di Michela Murgia.
Un discorso sulla satira che vada oltre Charlie Hebdo ha cercato di
farlo MicroMega nel numero di questo mese. Ci sono interventi di molti
pensatori (e qualche rifiuto d'intervento molto divertente). Ecco il
mio.
18 febbraio 2015
La satira è (contro)potere
Scusate il ritardo nel rispondere a questo
questionario. È dato dalla difficoltà di aggirare il fastidio per il
modo in cui le domande sono state poste, fastidio che vi manifesto
perché da MicroMega non mi aspettavo che l'apertura di un dibattito così
importante fosse fatta con domande retoriche che presumono o
suggeriscono già le risposte. Tanto meno mi aspetto l'esposizione di
posizioni pregiudiziali di tale inconsistenza razionale che si fa fatica
a prenderle come base di partenza per un ragionamento che voglia
davvero dirsi laico. La laicità non si misura sul grado di astio verso
le religioni, ma su quello di vigilanza sui dogmatismi, che in questo
questionario purtroppo abbondano. Ho quindi risposto con la difficoltà
che mi derivava dall'obbligo di essere intellettualmente onesta.
(1) La scritta “je suis Charlie” è comparsa in
moltissime sedi di giornali in tutto il mondo, oltre che nelle
dichiarazioni di personalità di governo, anche qui di tutto il mondo. Ma
quanti di coloro che fanno proprio lo slogan sono davvero disposti a
prendere sul serio il diritto alla irresponsabilità, che Charlie Hebdo
teorizza orgogliosamente nel suo stesso sottotitolo, e dunque il diritto
alla bestemmia di ogni fede religiosa e di ogni sentimento non
religioso ma ritenuto “sacro”? Quanto c’è di retorica e strumentalismo
nel dire “je suis Charlie” e poi non trarne le conseguenze pratiche sul
piano del diritto e dell’etica?
La domanda è retorica. Nessuno può
permettersi di essere così ingenuo da confondere un gesto di solidarietà
compiuto sull'onda dell'emozione o dell'opportunità politica con la
determinazione a difendere la satira in ogni sua manifestazione, diritto
che non è assoluto in alcuna democrazia. La stessa Francia che
manifesta per Charlie e sbatte in carcere Dieudonné ci dimostra due
cose: la prima è che neanche nella patria della laicità è sempre vero
che in satira tutto è lecito; la seconda è che esistono tabù sociali ben
più forti di quello su Dio.
Il punto di partenza di un
ragionamento in merito è il dato che la nostra idea di democrazia si
regge sull'insanabile contraddizione tra il desiderio di anarchia e il
bisogno del controllo: se infatti è vero che le democrazie sono sistemi
fondati sul conflitto, gli unici in cui il dissenso è un valore difeso
dalla legge, è altrettanto vero che il dissenso è per sua natura
antagonista del potere ed è quindi perfettamente logico che il potere
tenda a difendersene anche nelle democrazie, limitandone gli spazi di
espressione per poter agire in regime di rendicontazione pubblica
minima. Finché esiste l'altra, nessuna delle due forze è o può essere
assoluta nel suo esercizio: la loro coesistenza, per quanto
conflittuale, ci protegge dagli assolutismi. Dobbiamo quindi essere
consapevoli che il potere dal canto suo farà di tutto per produrre leggi
che limitino al massimo la libertà di dissenso e che il dissenso farà a
sua volta di tutto per trovare spazi in cui mettere in discussione il
controllo del potere. È la società civile che deve proteggere
l'esistenza di questa dialettica, ma può farlo solo se è educata alla
coscienza comune dei valori collettivi. In Italia questo è vero in
misura molto inferiore a quello che sarebbe necessario. È anzi
prevedibile che la sensibilità pubblica, che spesso si muove sull'onda
dell'emozione e della paura, davanti a fatti di sangue opportunamente
narrati sia disposta a concedere maggiore legittimità alla forza che tra
le due verrà percepita come meno distruttiva e destabilizzante. Allo
stato attuale delle cose è improbabile che la forza favorita sia la
satira.
(2) Numerosi giornali NON hanno ripubblicato le
vignette su Maometto, e molti del resto non le avevano pubblicate, come
non avevano pubblicato quelle, perfino più numerose, contro la religione
cristiana (Charlie non ha risparmiato neppure l’ebraismo). Negli Usa è
questo addirittura l’atteggiamento della maggior parte dei media. Il
giornale danese all’origine delle vignette su Maometto questa volta ha
deciso di “non offendere” la sensibilità dei credenti. Il Financial
Times ha praticamente scritto che con i loro eccessi se l’erano cercata.
