18 luglio 2015

11 settembre, appunti leggendo Gregory Bateson

di Giulietto Chiesa.



Scrivo questi appunti per continuare la riflessione sul cosiddetto complottismo, materia tanto infinita quanto fondata su diversi equivoci semantici, che non è possibile qui sceverare (cosa che farò in un post successivo).

Ma torno sull’argomento per rivolgermi ai molti – moltissimi ormai – che non cessano di arrovellarsi attorno alla pratica impossibilità di una serena discussione attorno, per esempio, a ciò che davvero accadde l’11 settembre 2001.

Quelli, come me, che se ne sono occupati a fondo, sanno, ormai da tempo, come sono andate le cose. Per meglio dire: sanno, con completa e dimostrabile certezza, che le cose non andarono affatto come ci fu raccontato dal governo americano e dai media mainstream all’unanimità. Sanno anche che la quasi totalità del pubblico occidentale crede tuttora a quella completa falsificazione, riassunta nella credenza che le torri cadute in quella giornata furono due, e non tre.

Aumenta il numero degli scettici, questo è vero. Ma aumenta anche il tempo trascorso, che ormai fa sì che la nuova generazione di quella questione non solo non sa nulla, ma nemmeno sa che essa sia mai esistita.

Dunque dobbiamo essere realisti: continuare a spaccare il capello in quattro, cercare nuovi argomenti, nuove prove fattuali della falsità della versione ufficiale (il “9/11 Commission Report), è tempo perduto.

Significa questo che abbiamo perduto tempo? Niente affatto, io penso. Il lavoro svolto è stato prezioso. Per esempio il sommario – o enciclopedia dell’11 settembre - La Nuova Pearl Harbor (si trova anche su pandoratv.it, filmati N.1, N.2, N.3) realizzato da Massimo Mazzucco; il lavoro di David Ray Griffin; la ricerca collettiva del panel di Consensus911.org; la straordinaria abnegazione di Richard Gage, con il suo “Architects and Engineers for 9/11 Truth”, e potrei continuare a lungo questo elenco, resteranno nella storia politica del XXI secolo come prova della resistenza degli uomini liberi di fronte agl’inganni del Potere.

E tuttavia io penso che si debba modificare il bersaglio e aggiustare la mira. In che senso? Concentrando ora tutti i nostri sforzi per dimostrare l’attualità dell’11 settembreCioè per spiegare ciò che sta accadendo ora, in questi momenti. Cioè ancora: per mostrare che, se non vi fosse stato l’11 settembre, e se non fosse prevalsa la sua falsa interpretazione, noi tutti non saremmo nei guai in cui invece ci troviamo.

In altri termini: centrare l’attenzione dei diversi movimenti sulla risposta politica da dare alla guerra infinita che gli autori dell’11 settembre dichiararono e continuano a dichiarare all’umanità intera.

Per quanto concerne le difficoltà che abbiamo incontrato in questi 14 anni nello spiegare l’ovvio al colto e all’inclita, mi sono imbattuto recentemente in un’acutissima riflessione di Gregory Bateson (Verso un’ecologia della mente, Adelphi 1977, pagg. 468-469). Riflessione che qui proporrò adesso e che mi ha fatto venire alla mente, tra l’altro, lo “strano” (allora così mi parve) agnosticismo in materia di uno straordinario protagonista della cultura moderna come Noam Chomsky
Il quale decise di “non occuparsi dell’11 settembre”. Pensai e penso che avesse torto. Ma adesso capisco meglio il suo rifiuto di semiologo. In quella strana e triste decisione di non occuparsene c’era evidentemente la convinzione che, comunque fossero andate le cose, sarebbe stato impossibile venirne a capo. Nessuno meglio di lui poteva sapere che lo squilibrio delle forze a nostro svantaggio sarebbe stato incolmabile. In ogni caso ogni sforzo sarebbe diventato fruttuoso solo oltre il brevissimo tempo in cui si consumerà la crisi epocale del nostro mondo e dell’ecosistema in cui è inscritto anche l’11 settembre. In questo ebbe ragione.

E veniamo dunque alle idee di Gregory Bateson che hanno attratto la mia attenzione e che qui ripropongo. Hanno anch’esse a vedere con la sopravvivenza della specie, come quella della pace e della guerra.
Qualcuno può trovare molto difficile – scrive Bateson – vedere ciò che è ovvio. Questo accade perché le persone sono sistemi autocorrettivi: essi sono autocorrettivi nei confronti di ciò che disturba, e se la cosa ovvia non è di un genere che essi possono facilmente assimilare senza fastidio interiore, i loro meccanismi autocorrettivi si attiveranno per metterla da parte, per nasconderla, addirittura fino al punto di far loro chiudere gli occhi, se necessario”.

E’ quello che succede alla maggioranza e non solo per faccende di grande impatto come l’11 settembre . Cioè quasi a tutti. Anche a Umberto Eco.





15 luglio 2015

Il nodo iraniano. E ora?

di Simone Santini.
da Sputnik.

La firma dello storico accordo sul nucleare tra Iran e Comunità internazionale non è il punto terminale ma il primo passo di un processo che può cambiare la fisionomia del Medio Oriente e, dunque, le relazioni internazionali globali.

