28 settembre 2011

L'uomo che sogna i tuoi risparmi in fumo

di Pino Cabras - da Megachip.

 
Una bella faccia italo-persiana, un accento americano, un candore cinico, una fama-lampo che esplode sulle ali della crisi e della fame di risposte. Molti di voi avranno già incrociato sul web Alessio Rastani, il “trader” che ha scandalizzato in diretta, fino ad annichilirli, i giornalisti della BBC. «Sono un trader, a noi non importa salvare l'economia, a noi importa trarre profitto, personalmente io ho sognato questo momento per tre anni e davvero desidero che ci sia un'altra recessione». 

E noi provinciali stiamo qui a offenderci per Terry De Niccolò, la escort del Caimandrillo che fa l’apologia del vendere la madre per denaro, «e chi è racchia resti a casa», naturalmente.

La Terry De Nicolò globale ha i tratti spacconi di Rastani, che sembra proprio pronto per un prossimo casting di Oliver Stone, “Wall Street III – Sansone e i Filistei”, inclusa la divisa da squalo, con tanto di cravatta rosa. «Chiunque può approfittare da un crollo di Borsa o dal crollo dell'euro, basta sapere che cosa fare», gigioneggia Rastani, intanto che si improvvisa storico e ricorda, senza giri di parole, che «la depressione degli Anni Trenta non era solo un crollo del mercato, ma c’era gente preparata a tale crollo». E aggiunge che non è solo roba per le élite: ancora una volta, po’ di sana e retorica meritocratica delle opportunità non guasta, mentre tutto intorno sta collassando. Peggio per chi non approfitta degli hedge fund e della corsa ai buoni del tesoro. Alessio sorride: «entro un anno milioni di persone perderanno tutto». Terry avrebbe aggiunto: «chi è racchia, ecc.»
Il "trader" completa il suo pensiero, mischiando fede democratica nelle opportunity e consapevolezze spicciole e concrete sul vero potere: «Lo dico a chiunque ci stia guardando: questa crisi è come un cancro, se state ad aspettate pensando che se ne vada via, crescerà fino a quando sarà troppo tardi. Quel che voglio consigliare a tutti i telespettatori è: preparatevi. Non è il tempo per chimere come l’aspettarsi che i governi risolvano le cose: i governi non governano il mondo, Goldman Sachs governa il mondo. E a Goldman Sachs non importa niente dei pacchetti di salvataggio. Voglio aiutare la gente. Tutti debbono capire come fare soldi da un mercato che va a fondo».
Alessio Rastani pronuncia concetti contraddittori, come potete vedere e sentire: incrollabile fede liberista negli strapuntini di massa che regalerà il giro della giostra che crolla, ma altrettanta certezza che sarà una massa sterminata anche quella degli esclusi, quelli che vedranno evaporare tutto e in breve tempo. E soprattutto, consapevolezza nuda e cruda del fatto che il gioco è condotto da pochi soggetti che tutto fanno girare.
Occorrerà difenderci. Quanto ci costerà? Perché Rastani ha ragione. Aspettare non ha senso.

27 settembre 2011

Il caso “Mutanda Bomber” e il testimone dimenticato

di Pino Cabras – da Megachip.

 
Ricordate Mutanda Bomber? A Natale 2009, un giovane nigeriano di 23 anni, Umar Farouk Abdul Mutallab, figlio di uno degli uomini più ricchi di tutta l’Africa, cerca di far saltare l’aereo sulla rotta Amsterdam-Detroit grazie a un ordigno tenuto a ridosso del suo perineo. L'attentato fallisce e lui si ustiona. Una volta catturato, dichiara di appartenere ad al-Qa'ida e di essere stato addestrato in Yemen. Questa la versione definitiva dei media di tutto il mondo. Tutto senza dubbi, dunque? Neanche per sogno.
Abbiamo testimoni che sin da subito hanno raccontato una storia parecchio discorde dalle versioni correnti. In particolare due passeggeri – gli avvocati Kurt e Lori Haskell, marito e moglie – si fanno testimoni fin dal principio di un racconto strabiliante. Ne parlammo anche su Megachip, in due articoli (“Le false piste terroristiche e le nuove guerre”, e poi “Ammissioni governative: Mutanda Bomber è stato fatto entrare deliberatamente”). Ne parliamo in dettaglio anche in un capitolo del libro Barack Obush. Mentre qualche media importante statunitense non poteva bucare del tutto la notizia, almeno all’inizio, tutti i numerosi corrispondenti italiani da New York e Washington hanno deciso all’istante e per sempre che i coniugi Haskell non esistono. Eppure parlano in modo circostanziato ed estremamente preciso.
In questi giorni si apre il processo a Mutanda Bomber. Kurt Haskell rievoca questa assurda vicenda, che dimostra - come altri episodi che hanno punteggiato il decennio - l’uso sistematico di minacce terroristiche capaci di tenersi in piedi solo con la collaborazione di apparati governativi e dei grandi media, per elevare l’adrenalina nelle vene dei cittadini e far accettare dosi via via più massicce di controllo e di docilità rispetto ai grandi allarmi.
Di seguito possiamo leggere l’articolo scritto dallo stesso Haskell. È una testimonianza di grande peso. Per chi segue le vicende post-11 settembre si conferma che non bastano le “gole profonde” per far crollare dei sistemi capaci di autoregolarsi con strategici silenzi. Per questo abbiamo voluto tradurre questa importante testimonianza: per provare a rompere quei silenzi, e riconsiderare le narrazioni che ci sono state imposte.


Il colossale inganno del caso Mutanda Bomber
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di Kurt Haskell.

