di Pino Cabras - da Megachip.
Una bella faccia
italo-persiana, un accento americano, un candore cinico, una fama-lampo
che esplode sulle ali della crisi e della fame di risposte. Molti di voi
avranno già incrociato sul web Alessio Rastani, il
“trader” che ha scandalizzato in diretta, fino ad annichilirli, i
giornalisti della BBC. «Sono un trader, a noi non importa salvare
l'economia, a noi importa trarre profitto, personalmente io ho sognato
questo momento per tre anni e davvero desidero che ci sia un'altra
recessione».
E noi provinciali stiamo qui a offenderci per Terry De
Niccolò, la escort del Caimandrillo che fa l’apologia del vendere la madre per denaro, «e chi è racchia resti a casa», naturalmente.
La Terry De Nicolò globale ha i tratti spacconi di Rastani, che sembra
proprio pronto per un prossimo casting di Oliver Stone, “Wall Street III
– Sansone e i Filistei”, inclusa la divisa da squalo, con tanto di
cravatta rosa.
«Chiunque può approfittare
da un crollo di Borsa o dal crollo dell'euro, basta sapere che cosa
fare», gigioneggia Rastani, intanto che si improvvisa storico e ricorda,
senza giri di parole, che «la depressione degli Anni Trenta non era solo
un crollo del mercato, ma c’era gente preparata a tale crollo». E
aggiunge che non è solo roba per le élite: ancora una volta, po’ di sana
e retorica meritocratica delle opportunità non guasta, mentre tutto
intorno sta collassando. Peggio per chi non approfitta degli hedge fund
e della corsa ai buoni del tesoro. Alessio sorride: «entro un anno
milioni di persone perderanno tutto». Terry avrebbe aggiunto: «chi è
racchia, ecc.»
Il "trader" completa il suo pensiero, mischiando fede democratica nelle opportunity
e consapevolezze spicciole e concrete sul vero potere: «Lo dico a
chiunque ci stia guardando: questa crisi è come un cancro, se state ad
aspettate pensando che se ne vada via, crescerà fino a quando sarà
troppo tardi. Quel che voglio consigliare a tutti i telespettatori è:
preparatevi. Non è il tempo per chimere come l’aspettarsi che i governi
risolvano le cose: i governi non governano il mondo, Goldman Sachs
governa il mondo. E a Goldman Sachs non importa niente dei pacchetti di
salvataggio. Voglio aiutare la gente. Tutti debbono capire come fare
soldi da un mercato che va a fondo».
Alessio Rastani pronuncia
concetti contraddittori, come potete vedere e sentire: incrollabile fede
liberista negli strapuntini di massa che regalerà il giro della giostra
che crolla, ma altrettanta certezza che sarà una massa sterminata anche
quella degli esclusi, quelli che vedranno evaporare tutto e in breve
tempo. E soprattutto, consapevolezza nuda e cruda del fatto che il gioco
è condotto da pochi soggetti che tutto fanno girare.
Occorrerà difenderci. Quanto ci costerà? Perché Rastani ha ragione. Aspettare non ha senso.
28 settembre 2011
L'uomo che sogna i tuoi risparmi in fumo
27 settembre 2011
Il caso “Mutanda Bomber” e il testimone dimenticato
di Pino Cabras – da Megachip.
Ricordate Mutanda Bomber? A Natale 2009, un giovane nigeriano di 23 anni, Umar Farouk Abdul Mutallab, figlio di uno degli uomini più ricchi di tutta l’Africa, cerca di far saltare l’aereo sulla rotta Amsterdam-Detroit grazie a un ordigno tenuto a ridosso del suo perineo. L'attentato fallisce e lui si ustiona. Una volta catturato, dichiara di appartenere ad al-Qa'ida e di essere stato addestrato in Yemen. Questa la versione definitiva dei media di tutto il mondo. Tutto senza dubbi, dunque? Neanche per sogno.
Abbiamo testimoni che sin da subito hanno raccontato una storia parecchio discorde dalle versioni correnti. In particolare due passeggeri – gli avvocati Kurt e Lori Haskell, marito e moglie – si fanno testimoni fin dal principio di un racconto strabiliante. Ne parlammo anche su Megachip, in due articoli (“Le false piste terroristiche e le nuove guerre”, e poi “Ammissioni governative: Mutanda Bomber è stato fatto entrare deliberatamente”). Ne parliamo in dettaglio anche in un capitolo del libro Barack Obush. Mentre qualche media importante statunitense non poteva bucare del tutto la notizia, almeno all’inizio, tutti i numerosi corrispondenti italiani da New York e Washington hanno deciso all’istante e per sempre che i coniugi Haskell non esistono. Eppure parlano in modo circostanziato ed estremamente preciso.