Tutti gli analisti più attenti della questione hanno rilevato, da tempo, che il faticosissimo negoziato che ha impegnato per oltre un decennio le diplomazie non era tanto centrato sulla possibilità che l'Iran acquisisse il nucleare militare ma sul ruolo che il paese persiano doveva assumere sullo scacchiere internazionale.
Perciò i termini più esatti della questione erano di ordine squisitamente politico (geopolitico) e non tecnico. Per parte americana, dalla visione di un Iran perno dell' "asse del male" si è passati ad una visione molto più pragmatica e realista. Tatticamente l'Iran diventa per Washington il partner ideale per il contenimento del pericolo jihadista, prima di Al-Qa'ida, ora di Daesh (Isis), in tutta l'area tra Iraq e Siria. Il mostro islamista che gli stessi americani hanno contribuito a destare non è un robot che risponde istantaneamente ai comandi e che si possa accendere o spegnere premendo un interruttore. Sono necessari "scarponi sul terreno" che possano contrastare in profondità la sua egemonia che può anche sfuggire di mano. Gli "scarponi" oggi, se non direttamente iraniani, appartengono ad Hezbollah in Siria ed alle milizie sciite in Iraq, dunque fazioni apertamente o tendenzialmente filo-iraniane.
Inoltre l'attuale Amministrazione di Washington sembra aver sposato un assetto per il Medio Oriente, tipicamente ricalcato sulle idee dello stratega di lungo corso Zbigniew Brzezinski, che punta alla creazione di un quadrilatero che formi un equilibrio di tensione tra le potenze regionali: Iran, Turchia, Israele, Arabia Saudita. In tal modo, le fragilità e i contrapposti o contigui interessi di ogni vertice del quadrilatero dovrebbero tendere a comporsi in un quadro stabile. Virtuosismo delle relazioni internazionali a parte, ciò potrebbe consentire agli USA di sganciarsi militarmente, come già stanno facendo, dal Medio Oriente per proiettarsi verso i teatri di crisi prossimi venturi, l'oriente europeo e l'estremo oriente del Pacifico.
Ma come per ogni assetto che tenta lo sforzo di instaurarsi, non mancano i contrasti che derivano dal vecchio ordinamento. Così Israele vede minacciato il suo ruolo di potenza senza avversari. L'Arabia Saudita wahabita vede con terrore imporsi lo storico nemico sciita. E ampi settori americani scorgono l'incertezza del nuovo corso. Ne hanno dato plastica dimostrazione altri due decani delle geostrategie americane, gli ex segretari di stato Henry Kissinger e George Shultz, in una sorta di appello congiunto pubblicato dal Wall Street Journal lo scorso aprile a pochi giorni dall'accordo quadro di Losanna che prefigurava l'accordo definitivo raggiunto ora a Vienna.  Al termine di una accurata disamina scrivono: "Se il mondo deve essere risparmiato da inquietudini ancora peggiori, gli Stati Uniti devono sviluppare una dottrina strategica per la regione [il Medio Oriente]. La stabilità richiede un ruolo americano attivo. Se l'Iran intende essere un membro prezioso della comunità internazionale, il prerequisito è che accetti il controllo sulla sua capacità di destabilizzare il Medio Oriente e sfidare l'ordine internazionale più ampio". Insomma, è detto senza mezzi termini anche se con eleganza. È una questione di controllo. Gli Stati Uniti devono raggiungere la chiarezza su quale sia il loro ruolo strategico, e se l'Iran non è sotto controllo, l'accordo nucleare andrà a "rafforzare, non a risolvere, le sfide al mondo in quella regione".
Tali divergenti visioni prenderanno forma durante il dibattito che avverrà al Congresso americano  sull'approvazione del nuclear deal. Sarà di straordinaria importanza valutare il comporsi dei vari schieramenti non tanto per l'effettiva tenuta dell'accordo (Obama ha già dichiarato che userà il potere di veto se il Congresso provasse a snaturare o semplicemente bocciare l'intesa) quanto piuttosto verificare se la natura politica dell'accordo può avere sufficiente vitalità per imporsi o nasce già morta. Se Obama riuscisse ad avere un voto addirittura favorevole, con la maggioranza repubblicana, sarebbe un trionfo. Se un voto negativo arrivasse solo dalla parte repubblicana (o comunque con defezioni tra repubblicani e democratici che andassero a compensarsi) lo spirito di Losanna e Vienna sarebbe vivo e vegeto, benché fragile, fino alle prossime presidenziali. Se, invece, l'atteggiamento negativo arrivasse anche da una consistente parte democratica, oltre che repubblicana, allora Obama sarebbe, almeno per le questioni internazionali, già esautorato de facto dalle sue prerogative presidenziali con un anno e mezzo di anticipo.
Un ruolo essenziale sarà giocato in questo contesto da Hillary Rodham Clinton, candidata quasi sicura a correre per la Casa Bianca per i democratici e possibile (probabile?) futuro presidente. È da escludersi una sua manifesta ed esplicita opposizione all'accordo ma come si muoveranno le lobbies democratiche, alcune molto legate agli ambienti sionisti americani, che la sosterranno nella sua costosissima campagna elettorale?
Da parte iraniana non resta che osservare guardinghi lo svolgersi degli eventi e godersi intanto questa fantastica vittoria. L'Iran come nazione nel suo complesso, e la sua leadership attuale e passata, ha dimostrato una straordinaria lungimiranza, determinazione, capacità di sacrificio lungo tutti questi anni di negoziato. Possono con fierezza e speranza guardare al futuro. Hanno attraversato la loro parte di deserto, ora tocca al resto del mondo accoglierli.
Fonte:  http://it.sputniknews.com/politica/20150715/754031.html.
Ripubblicato anche da Megachip: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=121966&typeb=0&il-nodo-iraniano-e-ora-


13 luglio 2015

Le rivelazioni di Varoufakis

Altro che resa, la Grecia negozia la ristrutturazione del debito. E la Germania vuole imporre un'uscita disordinata dall'euro per intimidire mezza Europa.

di Pino Cabras.
Yanis Varoufakis rivela: il suo successore e «grande amico» Tsakalotos ha presentato un piano dettagliatissimo di riduzione e ristrutturazione del debito. Un documento di grande importanza posto proprio sul tavolo dei drammatici negoziati a livello europeo di queste ore, alla vigilia della bancarotta greca. La notizia spazza via la quasi totalità delle letture date fin qui della posizione di Tsipras, vista da molti fronti come una “resa” totale, una giravolta inspiegabile, un tradimento del trionfale No al referendum contro l'austerità, da lui stesso indetto. Varoufakis lo rivela in un modo che non si può equivocare: è dall'accettazione di un compromesso che preveda la ristrutturazione del debito che dipende l'esito dei febbrili vertici europei, e questo aspetto è al centro di enormi contrasti tra la Germania e i suoi satelliti da un lato (ora che durante lo strano silenzio della Merkel parla solo Schäuble, attingendo al peggio dello stile di comando germanico) e la Francia dall'altro (assieme ad altri paesi che ora cominciano a capire la terribile posta in gioco). Avevamo già dato conto delle importanti considerazioni di Varoufakis sulla partita che si gioca adesso. Qui ripubblichiamo la traduzione fatta dal sito Essere Sinistra, che riprende sia il post dal blog di Yanis Varoufakis, sia il suo interessantissimo editoriale su The Guardian.
Leggendo quel che segue, il lettore potrà rendersi conto della portata delle notizie, su cui gran parte dei grandi media ha continuato un'immane opera di falsificazione e su cui anche i media fuori dalla corrente principale hanno usato categorie da teatro dei pupi (quelle di “Tsipras traditore”) anziché sforzarsi di capire che si sta facendo la Storia, e che si stanno toccando sponde impensabili della vicenda europea. I fili della veste dell'imperium germanico sono ormai invisibili. Il Grexit voluto con unilaterale e punitiva protervia dalle classi dirigenti tedesche ci dice che il mulo di Berlino è nudo in tutta la sua testardaggine. Nulla sarà come prima. La crisi della periferia greca innescherà altri fili scoperti della più grande crisi sistemica, di cui il teatro europeo sarà pienamente protagonista. Con molte vittime, purtroppo.