In vista della selezione della giuria, alla vigilia dell’inizio del processo a “Mutanda Bomber”, ho passato la serata a ripensare al Natale del 2009 e ai 21 mesi passati da quel giorno. L’attentato di ”Mutanda Bomber” ha decisamente cambiato la mia vita. Non nel modo in cui la maggior parte di voi immaginerebbe, ma ha fatto crollare in me qualsiasi fiducia nel Governo USA, nei media e in questo paese nel suo insieme.
Dire che io sono convinto che il governo sia corrotto e che i media ne siano complici non esprime pienamente il mio pensiero. Non solo sono arrivato a tali conclusioni, ma ho potuto appurare come una persona comune che abbia visto qualcosa di importante possa essere messa a tacere nonostante sia determinata a far conoscere la verità.
Come nel caso “Mutanda Bomber”. Non posso fare altro che farmi grasse risate nei confronti della nuova politica attuata dalla TSA (l’agenzia governativa per la sicurezza dei trasporti, NdT) che recita «se vedi qualcosa di’ qualcosa». Che poi è esattamente quel che ho fatto.
Non solo il Governo USA non ha voluto sentire ciò che avevo da dire, ma ha addirittura mentito energicamente, ha cercato di farmi cambiare la versione dei fatti e nascondere la verità, con l’occultamento delle prove (su attività governative segrete) o imponendo un ordine di segretezza sulle prove e pressoché su tutto ciò che avrebbe supportato la mia testimonianza.
A che punto stiamo, ora? Ora abbiamo il Mutanda Bomber (Umar) che difende se stesso con l’aiuto del difensore d’ufficio Chambers. L’avvocato Chambers mi ha indicato che se fosse stato l’avvocato di Umar, la difesa si sarebbe basata sull’«entrapment» (Letteralmente «intrappolamento»: è una difesa che scagiona un assistito in quanto questi non avrebbe commesso il reato se non indotto a compierlo da parte di agenti delle forze dell’ordine, NdT) e io sarei un testimone chiave. Naturalmente, un tal genere di difesa avrebbe messo in luce il coinvolgimento del Governo USA nella trama.
Risulta troppo comodo però avere Umar che si rappresenta da solo e gestirne la difesa, decidere quali prove presentare, quali testimoni chiamare a deporre e quali domande fare ai testimoni. Un processo con Umar che difende se stesso lascerà i fatti rilevanti di questo caso sconosciuti per generazioni.
Credo proprio che Umar abbia deciso di licenziare i suoi avvocati per motivi che non coincidono con il fatto che lui sia un folle terrorista. È oltremodo comodo che l’entità che ha messo in scena l’evento, controlli anche le prove, quali informazioni far trapelare ai media, chi siano i procuratori, nonché la prigione in cui Umar ha soggiornato negli ultimi 21 mesi. Non dobbiamo trascurare il fatto che il governo degli Stati Uniti ha ammesso di infliggere torture e “waterboarding” ai terroristi. Potete vedere i pezzi del puzzle che formano già una chiara immagine?
Non c’è da sbagliare sul fatto che Umar abbia effettivamente cercato di far detonare un ordigno (nonostante fosse un ordigno difettoso) sul Volo 253. Non è innocente. Rimane da scoprire se la complicità di Umar – che suppongo - con il teatrino che si sta svolgendo sotto i nostri occhi, sia cominciata prima o dopo i fatti del Natale 2009. Non è realmente importante a meno che tu non debba comprendere la sua attuale complicità nella copertura della verità sui fatti nel Natale 2009. Non c’è altra spiegazione della ragione per cui Umar abbia deciso di difendersi da solo rifiutando la difesa di tipo «entrapment» (come ho scoperto che lui farà).
Per coloro che sono ancora scettici su ciò che dico: vi prego di valutare il fatto che io non faccio alcuna affermazione senza averci pensato su attentamente e senza aver svolto approfondite ricerche. È mia ferma convinzione che Umar sia stato scortato per aggirare la sicurezza aeroportuale e che abbia ricevuto una bomba intenzionalmente difettosa da un agente segreto statunitense. La bomba non avrebbe mai dovuto esplodere, ma intendeva semplicemente provocare un “attacco terroristico simulato” o un attacco “sotto falsa bandiera” (“false flag attack”, nell’originale NdT) se preferite. Nel dicembre 2009, erano ormai otto anni che il governo americano non aveva visto alcun attacco terroristico, e diventava sempre più difficile spendere centinaia di miliardi di dollari all’anno sul terrorismo e continuare a combattere due guerre dichiarate ingannevolmente in nome della lotta al terrorismo.
Chi basava le proprie fortune sulla guerra contro il terrorismo non voleva perdere questa gallina dalle uova d’oro.
Ed ecco apparire Umar, il Mutanda Bomber. Un ulteriore beneficio portato dalla bomba inesplosa dentro le mutande di Umar, è consistito nell’avvio dell’installazione delle macchine per il “body scanning” in tutti gli aeroporti. Che cosa conveniente è stata per Michael Chertoff, l’ex capo del Dipartimento della Sicurezza Interna, avere legami con aziende che producevano le macchine per il body scanning! Dubito che questa sia stata una pura coincidenza. Una volta di più, miliardi di dollari sarebbero fluiti dalle casse del governo statunitense verso macchine per il body scanning necessarie per la nostra tutela.
Ciò che oggi ci viene lasciato sono gli elementi frammentari di un caso “Mutanda Bomber” che possono formare una chiara immagine di ciò che successe quel giorno.
A tutti coloro che stanno cercando di metterli tutti insieme, raccomando di prendersi del tempo e di pensare alle prove invece di sorvolare e continuare a stare in una posizione preconcetta di rifiuto.
La verità è che il vostro governo degli Stati Uniti ha organizzato un falso attacco terroristico per rubare i soldi delle vostre tasse e i diritti derivanti dal vostro 4° Emendamento per sentirsi libero di effettuare irragionevoli investigazioni e arresti.
Vi prego di considerare attentamente quanto segue con mentalità aperta e di riflettere sul perché questo tipo di comportamento debba cessare subito.
Le mie valutazioni su questo caso e la lista delle anomalie che differiscono dalla versione ufficiale sono state fatte attraverso: a) numerose discussioni con altri passeggeri, b) ciò che ho potuto riferire in qualità di testimone oculare, c) colloqui con l’avvocato d’ufficio di Umar, d) centinaia di articoli pubblicati su questa storia, e) prove fornitemi da persone “al corrente” o semplicemente da altri cittadini preoccupati, f) dalle registrazioni ufficiali delle udienze a cui ho assistito.
Anomalie del caso in ordine sparso:
1) Nel Dicembre 2010, Chambers ha detto al «Free Press» di Detroit che degli esperti artificieri che lavorano per il Governo hanno dichiarato che era impossibile che quella bomba potesse funzionare. Il «Free Press» più tardi ha eliminato questo articolo dal suo sito online, ma non ha mai cancellato le ultime vicende che riguardano Mutanda Bomber.
2) L’FBI ha ammesso di aver fornito all’attentatore dell’albero di Natale di Portland all’attentatore di Wrigley Field delle bombe intenzionalmente disinnescate poco dopo l’evento di Mutanda Bomber.
3) Il commento di Janet Napolitano sul “sistema che ha funzionato” è stato un lapsus freudiano.
4) L’aereo arrivò alla sua uscita. Fu impedito ai passeggeri di sbarcare dall’aereo per 20-30 minuti (la bomba era ancora sull’aereo?). C’era del materiale che si suppone fosse esplosivo sparso per tutta la cabina dell’aereo. Nessuno prese dei provvedimenti di sicurezza per i passeggeri o per assicurarsi che gli “esplosivi” non rappresentassero un pericolo per i passeggeri. Questa è la prova che si sapeva già che non c’era pericolo alcuno per i passeggeri.
5) La TSA ha ammesso di aver appreso della minaccia terroristica mentre il volo era oltre il Canada/Oceano Atlantico. Nessuna misura è stata presa per avvisare il pilota o per dirottare il volo verso un atterraggio di emergenza da qualche altra parte.
6) La mia testimonianza oculare sull’uomo elegante e tutte le prove testimoniali legate a quest’uomo. Non c’è nessuna spiegazione plausibile sul comportamento di quest’uomo tranne il coinvolgimento del Governo. Il video dell’aeroporto non è mai stato rilasciato e rimane in stato di protezione su ordine della Corte.