Non è già in atto da tempo una auto-censura che, finito il cordoglio
unanime (in apparenza) per i morti di rue Nicolas Appert 10, subirà un’accelerata esponenziale? Non sta vincendo di nuovo la sindrome “non vale la pena morire per Danzica”?
Voglio sperare che la libertà di
espressione comprenda anche quella di non espressione, senza che questo
comporti automaticamente la presunzione di auto-censura. Ciascuna
redazione fa le sue valutazioni, non ultime quelle di rischio umano, e
le decisioni conseguenti non mi sento di giudicarle, perché in realtà
non mi interessa biasimare chi tace; mi importa molto di più che sia
pacifico che chi invece parla non debba pagare con la vita la sua scelta
di esprimersi. Per questo l'unica posizione che considero realmente
stigmatizzabile tra quelle elencate è il victim blaming del Financial
Times.
(3) Il noto storico e saggista di Oxford Timoty
Garton Ash ha lanciato l’idea di una giornata coordinata in cui tutte le
testate d’Europa pubblichino una selezione delle vignette più
significative di Charlie Hebdo (offensive di tutte le religioni). Pensi
che il giornale che dirigi, cui collabori, che regolarmente leggi,
dovrebbe aderire?
Diffido dei battesimi collettivi:
perché giornali che non avrebbero mai pubblicato prima quelle vignette
dovrebbero pubblicarle adesso? Il ragionamento secondo il quale bisogna
ripubblicare le vignette di Charlie Hebdo per segnare distanza dai
terroristi mi ricorda il periodo in cui tutti in Italia dovevano
comprare Gomorra per dimostrare di non essere camorristi. Trasformare le
vignette di Charlie in un marcatore culturale, cioè in un corpo
contundente con bersaglio diverso da quello che volevano colpire,
ottiene come unico risultato il generare ipocrisie della portata della
sfilata di governanti liberticidi con il cartellino Je suis Charlie.
(4) I difensori della libertà di stampa “con
juicio” sostengono che la libertà di critica è assoluta e intangibile ma
non deve essere confusa con il diritto all’insulto. Ma CHI può decidere
la linea di confine tra critica (la più radicale, visto che si
tratterebbe di un diritto assoluto) e offesa? Per chi vive in modo
intenso una fede, assai facilmente suona offesa ai propri sentimenti e
alla fede stessa ciò che al critico di essa suona solo critica. Charlie
Hebdo pubblicò una vignetta con un “trenino” sodomitico tra Dio Padre,
Gesù Cristo e lo Spirito Santo, certamente offensivo per molti credenti
cristiani, ma forse la più straordinaria sintesi critica dell’assurdità
del dogma trinitario. Del resto l’ateo viene “amorevolmente” descritto
da ogni pulpito come persona esistenzialmente “menomata” (questo è il
giudizio più gentile, ovviamente) poiché priva della dimensione del
trascendente, giudizio già in sé altamente offensivo.
Il limite alla libertà di espressione
non può e non deve essere deciso dalle sensibilità religiose, non fosse
altro perché sono tante, diverse e spesso contraddittorie tra loro, ma
nella domanda che avete posto mi pare che il contrappasso della
reciprocità (“Anche dai pulpiti cattolici si offende l'ateismo!”) sia un
ben fragile argomento su cui fondare la libertà di satira, talmente
pretestuoso che vi porta a leggere male anche quello che è chiarissimo,
come il trenino sodomita di Charlie Hebdo, che non è “la più
straordinaria sintesi critica dell'assurdità del dogma trinitario”, ma
una presa per il culo – letteralmente - all'arcivescovo di Parigi e alle
sue posizioni contro le famiglie omogenitoriali. È dunque una vignetta
prettamente politica, dove l'attacco al simbolo religioso non è fine a
sé stesso, ma perfettamente inserito in una cornice di dissenso
all'ingerenza del potere gerarchico ecclesiale nei processi legislativi
francesi. Per la redazione di Charlie Hebdo la questione della laicità
si sostanziava nell'attacco al potere, non nella vendetta – invero poco
appassionante - degli atei contro i fedeli, tantomeno su un presunto
“diritto di bestemmia”. Se per satira intendiamo un contropotere che castigat ridendo mores, intendiamo
un luogo espressivo tutt'altro che irresponsabile. Quella è per me la
sola linea di discernimento possibile: se colpisce un bersaglio fragile,
non è satira. Se fai vignette contro i rom non fai satira, ma
discriminazione. Se disegni contro le donne, i gay o i negri non fai
satira, a meno che tu non stia castigando singole donne potenti, gay
individualmente influenti o neri la cui negritudine comporti una
posizione di dominio.
