da Libreidee.
Quelle che abbiamo attorno sono le macerie di una guerra. Lo afferma senza giri di parole il centro studi di Confindustria descrivendo questa crisi,
ovvero la più drammatica recessione della nostra storia, dopo il
secondo conflitto mondiale.
A partire dal propagarsi nel mondo degli
effetti reali della crisi iniziata con i “sub-prime”, lo sfacelo dell’economia è paragonabile a una guerra per i danni e le macerie che ha lasciato dietro di sé. In pochi anni sono svaniti quasi due milioni di posti di lavoro.
E la drammatica morsa creditizia, operata dal sistema bancario,
continuerà ancora a lungo, almeno fino al 2015 nello scenario più
negativo.
«Otto anni di vacche magre, anzi, scheletriche», annota
Eugenio Orso. La catastrofica recessione neocapitalistica sta dando
segni di luce in fondo al tunnel? Attenti: se la “guerra”
è finita, «il dopoguerra potrà essere altrettanto negativo e
socialmente drammatico». Parlano le cifre: oltre 7 milioni di senza lavoro e quasi 5 milioni di poveri.
Il tutto, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è condito da un crollo dei consumi delle famiglie che possiamo definire epocale: è la fine della
tanto deprecata società dei consumi?
Siamo appesi a un filo: le
ostilità potrebbero riprendere improvvisamente, «a causa di un ennesimo
shock orchestrato dalla grande finanza
internazionalizzata».
In quel caso, «la situazione potrà precipitare
ulteriormente». Del resto, la debolezza strutturale del sistema-Italia,
dal punto di vista sociale e occupazionale, si manterrà anche il
prossimo anno. E il Pil, «se crescerà, crescerà di un’inezia, meno
dell’uno per cento», per la precisione lo 0,7% secondo la Confindustria,
che rivede a ribasso precedenti proiezioni.
«La peggiore ipotesi, nel
dopoguerra e a partire dall’anno nuovo, è che il rispetto degli
“impegni” presi in sede europea implichi la rinuncia forzata a un punto
di Pil, con conseguenze negative sul temutissimo spread e ricadute ancor
più negative sulla società».
Se anche la “guerra” fosse veramente finita, aggiunge Orso, se ne deduce che – in ogni caso – l’Italia è un paese sconfitto: «Abbiamo perso la guerra e soltanto ora ce ne siamo accorti».
Potenza manifatturiera in Europa e nel mondo, l’Italia «è forse il grande sconfitto in Europa»,
anche se «non certo l’unico, perché l’area europeo-mediterranea esce
complessivamente sconvolta dal conflitto, che pare continui in Grecia».
Lo spettacolo è desolante: «Le macerie visibili, le distruzioni del
tessuto produttivo, i segni dei continui “bombardamenti”
neocapitalistici ed europoidi ci sono tutti», continua Orso.
«Lungo le
direttrici del Veneto e nei distretti industriali del nord», si
moltiplicano «gli edifici industriali e i capannoni chiusi intorno ai
quali già cresce un po’ di vegetazione, abbandonati all’incuria perché
nessuno può riattivarli».
Analoga disperazione nelle strade e nelle
case: «Il proliferare continuo del numero dei poveri veri, dei
mendicanti, di coloro che dormono nelle stazioni, sempre più sporche e
prive di manutenzione, ugualmente lo dimostra. Case senza riscaldamento
(e senza luce) sempre più numerose, perché la cosiddetta “economia della bolletta” ammazza le famiglie monoreddito». E attorno, «edifici pubblici e privati senza manutenzione, che fra qualche anno cadranno in pezzi».
Ma non è tutto. «Le macerie morali, invisibili quanto le ferite che
offendono lo spirito, sono forse le più difficili da rimuovere e le più
insidiose».
Secondo Orso, «per l’Italia ci sarà un lungo dopoguerra,
interrotto forse una ripresa improvvisa del conflitto, con un ultimo
“bombardamento” finanziario ordinato delle aristocrazie globali del
danaro e della finanza».
Ma attenzione: «Non è prevista alcuna ricostruzione».
Questo gli
analisti del centro studi di Confindustria non lo scrivono, ma lo
lasciano intendere quando, con aridi numeri, cercano di prevedere i
possibili scenari del dopoguerra.