7) La continua pubblicazione da parte del Governo della foto sul passaporto di Umar attraverso i media. Ciò fu fatto nient’altro che per gettare discredito su di me. Quale può essere il motivo di una così martellante bella mostra di questa foto su tutti i media? In nessun altro caso la foto di un passaporto è stata mostrata nei media. Mai nessuna copia del presunto “passaporto” di Umar, comunque, è stata rilasciata a Chambers prima del Giugno 2011. Il rilascio del passaporto alla difesa d’ufficio è stata procrastinata di 19 mesi al fine di limitare i tempi necessari a Chambers per dotarsi di esperti che ne valutassero l’autenticità.
8) La spiegazione per il cameraman è quasi incredibile. Iniziò a filmare il cielo appena prima che iniziasse l’attacco e poi si dedicò subito a filmare l’attentato dall’inizio alla fine. Tutti noi pensavamo che stessimo per morire. Per noi l’ultima cosa da pensare sarebbe stata di mettersi a filmare qualcosa.
9) Il 1/5/2010 Breibart ha pubblicato un articolo che indicava che il Governo aveva visionato più di 200 ore di video dell’aeroporto che non evidenziavano la presenza di alcun complice. Questo articolo è contraddetto da un altro di Brian Ross dell’ABC News del 22/1/2010 che indicava che «Il Governo sta cercando di identificare l’uomo che aiutò Umar a Schiphol» L’articolo dimentica di menzionare che questo «uomo vestito elegantemente» ha scortato Umar senza un passaporto attraverso i controlli di sicurezza e invece cerca di descrivere l’immagine di quest’uomo come un membro di Al-Qa'ida. Il Governo viene contraddetto in ambedue le versioni e sta tentando in ognuna di realizzare deboli insabbiamenti.
10) Umar è accusato di cospirazione. I nomi dei complici o dei fiancheggiatori non sono mai menzionati. Non sono nell’elenco dei ricercati e non sono mai stati messi in discussione. Il motivo è che sono degli agenti segreti americani.
11) Il portavoce delle dogane Ron Smith ha cambiato la versione ufficiale sul secondo uomo preso in custodia a Detroit per ben cinque volte. Poi ha inviato ai media una e-mail di blande scuse. La mia versione riguardo quell’uomo non è mai cambiata. Ron Smith alla fine ha rinunciato a mentire e ha smesso di parlare di quest’uomo che invece era presente nelle testimonianze di quasi tutti i passeggeri.
12) Come mai i media hanno costantemente pubblicato le immagini delle mutande di Umar? Quelle immagini mostrano che le mutande sono in gran parte intatte. Ho delle informazioni da una fonte credibile che, a causa di questo incidente, Umar “non avrà mai dei figli”. Questo fatto non coincide con l’immagine di un paio di mutande pressoché intatte. L’incessante pubblicazione della foto delle mutande è stata utilizzata come mezzo di propaganda per sostenere l’inganno.
13) L’accusa ha continuato ad impedire la produzione delle prove da parte dell’avvocato di Umar e in alcuni casi, le ha fornite in ritardo. Perché? Se Umar fosse un pazzo terrorista, qual è quel governo che vorrebbe impedire che la sua difesa se ne accorga? Mi sembra che se la storia ufficiale fosse vera, questo sarebbe stato un caso che doveva aprirsi e chiudersi immediatamente. Sembra che il governo senta il bisogno di proteggersi dalle cause civili intentate dai passeggeri.
14) Perchè Chambers ha ripetutamente affermato che Umar ha una difesa molto valida? La risposta è la “entrapment defense”.
15) Parte dei provvedimenti inclusi nel “Patriot Act” erano previsti in scadenza appena prima del giorno di Natale 2009. Il voto del Congresso estese la loro validità fino al successivo febbraio. Le macchine per il body scanning erano già state costruite e giacevano in magazzino. Michael Chertoff, l’ex capo del Dipartimento della Sicurezza Interna ha legami con i produttori delle macchine per il body scanning. Gli Stati Uniti non hanno subito alcun attentato terroristico dal 2001 fino al Natale 2009. Un nuovo attacco terroristico era necessario per far installare le macchine per il body scanning negli aeroporti.
16) Se il volo 253 si fosse schiantato, nessuno avrebbe mai saputo che la bomba era nelle mutande di Umar. Un attentato non riuscito era necessario per mostrare dove fosse custodita la bomba. Ciò era necessario per convincere gli americani che la dotazione di body scanner fosse essenziale per prevenire attacchi simili in futuro.
17) La storia secondo cui Umar ha ricevuto la bomba in un altro Paese indossandola fino all’aeroporto di Schiphol è illogica. È molto più verosimile che abbia ricevuto la bomba difettosa dentro o vicino all’aeroporto. È più verosimile che l’uomo trattenuto a Detroit gli abbia dato la bomba a Schiphol. La mia teoria è che il cane addestrato degli artificieri (come noi abbiamo potuto vedere di persona) ha fiutato i residui della bomba nella sua valigia a Detroit dopo che eravamo atterrati.
18) Umar poteva essere fermato ad Amsterdam dopo l’imbarco ed essere accusato di varie imputazioni che sarebbero sfociate in un ergastolo. Invece gli è stato permesso di volare nello spazio aereo degli Stati Uniti e di innescarvi una bomba, sorvolando Detroit, il giorno di Natale, al fine di creare uno scoop mediatico tale da condurre ai body scanner.
19) Come riuscì Umar a procurarsi il suo posto vicino al finestrino e al serbatoio dell’aereo se ha pagato il biglietto in contanti? (devi pagare il biglietto con carta di credito per poter scegliere il tuo posto in cabina).
20) Altri video di attacchi terroristici sono stati divulgati nel giro di qualche ora. L’importante video di questo evento non è mai stato rilasciato. Da notare che l’aeroporto di Schiphol ha più telecamere di qualsiasi altro aeroporto del mondo.
21) La bomba è stata fatta scoppiare in cabina e non in bagno in maniera da poter essere filmato tutto e creare un grande evento mediatico, certamente maggiore di una bomba cilecca innescata in un bagno.
22) Il discorso di Obama “sui puntini non collegati” è confutato dalla testimonianza al Congresso di Patrick Kennedy del Dipartimento di Stato. Kennedy ha affermato, in un gran numero di parole, che il governo stava tenendo sotto sorveglianza Umar e non gli ha revocato il suo visto d’ingresso negli USA per poterlo controllare nel territorio statunitense. Ciò sembra perlomeno un’ammissione che sia stato lasciato entrare negli Stati Uniti di proposito.
23) La testimonianza al Congresso di Michael Leiter indica che il governo statunitense lascia entrare frequentemente negli Stati Uniti i terroristi.
24) Nell’inizio del 2010, un certo Mr. Wollfe è apparso al Keith Olberman Show e ha indicato che l’amministrazione Obama stava valutando la possibilità che (l’attentato ndr) fosse un complotto organizzato intenzionalmente dai servizi segreti USA.
25) Guardate la testimonianza al Congresso di Patrik Kennedy (disponibile su internet) e notate la “ginnastica verbale” che fa per evitare di dire che si è trattato di un complotto ordito dai servizi segreti statunitensi.
26) La Polizia Militare olandese inizialmente affermò che Umar non era passato attraverso le normali procedure di sicurezza. Ciò è stato riferito solamente una volta.
27) Perché un passeggero mi chiamò i primi di Gennaio 2010 per tentare di convincermi di non aver mai visto Umar scortato da un cordone della security, e che invece avrei dovuto testimoniare di aver visto un ragazzino minorenne preso sotto tutela dalla sicurezza aeroportuale? Ciò non era vero. Ho scoperto più tardi che quel passeggero lavora per un fornitore che ha grandi rapporti d’affari con il Dipartimento della Difesa.
28) Perché i media mainstream continuano a non investigare su questa storia e continuano a non pubblicare la mia testimonianza?
29) Un secondo passeggero mi ha contattato e ha confermato la mia versione sull’”uomo vestito elegante”. Lei è spaventata e rifiuta di andare avanti.
30) Perché quasi tutti i passeggeri hanno rifiutato di parlare di questo fatto?
31)Perché gran parte dei passeggeri erano personale militare, dipendenti pubblici governativi o fornitori del governo?
32) Perché l’accusa ha affermato in un’udienza recente che stava ancora trattenendo alcune prove che erano state poste in stato di segretezza (top secret?). Cosa sarebbe di così segreto se il governo non fosse coinvolto nella trama?
33) Perché il sito del «Detroit Free Press» ha cancellato tutti gli articoli su Mutanda Bomber che supportano la mia teoria sull’accaduto, ma ha mantenuto articoli più vecchi che supportano la storia ufficiale?
È una sfortuna che l’imminente giudizio sarà nient’altro che una farsa e un teatro dell’inganno per inculcare la menzogna nelle menti del popolo bue.