(5) Se il limite lo stabilisce la politica vuol
dire che sarà mutevole come le mutevoli maggioranze di governo, e
variabile tra paese e paese diacronicamente e sincronicamente. Ma questo
vuol dire che la libertà di espressione non è un principio fondativo, e
dunque non deve essere scritto nelle Costituzioni, che salvaguardano e
garantiscono alcuni diritti sottraendoli alle mutevoli vicende del
consenso elettorale. La coerenza non esigerebbe semmai l’opposto, che
vengano abrogati definitivamente articoli contraddittori con questo
principio, che configurano come persistente il reato di vilipendio nei
confronti di Persone Dottrine Istituzioni e Cariche, poiché ciò che per
Tizio è vilipendio per Caio è critica?
Sono del tutto favorevole
all'abolizione del reato di vilipendio, ma questo non significa che
considero la libertà di espressione un diritto naturale
sovra-costituzionale, concetto speculare (e altrettanto fastidioso) a
quello di “principio non negoziabile” tanto caro al cattolicesimo
ruiniano. Finché siamo in democrazia tutto è negoziabile e dunque le
quote di libertà che una società può sostenere senza giungere a
conflitti autodistruttivi sono variabili nel tempo e risentono di
condizioni culturali, storiche ed economiche che mutano a loro volta. Il
reato di vilipendio alle istituzioni aveva senso quando il presidente
del consiglio era Alcide De Gasperi; al momento è antistorico, perché i
concetti di rispettabilità e onorabilità non hanno più senso in un paese
con un parlamento dove la concentrazione di condannati supera quella
delle zone gestite dalla criminalità organizzata.
(6) La scelta di coerenza rispetto
alla libertà di critica anche se per qualcuno offensiva, oppure la
rinuncia al principio della libertà di critica come consustanziale alle
libertà democratiche (con le antinomie per la democrazia che ne
conseguono), oggi è resa indilazionabile dalla svolta d’epoca della
strage del Charlie Hebdo, ma in realtà è sul tappeto da oltre un quarto
di secolo, certamente dalla fatwa del 1989 di Khomeini contro Rushdie.
All’epoca su MicroMega fu scritto: “l’Occidente si piega”, citando e
stigmatizzando le “dichiarazioni curiali” di Andreotti sugli studenti
islamici in Italia che impongono con la violenza che Versi satanici non
sia esposto nelle vetrine, “è accaduto a Napoli, Padova, Reggio Emilia”,
o l’Osservatore Romano secondo cui “il romanzo è risultato offensivo
per milioni di credenti. La loro coscienza religiosa e la loro
sensibilità offesa esigono il nostro rispetto. Lo stesso attaccamento
alla nostra fede ci chiede di deplorare quanto di irriverente e di
blasfemo è contenuto nel libro”, o Monsignor Rossano, rettore della
Pontificia università lateranense, secondo cui “quando si toccano Gesù,
la Madonna, non si toccano fatti personali, non si può fare quello che
si vuole … viviamo in mezzo a cattolici, ebrei, musulmani, indù … non si
può irridere, non si può offendere la sensibilità religiosa”, fino a
Hans Küng per il quale “non ci si può richiamare semplicemente alla
libertà religiosa … Bisogna prevedere reazioni corrispondenti, quando si
attacca una persona che per centinaia di milioni di uomini e donne è
tuttora viva e per così dire, quella più in alto sotto Dio” (MicroMega
2/89 pp 20-21). Sarebbe stato necessario farlo allora, non è
improcrastinabile oggi porre fine a queste intollerabili pretese
censorie?
E come gli dovremmo metter fine?