«Non ci sarà ricostruzione, come
avvenne dopo la seconda guerra
mondiale, dal 1947 agli anni cinquanta. Perché, a differenza di allora,
la spietata “global class” finanziaria, perfettamente organica al
neocapitalismo e senza problemi di coscienza, non prevede per il paese
alcun “Piano Marshall”». Ovvero: «Le risorse del paese si saccheggiano,
le sue strutture produttive si smantellano, la popolazione si spreme
fino all’inverosimile, e poi si passa ad altro, ad altri “mercati”, ad
altre “bolle”, lasciando dietro di sé solo macerie. Materiali e morali».
Fonte: http://www.libreidee.org/2013/12/litalia-ha-perso-la-guerra-la-ricostruzione-non-ci-sara/.
28 dicembre 2013
L’Italia ha perso la guerra, la ricostruzione non ci sarà
22 dicembre 2013
Breve elogio del complottismo
di Alfio Neri.
Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come
possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che
viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo
criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che
qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione
strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé
eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare
che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica.
Nel
marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato
ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica.
Per
la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava
il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del
nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava
ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al
beneamato colonnello Gheddafi.
Il presidente siriano venne dunque
insignito col più importante titolo onorifico italiano, quello di
“Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della
Repubblica italiana”. Il titolo sanciva l’inizio di un’alleanza talmente
“profonda” che sarebbe finita, di lì a pochi mesi, con l’accusa di
essere a capo di uno ‘Stato canaglia’.
Pochi anni prima, nel 2007,
il comandante supremo delle forze Nato in Europa dal 1997 al 2000,
generale Wesley Clark, aveva letteralmente sbigottito il suo uditorio in
un incontro pubblico a San Francisco. Rendeva di pubblico dominio un
breafing avuto poco dopo l’11 settembre 2001. Sosteneva di essere stato
messo al corrente dal vice-presidente Cheney e dal ministro della Difesa
Rumsfeld dell’intenzione dell‘amministrazione di scatenare una serie di
guerre contro Siria, Iraq, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran.
L’obiettivo era trasformare il “volto” del Medio Oriente prima di essere
costretti ad accettare la sfida strategica della prossima superpotenza
emergente. Il generale Clark sosteneva che, per costoro, l’esercito
americano doveva servire per scatenare guerre e per far cadere governi e
non per rafforzare la pace e la stabilità. La sua opinione era che un
gruppo di persone avesse preso il controllo del paese con un colpo di
Stato politico. Si trattava di inventarsi nemici per destabilizzare
intere aree geografiche e dare così vita a nuovi scenari geopolitici. La
strategia americana era sostanzialmente quella di produrre caos:
seminare vento per raccogliere tempesta.
Il punto chiave non è la
menzogna in quanto tale. Altre volte nella storia l’alleato è diventato
il nemico, l’aggressore ha vestito i panni della vittima e la menzogna
ha assunto le parvenze della verità. Le bugie sono sempre esistite, ma
oggi sembrano molto più credibili che in passato. Adesso, se una
campagna informativa è svolta con un’adeguata potenza di fuoco,
qualsiasi cosa può essere creduta vera.
Da sempre ci vengono fornite
informazioni “sicure” che non possiamo verificare; però ora lo stesso
fatto di porsi in modo critico appare come un elemento di lesa maestà.
In tempi teologici l’uso critico della ragione si chiamava “eresia”;
oggi, invece, l’accusa è quella di “complottismo”. In un mondo in cui le
cose apparentemente sembrano andare bene, chi afferma il contrario può
essere solo un malato, un debole di spirito, un paranoico. Come si può
criticare la bontà e la lungimiranza dell’Impero del bene?
Il libro di Paolo Sensini, Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente
(Mimesis, Milano 2013, pp. 322, € 24), è un rigoroso tentativo di
andare oltre la mostruosa cortina del “politicamente corretto”.
L’apparato di note del testo è assolutamente notevole e le chiavi di
lettura che il testo permette sono molto variegate.
Ciò che balza
subito agli occhi è il gigantesco lavoro di scavo fatto dall’autore fra i
documenti a disposizione. La quantità di dati circolanti è
effettivamente molto ampia nelle pubblicazioni in lingua inglese e
francese (meno in italiano). La cosa è molto interessante perché anche
all’interno del mainstream si trovano autentiche perle che
illuminano parecchi degli eventi recenti. Troviamo le dichiarazioni
pubbliche del generale Clark sulla politica estera di Bush riportate
poche righe sopra (cfr. p. 122); quelle del generale Fabio Mini, che
afferma che la politica estera statunitense nel Mediterraneo è asservita
agli interessi israeliani (cfr. p. 107); troviamo chiarimenti relativi
all’inquietante rapporto fra sunniti e wahhabiti – per inciso, senza il
petrolio e l’aiuto statunitense, i wahhabiti sarebbero solo una setta
semiereticale di beduini analfabeti che si è impadronita con la forza
della Mecca (cfr. pp. 266-273); e troviamo anche molte ragioni del
perché una parte dei siriani stia ancora sostenendo, malgrado tutto,
Assad.