In questi giorni si apre il processo a Mutanda Bomber. Kurt Haskell rievoca questa assurda vicenda, che dimostra - come altri episodi che hanno punteggiato il decennio - l’uso sistematico di minacce terroristiche capaci di tenersi in piedi solo con la collaborazione di apparati governativi e dei grandi media, per elevare l’adrenalina nelle vene dei cittadini e far accettare dosi via via più massicce di controllo e di docilità rispetto ai grandi allarmi.
Di seguito possiamo leggere l’articolo scritto dallo stesso Haskell. È una testimonianza di grande peso. Per chi segue le vicende post-11 settembre si conferma che non bastano le “gole profonde” per far crollare dei sistemi capaci di autoregolarsi con strategici silenzi. Per questo abbiamo voluto tradurre questa importante testimonianza: per provare a rompere quei silenzi, e riconsiderare le narrazioni che ci sono state imposte.
25 settembre 2011
"L'illusione della crescita e il debito"
L'alternativa c'è
- Puntata 18. Ogni giovedì, appuntamento settimanale di
approfondimento sul canale MegaChannelZero di YouTube.
Quali sono le radici politiche ed economiche degli
attuali problemi, di fronte a una crisi economica gravissima? Pino Cabras
ripercorre in questo videoeditoriale gli ultimi vent'anni di macro eventi italiani per cercare il
filo di una spiegazione e di una possibile alternativa all'illusione
della "crescita".
21 settembre 2011
El ocaso del Sionismo Real
Nada es más escandaloso que hacer analogías entre quien expone las marcas de la víctima y quien tiene las señales del verdugo, porque cualquier conciencia moral no puede aceptar jamás a la ligera que las culpas del verdugo sean atenuadas valiéndose de alguna instrumentalización más bien desenvuelta.
Pero esta combinación no se puede ignorar con un alzar de hombros, ni combatir con celo violento.
En cambio debemos preguntarnos – más allá de toda propaganda – porque Israel después de cada masacre, cada violación suya del derecho internacional, cada vejación suya infligida a los palestinos, provoca declaraciones que lo comparan cada tanto a Alemania, la cual perseguía a los que no eran de raza aria o a Sudáfrica, que perseguía a los que no eran blancos.
¿Por qué sucede esto, a pesar de que Israel tenga en su interior una sociedad pluralista y abierta, con una prensa medianamente vivaz y libre, con estilos de vida asimilables a los de una avanzada democrática occidental?
¿Por qué a pesar de las duras protestas de las poderosísimas corrientes de opinión y de los lobby de distintas naturalezas, que en el mundo simpatizan con la aventura sionista, a Israel se lo compara justamente con los Estados que mucho más que otros han suscitado aversión en el mundo también a causa de sus estructuras cruelmente discriminatorias? ¿Entonces por qué muchos ven a Israel como un Estado racista?
La respuesta escandaliza y nada contra la corriente principal de los medios de comunicación, pero es simple y demostrable: Israel es visto como un Estado racista porque “es” un Estado racista. Un Estado que desde el origen le ha dado una interpretación fanática a la cuestión judía a total perjuicio de los no judíos presentes en Tierra Santa.
Partimos de lo que sucede hoy en el suelo sometido a la soberanía israelí. Nos referimos a un territorio en el cual en su interior sucede que hay dos redes viales separadas: una moderna para uso exclusivo de los colonos judíos, la otra residual y descuidada para los palestinos autóctonos, quienes además en la mayor parte de Cisjordania no pueden conducir sus propios autos. Aquellos que lo pueden hacer deben someterse a una densa red de puestos de control que cierra los pasos por horas, mientras que los judíos tienen una movilidad garantizada y libre. A los palestinos les ha sido impuesto un sistema de rígido toque de queda que asfixia la vida civil y la economía. Sectores enteros de Cisjordania que las fuerzas armadas israelitas clasifican como “áreas militares cerradas”, no son accesibles a los palestinos, incluidos aquellos que posean terrenos en ese lugar desde hace generaciones. Viceversa, a quienquiera que sea aplicada la Ley del Retorno Israelita – es decir, a quienquiera que sea simplemente judío, en cualquier lugar del mundo – no se le aplica ninguna restricción.