Facciamo una legge che multi chi si indigna? Incarceriamo chi chiede
rispetto della propria appartenenza? La domanda è posta come se la
pretesa censoria e la censura effettiva non fossero due cose diverse,
invece lo sono e non va dimenticato. Non mi pare che le richieste di
ritiro del libro di Rushdie si siano mai tradotte in alcun rogo in
occidente, anzi “I versetti satanici” sono entrati in classifica, hanno
continuato a essere venduti nelle librerie, a essere letti nelle
biblioteche e comprati ovunque. La stessa cosa avvenne per “L'ultima
tentazione di Cristo”. A che cosa dunque dovremmo metter fine?
(7) Si sostiene da più parti che se è possibile
criticare/insultare il Profeta e Allah (ma anche Dio padre, Figlio,
Spirito Santo, Madonna, ecc.) allora deve essere possibile insultare
anche gli ebrei in quanto ebrei. La posizione di MicroMega è sempre
stata che criticare/insultare simboli/valori di una fede è un diritto di
opinione, insultare delle persone in quanto appartenenti a una etnia in
quanto etnia è razzismo. Inoltre: anche il diritto a offendere valori
religiosi non può divenire diritto a considerare tutti gli appartenenti a
una religione corresponsabili di atteggiamenti di altri correligionari
(legittima è però la richiesta di chiedere la dissociazione da
atti/dichiarazioni di autorità della rispettiva religione, altrimenti se
ne diventa partecipi). Vi sembrano distinzioni sufficienti e
condivisibili?
Per niente, ma sono questioni distinte.
- È possibile insultare gli ebrei in
quanto ebrei in nome del diritto di satira? Dipende. Il discrimine
rimane quello dato dalla domanda: “per essere considerata lecita a
dispetto della sua offensività, questa satira che potere sta
attaccando?” Quando Forattini al tempo del sequestro Kassam disegnò sul
Corriere la Sardegna a forma di orecchio mozzato sanguinante,
accomunando i sardi senza distinzioni al reato infame della mutilazione
di un bimbo innocente, che potere stava attaccando? I sardi in sé
rappresentavano un potere? Se la risposta è no, Forattini non esprimeva
un'opinione: faceva razzismo e come tale commetteva un reato. Ritengo
quindi che la satira sugli ebrei vada giudicata con lo stesso criterio,
che evidentemente non è così scontato in un occidente dove anche la
minima critica al sionismo e alle condizioni inumane di Gaza finisce per
essere tacciata di antisemitismo persino da insospettabili fonti
progressiste occidentali. Se lo stato ebraico, che si pretende l'unica
democrazia del medio oriente, ha una costituzione che prevede quote di
cittadinanza suddivise su base etnica, la satira su base etnica contro
gli ebrei che vi abitano non è solo lecita, ma urgente, perché è proprio
il marcatore etnico che in quel caso rappresenta un potere oppressivo.
- La pretesa di dissociazione dalle
posizioni dei propri leader religiosi mi sembra priva di senso:
l'appartenenza a una religione non si fonda su comunicati stampa, ma su
dati teologici irreformabili. Le declinazioni storiche della presenza
religiosa sui singoli territori possono anche discostarsi molto da
questi dati (è certamente il caso di molte dichiarazioni di imam
rispetto al Corano), ma questo non significa che ogni singolo fedele
islamico che vive in Europa deve dissociarsi da ogni singolo delirio
contingente di ogni singolo capo di moschea in ogni singolo titolo di
giornale che se ne fa. Nessuno deve essere messo nella condizione di
scusarsi di continuo per le sciocchezze di qualcun altro. Da cattolica
non mi sono mai sentita minimamente responsabile per gli svarioni
personali di Ratzinger o di Wojtyla.
(8) Negli Usa, dove la maggior parte dei media (e
praticamente tutta la politica) nega il diritto a criticare/offendere le
religioni, è invece costituzionale espressione di libertà di pensiero
qualsiasi opinione fascista, nazista, razzista (Ku Klux Klan compreso)
fino a che non passa alla messa in pratica. L’Europa democratica ha
imboccato la strada opposta, l’apologia di fascismo e razzismo è
sanzionata per legge, e ora che tutti i capi di governo europeo sfilano a
Parigi sotto la scritta “je suis Charlie” se ne deduce che ogni
limitazione al diritto di critica/offesa delle religioni si intenda
abrogato. MicroMega ha sempre sostenuto questa duplice posizione. La
ritieni condivisibile? Ancora difendibile? Da rivedere radicalmente dopo
quanto successo?