Fra tutti i documenti risalta di gran lunga la
dichiarazione, sicuramente fatta a braccio, di Karl Rove, l’anima nera
dell’entourage di Bush che, in un attimo di vera autenticità
esistenziale, dice chiaramente: “Ora noi siamo un Impero e quando agiamo
creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente
analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e
poi un’altra ancora che voi potrete studiare. È così che andranno le
cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da
fare che studiare ciò che facciamo” (p. 163). I vertici americani sanno
dunque di “scrivere la storia” e non si curano affatto della verità,
della giustizia e anche degli eventuali danni collaterali.
Sull’argomento
vi sono un’infinità di problemi aperti: dalla quantità enorme di
stranezze dell’11 settembre 2001, all’influenza della lobby israeliana
nelle politiche mediorientali degli Stati Uniti. La cosa interessante è
che esiste, e Sensini se ne da conto, un’ampia documentazione. In tale
contesto, più che l’informazione puntuale, manca la capacità di
formulare i quesiti giusti e di seguire le piste più interessanti.
Per
esempio, perché nessuno si chiede come sia possibile che l’Arabia
Saudita, un paese che non permette il voto e la guida alle donne, sia
riuscito a diventare, assieme a Israele, nazione che pratica
l’apartheid, il difensore della democrazia e dei diritti umani nel mondo
arabo?
Come è stato possibile che le petromonarchie più integraliste,
come gli Stati sunniti del Golfo Persico, abbiano come peggior nemico
l’Iran, un altro petrostato integralista mussulmano, e non Israele, il
loro declamato nemico assoluto?
I petrostati sciiti e sunniti non
dovrebbero essere, come da teologia islamica, alleati per respingere
l’influenza di americani e israeliani?
Perché a sua volta Israele,
apparentemente uno Stato moderno, l’“unica democrazia del Medio
Oriente”, è alleato di queste monarchie medievali?
E ancora: perché
Assad, che certamente non è un santo, ha sempre avuto dalla sua una
parte della popolazione siriana?
Perché in tanti anni non è stata
raggiunta nell’area neppure una limitata forma di quieto vivere?
Che
senso storico ha il tentativo, iniziato un decennio fa dal precedente
presidente degli Stati Uniti, di cambiare il volto del Medio Oriente?
Le
tesi del libro sono molte e non vorrei togliere al lettore il piacere
della lettura. Tuttavia, fra tutti i capitoli, segnalo il gustoso I “precedenti storici dell’11 settembre” nella politica estera statunitense.
Si tratta di un capitolo delizioso per brevità e concisione.
In queste
pagine l’autore mostra alcune costellazioni di eventi che hanno spinto
più volte gli Stati Uniti ad agire per “autodifesa”. La trama elementare
è quella di un “nemico traditore” che agisce nell’ombra per pugnalare
alle spalle l’ingenuo ma coraggioso campione della democrazia; un
canovaccio che si ripropone più volte nella storia americana con poche e
lievi varianti.
La prima guerra provocata da un nemico traditore, fu
quella contro la Spagna del 1898. Essa venne dichiarata dopo
l’esplosione dell’USS Maine, una nave da guerra alla fonda nel
porto dell’Avana. La colpa dell’esplosione fu attribuita d’ufficio agli
spagnoli, venne impedita ogni perizia sulle cause del disastro; poco
dopo il Maine fu affondato in alto mare, appena in tempo per
iniziare una guerra che la Spagna non aveva alcun interesse a fare (cfr.
pp. 201-204).
Un altro caso molto noto fu quello del Lusitania,
un transatlantico civile britannico pieno di materiale bellico (fra
l’altro esplosivi ad alto potenziale che esplodono a contatto con
l’acqua), che viaggiava a pieno carico di passeggeri in zone dove si
sapeva battevano sommergibili tedeschi (cfr. pp. 204-211).