Sostiene Varoufakis. Le vere ragioni del no di Berlino alle offerte di accordo di Atene


Dal sito Essere Sinistra.


Yanis Varoufakis si è dimesso da ministro del governo greco. Ora è ancora più libero di dire la verità. Come ha sempre fatto. Nel suo blog ha introdotto così il suo articolo pubblicato sul quotidiano inglese The Guardian:

Il Vertice UE di domani porrà il suo sigillo sul destino della Grecia nell’Eurozona. Mentre scrivo queste righe, Euclid Tsakalotos, mio ​​grande amico, compagno e successore come Ministro greco delle Finanze si sta dirigendo verso una riunione dell’Eurogruppo che determinerà se sia possibile raggiungere un ultimo accordo per superare la trincea tra la Grecia ed i nostri creditori e se questo accordo contiene il grado di riduzione del debito che potrebbe rendere l’economia greca praticabile all’interno dell’Area Euro.
Euclid sta portando con sé un ben congegnato e moderato piano di ristrutturazione del debito che è senza dubbio nell’interesse sia della Grecia e i suoi creditori. (I cui dettagli ho intenzione di pubblicare qui lunedì, una volta che la polvere delle polemiche si sarà posata).

Se queste proposte di ristrutturazione del debito saranno considerate modeste, come il ministro delle finanze tedesco ha prefigurato, il vertice di UE di domenica deciderà tra sbattere fuori dalla zona euro la Grecia ora o trattenerla per un po’, in uno stato di profonda indigenza, fino a che non sarà lei a uscire in futuro.
La domanda è: perché il ministro tedesco delle finanze, Wolfgang Schäuble, sta resistendo a una possibilità di ristrutturare il debito reciprocamente vantaggiosa? Il seguente editoriale appena pubblicato oggi [10 luglio 2015 ndr] su The Guardian offre la mia risposta”.

Leggiamola.

La redazione

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Il dramma finanziario della Grecia ha dominato i titoli dei giornali per cinque anni per un motivo: l’ostinato rifiuto dei nostri creditori a offrire un’essenziale riduzione del debito. Perché, contro il buon senso, contro il verdetto del FMI e contro le pratiche quotidiane dei banchieri di fronte a debitori stressati, resistono a una ristrutturazione del debito? La risposta non può essere trovata in economia perché risiede in profondità nella labirintica situazione politica dell’Europa.

Nel 2010, lo Stato greco è diventato insolvente. Due opzioni compatibili con il continuare a essere membri della zona euro si presentavano: quella razionale – che ogni banchiere decente consiglierebbe – ristrutturazione del debito e riformare l’economia; e l’opzione tossica – estendere nuovi prestiti a un’entità in bancarotta fingendo che resti solvibile.

L’Europa ufficiale ha scelto la seconda opzione, ponendo l’interesse al salvataggio delle banche francesi e tedesche esposte al debito pubblico greco al di sopra della vitalità socio-economica della Grecia. Una ristrutturazione del debito avrebbe perdite implicite per i banchieri nelle loro quote del debito greco.
Desiderosi di evitare di confessare ai parlamenti che i contribuenti avrebbero dovuto pagare di nuovo per le banche per mezzo di insostenibili nuovi prestiti, i funzionari dell’UE hanno presentato l’insolvenza dello stato greco come un problema di mancanza di liquidità, e giustificato il “salvataggio” come un caso di “solidarietà” con i greci.


Per incorniciare il trasferimento cinico di irreparabili perdite private sulle spalle dei contribuenti, come un esercizio di “amore inflessible”, è stata imposta alla Grecia un’austerità da record, il cui reddito nazionale, a sua volta – da cui i nuovi e vecchi debiti dovevano essere rimborsati – diminuiva di più di un quarto.

Basta l’esperienza matematica di un bambino di otto anni per capire che questo processo non poteva finire bene.

Una volta che la sordida operazione fu completata, l’Europa aveva acquisito automaticamente un altro motivo per rifiutare di discutere la ristrutturazione del debito: essa avrebbe ora colpito le tasche dei cittadini europei! E così dosi crescenti di austerità sono state somministrate mentre il debito è diventato più grande, costringendo i creditori a dare più prestiti in cambio di ancora più austerità.

Il nostro governo è stato eletto su un mandato per porre fine a questo circolo vizioso tra banche e stati; per chiedere la ristrutturazione del debito e la fine dell’austerità paralizzante.
I negoziati hanno raggiunto il loro molto pubblicizzato impasse per un semplice motivo: i nostri creditori continuano a escludere qualsiasi tangibile ristrutturazione del debito pur insistendo che il nostro debito impagabile sia rimborsato “in modo parametrico” da parte della parte più debole dei Greci, dei loro figli e dei loro nipoti.

Nella mia prima settimana come ministro delle finanze sono stato visitato da Jeroen Dijsselbloem, presidente dell’Eurogruppo (i ministri delle finanze della zona euro), che mi sottopose una scelta netta: accettare la “logica” del piano di salvataggio e rinunciare a qualsiasi richiesta di ristrutturazione del debito o il vostro accordo di prestito farà “Crash” – la ripercussione non detta era che le banche della Grecia sarebbero state chiuse.

Cinque mesi di trattative seguirono in condizioni di asfissia monetaria e di assalto indotto agli sportelli bancari supervisionato e gestito dalla Banca centrale europea.