Traduzione per Megachip a cura di Cipriano Tulli e Pino Cabras.

25 settembre 2011

"L'illusione della crescita e il debito"



L'alternativa c'è - Puntata 18. Ogni giovedì, appuntamento settimanale di approfondimento sul canale MegaChannelZero di YouTube.
Quali sono le radici politiche ed economiche degli attuali problemi, di fronte a una crisi economica gravissima?  Pino Cabras ripercorre in questo videoeditoriale gli ultimi vent'anni di macro eventi italiani per cercare il filo di una spiegazione e di una possibile alternativa all'illusione della "crescita".

21 settembre 2011

El ocaso del Sionismo Real

por Pino Cabras y Simone Santini.

Cada episodio que confirme la deriva cada vez más peligrosa del militarismo israelí – para quien no se haya dado cuenta: una emergencia grave – nos induce a interrogarnos sobre la profunda naturaleza del Estado de Israel. Por décadas las cosas militarmente más brutales y sin escrúpulos que pudiéramos encontrar en nuestra imaginación, en nuestra época, las veíamos en el racismo del régimen nazi.
La recurrente brutalidad de las acciones militares israelíes – consumadas por una clase dirigente belicista – suscita cada vez más una asociación de ideas con la desfachatez de la Alemania nazi, una analogía que resulta inconveniente y escandalosa, porque el Estado judío ha ligado la construcción de su identidad justamente a la memoria de La Shoah, la catástrofe en la cual los judíos estuvieron entre las mayores víctimas sometidas por el nazismo.
Nada es más escandaloso que hacer analogías entre quien expone las marcas de la víctima y quien tiene las señales del verdugo, porque cualquier conciencia moral no puede aceptar jamás a la ligera que las culpas del verdugo sean atenuadas valiéndose de alguna instrumentalización más bien desenvuelta.
Pero esta combinación no se puede ignorar con un alzar de hombros, ni combatir con celo violento.
En cambio debemos preguntarnos – más allá de toda propaganda – porque Israel después de cada masacre, cada violación suya del derecho internacional, cada vejación suya infligida a los palestinos, provoca declaraciones que lo comparan cada tanto a Alemania, la cual perseguía a los que no eran de raza aria o a Sudáfrica, que perseguía a los que no eran blancos.
¿Por qué sucede esto, a pesar de que Israel tenga en su interior una sociedad pluralista y abierta, con una prensa medianamente vivaz y libre, con estilos de vida asimilables a los de una avanzada democrática occidental?
¿Por qué a pesar de las duras protestas de las poderosísimas corrientes de opinión y de los lobby de distintas naturalezas, que en el mundo simpatizan con la aventura sionista, a Israel se lo compara justamente con los Estados que mucho más que otros han suscitado aversión en el mundo también a causa de sus estructuras cruelmente discriminatorias? ¿Entonces por qué muchos ven a Israel como un Estado racista?
La respuesta escandaliza y nada contra la corriente principal de los medios de comunicación, pero es simple y demostrable: Israel es visto como un Estado racista porque “es” un Estado racista. Un Estado que desde el origen le ha dado una interpretación fanática a la cuestión judía a total perjuicio de los no judíos presentes en Tierra Santa.
Partimos de lo que sucede hoy en el suelo sometido a la soberanía israelí. Nos referimos a un territorio en el cual en su interior sucede que hay dos redes viales separadas: una moderna para uso exclusivo de los colonos judíos, la otra residual y descuidada para los palestinos autóctonos, quienes además en la mayor parte de Cisjordania no pueden conducir sus propios autos. Aquellos que lo pueden hacer deben someterse a una densa red de puestos de control que cierra los pasos por horas, mientras que los judíos tienen una movilidad garantizada y libre. A los palestinos les ha sido impuesto un sistema de rígido toque de queda que asfixia la vida civil y la economía. Sectores enteros de Cisjordania que las fuerzas armadas israelitas clasifican como “áreas militares cerradas”, no son accesibles a los palestinos, incluidos aquellos que posean terrenos en ese lugar desde hace generaciones. Viceversa, a quienquiera que sea aplicada la Ley del Retorno Israelita – es decir, a quienquiera que sea simplemente judío, en cualquier lugar del mundo – no se le aplica ninguna restricción.
A los israelíes les está prohibido transportar palestinos en un vehículo con matrícula israelí, a menos que tengan un permiso explícito. La autorización concierne tanto al conductor como al pasajero palestino. Los trabajadores al servicio de los colonos y los mismos colonos judíos tienen permisos especiales.
A los voluntarios israelíes y de las organizaciones humanitarias internacionales les está prohibido asistir a una mujer en trabajo de parto llevándola al hospital. Los voluntarios no pueden llevar a la estación de policía, a asentar una denuncia, a un palestino que haya sido robado.
Luego Amnesty International denuncia otros elementos de sistemático estrangulamiento económico, jurídico y político de la sociedad civil árabe de los territorios ocupados, que son millones de personas. Son discriminaciones muy incisivas y estructurales, incluso cuando no pasan con la ley sino con trámites administrativos metódicos e infinitamente repetidos: «Las Fuerzas Israelitas han desalojado por la fuerza  a los palestinos y han demolido las casas, especialmente en Jerusalén Este, por la razón de que los edificios no tenían permisos. Esas autorizaciones les son sistemáticamente negadas a los palestinos. Encima, las colonias israelitas han sido autorizadas a expandirse sobre territorios confiscados ilegalmente a los palestinos».