Pearl Harbour
è un altro esempio paradigmatico. Nel dicembre 1941, la marina
americana venne attaccata apparentemente di sorpresa dalla flotta
giapponese nelle Hawaii. All’epoca i servizi segreti statunitensi
avevano decrittato il cifrario segreto giapponese e seppero con anticipo
dell’imminente attacco. Il Presidente Roosevelt aveva bisogno di una
scusa per entrare in guerra senza problemi. Alla fine della giornata gli
unici veramente sorpresi dal bombardamento furono i marinai americani
usati come carne da macello (cfr. pp. 211-218).
Anche gli incidenti del
Golfo del Tonchino dell’agosto 1964, quelli che provocarono l’intervento
in forze degli Stati Uniti in Vietnam, erano una bugia. La vicenda finì
talmente male, con l’inglorioso ritiro americano di dieci anni dopo,
che gli stessi diretti responsabili politici statunitensi furono
costretti ad ammettere pubblicamente la loro colossale frode (cfr. pp.
218-220).
Per brevità tralascio tutta la propaganda che diede inizio
alla prima e seconda guerra irachena, come la penosa vicenda delle
fotografie dei cormorani incatramati, o la serie di false dichiarazioni
fatte al Congresso da testimoni compiacenti istruiti per l’occasione dai
servizi segreti statunitensi.
Quello che a me interessa è fare notare che gli Stati Uniti sono un paese come gli altri. Il Destino Manifesto
non impedisce a questo paese di fare tutte quelle brutte figure che
sono così consuete nei paesi in cui abitano i comuni mortali. Certo loro
producono telegiornali per tutto il mondo e questo migliora la loro
immagine. Per esempio nei pacchetti informativi è implicito chi sia il
buono e chi sia il cattivo, così com’è ovvio che loro, che sono buoni,
stiano aiutando i buoni. Vorrei solo far notare che anch’io, pur avendo
ritenuto certa l’esistenza di Babbo Natale, dopo qualche anno ho smesso
di crederci.
Fonte: http://www.carmillaonline.com/2013/12/21/breve-elogio-del-complottismo/.
Ripubblicato da: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=93839&typeb=0&Breve-elogio-del-complottismo.
16 dicembre 2013
Per dei forconi con un progetto
E sullo sfondo di tutto ciò, la riforma fiscale in senso progressivo, la riqualificazione della spesa pubblica per liberarci dalle spese inutili e dannose, la regolamentazione delle attività finanziarie per impedire la speculazione sui titoli del debito pubblico, la riforma dei trattati europei e della sovranità monetaria affinché l’euro sia messo al servizio degli stati per la creazione della piena occupazione, la promozione dei servizi pubblici, la soluzione del debito pubblico fuori dalle logiche di strangolamento.
11 dicembre 2013
Festival della Storia 2013
Si svolge al Teatro Electra di Piazza Pichi a
Iglesias la rassegna "Festival della Storia 2013 - VII Edizione"
(12/13dicembre 2013) ideata dall'Associazione Figli d'Arte Medas e
dedicata quest'anno al concetto di identità in chiave storica,
antropologica ed economica.
LA PRIMA GIORNATA Il programma della prima giornata al Teatro Electra prevede due conferenze (ore 10:30 per le scuole, ore 17 per il pubblico) sul tema Convenzioni Reali e Virtuali - Dialoghi sul Mondo delle Immagini. Animeranno il dibattito gli interventi di Francesco Bachis, antropologo e borsista di ricerca all'Università di Cagliari, Pino Cabras, condirettore del sito www.megachip.info, Carmelo Masala, medico specialista in neurologia, Donatella Petretto ricercatrice di psicologia clinica nell'ateneo cagliaritano, e Antonio Maria Pusceddu, antropologo che collabora con l'Università di Cagliari.
Coordina i lavori il giornalista Massimiliano Messina.
La giornata si chiude alle 20 sul palco del teatro di Piazza Pichi con lo spettacolo Canne al Vento di Grazia Deledda, prodotto dall'Associazione Figli d'Arte Medas e interpretato da Gianluca Medas con l'accompagnamento musicale della chitarra di Andrea Congia e delle voci del Tenore Grazia Deledda di Nuoro. Pubblicato nel 1913, Canne al Vento narra il destino di tre sorelle, ormai nel pieno dei loro anni, che vedono sfiorire la giovinezza e con essa le loro proprietà. Un impervio e pesante viaggio attraverso la fragilità umana offerto da Grazia Deledda attraverso la storia della famiglia Pintor di Galte.