La scritta era sul muro: a meno che non capitoliamo, presto saremmo stati di fronte a controlli sui capitali, bancomat quasi-funzionanti, una prolungata chiusura festiva delle banche e, in ultima analisi, la Grexit.

La minaccia della Grexit ha avuto una breve storia sulle montagne russe. Nel 2010 ha messo il timore di Dio nel cuore e nella mente dei finanzieri poiché le loro banche erano piene di debito greco. Anche nel 2012, quando il ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble, decise che i costi della Grexit erano un “investimento” utile come un modo per disciplinare la Francia e gli altri, la prospettiva ha continuato a spaventare a morte quasi tutti.

I Greci, a ragione, tremano al pensiero dell’amputazione dall’unione monetaria. L’uscita da una moneta comune non è come troncare un piolo, come ha fatto la Gran Bretagna nel 1992, quando Norman Lamont notoriamente cantò sotto la doccia la mattina che la sterlina usciva dal meccanismo di cambio europeo (ERM). Ahimè, la Grecia non ha una moneta il cui piolo con l’euro può essere tagliato. Ha l’euro – una valuta estera completamente amministrata da un creditore ostile alla ristrutturazione del debito insostenibile della nostra nazione.

Per uscire, dovremmo creare una nuova moneta da zero. Nell’Iraq occupato, l’introduzione della nuova carta moneta ha impiegato quasi un anno, 20 o giù di lì Boeing 747, la mobilitazione della potenza delle forze armate Usa, tre aziende di stampa e centinaia di camion.

In assenza di tale sostegno, la Grexit sarebbe l’equivalente di annunciare una grande svalutazione con più di 18 mesi in anticipo: una ricetta per liquidare tutto lo stock di capitale greco e trasferirlo all’estero con ogni mezzo disponibile.

Con la Grexit che rafforza la corsa agli sportelli indotta dalla Bce, i nostri tentativi di porre la ristrutturazione del debito di nuovo sul tavolo dei negoziati è caduto nel vuoto. Di volta in volta ci hanno detto che si trattava di una questione da affrontare in un futuro non specificato che avrebbe seguito il “successo nel completamento del programma” – uno stupendo Comma 22 dal momento che il “programma” non avrebbero mai potuto avere successo senza una ristrutturazione del debito.

Questo fine settimana segna il culmine dei colloqui quando Euclide Tsakalotos, il mio successore, si sforza, ancora una volta, di mettere il cavallo davanti al carro – per convincere un Eurogruppo ostile che la ristrutturazione del debito è un prerequisito del successo nel riformare la Grecia, non un premio ex-post per questo.

Perché è così difficile da far capire? Vedo tre ragioni.

Uno è che l’inerzia istituzionale è difficile da battere. Un secondo, che il debito insostenibile dà ai creditori immenso potere sui debitori – e il potere, come sappiamo, corrompe anche i migliori. Ma è il terzo che mi sembra più pertinente e, anzi, più interessante.

L’euro è un ibrido di un regime di tassi di cambio fissi, come l’ERM degli anni ’80, o il gold standard degli anni ’30, e una moneta di stato. Il primo si basa sulla paura dell’espulsione per tenere insieme, mentre il denaro statale comporta meccanismi per riciclare eccedenze tra gli Stati membri (per esempio, un bilancio federale, obbligazioni comuni). La zona euro cade fra questi sgabelli – è più di un regime di tassi di cambio e meno di uno stato.

E qui sta il problema. Dopo la crisi del 2008/9, l’Europa non sapeva come rispondere. Dovrebbe preparare il terreno per almeno una espulsione (cioè, la Grexit) per rafforzare la disciplina? O passare a una federazione? Finora non ha fatto nessuna delle due: e la sua angoscia esistenziale è sempre crescente. Schäuble è convinto che allo stato attuale, ha bisogno di una Grexit per pulire l’aria, in un modo o nell’altro. Improvvisamente, un permanentemente insostenibile debito pubblico greco, senza il quale il rischio di Grexit sarebbe svanito, ha acquisito una nuova utilità per Schauble.

Cosa voglio dire con questo? Sulla base di mesi di negoziati, la mia convinzione è che il ministro delle finanze tedesco vuole che la Grecia sia spinta fuori dalla moneta unica per mettere il timore di Dio nei francesi e fargli accettare il suo modello inflessibile di eurozona.





11 luglio 2015

La Grecia nella meccanica bruta dei rapporti di forza

di Pino Cabras.
da Megachip.

Riflessioni su quel che si prepara per la Grecia, in un passaggio storico drammatico durante la crisi definitiva del 'sogno' europeo 



Vi proponiamo alcune riflessioni in ordine sparso su quel che si prepara per la Grecia, in dirittura d'arrivo verso un passaggio storico drammatico: non il primo e non l'ultimo di questa tempesta che segna già la crisi definitiva della narrazione sul costrutto europeo così come è giunta fino ad oggi. Il re è nudo. L'incubo europeo ha terminato le sue riserve di soft power che volevano venderlo come un sogno. Sarà che a Berlino non ci hanno mai saputo fare granché con il soft power. 
Vi proponiamo tre letture di questo importante momento.
Marcello FoaGiuseppe Masala e Giulietto Chiesa ragionano della vicenda da tre diverse angolazioni: l'irriformabilità dell'attuale ordine istituzionale dell'Unione europea, l'enorme fuggevolezza dei risultati e delle visioni degli attori della tragedia greca del XXI secolo, l'incomprensione delle difficoltà strategiche immani toccate in sorte ad Alexis Tsipras in un contesto in cui il potere eurocratico ha i mezzi per strozzare e sopraffare un'intera economia.
rapporti di forza agiscono ormai senza diluizioni, senza veli, con atti di meccanica bruta, come in guerra.
La differenza fra una resa totale di Atene e un compromesso passa attraverso un elemento: la presenza o meno di un consistente taglio del debito nell'accordo finale in queste prossime ore.
La mia previsione è che il taglio del debito greco , una parziale remissione, si farà. 
Tsipras non rientrerà ad Atene a mani vuote. Questo non significa che abbia già ottenuto il via libera a una piena e sovrana gestione della politica economica del suo paese (siamo ancora dentro il paradigma assurdo dell'austerity: sia i debitori che i creditori avrebbero così "comprato tempo" pagando un prezzo, senza però risolvere i nodi di fondo). Dalle interpretazioni delle manovre di questi giorni deduciamo che gli USA, nel loro classico "leading from behind", abbiano imposto alla Germania di impegnarsi per non far andare via la Grecia dal campo della NATO, cosa che sarebbe per Washington una catastrofe geostrategica. Si apriranno nuovi giochi e nuovi scenari, per chi vorrà cogliere le occasioni della storia. Ma tutto si giocherà in un tempo politico estremamente breve in cui nulla sarà "a bocce ferme" e in cui una pistola sarà sempre sulla tempia dei governanti greci (e anche sulla tempia di milioni di europei).
Se non ci sarà taglio del debito (lo scopriremo in poche ore) la crisi della democrazia europea entrerà in una sorta di avvitamento, e dovremo aggiornare in modo drammatico le analisi.
Mi viene in mente la frase dell'avvocato Gavin D'Amato, impersonato da Danny De Vito nella Guerra dei Roses: «in un divorzio non c'è vittoria, solo diverse gradazioni di sconfitta». In questo caso non c'è nemmeno una legge che regoli il divorzio fra la Grecia e l'Euro. Nessuno purtroppo è in grado di assicurare che qualsiasi scelta fatta ora possa garantire una meta certa e vittoriosa. Dobbiamo dunque ragionare sulla gradazione della sconfitta. Questo continente, il continente che ha innescato due guerre mondiali e con delle guerre già in corso, ha davvero poco tempo per riflettere e agire per la propria salvezza.

Buona lettura!


Accordo Grecia: avete capito che l'Unione europea non è riformabile?

di Marcello Foa.

Che cosa resterà della crisi greca, considerato che l'epilogo sembra ormai segnato, salvo sorprese dell'ultimo minuto? Di positivo la capacità di reazione di un popolo. Ilno degli elettori, lo scorso week-end, è stato un no a un'idea di Europa basata sull'austerity, sui vincoli assurdi della moneta unica, su un concetto non democratico e verticistico dell'Unione. Il fatto che oltre il 60% di un popolo si sia espresso con tanta convinzione rappresenta un segnale di malcontento profondo e non eludibile; significa che la coscienza critica dei popoli europei non è sopita e che il Dna democratico è ancora vigoroso e può essere contagioso. Da oggi, come già osservato, la Lega, il Movimento 5 Stelle, Podemos, la Le Pen e, fuori dalla zona euro, lo Ukip di Farage e altri movimenti poco noti, ricevono una spinta propulsiva e vitalizzante i cui effetti si manifesteranno nei mesi a venire.
Purtroppo l'epilogo della splendida rivolta greca non è all'altezza delle aspettative. L'accordo che si sta perfezionando non è molto diverso da quello che è stato respinto alle urne. Tsipras può vantare nuovi aiuti e la verosimile ristrutturazione di una parte del debito, ma i nodi restano intatti e, come ha giustamente osservato Alberto Bagnairiesploderanno nei prossimi mesi. Atene ha preso soltanto tempo.
E allora perché quest'esito gattopardesco? Le ragioni sono due.
La prima: a imporre la «pax greca» sono stati gli Stati Uniti, che dapprima hanno manovrato sotto traccia poi hanno fatto sentire la propria voce tramite il segretario al Tesoro. Gli Usa non possono permettere il grexit per le sue implicazioni strategiche; spingere la Grecia fuori dall'euro avrebbe significato consegnarla nelle braccia di Putin (vedi post), un'eventualità catastrofica per Washington tanto più in un periodo di forti tensioni in Ucraina. Ma Obama non può permettere il grexit perché il progetto dell'euro è fondamentale per la Casa Bianca, che lo ha sempre sostenuto dietro le quinte. Anzi, come è emerso dalla pubblicazione di alcuni documenti desecretati della Cia e del Dipartimento di Stato lo ha ispirato e guidato sin dall'inizio per il tramite dei padri fondatori del progetto europeo.
L'America ha picchiato i pugni sul tavolo sia con il governo greco che con gli europei. E le tensioni si sono sciolte nell'arco di poche ore.
La seconda ragione riguarda le illusioni di Tsipras, che è uno splendido capopopolo, un emozionante condottiero delle piazze e ha dato prova di notevole coraggio, ma non è uno statista. Si illudeva, Tsipras, di poter costringere l'Unione europea a rinnegare se stessa ovvero a gettare a mare 15 anni di politica economica repressiva e ad ascoltare improvvisamente le istanze di un popolo su base autenticamente democratica, come dovrebbe essere, ma come non è quasi mai stato in un'Unione Europea costruita dall'alto verso il basso e terrorizzata dal suffragio universale espresso tramite referendum.
Ora c'è la prova oltre ogni ragionevole dubbio: chi resta nell'euro deve continuare a prendere ordini dall'Unione europea e dalla Banca Centrale; deve sottomettersi all'austerity predicata dal Fondo monetario internazionale; dunque deve continuare a indebitarsi e a sprofondare nel circolo vizioso di una recessione senza fine e senza speranza.
Tsipras non aveva un piano B e non ha mai contemplato l'uscita dall'euro. L'esperienza dimostra, invece, che chi vuole davvero far ripartire l'economia del proprio Paese e sottrarsi al giogo della Troika non può illudersi e deve prepararsi, per tempo, all'unica soluzione realistica: l'uscita programmata - e non imposta - dalla moneta unica. Altre soluzioni non ce ne sono.




Crisi greca: hanno tutti perso la lucidità.

di Giuseppe Masala.

È evidente che si tratti di una situazione nella quale i protagonisti hanno perso totalmente la lucidità.
Alexis Tsipras sa che non ha tempo e sa che la Grecia è totalmente impreparata per il Grexit. Non escludo che abbia subito pressioni fortissime anche da Barack Obama, di quelle che non si possono rifiutare. Ora pare che Tsipras abbia accettato delle proposte concordate con François Hollande che gli spaccheranno il partito e che forse gli costeranno il governo, sempre che non accetti un governo di unità nazionale che ne decreterebbe comunque la fine politica.
Angela Merkel se boccia l'accordo facendo uscire la Grecia dall'euro verrà letteralmente scannata come una gallina da Obama, se accetta verrà scannata come una gallina dagli oltranzisti della CDU e degli altri partiti tedeschi capeggiati daWolfgang Stranamore Schäuble.
Mario Draghi non si capisce cosa farà lunedì in caso di accordo. Accetterà di allargare i cordoni della borsa della liquidità emergenziale quando il suo azionista di maggioranza Weidman ha già detto di no? Ha la maggioranza nel direttivo BCE? Credo di no. Intanto pare che le banche greche abbiano in cassa solo 750 milioni di euro. Lunedì finiscono tutto. Lunedì!
- Nel frattempo Moody's fa un report dove finalmente si dice quello che dico io da 15 giorni: "Accordo o non accordo qui bisogna trovare tra i 30 e i 40 miliardi di euro per una ricapitalizzazione delle banche greche". Sottolineo: ricapitalizzazione, non liquidità (quello è un altro tipo di problema che può risolvere la BCE. ricapitalizzare no, non può proprio farlo).
Insomma, è un casino quasi impossibile da risolvere anche per persone nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali. Che dire? Dubito che in questo momento i protagonisti queste facoltà le abbiano.
A me la situazione pare questa. Ormai, aggiungo che a scompigliare tutto c'è un altro fattore: il tempo. Non so se c'è tecnicamente il tempo...

Fonte: Facebook.


Waterboarding sulla Grecia

di Giulietto Chiesa.

PAROS (Grecia) - Lo rivelò Varoufakis. Adesso lo stanno accelerando. Di fatto stanno facendo crollare il sistema bancario. Nessuno può più comprare niente. Cioè non può più vendere niente. Chiudono i distributori di benzina. I negozi. I ristoranti. Figurarsi cosa succede alle altre attività produttive. Può permettersi di sopravvivere, ma per poco, solo chi aveva i soldi nel materasso. L'UE è un'organizzazione mafiosa. Come previsto puntano al peggio. Schäuble disse a Tsipras: "quanto volete per uscire dall'euro?"
Cioè ci sono due strategie: quella dei tedeschi, che vogliono la Grecia fuori. E quella di Wall Street (cioè di Obama) che vuole la Grecia dentro (ma solo perché teme che finisca in braccio a Putin).
Dal punto di vista tedesco, meglio fuori una Grecia che si ribella e dentro tutti quelli che chinano il capo. In fondo il debito greco è poca cosa rispetto alla sterminata massa di derivati della Deutsche Bank. Il potere è più importante del denaro. In ogni caso poi la Grecia possono ricondurla all'ovile dopo averla strangolata. Così se la mangiano tutta privatizzandola.
Certo, c'è chi insiste: "i ristoranti son pieni,i supermarket stracolmi di ogni mercanzia...turisti a fiumi, e senza restrizioni di sorta...". Falso. Tutto questo riguarda i turisti stranieri. Ma oggi uno dei due distributori di Antiparos (Cicladi) è stato chiuso per mancanza di benzina. Chi voleva comprarsi una radiolina si è sentito dire che non si può prenotare niente ad Atene, perché non inviano, essendo impossibili le transazioni bancarie. Se qualcuno dice che i greci vanno a comprare da mangiare, non mi stupisce. O pensa che debbano anche morire di fame? Anche in Italia i ristoranti sono pieni. Ma tutto il resto è vuoto. Anche noi viviamo con i risparmi. Fino a quando?
Sono in Grecia e riferisco quello che vedo, non quello che leggo. Le banche sono chiuse, non c'è denaro. Mi volete spiegare come fa un ristoratore e comprare il cibo per i suoi clienti con 60 euro al giorno? Se li aveva nel materasso userà quelli. Se non li aveva, abbassa la saracinesca. Inutile chiudere gli occhi. Stanno strozzando la Grecia. E possono strozzare chiunque osi mettere in discussione il loro potere. A meno che la gente non apra gli occhi.
Poi ci sono le mosche cocchiere. Chi, oggi, attacca Tsipras, favorisce le banche che strozzano la Grecia. Nessuno ha la qualifica per giudicare chi ha guidato, come ha potuto, questo processo di rinascita greca.
Tsipras sa meglio di tutti (e fino ad ora lo ha dimostrato, vincendo due confronti elettorali decisivi) quali sono i problemi del suo popolo. Chi parla di tradimento, oggi, non solo non sa valutare i rapporti di forza attuali. Non conosce né il nemico, né l'amico. Dunque invita alla sconfitta. La favorisce, la rende più facile.


Fonte: Facebook.



6 luglio 2015

E' caduto il mulo di Berlino


di Pino Cabras.
da Megachip.

In Europa ritorna, ricaricata dai greci di oggi, un'antica parola dei greci di ieri: politica. La parola va a braccetto con un'altra parola plurimillenaria, pure greca: democrazia. Con la squillante vittoria del NO nel referendum greco anti-austerity del 5 luglio 2015, si apre infatti per i popoli europei un mondo di possibilità politiche che gli oligarchi non avevano preso in considerazione. Ma non solo loro. Anche fra coloro che combattono gli oligarchi in troppi avevano perso fiducia nelle possibilità della politica, fino a non capire la portata dirompente del referendum: accusavano Tsipras di essere una specie di Ponzio Pilato, e pensavano che il voto delle elezioni parlamentari di gennaio bastasse al governo per tutte le drammatiche decisioni che doveva affrontare mentre l'Europa gli muoveva guerra, senza rimettere le decisioni al popolo.
C'è invece una grandissima differenza fra il voto del 25 gennaio e quello storico del 5 luglio. A gennaio Syriza raccoglieva il 36 per cento dei voti espressi, che a loro volta erano il 64 per cento del corpo elettorale. Il premio della legge elettorale e l'alleanza con il partito Anel, un altro 5 per cento, consentivano di governare, ma in un contesto di sfiducia nel sistema politico, simile alla disaffezione che colpisce ovunque in Europa i sistemi politici.
Il referendum di luglio ha sollevato l'affluenza e ha chiarito in modo molto solenne che quasi due votanti su tre non sono più disposti ad accettare le vessazioni degli usurai internazionali protetti dall'Europa finanziaria a trazione tedesca. È un NO più forte della paura del salto nel buio, più potente dei bancomat a singhiozzo, più travolgente dei media che hanno inondato i greci e gli europei tutti di una valanga di bugie, come solo in occasione di guerre succede. I nove giorni che sconvolsero l'Europa – quanti appena ne sono passati tra l'annuncio di Tsipras e il giorno del referendum – sono bastati a far cadere tutte le maschere e gli equivoci che occultavano il vero volto delle istituzioni europee nemiche dei popoli. Se i popoli si sollevano, le oligarchie perdono: una verità semplice semplice che spaventa più di tutto i potenti, che infatti reagiscono facendo parlare tutti gli spara-balle del loro arsenale, dai gazzettieri più infami fino ai maggiordomi miracolati come Renzi.
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[A proposito dello scendiletto della Merkel, confrontatelo ora con Tsipras. Il tempo è galantuomo, a volte. Ha ingannato un po' di militanti e militonti con la veste del Rottamatore e gli hashtag del #cambiaverso. Oggi è nudo, con le sue leggi reazionarie e i suoi conservatorismi, tanto da rivelarsi in pieno per quello che è: un manovratore di bassa levatura politica, senza legittimazione popolare misurabile. Un tappo che ostruisce il corso della politica e della democrazia, e comincia anche a fare errori grossolani di valutazione mentre il mondo che lo sostiene rischia di franare rovinosamente].
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Ora si apre una fase in cui l'oligarchia degli eurocrati combatterà una battaglia feroce per sopravvivere. Come nota Pier Luigi Fagan, «il nucleo PPE-socialisti mai concederà nulla ad un rappresentante dell'area critico-scettica perché altrimenti Podemos, Grillo, la Lega, la Le Pen...»
Faranno quindi la guardia a un sistema anelastico, rigidissimo, scaricando tensioni sull'intero Continente. Ma perderanno definitivamente la credibilità residua del loro vecchio inganno spacciato per “sogno europeo”. I più anelastici di tutti, a Berlino, già dichiarano per bocca del ministro delle finanze Sigmar Gabriel che «con il no la Grecia ha bruciato i ponti con l'Europa, non ci sarà un altro piano d'aiuti» (ossia i finanziamenti che in realtà aiutano le banche tedesche e spremono i greci). Testardo come un mulo, questo Gabriel. Il mulo di Berlino.
Il dramma in corso nelle segrete stanze berlinesi è definito da Giuseppe Masala come il dilemma della Prigioniera Angela.
«- Se dice sì a Varoufakis, allora regala la Spagna a Podemos, il Portogallo ai comunisti e l'Italia a Grillo.
- Se gli dice no, allora fa schiantare la moneta unica, l'Italia, la Spagna e il Portogallo (ed altri).
Risultato finale: sia che dica sì, sia che dica no, distrugge la moneta unica e l'egemonia tedesca in Europa.»
Uno scenario simile è descritto anche da Marcello Foa, che aggiunge una terza opzione, quella di un imperio totalitario che si spoglia pienamente di ogni parvenza democratica. Ma anche questa opzione significa la fine dell'Europa istituzionale che conosciamo.

Insomma, grazie al referendum greco siamo giunti al dunque di un grande nodo geopolitico, che si intreccia con altre tensioni europee: non si deve dimenticare che la NATO (ossia gli USA) ha acceso tanti focolai – su tutti l'Ucraina - per impedire all'Europa di fare accordi strategici convenienti con la Russia e altre potenze e legarla così a un futuro di subalternità alla potenza nordamericana in declino, dovesse costare anche l'ascesa di movimenti nazisti. Interverranno altri attori in una scena che cambierà rapidamente già nel corso di questi mesi.
La nuova leva dirigente greca ha dimostrato che con il coraggio e il primato della politica si può mettere di nuovo il peso dei popoli nel corso degli eventi. Le sponde sensibili non mancano, in seno ai popoli, e perfino presso tante cattedre che esprimono idee in grado di buttare nella pattumiera decenni di neoliberismo. Si pensi ad esempio al peso che può avere l'enciclica di questo papa. Sarebbe uno spreco immane non cercare tutte queste voci, ora che è tornata la politica.



4 luglio 2015

Crolli di Borsa in Cina: in tre settimane 10 PIL della Grecia

Seguiamo la crisi di Atene (e dell'Europa). Ma la crisi è sistemica. Tra suicidi e paura di contagi finanziari, esplode ora la bolla cinese.

di Pino Cabras
da Megachip.


I lettori ci sono testimoni di quanta attenzione dedichiamo in questi mesi e settimane alla crisi greca, tanto più alla vigilia del referendum indetto dal governo Tsipras sulle vessazioni degli usurai della trojka. Ma vogliamo lo stesso aprire una finestra su un'altra crisi, che al momento coinvolge solo chi punta sulle borse cinesi, ma che ha riflessi potenzialmente enormi sul mondo. Mentre per vicinanza e facilità culturale, nel bene e nel male, tutti gli europei sanno quel che accade ad Atene, la Cina non ci è vicina (almeno sui media). Solo gli specialisti si sono accorti che in meno di un mese la borsa di Shanghai e quella di Shenzhen sono crollate del 25%, mandando in fumo un controvalore pari a 10 volte il PIL della Grecia
Più sotto proponiamo all'attenzione dei lettori una corrispondenza da Shanghai per il sito Rischio Calcolato, che racconta con tono quasi scanzonato alcuni fatti che in realtà parlano di drammi improvvisi, estesi, giganteschi: le tipiche fiammate sociali che esplodono in occasione dei grandi crack borsistici causando improvvise tragedie esistenziali e suicidi, panico e paura di contagio finanziario, per giunta in un paese dove tutto corre verso l'essere grande e veloce. Anche nei disastri.
Senza anticipare troppo, c'è una prima riflessione: la crisi sistemica può avere sviluppi improvvisi e capaci di collegarsi. Se ad esempio qualcuno spera che l'equazione della crisi greca sia risolta da un cavaliere bianco (o giallo) che arriva da Pechino, ora dovrà mettere nel conto nuove incognite che complicheranno i calcoli: in Cina hanno le loro gatte da pelare. E se le grandi riserve di dollari incamerate per decenni dai fondi sovrani vorranno correggere il crollo di borsa cinese, magari dovranno disinvestire da altre parti, innescando altre crisi (vedi gli USA). Vedremo.
Per ora la Cina ha una finanza meno interconnessa di altri paesi, ma niente in quest'epoca è davvero completamente sconnesso. La crisi in borsa riflette (amplificando follemente l'ampiezza) il rallentamento nell'economia reale cinese. Troviamo così le tendenze globali, tutte in grado di interagire fra di loro. Troppa liquidità non ha trovato mete remunerative e si è congelata nelle alchimie finanziarie e nei debiti. Pertanto il capitale non ha abbastanza sbocchi nel reale, e allora li trova nelle bolle speculative o rapinando interi popoli. 
Sullo sfondo c'è un ulteriore pericolo, visto che definiamo questa come una crisi sistemica. Le crisi sistemiche bruciano i libri contabili in guerra, e in effetti i focolai si moltiplicano. Cercare alternative a questo sistema economico suicida diviene una questione di sopravvivenza.
Buona lettura.