Las discriminaciones no se limitan a los territorios ocupados. No hablamos sólo de Cisjordania y de ese campo de reclusión en el cual ya se ha convertido Gaza desde hace demasiados años para un millón de personas, con el embargo que afecta incluso la pasta y los cuadernos.
También dentro de Israel la distinción entre judíos y no judíos se rige por la ley. Hay diferencias importantes entre ciudadanos judíos y goym de Israel, con respecto al acceso a los bienes inmobiliarios, a las uniones familiares y a la adquisición de la ciudadanía. Uno de cada cinco ciudadanos israelíes es árabe. Si uno de ellos quisiera casarse con una persona árabe que vive en los territorios, jamás podrá vivir junto con ella en Israel. Y un hijo de esta pareja puede vivir en Israel, pero sólo hasta los 12 años, luego debe emigrar.


El “carácter judío” del Estado de Israel tiene implicaciones discriminatorias muy evidentes. A los gobernantes de Israel les interesa mucho resaltarlo casi dictándolo a sus interlocutores internacionales, los cuales se lo dejan dictar sumisamente, como el ex Presidente del Consejo Italiano Romano, Prodi, en un famoso y vergonzoso micrófono abierto sin saberlo con el entonces Primer Ministro Israelí Ehud Olmert.

http://www.youtube.com/watch?v=xoOmJwsHUpY

En la época del nazismo, a pesar de las absurdas quimeras de Hitler, el intento de definir quién era judío se presentaba a menudo como rompecabezas jurídico. Roberto Finzi lo explica bien, en su libro: L’Antisemitismo: «A pesar de todas las elucubraciones de las teorías y de las “investigaciones científicas” racistas en Alemania, como más tarde en Italia, de hecho no se logra individualizar otro criterio que el de la pertenencia religiosa». Desde allí nacía una tan minuciosa como inconsciente casuística discriminatoria que individualizaba incluso “mestizos en primer grado”. En la Alemania nazi “judío y mestizo de primer grado pueden ser perfectamente hermanos, incluso hasta gemelos; basta que uno esté enamorado de una joven judía y el otro no».
En el momento en el cual la discriminación cambiase de color, la atribución de los derechos de ciudadanía en base al Judaísmo de todos modos presentaría paradojas irresolubles.
Incluso irresolubles en manos de una clase dirigente audaz que apuntase a la solución nacionalista sionista – es decir la del Israel que conocemos – para desatar todo el nudo judío, sin lograrlo del resto. Es una pretensión que ninguna crueldad puede satisfacer.
El porqué lo explicaba Ernesto Balducci en “El Hombre planetario”: «el caso judío es un caso en sí mismo: cuanto más se razona para desatarlo en articuladas explicaciones de la historia, más nos enroscamos alrededor de un “grumo” inexplicable. En tanto, mientras no es difícil decir quién es un musulmán o quién es un negro, es imposible decir quién es un judío. El término no indica una pertenencia étnica (no existe una raza judía) ni una profesión de fe (existen judíos ateos) ni una patria (hay judíos que no quieren ni oír hablar de Israel) ni una cultura (hay judíos totalmente integrados en la cultura del país en el que habitan). Quizás podríamos decir que el elemento esencial del judaísmo es la comunidad de una memoria histórica: si éste hilo se corta, el judaísmo encaja perfectamente en lo común de los hombres».
¿Esta fidelidad del pueblo judío a su propia diversidad hay que entenderla quizás como el residuo de un tribalismo obstinado? No necesariamente, como explicaremos. Los impulsos homologadores del mundo globalizado son a menudo peligrosos y el caso judío puede ser visto como una señal de la fuerte individualidad de las etnias que se colocarán mañana en el mosaico de la humanidad unificada por los grandes desafíos planetarios.
Al contrario, el valor universal de los derechos del hombre, tanto como conquista del pensamiento jurídico, como de práctica concreta, debe dejar de lado cualquier privilegio exclusivista por la singularidad étnica.
Balducci aclaraba: “Hasta ahora, cuando hemos elegido seguir la línea de la fidelidad étnica, hemos manipulado los criterios de la completa igualdad entre los hombres y cuando hemos elegido seguir la línea de esta igualdad hemos demostrado hostilidad, teórica y práctica, hacia toda forma de diversidad, individual y colectiva.
La cuestión judía nos impide hacer cuadrar las cosas, es decir, dar soluciones a un problema que todavía no se puede resolver, porque faltan las condiciones. Por este motivo la cuestión judía nos envía al futuro”.
Un dilema tan delicado no puede residir por lo tanto en las armas (convencionales, no convencionales, atómicas y propagandísticas) acumuladas durante décadas por la actual clase dirigente sionista y sus corresponsables, tanto en sus corrientes religiosas fundamentalistas como en aquellas secularizadas que no reniegan nada del laico Ben Gurion, cuando declaraba que “debemos usar el terror, el asesinato, la intimidación, la incautación de terrenos y el recorte de todos los servicios sociales para liberar a Galilea de su población árabe”, y que actúan en consecuencia.
Un nudo como éste es un banco de prueba fundamental para el planeta. Subestimarlo o pensar en deshacerlo con el aventurismo militar nos lleva derechos a una guerra de vastísimas y funestas proporciones, un peligro que se hace cada día más concreto.
Llegar a resolverlo creativamente, con designios políticos de escala mundial que rediseñen el equilibrio político del Oriente Medio, es la única tenue luz para evitar la catástrofe. Es una tensión en favor de un auténtico realismo político. Estamos contra el antisemitismo precisamente porque este es un problema de alcance global. Enfrentarse contra el antisemitismo no es solo un modo de tener en gran consideración la cuestión judía, es un modo de preocuparnos sentidamente sobre el futuro del hombre. Por lo que debemos estar a la altura de esta complejidad.
Dos académicos, el geógrafo Arnon Sofer y el demógrafo Sergio Della Pergola (un israelí que ha nacido y vivido en Italia hasta 1966) de la Universidad de Jerusalén, en su tiempo consejeros de Ariel Sharon, han analizado la situación en términos que podemos resumir a continuación: dadas las actuales proyecciones sobre el crecimiento demográfico, Israel deberá resolver un problema que tiene tres variables: democracia, judaísmo, dimensión territorial. Solo dos de estas variables podrían coexistir en el Israel de los años que vendrán.
Podrá ser un estado democrático y hebreo, pero entonces tendrá que ser de dimensiones reducidas.
Podrá ser un estado democrático y grande, pero entonces ya no será hebreo.
En fin podrá ser hebreo y extenso, pero entonces ya no será más democrático.
Aunque la solución “dos pueblos, dos estados” a este punto ya se considere unánimemente – tanto a nivel internacional como italiano – como la única conclusión posible del conflicto, una solución como esta, siempre y cuando se realice, jamás, difícilmente podrá conducir a una pacificación de la zona porque no corresponde a los criterios de justicia y de equidad.
La situación que de hecho se ha creado en Palestina (es decir en los Territorios y en Israel) no consiente el nacimiento del estado palestino al lado del de Israel, o tan solo como una mera “expresión geográfica” privada de los más elementales contenidos de soberanía.
El naciente estado de Palestina tendría la posibilidad de realizar una política de defensa independiente y no podría tampoco establecer relaciones diplomáticas con los demás estados en dicha función; dependería totalmente de Israel en lo que se refiere a la utilización de recursos minerales, es decir agua y energía.
La conformación territorial que se ha consolidado en el lugar (en particular en Cisjordania) con la política de los asentamientos y la construcción del muro “defensivo” hace que los territorios palestinos sean completamente inadecuados para formar un sustrato geográfico favorable al nacimiento de un estado soberano.
Con la situación diplomática actual, además, el nacimiento del estado palestino no resolvería las controvertidas cuestiones de Jerusalén capital y de la situación de los prófugos que desde 1948 en adelante han sido obligados a abandonar Palestina.
La solución “dos pueblos, dos estados” podría además provocar una ulterior fuente de conflicto, latente ahora. Con el nacimiento del estado de Palestina, el componente árabe con pasaporte israelita que actualmente vive en el territorio de Israel (aunque con un status de ciudadanos de serie B, como hemos visto) podría ser “invitada” a trasladarse en el nuevo estado para realizar dos entidades nacionales (Israel y Palestina) puras étnicamente. La historia del Novecientos ha demostrado en otras áreas del planeta muchos precedentes de estos intercambios, con pérdidas humanas espantosas.
El nacimiento de Israel como estado excluyente, sobre una base confesional y étnica, así como deseado por la doctrina sionista, ha producido desde su fundación una herida que no se ha vuelto a cicatrizar. Si desde los años ’30 se hubiera prospectado el nacimiento de un estado independiente en todo el territorio de Palestina (que comprendiera la actual Israel más los territorios) con caracteres multiétnicos, multi-confesionales, multi-nacionales, el estado hubiera obtenido muy pronto y quizás enseguida, un carácter pacífico y unitario.
Nos preguntamos: ¿es posible recuperar, ahora, esa perspectiva? Es decir, ¿el nacimiento de un único estado para dos pueblos? Sesenta años de guerras y de divisiones han marcado profundamente las dos partes, hasta el punto de que una posibilidad de este tipo parece utópica. A pesar de ello todavía existen, tanto en los ambientes pacifistas israelíes como a nivel internacional, grupos y personalidades judías que, sobre una base anti-sionista, prospectan la reconciliación con los palestinos y la posibilidad del nacimiento de una entidad estatal bi-nacional y multiconfesional.
Que árabes y hebreos, en resumen, puedan vivir juntos con iguales derechos y dignidad en un único estado. En cuanto a la estructura jurídica podría inspirarse en naciones que ya existen, como Canadá, Bélgica o Suiza, países que históricamente, aun habiendo vivido recientemente algún impulso separatista, han determinado paz y prosperidad entre etnias distintas aún viviendo en el mismo ámbito geográfico.
En el plano político esto significa llevar la perspectiva “dos pueblos, un estado” a nivel de conocimiento y de debate público al fin de contaminar el pensamiento único fundado sobre “dos pueblos, dos estados”, una perspectiva que hace pensar a la “realpolitik”, pero que se demuestra cada vez más estéril y políticamente impracticable.
Con el patrocinio de exponentes y/o grupos políticos internacionales es quizás el momento de promover convenios y conferencias sobre el tema, determinando el encuentro entre exponentes hebreos y árabes favorables a dicho proyecto, con la perspectiva de crear una organización permanente, internacional. Un foco multiétnico que desarrolle, promueva, analice y resuelva todas las problemáticas inherentes a la cuestión y que coagule alrededor de sí misma cada vez fuerzas mayores.
Es cierto, el hipotético Estado Único de la Tierra Santa –que hoy se encuentra en una zona que ya está muy poblada – se convertiría en una de las zonas potencialmente más  densamente habitada del planeta, debido a las especulativas Leyes del Retorno que deberían garantizar a los palestinos y a los hebreos vivir donde lo deseen, en ese territorio. Un proceso de “nation building” de esta naturaleza sería costoso. Pero si se piensa en los miles de millones actuales quemados por los Estados Unidos todos los años para mandar armas estratégicas, si se piensa en los anormales gastos de gestión del apartheid, si se piensa en perspectiva a la salida que podrían tener los negocios de Medio Oriente, los recursos saldrían, de seguro.
De los inevitables problemas de seguridad que hoy Israel afronta con unilateralidad militar despreciando la comunidad internacional, deberían estar a cargo de una masiva presencia de fuerzas armadas, fuerzas de policía con cooperación civil de todo el mundo. Un año de servicio militar o civil en Hebrón, en Jerusalén, en Gaza, en Tel Aviv significarían para toda una generación una experiencia de gran apertura al mundo.
Hoy el discurso más herético del mundo, o sea desear la derrota política del proyecto sionista y desear una transformación del estado que renuncie al equilibrio existente, no es de seguro sinónimo de destrucción de la presencia judía en Tierra Santa. Sino más bien el contrario.
“Ahora, de todos los improbables motivos que alegan los sionistas para ocupar a Palestina”, recuerda Miguel Martínez “el único que tenga un mínimo de coherencia es el teológico, basado sobre una de las posibles lecturas de lo que llamamos “Antiguo Testamento”, obviamente  para quien cree en ello. Y no hay duda de que las tierras israelíes en la Biblia (donde además no aparece nunca la expresión “Tierra de Israel”) corresponderían más o menos a la Cisjordania más la Galilea, excluyendo la mayor parte del Israel previa a 1967. Por lo tanto son significativos para el judaísmo exactamente esos lugares que los sostenedores de “dos pueblos dos estados” quisieran que fueran restituidos a los palestinos”.
No sorprende poder encontrar entre los hebreos ortodoxos una figura como Menachem Froman, que vuelve al revés los presupuestos del “sionismo real”.
La Tierra es única y humanamente pertenece a los palestinos; “pero los hebreos tienen el derecho, y quizás el deber, de vivir en los lugares más sagrados de esa tierra.
Es decir, un estado único desde el Jordán hasta el mar, con los mismos derechos para todos sus ciudadanos; y libertad para los hebreos religiosos de establecerse en lo que ellos llaman Judea y Samaria. En base al mismo principio, Froman ha defendido las colonias hebreas en Gaza”.
Froman tiene un diálogo verdadero y cálido también con Hamas y con otras formaciones sociales y políticas palestinas.
El nuevo realismo político procederá –tendrá que proceder- en ambientes inéditos de verdad.
El ocaso del sionismo real y la afirmación de un orden de estado que custodie en un modo nuevo la casa de las distintas religiones y de los pueblos del Medio Oriente puede ser el “temporis partus masculus” de la comunidad mundial.

Traducción de antimafiadosmil.com.
Extraído de: megachip.info
http://www.megachipdue.info/tematiche/guerra-e-verita/3898-due-popoli-uno-stato-per-il-tramonto-del-lsionismo-realer.html

19 settembre 2011

Silvio e la Prostituzione Universale

Vi ripropongo questo pezzo pubblicato lo scorso gennaio, su un libro del 1993 che ci spiegava già tutto l'oggi. Si mantiene tremendamente attuale. Quella italiana è un'agonia. La pagheremo carissima.

di Pino Cabras – da Megachip.

prostituniversTutti a chiedersi come siamo arrivati alla situazione di oggi, quando lo sputtanamento del Caimandrillo rivela Urbi et Orbi le sue ossessioni dissipate con prostitute recapitategli come pornopizze.
Nei primi anni novanta, prima ancora che il Caimandrillo entrasse direttamente in politica, un romanzo aveva già delineato il ritratto sputato della sua essenza. Il libro, scritto da Lorenzo Miglioli, uno dei pionieri di internet in Italia, è intitolato “Berlusconi è un retrovirus: la fine dell’investimento” (Castelvecchi, 1993). Di seguito vi riportiamo alcuni estratti molto lungimiranti di cui vi raccomandiamo la lettura.

I nomi di Noemi Letizia e Ruby Rubacuori - che negli anni novanta erano due neonate - per molti evocano una sorta di deriva recente e senile di un malvissuto. Miglioli intuiva invece già un ventennio fa che il Caimandrillo voleva «diventare il Pappone Universale di quella Prostituzione Universale che Sade auspicava come campo della liberazione assoluta dell’uomo». Non ci credete? Tarate la vostra mente al 1993, e buona lettura.

Estratto N° 1
«Bene... dunque, la mia tesi è quella che quest’uomo non è una canaglia, almeno non in primis, non è demoniaco. Lui ha un altro problema: non è normale, in tutti i sensi, ossia è a modo suo straordinario, extra-ordinario, eccedente in tutto e onnivoro nel suo desiderio, ma completamente dominato da questa debordanza ipocondriaca. È un quasi-psicopatico che vuole, oppure è costretto a prendere alla lettera le sue ossessioni metaforiche. Ricordate il serial killer che squarta le sue vittime una dopo l’altra, perché deve prendere il loro cuore, letteralmente, deve dare carne alla sua fantasia desiderante...
anzi, no, meglio... peggio... dare fantasia alla carne desiderante, a tutta la carne desiderante, tutta quella che lo desidera, che vuole andare a letto con lui e ancora non lo sa.
Io vi dimostrerò che quest’uomo, se ancora si può parlare di uomo (io ormai lo definirei la visione delle sue visioni, il fantasma dei fantasmi) è al limite di quello che si può definire un essere umano: sostiene già ritmi poco umani, si dice che dorma pochissime ore, vola in continuazione.
Mi dicono che scopa come un grillo, che regala numeri di telefono di grandiosi puttanoni ai suoi pargoletti rossoneri. Sono pettegolezzi, ma importanti a far capire che ormai la sua biografia sta diventando una mitografia, quell’essere sta diventando una leggenda.
Sta per trasformarsi in qualcosa di altro. In cosa non si sa, ma come dice ancora una volta Baudrillard: “Quale seduzione è più avvincente che quella di cambiare specie?”. Lui vuole essere il primo di qualcosa di oltre-umano, oltre-se stesso, che è l’unico modello umano a cui i suoi sensi siano compatibili. Lui sta togliendo finalità alle cose umane, che non siano le sue finalità. E, lo sapete anche voi, se non c’è finalità tutto è mutazione continua, metamorfosi inarrestabile. E lui può esistere ed espandersi e proliferare soltanto in quella condizione: se si ferma è perduto».
«Vieni al sodo... argomentazioni?».
«Bene, cosa ne dite di un uomo che replica i valori della propria infanzia e giovinezza nel mondo mercato, letteralmente fino all’ultima molecola, fino al punto che, corrompendo anime di qua e di là e corpi, menti e cervelli, non ha replicato altro che quell’infanzia come mercato-mondo? Fino a che non ha dato vita ad un teatrino della propria giovinezza in senso industriale, una ricerca del tempo perduto come tempo realizzato?
Praticamente un alchimista pazzo, che ha deciso di inventare la macchina del tempo.
Lui non ha fatto altro che vendere se stesso come originale di un seriale senza fine: tutti quelli che lavorano con lui devono assomigliare a lui, clonarlo, lui è il trionfo dell’individuo e dell’individualismo come ossessione del vendere, e quindi del vendersi come atto di accettazione totale, come identità di quell’essere nel vendere.
Prostituzione universale realizzata. Incarnazione psicopatica del capitalismo come estinzione di tutto quello che capitalismo non è. Come estinzione professionale di tutto ciò che limita il vendere, di tutto ciò che diventa concorrenza reale. Tutto sotto controllo, tutto nelle mani di chi controlla. Lui desidera la tolleranza per vendere la sua tolleranza, la democrazia per vendere la sua democrazia, il sociale per vendere il suo modello di sociale... eccetera, fino al mondo e forse a Dio stesso. Silvio non è in grado di partecipare delle idee collettive, vuole rendere collettive le proprie. Se fosse un computer, sarebbe incompatibile con ogni altro computer».

Estratto N° 2
«C’è chi ha detto: “Se controlli la mutazione controlli anche la morte”. Infatti cos’è la morte, se non una forma molto radicale di mutazione e metamorfosi?
Forse è questo il suo motore segreto, ma per ottenere questo premio psichico, per godere lui deve vendere, vendere anche il vendere: questa è la sua ossessione, la sua professionalità, il suo credo. Silvio ha un esercito di venditori, lui trasforma gli attori in venditori, i calciatori in venditori, i giornalisti in venditori, le ragazzine in venditrici, le mamme in venditrici, i politici in venditori e i venditori in politici.»

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Torniamo a settembre 2011.
E i suoi presunti avversari che facevano, mentre tutto questo accadeva? Se lo chiede un bell'articolo di Alessio Mannino, intitolato "Contro il Berlusconi che è in noi". Le domande spaziano su un drammatico autoritratto di una nazione.

10 settembre 2011

Propaganda e nebbie

di Pino Cabras - da Megachip.






Non avevo dubbi che la guerra di Libia edizione 2011 ci avrebbe introdotto a un salto di qualità.
Assistevo alle cose vecchie della guerra presentate in un modo più intenso e nuovo. Tutti gli incubi dei romanzi di Orwell hanno occupato i media con assoluta e inedita sfacciataggine, senza i freni di un tempo.
Da subito era una guerra della percezione che avrebbe cambiato in profondità un mondo già fiaccato da un lavoro ai fianchi durato decenni, guerra dopo guerra, media dopo media.
Questo sistema implacabile lo percepivo da anni.

IL RESTO È PROPAGANDA
È con questa ispirazione che quando nel 2008 aprii un blog volli ricopiare e tradurre nella homepage - oltre a una citazione di Orwell - anche una frase di un giornalista argentino allora poco noto in Italia, Horacio Verbitsky, un pilastro nella memoria dei desaparecidos: «Periodismo es difundir aquello que alguien no quiere que se sepa, el resto es propaganda.» Ossia: «Giornalismo è diffondere quel che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda.»
Ed è per questo che per tutto agosto 2011 - mentre in Libia infuriavano i bombardamenti e le battaglie - sulla homepage di Megachip abbiamo dato un posto d’onore a un’intervista all’inviato di guerra Amedeo Ricucci già pubblicata a marzo, un racconto di prima mano sulla micidiale manipolazione con cui veniva costruito il consenso alla guerra, con intere redazioni ormai embedded nel flusso dell’informazione pianificato dai militari, con i direttori dei giornali che falsificavano imperiosamente perfino le carte geografiche.
Immagino sia stato lo stesso spirito a spingere proprio Ricucci il 24 agosto 2011 ad aprire un blog e a mettere anche lui la stessa versione italiana della frase di Verbitsky. Quella frase che piaceva a me piace ormai a molti, e sono contento. Vedo che si sta diffondendo come un virus. La rete è così.

NEBBIA DI GUERRA A TRIPOLI
Perciò mi ha molto sorpreso scoprire che uno dei primi post del neonato blog di Amedeo Ricucci se l’è presa di brutto con noi, definiti «i boys di Megachip». La colpa? Essere parte, «mano nella mano», di «una strana compagnia di giro» che avrebbe stupidamente pensato di combattere la propaganda dei ribelli libici – che ha generato una «errata (e interessata) percezione degli avvenimenti in corso» all’origine dell’intervento Nato – con una propaganda speculare e perdente, interamente guidata da Gheddafi.
A parte la considerazione semi-assolutoria (e piuttosto riduttiva, diciamolo) nei confronti della Nato, che avrebbe scatenato navi, elicotteri, truppe speciali e missili da crociera solo perché si è fatta fregare dagli scalcagnati uffici stampa degli scalzacani di Bengasi, Ricucci sintetizza così la questione: «Addirittura si è messo in dubbio la conquista di Tripoli da parte dei ribelli, si è parlato di set cinematografici allestiti da Al Jazeera in Qatar, si è scritto e veicolato un mare di sciocchezze, a dispetto di tutte le testimonianze di tutti i giornalisti che erano sul posto, al solo scopo di dare una mano al regime di Gheddafi e ai suoi ultimi, disperati tentativi di restare in sella.»
Altolà! La conquista di Tripoli da noi messa in dubbio non è stata quella effettiva e militare poi realizzata sotto l’ombrello Nato, bensì quella virtuale che “anticipava” e “accompagnava” gli avvenimenti nell’ambito di una strategia interamente militarizzata di disarticolazione del Nemico, pura psywar in cui di giornalismo non rimaneva più nulla. Ricordiamolo, com’era in TV, in rete e nei giornali, quel 21 agosto tripolino. Ricucci era sul campo con giubbotto antiproiettile e casco - e la cosa la rispetto assai – ma non poteva avere la visione che invece arrivava nelle case occidentali. Quel giorno si raccontava che gli insorti “liberavano” Tripoli senza incontrare alcuna resistenza, che l’aeroporto era già conquistato, che decine di migliaia di persone, a dispetto delle sparatorie feroci ancora in corso, gremivano le piazze della capitale per sbandierare i nuovi vessilli che avevano in caldo da tempo (perché il cliché di ogni menzogna di guerra di matrice atlantica ha bisogno del tripudio in cui la massa festeggia la liberazione). E poi che si diceva? Che il Colonnello era già da Chavez, che il suo Delfino Seif Al Islam e due suoi fratelli erano già ammanettati dagli eroici ribelli, che Khamis, un altro figlio, quello militarmente più autorevole, era morto in un raid, dopo essere stato solennemente dichiarato morto altre quattro volte dalla coalizione di Bengasi o dalla Nato. Chi smentiva queste notizie false come una banconota da 29 dollari? Certo, le smentiva la propaganda gheddafiana. La quale sovrastimava anche la portata della sua resistenza? Certo, avveniva anche questo.
Ma quando quella propaganda diceva che l’aeroporto non era ancora nelle mani dei ribelli, e lo dimostrava, quello era un fatto, e quella era una fonte interessante. In quel caso meno inquinata di certi telegiornali Rai o del sito di Repubblica che aveva in homepage titoloni su Gheddafi che “ordina di sparare ai bambini” (abbiamo assistito anche a queste orride manipolazioni, non dimentichiamolo mai!).
Perché non ci siamo limitati a pubblicare Ricucci e il blogger Mazzetta, come abbiamo fatto in più occasioni? Perché abbiamo invece tradotto anche Meyssan, che per loro è l’Antigiornalismo?
Il perché li scandalizzerà, ma è molto semplice. In questi ultimi anni, gli organi di informazione dei paesi non inseriti nel flusso informativo a egemonia anglosassone, pur partecipando in modo non neutrale al gioco della comunicazione, sono stati in più occasioni fonti di gran lunga migliori della triviale propaganda che colava dall’altra parte, per una serie di circostanze storiche in cui potremmo inserire anche la guerra di Libia. Prima di ridursi a essere il MinCulPop delle petro-monarchie guerriere, Aljazeera aveva svolto un ruolo di questo tipo, aprendo grandi e nuovi spazi informativi.
Un esempio abbastanza recente? Si pensi a cosa fu la guerra in Ossetia del Sud nell’agosto 2008. Russia Today fornì un’informazione ovviamente filorussa, ancora giudicabile però con normali distinguo e un cauto discernimento. La grande corrente dei media occidentali su quella vicenda invece produsse puro liquame. Interloquire con Russia Today, riprendere certi suoi servizi, consentiva una percezione più vicina alla realtà degli avvenimenti. Perché rinunciarvi? Per paura di essere inglobati in una “compagnia di giro” e così rinunciare a sapere che le immagini della città di Gori bombardata dai russi trasmesse urbi et orbi dalle TV di tutto il mondo erano in realtà immagini di Tzkhinvali martoriata dai georgiani? Il 99 per cento del pubblico occidentale non ha potuto saperlo.
Il 21 agosto 2011 – il giorno della massima pressione su Tripoli - sarà una data da ricordare negli annali dell’informazione. Per chi voleva trovare una notizia attendibile sulla Libia quel giorno era una disperazione. Quella notte scrissi un articolo angosciato, non a caso intitolato “Nebbia di guerra”. Lo avevo scritto al termine di una giornata in cui la stragrande maggioranza delle notizie mainstream si è rivelata poco dopo totalmente falsa. Una giornata in cui le foto e i video erano tutti molto glamour (stile “la guerra è bella anche se fa male”) ed erano veicolati senza filtri dalle redazioni. Essendo immagini passate per la monocorde propaganda dell’odierna Aljazeera erano tranquillamente da catalogare ipso facto come Made in Qatar. Le immagini della Piazza Verde gremita di bandiere erano in parte vere e in parte una montatura. Non quella montatura presunta che pure si è insistentemente affacciata sulla rete, che ci insospettiva e che abbiamo potuto subito sfatare, bensì una montatura più sofisticata, che mescolava immagini di Tripoli con immagini riprese altrove. Non siamo così rozzi da immolarci al tranello della propaganda. Distinguiamo in mezzo alla nebbia, come possiamo. Nel mio articolo facevo appello alla rete per radunare le competenze di decodifica delle immagini. A qualcuno non sembrava giornalismo. Può darsi, ma era uno sforzo onesto di comprensione dei fatti, che ha portato frutti, e avveniva nel giorno in cui diffidavamo di ogni notizia. Rivendico la sensatezza di quell’atteggiamento, visti i fatti.

GLI SPETTRI ROSSOBRUNI DI MAZZETTA
Ricucci, per sostenere che ci siamo fatti fregare dalla propaganda beduina, cita con entusiasmo un articolo, per il quale manifesta analogo entusiasmo Gennaro Carotenuto, in un suo pezzo che – tra le altre amenità - afferma una «marginalità dell’impegno NATO» in Libia. Si tratta di un articolo di Mazzetta, intitolato “Quei Rossobruni che difendono Gheddafi”, una tirata astiosissima contro chi si oppone alla guerra in Libia, riassumibile in un azzardato accostamento fra gruppi nazistoidi e la galassia dei siti che fanno informazione non conformista. L’articolo di Mazzetta richiamato da Ricucci fa cioè un’operazione spettacolare con salto mortale: per stigmatizzare quelli che vogliono «inquadrare nel loro elementare schema ideologico tutti gli eventi» arriva a inquadrare posizioni politiche diversissime in uno schema ideologico ultra-elementare, i mitici Rossobruni: essendo una categoria politicamente falsa, storicamente infondata e giornalisticamente puerile potete scommettere che avrà un certo successo. La moneta cattiva scaccia quella buona. Dispiace che ci sia cascato Ricucci. Fa ridere che ci sia cascato Carotenuto, che critica le «convergenze oggettive sull’interpretazione di una realtà per loro troppo complessa»: meglio per lui postulare l’esistenza dei Rossobruni, così la complessità è a posto. Tra l’altro non ho mai capito un mistero di Carotenuto: scrive dei meccanismi dell’imperialismo, critica gli attacchi alla sovranità, ma li applica solo all’America Latina. È come se un tifoso di Maradona avesse un archivio dei soli suoi goal segnati di destro, e trascurasse gli altri. Gennà, è una battuta. Ma non troppo.
Nel minestrone temerariamente rimescolato da Mazzetta, alla fine, quel che gli rode trovare è che ci sia gente che non crede alle versioni ufficiali sui fatti dell’11 settembre 2001. Per lui, farsi quel genere di domanda è già far parte del «circo rossobruno», e più non dimandare. Amedeo Ricucci dovrà a questo punto telefonare a colui che chiama «il mio direttore, Giovanni Minoli», per dirgli che è un rossobruno (in ossequio all’amore per la complessità di Mazzetta). È infatti lo stesso Minoli che recentemente ha condotto una puntata di La storia siamo noi dedicata alle questioni tabù dell’11/9, facendo quello che al dunque fa un vero giornalista: ispirarsi a Verbitsky, anziché a Mazzetta. Il quale, quando parla di rossobruni dice minchiate, quando parla di sovranità dice perfino di peggio, ma che continuerò a consigliare di leggere, quando scrive cose sensate, ancorché non particolarmente originali, come il suo ultimo pezzo sulla Cina. Così come consiglierò di leggere ancora proprio il suo incubo Meyssan, che va preso, come tutti, con senso critico, ma che non è il cacciapalle che dice lui.

UN DIBATTITO SUL BLOG. I COMMENTI DI GIULIETTO CHIESA E ALTRI.
Ed è interessante il vivace dibattito che si è sviluppato all’interno del post di Ricucci, con molti commenti. Troppo lungo per essere riportato qui, ma meritevole di una lettura approfondita. Riporto qui solo alcuni interventi, che ci riguardano da vicino.

Ad esempio il commento di Giulietto Chiesa:
«Noto con curiosità che Ricucci mi nomina per ben due volte, la seconda mettendomi a fianco dei nazi-comunisti. E, poichè ha citato, elogiandolo, il ludibrioso pezzullo del Mazzetta, indirettamente tre volte.
Vedo dai commenti ai suo pezzo che la sua tirata non ha convinto tutti i suoi lettori. Molto bene. Non ha convinto neppure me. Sarei stato più contento che lui avesse citato qualche cosa di nazi-comunista da me scritta a proposito della Libia. Pazienza, mi accontenterò del suo sdegno di giornalista integerrimo. Eppure io farei i conti con il rapporto di forze. Certo tutti quelli che hanno cercato di raccontare la guerra di Libia con un minimo di decenza avranno pure fatto degli errori, forse. E magari avevano qualche contratto da onorare. Ma erano pochini. Prendersela con i pochini è impresa non molto onorevole, se non si dice (forte, senza ambiguità e senza doppiopesismi) che il mainstream ha fatto strame di ogni verità.
Anche l’esimio Ricucci ci racconta la favoletta dei ribelli che hanno conquistato Tripoli. Ma noi abbiamo non una bensì decine di fonti che ci parlano di commandos sbarcati dalle navi della NATO.
E trascurare la copertura aerea della più potente coalizione militare del pianeta non sembra comunque fare grande onore all’acume e alla lucidità dell’integerrimo Ricucci.»

La risposta di Amedeo Ricucci:
«Caro Giulietto, non ho mai negato che l’aiuto della Nato sia stato determinante, anche attraverso le special forces francesi e inglesi, nella conquista di Tripoli (e non solo). Allo stesso modo ho denunciato , fin da subito, le bugie degli insorti di Bengasi e dei loro alleati. grazie alle quali si è arrivati a questa sporca guerra. Quello che non sopporto è che la propaganda veicolata dal regime di Gheddafi – e non la verità dei fatti – diventi lo strumento per opporsi all’informazione mainstream. Così come non credo che l’ideologia – né tanto meno la dietrologia – possano rappresentare una chiave di lettura per decifrare questa guerra e i meccanismi complicati che la muovono. Solo questo ti imputo. Né ti ho mai accomunato ai nazi-comunisti, delle cui farneticazioni non mi curo. Dico però che si è creata una strana compagnia di giro, che mescola i fatti alle opinioni, crede alle favole , e punta a fare politica (o business) e non informazione.. Io faccio il mio lavoro senza avere la verità in tasca, parlo solo di quello che vedo, e mi sforzo di coltivare costantemente il dubbio. Mi piacerebbe che ci fossero meno certezze in giro e maggiore onestà intellettuale.»