LA SECONDA GIORNATA
La rassegna si conclude venerdì 13 dicembre. Il programma della seconda giornata prevede due conferenze dal titolo Monete e Identità - Dialoghi sulla Pluralità delle Economie (ore 10:30 per le scuole, ore 17 per il pubblico) e lo spettacolo Il Codice della Vendetta Barbaricina di Antonio Pigliaru (ore 20).
IL FESTIVAL
Ideato e diretto da Gianluca Medas, prodotto e organizzato dall'Associazione Figli d'Arte Medas, il Festival della Storia nasce con la volontà di avvicinare il pubblico alle tematiche storiche e scientifiche, senza banalizzare i contenuti ma veicolando quest'ultimi anche attraverso le attività di spettacolo.
10 dicembre 2013
I missionari del dio mercato
A questo proposito Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Guido Rossi e altri hanno recentemente denunciato quella che è, a loro avviso, una gravissima distorsione della realtà da parte dei principali media del Paese:
«La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia. Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e un’intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate come comportamenti obbligati immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori».
Fonte: Left, 7 dicembre 2013.
Tratto da: http://keynesblog.com/2013/12/09/i-missionari-del-dio-mercato/.
21 novembre 2013
L'alluvione sarda e i fantocci impiccati
8 novembre 2013
11/9: LA NUOVA PEARL HARBOR
DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013 , ROMA - Teatro Palladium .
La prima italiana del monumentale film di Massimo Mazzucco "11 settembre - La nuova Pearl Harbor"
6 novembre 2013
Rapporti Ue-Russia ad alto rischio
di Giulietto Chiesa.
Nell’indifferenza generale dei media italiani (un po’ meno di quelli europei, ma è la stessa cosa) si giocherà, a fine mese, a Vilnius, una partita strategica cruciale tra Russia ed Europa. Il suo significato, per quanto brutale, è questo: chi si prende l’Ucraina?
Va detto subito che, in casi come questo, una grande responsabilità è nelle mani dei dirigenti del paese contestato: quella di essere stati più o meno capaci di difendersi, più o meno dignitosi anche nella sconfitta, più o meno consci del ruolo di difensori della propria identità nazionale. Nel caso in questione i leader ucraini hanno dimostrato di essere negli scalini più bassi. E che la sorte assista loro e i loro soggetti.
Ma la responsabilità maggiore sta nei pretendenti al loro dominio. Come andrà a finire a Vilnius è ancora, in piccola parte, da decidere perché non tutte le carte sono ancora scese sul tavolo. Quello che è certo è che i preparativi sono molto avanzati: tutti i documenti dell’”associazione” dell’Ucraina all’Unione Europea sono già pronti per essere firmati. Resta solo da decidere se la signora Julia Timoshenko – la Giovanna D’Arco di Ucraina, come la descrivono gli ammiratori, esagerando non poco le sue qualità spirituali – sarà liberata dalla prigione in cui si trova da due anni (meno della metà della reclusione di 7 che un tribunale ucraino le ha inflitto per “abuso di potere” e altri ammennicoli piuttosto pesanti).
Il fatto è che l’Unione Europea ritiene che il processo sia stato viziato da spirito di vendetta (il presidente Janukovic ha dovuto faticare non poco per avere ragione della potente avversaria, dotata dell’appoggio unanime dell’Occidente). Riuscì a sconfiggerla anche con l’aiuto di Mosca, ma adesso Mosca gli piace meno di Bruxelles, per non dire che non gli piace più del tutto. Resta l’eredità del passato, mentre la galera della Timoshenko non è un gesto davvero galante.
Del resto Janukovic sarebbe pronto, ormai, a consegnare la reclusa in mani tedesche, affinché possa curarsi del male alla schiena che l’affigge. Con la speranza che non ritorni più in patria e non gli dia più fastidio. Peccato che l’”associazione” all’Ue comporti la necessità di chinarsi alle imposizioni di Bruxelles. Di là gli fanno sapere che lui la deve proprio liberare dalla galera e dalle accuse, in modo tale che Julia di tutti i santi possa un giorno toglierlo di nuovo di mezzo e diventare lei presidente di Ucraina.
Vedremo. Io ho l’impressione che si metteranno d’accordo in qualche modo. Janukovic lo vuole, Bruxelles lo vuole. La posta in gioco è lo spostamento di 50 milioni di ex sovietici nel campo occidentale. Non è ancora l’ingresso nella Ue, ma è un passo decisivo. Di ingresso si parlerà più avanti, pensano a Bruxelles e a Francoforte. Forse – come è già avvenuto con le altre tre repubbliche ex sovietiche del Baltico, Estonia, Lettonia e Lituania – prima si aprirà il fascicolo dell’ingresso di Kiev nella Nato. E non è certo una distrazione la decisione di lanciare all’inizio di novembre una esercitazione militare congiunta con la partecipazione della Polonia e delle repubbliche baltiche per – ufficialmente – fronteggiare un’eventuale occupazione di quei territori da parte di una “potenza straniera”. Se non si ipotizza l’intervento di truppe marziane, è l’equivalente di uno schiaffo in faccia a Putin.
In ogni caso saranno dolori. Perché questa strada porta diritto a un collisione con la Russia. In questi giorni moscoviti ho potuto misurare bene la gravità degli effetti che una tale decisione sta avendo sui russi. E’ chiaro che si tratta di un colpo pesantissimo alla strategia di Putin. Che – non è un mistero per nessuno – ha puntato e punta alla ricostruzione di un’area politica omogenea che ha i confini della parte centrale dell’ex Unione Sovietica. La sua – di Putin – unione doganale, tra Russia, Bielorussia e Kazakistan, ha bisogno dell’Ucraina. Senza Ucraina questa unione è irrimediabilmente zoppa. E l’Ucraina se ne va con l’Europa. Accetta le regole europee, in lungo e in largo. E’ perduta. Dopo, tornare indietro non sarà facile, forse impossibile. E’ uno di quei cambi che avranno effetti di lunga durata.
Se ne va l’Ucraina e si porta dietro la Crimea russa, che Krusciov regalò agli ucraini quando si pensava che l’Urss sarebbe stata eterna. E la Russia avrà soltanto il porto del Mar Nero di Novorossijsk. Niente più Sebastopoli, con tutta la sua gloria. E qui la faccenda non riguarda solo Putin, riguarda la gran parte dei Russi. Non c’è famiglia che non abbia legami dall’altra parte. Mezza Ucraina parla russo. La Grande Guerra Patriottica è stata una tragedia e una vittoria comune. La Russia, inclusa quella ortodossa, è nata qui. Ed è come strappare il cuore alla Russia dirle che non ha più diritto al suo cuore, anche se questo sentimentalismo non sfiora neppure il cuore degli ucraini che preferiscono l’occidente.
Questo è un dato che va compreso. Per la quasi totalità degli europei occidentali la conquista dell’Ucraina non significa niente (infatti nessuno ne ha discusso). Al massimo, per quei pochi che se ne occupano, ha un significato economico e politico: aumenta la forza dell’Unione, o il suo prestigio. Anche se costerà non poco togliersi questa soddisfazione. Non c’è una storia comune e sentita. Dunque, per misurare le reazioni di Mosca è indispensabile cogliere questa differenza, storica e psicologica. Chi ignora questi “dettagli”, o finge di non vederli, o è troppo ignorante, o è un disonesto che gioca sporco. Ecco: l’Europa gioca sporco.
I russi insistono nel dire, all’unanimità, che la decisione di Vilnius sarà una catastrofe per gli ucraini. I numeri danno loro ragione. La Russia è il primo destinatario delle esportazioni ucraine, ed è anche il loro primo partner commerciale in assoluto. Dove andranno adesso le esportazioni ucraine? L’Europa non è un mercato facile per le derrate alimentari, né per la tecnologia ucraina, che è sorella gemella di quella russa ex sovietica. Il mercato russo è invece fiorente e pieno di soldi. Ovvio che Mosca innalzerà barriere, che costeranno di più all’Ucraina che alla Russia.
E c’è l’enorme questione dei gasdotti. Il gas passa in gran parte attraverso il territorio dell’Ucraina, e quel passaggio la Russia l’ha sempre pagato a caro prezzo, consentendo agli ucraini di prelevare, senza pagarle, quote non indifferenti di energia. E quello che era concordato veniva pagato a prezzi inferiori a quelli del mercato: un modo costoso per rimanere in contatto con il proprio cuore e con il proprio prestigio di grande potenza, se si vuole. In più l’Ucraina deve circa 4 miliardi di dollari di gas, che non ha pagato. Ovvio che Putin chiederà il conto. E chi pagherà? L’Europa pagherà, si presume, perché la faccenda è prima di tutto politica e poi economica. Ma resta pur sempre il problema: e dopo? Quali tariffe, quali ricatti reciproci. Le tv russe mostrano i nuovi gasdotti che dovrebbero aggirare l’Ucraina, ma ci vorrà del tempo prima che siano pronti. Prepariamoci a un inverno freddo, ecco la prima cosa che mi viene in mente.
Ma la cosa più importante è che questa mossa da Guerra Fredda non lascerà intatti i rapporti tra Russia ed Europa. Una strada come quella che si sta scegliendo modificherà tutte le precedenti “percezioni” della sicurezza europea. L’Europa (e la Nato) entrano in profondità nel ventre della Russia. Se pensiamo che questa cosa sia indifferente per i russi, allora ci sbagliamo. Altro che un sistema europeo comune di sicurezza collettiva! Qui stiamo cercando di imporre alla Russia di cedere la propria sicurezza all’Occidente. La Russia risponderà. L’Europa sta commettendo il più grave errore da quando è nata.
Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/06/rapporti-ue-russia-ad-alto-rischio/766521/.
Ripreso anche da: megachip.globalist.it.
2 novembre 2013
Datagate: ipocrisia europea ed egemonia USA
di Gaetano Colonna - clarissa.it.
Nel giugno 1948, proprio quando aveva appena avuto inizio la Guerra Fredda, con l'accordo UKUSA, USA, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, i cosiddetti "Five Eyes", mettevano a punto quella vasta rete planetaria di attività spionistiche l'ultima manifestazione della quale sarebbe stata quella rete Echelon di cui si ebbe notizia negli anni Novanta: anche in questo caso si sprecarono articoli sui giornali, inchieste dell'Unione Europea e più o meno tiepide contrizioni da parte di qualche alto ufficiale americano, senza per altro che si sia mai andati a fondo sul da farsi - nonostante fosse già allora risultato evidente il poderoso ruolo della NSA nell'organizzare e gestire lo spionaggio elettronico con una onnipervasività planetaria totale. Quella avrebbe dovuta essere l'occasione ultima per affrontare tempestivamente tutte le implicazioni politiche dell'evidente capacità americana di "intercettare il mondo".
Il 3 dicembre 1952, il North Atlantic Council, versante politico della NATO, decise la costituzione di un meccanismo permanente di scambio e condivisione di intelligence fra i Paesi occidentali aderanti alla NATO, noto come AC/46, il cui raggio di attività si estendeva anche a non meglio precisate "minacce non-militari", la cui estendibilità alle tecniche di contro-insurrezione e contro-rivoluzione risulta oggi del tutto ovvia.
Dopo la fine dell'Unione Sovietica e l'ingresso dei Paesi Est europei vuoi nella NATO vuoi nella UE, si è poi assistito al rafforzamento di uno speciale rapporto, sovente mediante protocolli di accordo diretto, fra gli Usa e Paesi Baltici, Polonia, Ungheria, Romania e Bulgaria, anche in materia di spionaggio, come hanno dimostrato vicende quali le extraordinary renditions, che hanno utilizzato punti d'appoggio in alcuni almeno di quei Paesi, di nuova accessione alla rete occidentale di intelligence governata dagli Usa.
Dal 1971, ma a nostro avviso da ben prima, si era inoltre costituito il segretissimo Club di Berna, organismo informale che riuniva con costante periodicità i capi dei servizi segreti e delle polizie occidentali: un club le cui impostazioni strategiche hanno probabilmente svolto un ruolo di tutto rilievo per l'Italia, dato che alcune delle principali operazioni destabilizzanti confluite nella strategia della tensione italiana, come quella dei cosiddetti "manifesti cinesi", hanno comprovatamente avuto impulso dalle direttive dettate in Europa da quell'organismo.
Nel 1977, dietro impulso dello Stato di Israele, a seguito delle imprese terroristiche che lo avevano avuto come obiettivo negli anni Settanta, si dava vita al cosiddetto "Kilowatt Group", un accordo assai poco noto, cui partecipano ben 24 Stati, tra i quali numerosi appartenenti all'Unione Europea, oltre a Canada, Norvegia, Svezia, USA, Israele stesso e Sudafrica.
In conseguenza della globalizzazione economico-finanziaria degli anni Novanta, della caduta del sistema comunista sovietico e dell'accrescersi delle difficoltà economico-finanziarie dei sistemi occidentali, nel 1995 prendeva vita l'Egmont Group of Financial Intelligence Units, che, nel giugno 2002, riuniva la bellezza di 69 agenzie specializzate nella raccolta e nell'analisi di informazioni economico-finanziarie.
Facendo seguito agli eventi dell'11 settembre 2001, poi, l'Unione Europea ha dato la propria immediata disponibilità a stabilire relazioni permanenti in campo di intelligence ed anti-terrorismo con le corrispondenti strutture Usa, cosa che portò il 14 marzo del 2003 alla firma di un inedito accordo fra Unione Europea e NATO relativo proprio allo scambio di informazioni sulla sicurezza, considerato dagli studiosi "prerequisito per lo scambio di intelligence fra le due organizzazioni".
Nel 2003, come se non bastasse quanto già emerso con il caso Echelon, la NSA tornava ancora alla ribalta della cronaca grazie alle rivelazioni di una funzionaria del Government Communications Headquarters (GCHQ), organizzazione britannica "gemellata" con la NSA, che rendeva pubblico un memorandum di quest'ultima organizzazione nel quale si dava dettagliato conto delle attività di spionaggio elettronico sistematicamente svolte dall'agenzia Usa ai danni dei membri del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite.
Tutto ciò senza minimamente tenere conto delle centinaia di accordi bilaterali diretti fra gli Usa, Gran Bretagna, Israele, le maggiori potenze spionistiche oggi, e un gran numero di Paesi europei ed extra-europei. Ragione quest'ultima per cui non desta certo alcuna sopresa la notizia di questi giorni, ripresa da Le Monde, Der Spiegel e altri giornali europei, sull'esistenza di un programma di raccolta e condivisione di informazioni, denominato in codice Lustre, che avrebbe coinvolto la Francia; cosi come di analoghi programmi di spionaggio israeliani che conterebbero sull'attiva partecipazione di USA, Regno Unito, Svezia e Italia, secondo notizie della Suddeutsche Zeitung.
Del resto è passata assai presto nel dimenticatoio in Italia una delle poche significative performance del governo Monti, il decreto del 24 gennaio 2013 grazie al quale le nostre agenzie di intelligence, notoriamente assai poco indipendenti da quelle statunitensi ed israeliane, avrebbero completo accesso a un'enorme mole di dati e informazioni di natura riservata: numerose aziende italiane, tra le quali Telecom e Poste Italiane, avrebbero dato immediata disponibilità, stipulando convenzioni coperte da segreto, a fornire alle nostre agenzie di intelligence questi dati, secondo notizie di stampa mai smentite.
Scrivevano nel giugno scorso i giornalisti di Repubblica che hanno svolto questa inchiesta, per spiegare l'importanza dell'apporto di aziende del genere alle reti di sorveglianza occidentali:
"Telecom Italia Sparkle possiede un'infrastruttura fisica strategica: la complessa rete di dorsali in fibra ottica lunga 55.000 km in Europa, 7.000 km nel Mediterraneo, 30.000 km in Sud America, continente collegato con un cavo sottomarino nell'Atlantico di 15.000 km. (...) Ancor più importante è Poste Italiane. Rappresenta un unicum nel panorama nazionale: essendo contemporaneamente agenzia di recapiti, banca, operatore telefonico e assicurativo, ha nella sua pancia la più completa banca dati nazionale. (...) E tra i suoi partner ci sono i servizi segreti americani. Nel 2009 la società guidata dall'ad Massimo Sarmi ha costituito a Roma la European Electronic Crime Task Force, un organismo per il contrasto dei crimini informatici a cui partecipano la Polizia di Stato e lo United State Secret Service, l'agenzia governativa deputata alla sicurezza del presidente degli Stati Uniti. A giugno del 2010, poi, è nato il Global Cyber Security Center, istituto voluto da Poste e creato insieme alla Booz Allen Hamilton, l'azienda dove lavorava Edward Snowden, la spia del datagate".
Come si vede, la questione di fondo è che, nel corso di oltre settant'anni, la potenza egemone dell'Occidente ha costruito con abilità e costanza una rete di vincoli, in materia di intelligence così come di politica estera e militare, trasversale a orientamenti politici e partitici, a istituzioni e settori, tale da costituire ormai una sorta di "Stato permanente" entro i singoli Stati nazionali europei.
23 ottobre 2013
La strage dei SEALs anti Bin Laden, un inside job
di Rowan Scarborough - Washington Times.