Cina, Crollo della Borsa, Suicidi di Massa, La Signora con le Borse di Arance è Morta

Dal corrispondente di Rischio Calcolato in Cina:
Ciao Paolo,
se ti va di leggere 2 righe da Shanghai.
A Shanghai il meno 25% in Borsa sta picchiando duro
Erano diventati tutti investitori. molti con soldi presi a prestito da banche, parenti e amici, o addirittura vendendo la casa. malgrado la cultura finanziaria bassissima.
All'inizio della discesa ci scherzavano sopra, tutti convinti che comunque era qualcosa che non riguardava loro stessi ma solo gli altri, ed il tutto si sarebbe risolto rapidamente.
Ora sono però partiti in maniera importante i suicidi, sai qui in Asia il suicidio fa parte della vita, quando perdi il tuo ruolo, la tua posizione socio economica.via.!!!
(tanto per fare un esempio i vostri Schettino, Galan, e via con altri migliaia di nomi sarebbero tutti "suicidi")...

Il governo cerca di calmare la cosa:
- non diffonde le notizie di suicidi
- giornali e TV per 24h al giorno parlano super-esperti di finanza e luminari di economia che spiegano che nel giro di pochi mesi la borsa tornerà a correre come prima
e poi si arriva agli estremi delle foto allegate
-quella con i vigili del fuoco con un "non Buttatevi dalla Finestra aspettate che la situazione si risollevi".

- quella sullo stabile con un patriottico "qualunque tonfo non spaventa l'Eroico Mercato Azionario Cinese"



Tempo fa scrivevo ad un'amico:
  • Da un lato la borsa è sicuramente vista più come un casinò dove buttare sul tavolo delle "fiches", che un posto dove comprare "pezzi di aziende/servizi" remunerativi nel tempo.
  • Negli ultimi mesi è stato un crescendo di attenzione verso la borsa ed i facili denari fatti "giocando" con le azioni, questo in modo estremamente esagerato, molto più di quanto accaduto a fine anni novanta in Italia con le "dot-com". TV e giornali sono pieni di notizie che riguardano massaie e macellai arricchitesi in pochi mesi borsa. poi sai qui è tutto esasperato e veloce rispetto all'Occidente, a Shanghai i pensionati armati di smartphone non giocano più a "majian" (una loro specie di scacchi) come in passato, ma giocano in borsa dalla panchina dei giardini pubblici. non sto scherzando è proprio così.
  • (un aneddoto, una collega di mia moglie ha triplicato il suo capitale in poco tempo, si è quindi licenziata e sta facendo il giro del mondo con i soldi guadagnati in borsa è convinta che quando torna potrà poi fare altrettanto.)
  • Altra considerazione, conosco personalmente e bene aziende piccolissime che non hanno nessun titolo ne struttura per stare in borsa, non hanno nemmeno una contabilità decente, ma sono riuscite a quotarsi ed ora beneficiano di un gran flusso di denaro "gratis". finchè qualcuno non ci metterà il naso.
  • Entrando poi nell'economia generale direi che la situazione attuale è tutt'altro che allegra (in generale, non per quanto riguarda l'azienda dove lavoro che anzi.) Le aziende che esportano verso l'Occidente (moltissime) sono in grossa difficoltà a causa dell'aumento dei costi locali (manodopera di basso livello a +12% annuo per 10 anni fa oltre +300% in un decennio.) e soprattutto per la variazione del tasso di cambio, con uno Yuan che ha preso quasi 30% contro €uro da Nov'14 a Mag'15. molti esportatori non ci stanno più dentro, ho incontrato titolari di attività che hanno perso enne milioni di euro in pochi mesi ed ora hanno i magazzini pieni di componenti che nessuno gli comprerà mai.
  • Altra importante nota negativa è che anche il mondo dei grandi investimenti statali Cinesi in Real Estate ed infrastrutture è in questo momento congelato, per volontà politica. tutto da vedere quando e come ripartirà.
    Quanto detto sopra mi porta a pensare che è meglio stare lontani dalla borsa di Shanghai e credo che le prospettive di lungo periodo non possono essere che negative. il tema è quanto lungo?.
    Va anche detto però che i Cinesi sono in generale "risparmiatori", molto attratti dal "profit" ed a volte "creduloni" al limite dell'ingenuità. queste caratteristiche fanno saltare gli schemi a cui siamo abituati in Occidente.
    Di fatto in questo momento ha investito in borsa solo una piccolissima parte delle persone. e se questa voglia di borsa si estendesse anche agli altri? Ai molti ? Fin dove potrà proseguire la bolla?.
p.s. se non sapete chi sia la signora con le arance, ve la presento. Molti anni fa una signora con la borsa della spesa piena di arance entrò nella banca in cui lavoravo (si lo ammetto. ne ho fatte di cose brutte nella vita), aprì un conto trading con la segretaria e versò circa 9000€ (l'equivalente in lire, la borsa era in Euro, ma c'erano le lire). Poi venne da me al trading desk, si presentò e mi disse "Presto, dottore, presto, mi compri la Aisoftware prima che finiscano". Le comprò mi pare a 248€ per azione sul mercato non regolamentato Easdaq (non esiste neppure più), l'ultima volta che le vidi erano sotto 2€. E' stata una delle mie più grandi esperienze di vita e ho avuto la fortuna di farne tesoro senza pagarne io il prezzo. Non capita spesso.

Fonte: http://www.rischiocalcolato.it/2015/07/cina-crollo-della-borsa-suicidi-di-massa-la-signora-con-le-borse-di-arance-e-morte.html.