A los israelíes les está prohibido transportar palestinos en un vehículo con matrícula israelí, a menos que tengan un permiso explícito. La autorización concierne tanto al conductor como al pasajero palestino. Los trabajadores al servicio de los colonos y los mismos colonos judíos tienen permisos especiales.
A los voluntarios israelíes y de las organizaciones humanitarias internacionales les está prohibido asistir a una mujer en trabajo de parto llevándola al hospital. Los voluntarios no pueden llevar a la estación de policía, a asentar una denuncia, a un palestino que haya sido robado.
Luego Amnesty International denuncia otros elementos de sistemático estrangulamiento económico, jurídico y político de la sociedad civil árabe de los territorios ocupados, que son millones de personas. Son discriminaciones muy incisivas y estructurales, incluso cuando no pasan con la ley sino con trámites administrativos metódicos e infinitamente repetidos: «Las Fuerzas Israelitas han desalojado por la fuerza a los palestinos y han demolido las casas, especialmente en Jerusalén Este, por la razón de que los edificios no tenían permisos. Esas autorizaciones les son sistemáticamente negadas a los palestinos. Encima, las colonias israelitas han sido autorizadas a expandirse sobre territorios confiscados ilegalmente a los palestinos».
Las discriminaciones no se limitan a los territorios ocupados. No hablamos sólo de Cisjordania y de ese campo de reclusión en el cual ya se ha convertido Gaza desde hace demasiados años para un millón de personas, con el embargo que afecta incluso la pasta y los cuadernos.
También dentro de Israel la distinción entre judíos y no judíos se rige por la ley. Hay diferencias importantes entre ciudadanos judíos y goym de Israel, con respecto al acceso a los bienes inmobiliarios, a las uniones familiares y a la adquisición de la ciudadanía. Uno de cada cinco ciudadanos israelíes es árabe. Si uno de ellos quisiera casarse con una persona árabe que vive en los territorios, jamás podrá vivir junto con ella en Israel. Y un hijo de esta pareja puede vivir en Israel, pero sólo hasta los 12 años, luego debe emigrar.
El “carácter judío” del Estado de Israel tiene implicaciones discriminatorias muy evidentes. A los gobernantes de Israel les interesa mucho resaltarlo casi dictándolo a sus interlocutores internacionales, los cuales se lo dejan dictar sumisamente, como el ex Presidente del Consejo Italiano Romano, Prodi, en un famoso y vergonzoso micrófono abierto sin saberlo con el entonces Primer Ministro Israelí Ehud Olmert.
http://www.youtube.com/watch?v=xoOmJwsHUpY
En la época del nazismo, a pesar de las absurdas quimeras de Hitler, el intento de definir quién era judío se presentaba a menudo como rompecabezas jurídico. Roberto Finzi lo explica bien, en su libro: L’Antisemitismo: «A pesar de todas las elucubraciones de las teorías y de las “investigaciones científicas” racistas en Alemania, como más tarde en Italia, de hecho no se logra individualizar otro criterio que el de la pertenencia religiosa». Desde allí nacía una tan minuciosa como inconsciente casuística discriminatoria que individualizaba incluso “mestizos en primer grado”. En la Alemania nazi “judío y mestizo de primer grado pueden ser perfectamente hermanos, incluso hasta gemelos; basta que uno esté enamorado de una joven judía y el otro no».
En el momento en el cual la discriminación cambiase de color, la atribución de los derechos de ciudadanía en base al Judaísmo de todos modos presentaría paradojas irresolubles.
Incluso irresolubles en manos de una clase dirigente audaz que apuntase a la solución nacionalista sionista – es decir la del Israel que conocemos – para desatar todo el nudo judío, sin lograrlo del resto. Es una pretensión que ninguna crueldad puede satisfacer.
El porqué lo explicaba Ernesto Balducci en “El Hombre planetario”: «el caso judío es un caso en sí mismo: cuanto más se razona para desatarlo en articuladas explicaciones de la historia, más nos enroscamos alrededor de un “grumo” inexplicable. En tanto, mientras no es difícil decir quién es un musulmán o quién es un negro, es imposible decir quién es un judío. El término no indica una pertenencia étnica (no existe una raza judía) ni una profesión de fe (existen judíos ateos) ni una patria (hay judíos que no quieren ni oír hablar de Israel) ni una cultura (hay judíos totalmente integrados en la cultura del país en el que habitan). Quizás podríamos decir que el elemento esencial del judaísmo es la comunidad de una memoria histórica: si éste hilo se corta, el judaísmo encaja perfectamente en lo común de los hombres».
¿Esta fidelidad del pueblo judío a su propia diversidad hay que entenderla quizás como el residuo de un tribalismo obstinado? No necesariamente, como explicaremos. Los impulsos homologadores del mundo globalizado son a menudo peligrosos y el caso judío puede ser visto como una señal de la fuerte individualidad de las etnias que se colocarán mañana en el mosaico de la humanidad unificada por los grandes desafíos planetarios.
Al contrario, el valor universal de los derechos del hombre, tanto como conquista del pensamiento jurídico, como de práctica concreta, debe dejar de lado cualquier privilegio exclusivista por la singularidad étnica.
Balducci aclaraba: “Hasta ahora, cuando hemos elegido seguir la línea de la fidelidad étnica, hemos manipulado los criterios de la completa igualdad entre los hombres y cuando hemos elegido seguir la línea de esta igualdad hemos demostrado hostilidad, teórica y práctica, hacia toda forma de diversidad, individual y colectiva.
La cuestión judía nos impide hacer cuadrar las cosas, es decir, dar soluciones a un problema que todavía no se puede resolver, porque faltan las condiciones. Por este motivo la cuestión judía nos envía al futuro”.
Un dilema tan delicado no puede residir por lo tanto en las armas (convencionales, no convencionales, atómicas y propagandísticas) acumuladas durante décadas por la actual clase dirigente sionista y sus corresponsables, tanto en sus corrientes religiosas fundamentalistas como en aquellas secularizadas que no reniegan nada del laico Ben Gurion, cuando declaraba que “debemos usar el terror, el asesinato, la intimidación, la incautación de terrenos y el recorte de todos los servicios sociales para liberar a Galilea de su población árabe”, y que actúan en consecuencia.
Un nudo como éste es un banco de prueba fundamental para el planeta. Subestimarlo o pensar en deshacerlo con el aventurismo militar nos lleva derechos a una guerra de vastísimas y funestas proporciones, un peligro que se hace cada día más concreto.
Llegar a resolverlo creativamente, con designios políticos de escala mundial que rediseñen el equilibrio político del Oriente Medio, es la única tenue luz para evitar la catástrofe. Es una tensión en favor de un auténtico realismo político. Estamos contra el antisemitismo precisamente porque este es un problema de alcance global. Enfrentarse contra el antisemitismo no es solo un modo de tener en gran consideración la cuestión judía, es un modo de preocuparnos sentidamente sobre el futuro del hombre. Por lo que debemos estar a la altura de esta complejidad.
Dos académicos, el geógrafo Arnon Sofer y el demógrafo Sergio Della Pergola (un israelí que ha nacido y vivido en Italia hasta 1966) de la Universidad de Jerusalén, en su tiempo consejeros de Ariel Sharon, han analizado la situación en términos que podemos resumir a continuación: dadas las actuales proyecciones sobre el crecimiento demográfico, Israel deberá resolver un problema que tiene tres variables: democracia, judaísmo, dimensión territorial. Solo dos de estas variables podrían coexistir en el Israel de los años que vendrán.
Podrá ser un estado democrático y hebreo, pero entonces tendrá que ser de dimensiones reducidas.
Podrá ser un estado democrático y grande, pero entonces ya no será hebreo.
En fin podrá ser hebreo y extenso, pero entonces ya no será más democrático.
Aunque la solución “dos pueblos, dos estados” a este punto ya se considere unánimemente – tanto a nivel internacional como italiano – como la única conclusión posible del conflicto, una solución como esta, siempre y cuando se realice, jamás, difícilmente podrá conducir a una pacificación de la zona porque no corresponde a los criterios de justicia y de equidad.
La situación que de hecho se ha creado en Palestina (es decir en los Territorios y en Israel) no consiente el nacimiento del estado palestino al lado del de Israel, o tan solo como una mera “expresión geográfica” privada de los más elementales contenidos de soberanía.
El naciente estado de Palestina tendría la posibilidad de realizar una política de defensa independiente y no podría tampoco establecer relaciones diplomáticas con los demás estados en dicha función; dependería totalmente de Israel en lo que se refiere a la utilización de recursos minerales, es decir agua y energía.
La conformación territorial que se ha consolidado en el lugar (en particular en Cisjordania) con la política de los asentamientos y la construcción del muro “defensivo” hace que los territorios palestinos sean completamente inadecuados para formar un sustrato geográfico favorable al nacimiento de un estado soberano.
Con la situación diplomática actual, además, el nacimiento del estado palestino no resolvería las controvertidas cuestiones de Jerusalén capital y de la situación de los prófugos que desde 1948 en adelante han sido obligados a abandonar Palestina.
La solución “dos pueblos, dos estados” podría además provocar una ulterior fuente de conflicto, latente ahora. Con el nacimiento del estado de Palestina, el componente árabe con pasaporte israelita que actualmente vive en el territorio de Israel (aunque con un status de ciudadanos de serie B, como hemos visto) podría ser “invitada” a trasladarse en el nuevo estado para realizar dos entidades nacionales (Israel y Palestina) puras étnicamente. La historia del Novecientos ha demostrado en otras áreas del planeta muchos precedentes de estos intercambios, con pérdidas humanas espantosas.
El nacimiento de Israel como estado excluyente, sobre una base confesional y étnica, así como deseado por la doctrina sionista, ha producido desde su fundación una herida que no se ha vuelto a cicatrizar. Si desde los años ’30 se hubiera prospectado el nacimiento de un estado independiente en todo el territorio de Palestina (que comprendiera la actual Israel más los territorios) con caracteres multiétnicos, multi-confesionales, multi-nacionales, el estado hubiera obtenido muy pronto y quizás enseguida, un carácter pacífico y unitario.
Nos preguntamos: ¿es posible recuperar, ahora, esa perspectiva? Es decir, ¿el nacimiento de un único estado para dos pueblos? Sesenta años de guerras y de divisiones han marcado profundamente las dos partes, hasta el punto de que una posibilidad de este tipo parece utópica. A pesar de ello todavía existen, tanto en los ambientes pacifistas israelíes como a nivel internacional, grupos y personalidades judías que, sobre una base anti-sionista, prospectan la reconciliación con los palestinos y la posibilidad del nacimiento de una entidad estatal bi-nacional y multiconfesional.
Que árabes y hebreos, en resumen, puedan vivir juntos con iguales derechos y dignidad en un único estado. En cuanto a la estructura jurídica podría inspirarse en naciones que ya existen, como Canadá, Bélgica o Suiza, países que históricamente, aun habiendo vivido recientemente algún impulso separatista, han determinado paz y prosperidad entre etnias distintas aún viviendo en el mismo ámbito geográfico.
En el plano político esto significa llevar la perspectiva “dos pueblos, un estado” a nivel de conocimiento y de debate público al fin de contaminar el pensamiento único fundado sobre “dos pueblos, dos estados”, una perspectiva que hace pensar a la “realpolitik”, pero que se demuestra cada vez más estéril y políticamente impracticable.
Con el patrocinio de exponentes y/o grupos políticos internacionales es quizás el momento de promover convenios y conferencias sobre el tema, determinando el encuentro entre exponentes hebreos y árabes favorables a dicho proyecto, con la perspectiva de crear una organización permanente, internacional. Un foco multiétnico que desarrolle, promueva, analice y resuelva todas las problemáticas inherentes a la cuestión y que coagule alrededor de sí misma cada vez fuerzas mayores.
Es cierto, el hipotético Estado Único de la Tierra Santa –que hoy se encuentra en una zona que ya está muy poblada – se convertiría en una de las zonas potencialmente más densamente habitada del planeta, debido a las especulativas Leyes del Retorno que deberían garantizar a los palestinos y a los hebreos vivir donde lo deseen, en ese territorio. Un proceso de “nation building” de esta naturaleza sería costoso. Pero si se piensa en los miles de millones actuales quemados por los Estados Unidos todos los años para mandar armas estratégicas, si se piensa en los anormales gastos de gestión del apartheid, si se piensa en perspectiva a la salida que podrían tener los negocios de Medio Oriente, los recursos saldrían, de seguro.
De los inevitables problemas de seguridad que hoy Israel afronta con unilateralidad militar despreciando la comunidad internacional, deberían estar a cargo de una masiva presencia de fuerzas armadas, fuerzas de policía con cooperación civil de todo el mundo. Un año de servicio militar o civil en Hebrón, en Jerusalén, en Gaza, en Tel Aviv significarían para toda una generación una experiencia de gran apertura al mundo.
Hoy el discurso más herético del mundo, o sea desear la derrota política del proyecto sionista y desear una transformación del estado que renuncie al equilibrio existente, no es de seguro sinónimo de destrucción de la presencia judía en Tierra Santa. Sino más bien el contrario.
“Ahora, de todos los improbables motivos que alegan los sionistas para ocupar a Palestina”, recuerda Miguel Martínez “el único que tenga un mínimo de coherencia es el teológico, basado sobre una de las posibles lecturas de lo que llamamos “Antiguo Testamento”, obviamente para quien cree en ello. Y no hay duda de que las tierras israelíes en la Biblia (donde además no aparece nunca la expresión “Tierra de Israel”) corresponderían más o menos a la Cisjordania más la Galilea, excluyendo la mayor parte del Israel previa a 1967. Por lo tanto son significativos para el judaísmo exactamente esos lugares que los sostenedores de “dos pueblos dos estados” quisieran que fueran restituidos a los palestinos”.
No sorprende poder encontrar entre los hebreos ortodoxos una figura como Menachem Froman, que vuelve al revés los presupuestos del “sionismo real”.
La Tierra es única y humanamente pertenece a los palestinos; “pero los hebreos tienen el derecho, y quizás el deber, de vivir en los lugares más sagrados de esa tierra.
Es decir, un estado único desde el Jordán hasta el mar, con los mismos derechos para todos sus ciudadanos; y libertad para los hebreos religiosos de establecerse en lo que ellos llaman Judea y Samaria. En base al mismo principio, Froman ha defendido las colonias hebreas en Gaza”.
Froman tiene un diálogo verdadero y cálido también con Hamas y con otras formaciones sociales y políticas palestinas.
El nuevo realismo político procederá –tendrá que proceder- en ambientes inéditos de verdad.
El ocaso del sionismo real y la afirmación de un orden de estado que custodie en un modo nuevo la casa de las distintas religiones y de los pueblos del Medio Oriente puede ser el “temporis partus masculus” de la comunidad mundial.
Traducción de antimafiadosmil.com.
Extraído de: megachip.info
http://www.megachipdue.info/tematiche/guerra-e-verita/3898-due-popoli-uno-stato-per-il-tramonto-del-lsionismo-realer.html
19 settembre 2011
Silvio e la Prostituzione Universale
Vi
ripropongo questo pezzo pubblicato lo scorso gennaio, su un libro del
1993 che ci spiegava già tutto l'oggi. Si mantiene tremendamente
attuale. Quella italiana è un'agonia. La pagheremo carissima.
di Pino Cabras – da Megachip.
Tutti a chiedersi come siamo arrivati alla situazione di oggi, quando lo sputtanamento del Caimandrillo rivela Urbi et Orbi le sue ossessioni dissipate con prostitute recapitategli come pornopizze.
Nei primi anni novanta,
prima ancora che il Caimandrillo entrasse direttamente in politica, un
romanzo aveva già delineato il ritratto sputato della sua essenza. Il
libro, scritto da Lorenzo Miglioli, uno dei pionieri di internet in Italia, è intitolato “Berlusconi è un retrovirus: la fine dell’investimento” (Castelvecchi, 1993). Di seguito vi riportiamo alcuni estratti molto lungimiranti di cui vi raccomandiamo la lettura.
I nomi di Noemi Letizia e
Ruby Rubacuori - che negli anni novanta erano due neonate - per molti
evocano una sorta di deriva recente e senile di un malvissuto. Miglioli
intuiva invece già un ventennio fa che il Caimandrillo voleva «diventare
il Pappone Universale di quella Prostituzione Universale che Sade
auspicava come campo della liberazione assoluta dell’uomo». Non ci
credete? Tarate la vostra mente al 1993, e buona lettura.
Estratto N° 1
«Bene... dunque, la mia
tesi è quella che quest’uomo non è una canaglia, almeno non in primis,
non è demoniaco. Lui ha un altro problema: non è normale, in tutti i
sensi, ossia è a modo suo straordinario, extra-ordinario, eccedente in
tutto e onnivoro nel suo desiderio, ma completamente dominato da questa
debordanza ipocondriaca. È un quasi-psicopatico che vuole, oppure è costretto a
prendere alla lettera le sue ossessioni metaforiche. Ricordate il
serial killer che squarta le sue vittime una dopo l’altra, perché deve
prendere il loro cuore, letteralmente, deve dare carne alla sua fantasia
desiderante...
anzi, no, meglio... peggio... dare fantasia alla carne desiderante, a tutta la carne desiderante, tutta quella che lo desidera, che vuole andare a letto con lui e ancora non lo sa.
Io vi dimostrerò che
quest’uomo, se ancora si può parlare di uomo (io ormai lo definirei la
visione delle sue visioni, il fantasma dei fantasmi) è al limite di
quello che si può definire un essere umano: sostiene già ritmi poco
umani, si dice che dorma pochissime ore, vola in continuazione.
Mi dicono che scopa come
un grillo, che regala numeri di telefono di grandiosi puttanoni ai suoi
pargoletti rossoneri. Sono pettegolezzi, ma importanti a far capire che
ormai la sua biografia sta diventando una mitografia, quell’essere sta
diventando una leggenda.
Sta per trasformarsi in
qualcosa di altro. In cosa non si sa, ma come dice ancora una volta
Baudrillard: “Quale seduzione è più avvincente che quella di cambiare
specie?”. Lui vuole essere il primo di qualcosa di oltre-umano, oltre-se
stesso, che è l’unico modello umano a cui i suoi sensi siano
compatibili. Lui sta togliendo finalità alle cose umane, che non siano
le sue finalità. E, lo sapete anche voi, se non c’è finalità tutto è
mutazione continua, metamorfosi inarrestabile. E lui può esistere ed
espandersi e proliferare soltanto in quella condizione: se si ferma è
perduto».
«Vieni al sodo... argomentazioni?».
«Bene, cosa ne dite di un
uomo che replica i valori della propria infanzia e giovinezza nel mondo
mercato, letteralmente fino all’ultima molecola, fino al punto che,
corrompendo anime di qua e di là e corpi, menti e cervelli, non ha
replicato altro che quell’infanzia come mercato-mondo? Fino a che non ha
dato vita ad un teatrino della propria giovinezza in senso industriale,
una ricerca del tempo perduto come tempo realizzato?
Praticamente un alchimista pazzo, che ha deciso di inventare la macchina del tempo.
Lui non ha fatto altro che
vendere se stesso come originale di un seriale senza fine: tutti quelli
che lavorano con lui devono assomigliare a lui, clonarlo, lui è il
trionfo dell’individuo e dell’individualismo come ossessione del
vendere, e quindi del vendersi come atto di accettazione totale, come
identità di quell’essere nel vendere.
Prostituzione universale
realizzata. Incarnazione psicopatica del capitalismo come estinzione di
tutto quello che capitalismo non è. Come estinzione professionale di
tutto ciò che limita il vendere, di tutto ciò che diventa concorrenza
reale. Tutto sotto controllo, tutto nelle mani di chi controlla. Lui
desidera la tolleranza per vendere la sua tolleranza, la democrazia per
vendere la sua democrazia, il sociale per vendere il suo modello di
sociale... eccetera, fino al mondo e forse a Dio stesso. Silvio non è in
grado di partecipare delle idee collettive, vuole rendere collettive le
proprie. Se fosse un computer, sarebbe incompatibile con ogni altro
computer».
Estratto N° 2
«C’è chi ha detto: “Se
controlli la mutazione controlli anche la morte”. Infatti cos’è la
morte, se non una forma molto radicale di mutazione e metamorfosi?
Forse è questo il suo
motore segreto, ma per ottenere questo premio psichico, per godere lui
deve vendere, vendere anche il vendere: questa è la sua ossessione, la
sua professionalità, il suo credo. Silvio ha un esercito di venditori,
lui trasforma gli attori in venditori, i calciatori in venditori, i
giornalisti in venditori, le ragazzine in venditrici, le mamme in
venditrici, i politici in venditori e i venditori in politici.»
******
Torniamo a settembre 2011.
E i suoi presunti avversari che facevano, mentre tutto questo accadeva? Se lo chiede un bell'articolo di Alessio Mannino, intitolato "Contro il Berlusconi che è in noi". Le domande spaziano su un drammatico autoritratto di una nazione.
16 settembre 2011
10 settembre 2011
Propaganda e nebbie
di Pino Cabras - da Megachip.