Commenti di Simone Santini:
«Egregio dott. Ricucci, sono fieramente uno dei “boys” di Giulietto Chiesa (boy cresciutello, aimé) in quanto collaboro spesso con la testata Megachip con articoli sulle tematiche internazionali, e, quindi, mi sono sentito chiamato in causa dal suo blog. Sulla Libia Megachip ha pubblicato un solo mio intervento, tra l’altro recente, dal titolo “Si scrive Tripoli, si legge Beirut?”, sul caso del nuovo comandante militare di Tripoli, l’ex (ex?) jihadista Belhaj. Più che giornalista io mi definirei un analista di fonti comunicative. Per il mio pezzo ho usato come fonti (ovviamente citandoli) due inviati: Candito (La Stampa) e Valli (La Repubblica). Nel mio pezzo non c’erano notizie che non derivassero dai loro articoli. Ovviamente c’erano anche alcune mie interpretazioni dei fatti. Ora, quel che più mi ferisce, nel suo blog, è l’accusa che fa (anche) a Megachip di rispondere alla “propaganda” con altra “propaganda”, uguale e contraria. Personalmente risponderò per quel poco che mi compete, dato che Chiesa e Cabras (il direttore editoriale del sito) si sanno “difendere” molto meglio di quanto potrei fare io. Ebbene, non credo che lei abbia letto il mio articolo, ma la sfido a trovare e a dimostrarmi un qualunque accenno di propaganda filo-gheddafiana nello stesso. Altrove si è fatta propaganda filo-gheddafiana su Megachip? Magari sì, ad esempio quando hanno postato un suo video, dottor Ricucci, in cui lei parlava della disinformazione di guerra. Anche in quel caso lei è stato una quinta colonna del Raìs libico nel sistema informativo occidentale… o sbaglio? Perché credo che il punto sia questo: i milioni di ascoltatori del Tg1 in questi mesi si sono formati l’opinione che in Libia c’è stata una rivolta di popolo contro un tiranno; chi, come me, con altre migliaia di persone, ha letto Megachip, si è fatto l’idea che in Libia si sia avuto un nucleo di ribellione su cui si è costruito:
1) un colpo di stato progettato all’estero;
2) una politica delle cannoniere di Francia e GB antitaliana;
3) una manovra militare per interrompere un canale di penetrazione della Cina nel Mediterraneo;
4) la presenza di milizie fondamentaliste islamiche tra i ribelli;
5) i ribelli, senza la copertura Nato, sarebbero stati spazzati via;
6) truppe speciali hanno conquistato Tripoli con un putsch e con la copertura aerea della Nato, i ribelli hanno semmai fiancheggiato l’operazione ;
7) il dopo-guerra presenterà problemi gravissimi, con scenari plausibili di libanizzazione, irachizzazione, somalizzazione… ecc. ;
8) le modalità dell’intervento Nato contengono fortissimi aspetti di illegalità rispetto al mandato Onu. Siamo di fronte a crimini di guerra?
Tutto ciò per dire: chi si è formato un’opinione sul Tg1 è stato vittima di propaganda? Qualunque sia la risposta, ritengo che chi si è formato un’opinione (anche) su Megachip, si è immerso nella complessità cercando un bandolo per la comprensione di problemi enormi. La vogliamo chiamare contro-propaganda?».
«Voi accusate Megachip di far parte di una “compagnia di giro” e di aver dato spazio a chi raccontava, essendo sul posto tanto quanto voi inviati, cose diverse rispetto al flusso magmatico, ma sostanzialmente uniforme e spudoratamente menzognero, del mainstream. E non l’abbiamo fatto in maniera acritica perché ogni volta che c’era la possibilità di svolgere una verifica, l’abbiamo fatto. Ci siamo scelti una “compagnia di giro” sbagliata? Dovevamo forse affidarci alla “compagnia di giro” degli inviati del mainstream? Quanto siete riusciti ad influire, Ricucci e Tinazzi (un inviato di guerra che è intervenuto nei dibattiti del blog, ndr), rispetto all’onda di manipolazione e disinformazione che sommergeva gli italiani sulla Libia? Perché lo spettatore-tipo la vostra voce non l’ha percepita per nulla? Potevate starvene anche a casa, non cambiava nulla e rischiavate certamente di meno. Anche la vostra “compagnia di giro” non era la migliore che si potesse trovare in circolazione…
Allora, io penso che ognuno di noi cerchi di fare onestamente qualcosa di utile per gli altri. Ognuno coi mezzi che ha, con la propria vita, con le proprie idee. Cercando di portare a casa un brandello di verità da offrire agli altri. Talvolta ci si riesce e talvolta no... »

Nel dibattito è intervenuto anche Mazzetta, che ancora una volta ha tenuto a ribadire che i nostri articoli gli fanno ribrezzo. E sia. In particolare non gli piace uno mio, “Nebbia di guerra”, che – lo ricordo – iniziava così: «Siamo in piena nebbia di guerra. Circolano immagini di Gheddafi morto, che sono evidenti falsi, ma molti siti dei giornali le presentano lo stesso con il dubbio, e intanto colpiscono l'immaginario collettivo e lo predispongono al parossismo della battaglia finale.»
Mazzetta scrive:
«Bene, Megachip è in grado di citare i “molti” giornali che hanno presentato quella foto con il dubbio? Secondo me no.»
Secondo me invece sì.
Eccolo accontentato:
Se sono stato capace io di “scoprire” queste testate usando un motore di ricerca, perché Mazzetta non ci è riuscito? Ci ha provato almeno? (citazione).

TOTUS JURNALISTICUS E MILITANZA INFORMATIVA
Riassumendo la questione. Non ha senso parlare di “compagnie di giro” e di “oggettive convergenze” sotto categorie fuorvianti, quando ci si trova a ragionare degli effetti della propaganda di guerra. Chi voglia leggere il post sul blog di Ricucci e i tanti commenti, specie quelli del reporter di guerra Cristiano Tinazzi, può cogliere un loro peccato d’orgoglio che deriva dal loro modo d’intendere la professione. Si tratta di rispettabili inviati che nel loro curriculum vantano premi intitolati a giornalisti trucidati in guerra. Il che significa che anche in ciò che dà loro lustro si posa l’ombra dei gravi rischi che corrono, ai quali rimediano rafforzando il loro baricentro professionale. Come esiste la tipologia umana del “totus politicus”, esisterà il “totus jurnalisticus”, chiamiamolo così. Se esiste me lo immagino come loro, che coltivano la loro oasi di integrità professionale ma che come tutti sono ugualmente sommersi dall’immenso sciame delle notizie veicolate dal mainstream: non è un complotto, ma un modo di funzionare del sistema.
Siccome l’autoregolazione del mainstream rende innocui e perfino ottusi i supergiornalisti, e siccome un Ricucci non fa primavera, crescono i luoghi di informazione indipendente, disordinata, meno accorta su certi punti, ma molto più acuta su altri. La novità c’è e il giornalismo tradizionale stenta ad afferrarla, o finge, auspicando che la nottata passi e si possa tornare a quel che c’era. Non comprende la forza del media-attivismo.
Ora per ora si intacca la presunta «autorevolezza» delle gazzette e dei media «prestigiosi».
I vecchi giornali non sono più ormai riconosciuti come autorevoli ma come “ufficiosi”. Consentono quel poco di libertà che però dovrà starsene nel recinto di una critica tollerata. Con spazi sempre più stretti. Il 21 agosto 2011 non c’erano nemmeno quelli.
Occorre vedere più profondamente la tendenza in corso. Le guerre del 2008 e del 2009 (Ossetia e Gaza) a causa della totale divaricazione del mainstream informativo dalla verità hanno spinto via nugoli di lettori scoraggiati che si separavano dai giornali bugiardi – e che tuttavia facevano ancora massa critica – fino a dissiparli in una galassia dispersissima di fonti alternative, le quali erano in pieno boom ma incapaci di aggregare un robusto senso comune, un’opinione pubblica di peso che fosse in grado di incidere più di tanto.
Però cresce un esercito di centinaia di migliaia di lettori che si informa meglio dei direttori, e lo fa prima di loro, e ha già coperto di ridicolo le notizie false poi spacciate per vere.
In un contesto come questo, gli attivisti mediatici rendono un grande servizio. Nel citarli abbiamo imparato che le loro visioni, i loro pregiudizi o, all’opposto, la loro spregiudicatezza, li hanno disposti a dissotterrare notizie dove altri non vogliono, non possono o non sanno scavare. Troviamo, grazie a loro, le notizie e i riscontri che solo una ricerca libera e critica può fornire. E anche Carotenuto, prima di abbracciare a casa sua – che pure si chiama Giornalismo Partecipativo – l’inservibile spettro rossobruno, farebbe bene a ricordarselo.