, vale a dire rimpicciolirli, ridurli, e poi distillarli in una soluzione.
Al momento (e ormai da lungo tempo) l'America sta facendo il contrario. Tutti i conflitti sono sistematicamente intensificati. L'attacco di un gruppo terroristico chiamato Al-Qa'ida è trasformato in una campagna globale contro l'Islam. L'Iraq viene bombardato con motivazioni dubbie. Poi l'aeronautica militare USA vola in Afghanistan e Pakistan. Le relazioni con il mondo islamico possono tranquillamente essere considerate compromesse.
Se l'Occidente avesse giudicato l'allora governo USA che marciò sull'Iraq senza una risoluzione dell'ONU e senza uno straccio di prova sull'esistenza di "Armi di Distruzione di Massa" con gli stessi criteri oggi usati contro Putin, in tal caso George W. Bush sarebbe stato bandito all'istante dal metter piede nell'Unione Europea. Gli investimenti esteri di Warren Buffett avrebbero dovuto essere congelati, l'esportazione di veicoli con marchi GM, Ford e Chrysler vietata.
La tendenza americana a imprimere un'escalation dapprima verbale e poi anche militare, l'isolamento, la demonizzazione, e l'attacco ai nemici non si è dimostrata efficace. L'ultima grande azione militare di successo condotta dagli Stati Uniti è stata lo sbarco in Normandia. Tutto il resto - Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan – sono stati un evidente fallimento. Lo spostamento di unità NATO verso il confine polacco e l'idea di armare l'Ucraina è la continuazione di una mancanza di diplomazia con i mezzi militari.
Questa politica basata sul lanciare la vostra testa contro il muro – per giunta esattamente verso il punto più spesso della parete – vi regala solo un mal di testa e poco altro. E questo avviene considerando che il muro ha in realtà un'enorme porta nella relazione dell'fra Europa e Russia. E la chiave di questa porta ha un'etichetta con scritto "riconciliazione degli interessi".
Il primo passo è quello che Brandt chiamava "compassione", cioè la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri. Dovremmo smetterla di accusare 143 milioni di russi di guardare al mondo in modo diverso rispetto a John McCain.
Ciò che è necessario è un aiuto per modernizzare il paese, nessuna sanzione che diminuisca ulteriormente la ricchezza de danneggi i legami delle relazioni. Anche le relazioni economiche sono relazioni. La cooperazione internazionale è simile a una tenerezza tra nazioni perché tutti si sentono meglio dopo.
È ben noto che la Russia sia una super-potenza energetica e al tempo stesso una nazione in via di sviluppo industriale. La politica di riconciliazione e di reciproci interessi dovrebbe cominciare da qui. L'aiuto allo sviluppo in cambio di garanzie territoriali; il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier disponeva perfino delle parole giuste per descrivere tutto ciò: partenariato di modernizzazione. Deve solo rispolverarle e usarle come parole di buon auspicio. La Russia dovrebbe essere integrata, non isolata. Piccoli passi verso questa direzione sono meglio della grande assurdità rappresentata dalla politica di esclusione.
Brandt e Bahr non sono mai giunti allo strumento delle sanzioni economiche. Sapevano perché: non ci sono casi registrati in cui i paesi sottoposti a sanzioni si siano scusati per il loro comportamento e abbiano poi obbedito in seguito. Al contrario: i movimenti collettivi iniziano a sostenere chi subisce le sanzioni, come avviene oggi in Russia. Il paese non è quasi mai stato unificato intorno al proprio presidente quanto adesso. Questo potrebbe quasi portarvi a pensare che i sobillatori occidentali sono sul libro paga dei servizi segreti russi.
Un ulteriore commento lo merita il tono del dibattito. L'annessione della Crimea era in violazione del diritto internazionale. E nemmeno il sostegno ai separatisti in Ucraina orientale riesce a conciliarsi con le nostre idee sulla sovranità statale. I confini degli stati sono inviolabili.
Ma ogni atto richiede un contesto. E il contesto tedesco è che siamo una società in libertà vigilata che potrebbe non agire come se le violazioni del diritto internazionale fossero iniziate con gli eventi in Crimea.
La Germania ha mosso guerra contro i suoi vicino orientali due volte negli ultimi 100 anni. L'anima tedesca, che in genere pretendiamo stia sul lato romantico, ha mostrato il suo lato crudele.
Naturalmente, noi che siamo venuti dopo possiamo continuare a proclamare la nostra indignazione contro lo spietato Putin e appellarci al diritto internazionale contro di lui, ma per il modo in cui sono le cose, questa indignazione arriverebbe con un leggero rossore di imbarazzo. O, per usare le parole di Willy Brandt: «le pretese assolute minacciano l'uomo».
Alla fine, anche gli uomini che avevano ceduto alla febbre della guerra nel 1914 se ne resero conto. Dopo la fine della guerra, i penitenti stilarono un nuovo appello, questa volta mirante alla comprensione tra nazioni: «il mondo civilizzato è diventato un terreno di guerra e un campo di battaglia. È tempo che una grande marea di amore sostituisca l'onda devastante dell'odio.»
Dovremmo cercare di evitare la deviazione attraverso i campi di battaglia del XXI secolo. La storia non deve ripetersi. Forse possiamo trovare una scorciatoia....



Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.
Link su Megachip: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=108392&typeb=0&L-Occidente-sulla-strada-sbagliata.