Ribadisco che la logica della liceità
della satira è nella sua valenza di contropotere. Attaccare una
religione in quanto tale, anche quando non rappresenta alcun potere
oppressivo o lesivo di diritti altrui, è libertà di espressione, ma non è
satira. Credo sia il motivo per cui satira sul buddismo se ne fa ben
poca. Certo che attaccare un'etnia in quanto tale è un attacco alla
dignità della razza umana nella sua interezza, ma attaccare un'etnia che
ne opprime un'altra in ragione della sua maggiore forza economica,
militare o politica è una difesa della dignità umana nella sua
interezza. Credo che la distinzione sia facilmente ravvisabile da
qualunque giudice, se pure gli intellettuali non dovessero arrivarci.
(9) Le religioni non sono tutte eguali, si dice,
il cristianesimo accetta la laicità, l’islam no. In realtà il
cristianesimo è stato costretto a venire a patti con la laicità, obtorto
collo, e ancora non l’accetta pienamente. Il fondamentalismo
alberga nel suo seno in dosi infinitamente minori di quello islamico,
questo è certo. Troppo facilmente si dimentica, però, che sono stati
cristiani militanti quelli che hanno assassinato negli Usa medici e
infermieri che rispettavano la volontà di abortire di alcune donne.
Donne, medici, infermiere che Wojtyla e Ratzinger hanno bollato più
volte come responsabili del “genocidio del nostro tempo”, nazisti
postmoderni, insomma. Le democrazie hanno il diritto di esigere da tutte
le religioni la “interiorizzazione” della laicità? Cioè: che le
religioni chiedano pure ai fedeli di osservare i precetti per la
salvezza eterna ma rispettino rigorosamente il diritto al peccato
(aborto, eutanasia, blasfemia, omosessualità …) di tutti gli altri e mai
pretendano che lo Stato faccia di un precetto religioso una legge?
Non credo che le democrazie abbiano
diritto di chiedere laicità alle religioni: quelle monoteiste in
particolare sono sistemi di pensiero dogmatici fondati su valori non
negoziabili, quindi anti-laiche per loro stessa natura. Al contrario,
l'essenza stessa della democrazia è fondata sulla negoziazione tra
visioni di mondo differenti, visioni che le religioni influenzano in
molti modi, da secoli e con dinamiche variabili a seconda del tempo e
dei poteri con cui si sono confrontate. Una società democratica è
realmente laica quando riesce a confrontarsi con le religioni anche
quando le religioni resistono ai valori democratici, perché le religioni
non sono devozioni private, ma ideologie nel senso pieno del termine,
cioè rispondono a un'idea precisa di umanità e di mondo. Pretendere che
questa idea non si traduca anche in cultura e in politica è risibile e a
sua volta liberticida, perché se ciascuno ha il diritto di tentare di
influenzare lecitamente l'ambiente in cui vive a partire dalle proprie
convinzioni, non si capisce perché questo diritto dovrebbe essere
precluso a chi parte da convinzioni religiose. Questa pretesa esprime
l'idea che le religioni siano sottoculture prive di dignità di
rappresentazione, il che è falso: le religioni sono stakeholders
identici a tutti gli altri, e la pressione politica esercitata dai
portatori di valori numericamente “parziali” - anche quando li
pretendono eticamente universali - si argina solo rafforzando
culturalmente l'area dei valori “comuni”, cioè quelli continuamente
definiti attraverso i processi democratici. La risposta all'assolutismo
(compreso quello che un po' trasuda da questa domanda) è il pluralismo,
che educa tutti a considerarsi relativi.
(10) Se si rinuncia anche di un pollice al diritto
alla critica/offesa delle fedi religiose (diritto, non dovere: le
vignette di Charlie possono benissimo non piacere ed essere criticate,
ma il diritto alla loro pubblicazione deve essere difeso assolutamente),
non si concede già la vittoria al terrorismo? In tal modo non si
obbedisce alle loro richieste per “servitù volontaria”, senza che
debbano più usare violenza, basta la minaccia e relativa paura, e non è
questo che si propone chi utilizza il terrore? Le tentazioni a imboccare
questa strada non sono sempre più frequenti e pericolose?
Con tutto il rispetto, non prendo sul serio domande dove è previsto un monosillabo come risposta. :)
Fonte: MicroMega, febbraio 2015.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento