28 dicembre 2013

L’Italia ha perso la guerra, la ricostruzione non ci sarà

da Libreidee.

Quelle che abbiamo attorno sono le macerie di una guerra. Lo afferma senza giri di parole il centro studi di Confindustria descrivendo questa crisi, ovvero la più drammatica recessione della nostra storia, dopo il secondo conflitto mondiale.
A partire dal propagarsi nel mondo degli effetti reali della crisi iniziata con i “sub-prime”, lo sfacelo dell’economia è paragonabile a una guerra per i danni e le macerie che ha lasciato dietro di sé. In pochi anni sono svaniti quasi due milioni di posti di lavoro.
 E la drammatica morsa creditizia, operata dal sistema bancario, continuerà ancora a lungo, almeno fino al 2015 nello scenario più negativo.
«Otto anni di vacche magre, anzi, scheletriche», annota Eugenio Orso. La catastrofica recessione neocapitalistica sta dando segni di luce in fondo al tunnel? Attenti: se la “guerra” è finita, «il dopoguerra potrà essere altrettanto negativo e socialmente drammatico». Parlano le cifre: oltre 7 milioni di senza lavoro e quasi 5 milioni di poveri.
Il tutto, scrive Orso in un post ripreso da “Come Don Chisciotte”, è condito da un crollo dei consumi delle famiglie che possiamo definire epocale: è la fine della tanto deprecata società dei consumi?
Siamo appesi a un filo: le ostilità potrebbero riprendere improvvisamente, «a causa di un ennesimo shock orchestrato dalla grande finanza internazionalizzata».
In quel caso, «la situazione potrà precipitare ulteriormente». Del resto, la debolezza strutturale del sistema-Italia, dal punto di vista sociale e occupazionale, si manterrà anche il prossimo anno. E il Pil, «se crescerà, crescerà di un’inezia, meno dell’uno per cento», per la precisione lo 0,7% secondo la Confindustria, che rivede a ribasso precedenti proiezioni.
«La peggiore ipotesi, nel dopoguerra e a partire dall’anno nuovo, è che il rispetto degli “impegni” presi in sede europea implichi la rinuncia forzata a un punto di Pil, con conseguenze negative sul temutissimo spread e ricadute ancor più negative sulla società».
Se anche la “guerra” fosse veramente finita, aggiunge Orso, se ne deduce che – in ogni caso – l’Italia è un paese sconfitto: «Abbiamo perso la guerra e soltanto ora ce ne siamo accorti».
Potenza manifatturiera in Europa e nel mondo, l’Italia «è forse il grande sconfitto in Europa», anche se «non certo l’unico, perché l’area europeo-mediterranea esce complessivamente sconvolta dal conflitto, che pare continui in Grecia».
Lo spettacolo è desolante: «Le macerie visibili, le distruzioni del tessuto produttivo, i segni dei continui “bombardamenti” neocapitalistici ed europoidi ci sono tutti», continua Orso.
«Lungo le direttrici del Veneto e nei distretti industriali del nord», si moltiplicano «gli edifici industriali e i capannoni chiusi intorno ai quali già cresce un po’ di vegetazione, abbandonati all’incuria perché nessuno può riattivarli».
Analoga disperazione nelle strade e nelle case: «Il proliferare continuo del numero dei poveri veri, dei mendicanti, di coloro che dormono nelle stazioni, sempre più sporche e prive di manutenzione, ugualmente lo dimostra. Case senza riscaldamento (e senza luce) sempre più numerose, perché la cosiddetta “economia della bolletta” ammazza le famiglie monoreddito». E attorno, «edifici pubblici e privati senza manutenzione, che fra qualche anno cadranno in pezzi».
Ma non è tutto. «Le macerie morali, invisibili quanto le ferite che offendono lo spirito, sono forse le più difficili da rimuovere e le più insidiose».
Secondo Orso, «per l’Italia ci sarà un lungo dopoguerra, interrotto forse una ripresa improvvisa del conflitto, con un ultimo “bombardamento” finanziario ordinato delle aristocrazie globali del danaro e della finanza». Ma attenzione: «Non è prevista alcuna ricostruzione».
Questo gli analisti del centro studi di Confindustria non lo scrivono, ma lo lasciano intendere quando, con aridi numeri, cercano di prevedere i possibili scenari del dopoguerra.
«Non ci sarà ricostruzione, come avvenne dopo la seconda guerra mondiale, dal 1947 agli anni cinquanta. Perché, a differenza di allora, la spietata “global class” finanziaria, perfettamente organica al neocapitalismo e senza problemi di coscienza, non prevede per il paese alcun “Piano Marshall”». Ovvero: «Le risorse del paese si saccheggiano, le sue strutture produttive si smantellano, la popolazione si spreme fino all’inverosimile, e poi si passa ad altro, ad altri “mercati”, ad altre “bolle”, lasciando dietro di sé solo macerie. Materiali e morali».


Fonte: http://www.libreidee.org/2013/12/litalia-ha-perso-la-guerra-la-ricostruzione-non-ci-sara/.


22 dicembre 2013

Breve elogio del complottismo

di Alfio Neri.

Oggi è di moda l’accusa di “complottismo”. D’altra parte come possiamo pensare che chi stia al potere non dica il vero? Visto che viviamo nel regno della libertà e della trasparenza, come possiamo criticare le nostre fonti informative? Come possiamo pensare che qualcosa di essenziale non ci sia stato detto? In tempi di mobilitazione strategica lo stesso fatto di pensare criticamente è di per sé eversivo. Il culmine della nostra libertà personale sembra sia accettare che i mezzi di comunicazione ci liberino dal fardello della critica.

Nel marzo del 2010, Bashar al-Assad, il futuro tiranno siriano, fu decorato ufficialmente da Napolitano, il nostro Presidente della Repubblica.



Per la precisione il figlio di suo padre, che all’epoca era buono, meritava il nostro elogio ed ebbe effettivamente la più alta decorazione del nostro paese. L’evento fu realmente memorabile. Assad entrava ufficialmente nel palco dei nostri migliori alleati, assieme al beneamato colonnello Gheddafi.

Il presidente siriano venne dunque insignito col più importante titolo onorifico italiano, quello di “Cavaliere di Gran Croce decorato di Gran cordone al merito della Repubblica italiana”. Il titolo sanciva l’inizio di un’alleanza talmente “profonda” che sarebbe finita, di lì a pochi mesi, con l’accusa di essere a capo di uno ‘Stato canaglia’.

Pochi anni prima, nel 2007, il comandante supremo delle forze Nato in Europa dal 1997 al 2000, generale Wesley Clark, aveva letteralmente sbigottito il suo uditorio in un incontro pubblico a San Francisco. Rendeva di pubblico dominio un breafing avuto poco dopo l’11 settembre 2001. Sosteneva di essere stato messo al corrente dal vice-presidente Cheney e dal ministro della Difesa Rumsfeld dell’intenzione dell‘amministrazione di scatenare una serie di guerre contro Siria, Iraq, Libano, Libia, Somalia, Sudan e Iran.

L’obiettivo era trasformare il “volto” del Medio Oriente prima di essere costretti ad accettare la sfida strategica della prossima superpotenza emergente. Il generale Clark sosteneva che, per costoro, l’esercito americano doveva servire per scatenare guerre e per far cadere governi e non per rafforzare la pace e la stabilità. La sua opinione era che un gruppo di persone avesse preso il controllo del paese con un colpo di Stato politico. Si trattava di inventarsi nemici per destabilizzare intere aree geografiche e dare così vita a nuovi scenari geopolitici. La strategia americana era sostanzialmente quella di produrre caos: seminare vento per raccogliere tempesta.

Il punto chiave non è la menzogna in quanto tale. Altre volte nella storia l’alleato è diventato il nemico, l’aggressore ha vestito i panni della vittima e la menzogna ha assunto le parvenze della verità. Le bugie sono sempre esistite, ma oggi sembrano molto più credibili che in passato. Adesso, se una campagna informativa è svolta con un’adeguata potenza di fuoco, qualsiasi cosa può essere creduta vera.
Da sempre ci vengono fornite informazioni “sicure” che non possiamo verificare; però ora lo stesso fatto di porsi in modo critico appare come un elemento di lesa maestà. In tempi teologici l’uso critico della ragione si chiamava “eresia”; oggi, invece, l’accusa è quella di “complottismo”. In un mondo in cui le cose apparentemente sembrano andare bene, chi afferma il contrario può essere solo un malato, un debole di spirito, un paranoico. Come si può criticare la bontà e la lungimiranza dell’Impero del bene?

Il libro di Paolo Sensini, Divide et impera. Strategie del caos per il XXI secolo nel Vicino e Medio Oriente (Mimesis, Milano 2013, pp. 322, € 24), è un rigoroso tentativo di andare oltre la mostruosa cortina del “politicamente corretto”. L’apparato di note del testo è assolutamente notevole e le chiavi di lettura che il testo permette sono molto variegate.

Ciò che balza subito agli occhi è il gigantesco lavoro di scavo fatto dall’autore fra i documenti a disposizione. La quantità di dati circolanti è effettivamente molto ampia nelle pubblicazioni in lingua inglese e francese (meno in italiano). La cosa è molto interessante perché anche all’interno del mainstream si trovano autentiche perle che illuminano parecchi degli eventi recenti. Troviamo le dichiarazioni pubbliche del generale Clark sulla politica estera di Bush riportate poche righe sopra (cfr. p. 122); quelle del generale Fabio Mini, che afferma che la politica estera statunitense nel Mediterraneo è asservita agli interessi israeliani (cfr. p. 107); troviamo chiarimenti relativi all’inquietante rapporto fra sunniti e wahhabiti – per inciso, senza il petrolio e l’aiuto statunitense, i wahhabiti sarebbero solo una setta semiereticale di beduini analfabeti che si è impadronita con la forza della Mecca (cfr. pp. 266-273); e troviamo anche molte ragioni del perché una parte dei siriani stia ancora sostenendo, malgrado tutto, Assad.

Fra tutti i documenti risalta di gran lunga la dichiarazione, sicuramente fatta a braccio, di Karl Rove, l’anima nera dell’entourage di Bush che, in un attimo di vera autenticità esistenziale, dice chiaramente: “Ora noi siamo un Impero e quando agiamo creiamo la nostra realtà. E mentre voi state giudiziosamente analizzando quella realtà, noi agiremo di nuovo e ne creeremo un’altra e poi un’altra ancora che voi potrete studiare. È così che andranno le cose. Noi facciamo la storia e a voi, a tutti voi, non resterà altro da fare che studiare ciò che facciamo” (p. 163). I vertici americani sanno dunque di “scrivere la storia” e non si curano affatto della verità, della giustizia e anche degli eventuali danni collaterali.

Sull’argomento vi sono un’infinità di problemi aperti: dalla quantità enorme di stranezze dell’11 settembre 2001, all’influenza della lobby israeliana nelle politiche mediorientali degli Stati Uniti. La cosa interessante è che esiste, e Sensini se ne da conto, un’ampia documentazione. In tale contesto, più che l’informazione puntuale, manca la capacità di formulare i quesiti giusti e di seguire le piste più interessanti.

Per esempio, perché nessuno si chiede come sia possibile che l’Arabia Saudita, un paese che non permette il voto e la guida alle donne, sia riuscito a diventare, assieme a Israele, nazione che pratica l’apartheid, il difensore della democrazia e dei diritti umani nel mondo arabo?

Come è stato possibile che le petromonarchie più integraliste, come gli Stati sunniti del Golfo Persico, abbiano come peggior nemico l’Iran, un altro petrostato integralista mussulmano, e non Israele, il loro declamato nemico assoluto?
I petrostati sciiti e sunniti non dovrebbero essere, come da teologia islamica, alleati per respingere l’influenza di americani e israeliani?
Perché a sua volta Israele, apparentemente uno Stato moderno, l’“unica democrazia del Medio Oriente”, è alleato di queste monarchie medievali?
E ancora: perché Assad, che certamente non è un santo, ha sempre avuto dalla sua una parte della popolazione siriana?
Perché in tanti anni non è stata raggiunta nell’area neppure una limitata forma di quieto vivere?
Che senso storico ha il tentativo, iniziato un decennio fa dal precedente presidente degli Stati Uniti, di cambiare il volto del Medio Oriente?

Le tesi del libro sono molte e non vorrei togliere al lettore il piacere della lettura. Tuttavia, fra tutti i capitoli, segnalo il gustoso I “precedenti storici dell’11 settembre” nella politica estera statunitense. Si tratta di un capitolo delizioso per brevità e concisione.
In queste pagine l’autore mostra alcune costellazioni di eventi che hanno spinto più volte gli Stati Uniti ad agire per “autodifesa”. La trama elementare è quella di un “nemico traditore” che agisce nell’ombra per pugnalare alle spalle l’ingenuo ma coraggioso campione della democrazia; un canovaccio che si ripropone più volte nella storia americana con poche e lievi varianti.
La prima guerra provocata da un nemico traditore, fu quella contro la Spagna del 1898. Essa venne dichiarata dopo l’esplosione dell’USS Maine, una nave da guerra alla fonda nel porto dell’Avana. La colpa dell’esplosione fu attribuita d’ufficio agli spagnoli, venne impedita ogni perizia sulle cause del disastro; poco dopo il Maine fu affondato in alto mare, appena in tempo per iniziare una guerra che la Spagna non aveva alcun interesse a fare (cfr. pp. 201-204).
Un altro caso molto noto fu quello del Lusitania, un transatlantico civile britannico pieno di materiale bellico (fra l’altro esplosivi ad alto potenziale che esplodono a contatto con l’acqua), che viaggiava a pieno carico di passeggeri in zone dove si sapeva battevano sommergibili tedeschi (cfr. pp. 204-211).
Pearl Harbour è un altro esempio paradigmatico. Nel dicembre 1941, la marina americana venne attaccata apparentemente di sorpresa dalla flotta giapponese nelle Hawaii. All’epoca i servizi segreti statunitensi avevano decrittato il cifrario segreto giapponese e seppero con anticipo dell’imminente attacco. Il Presidente Roosevelt aveva bisogno di una scusa per entrare in guerra senza problemi. Alla fine della giornata gli unici veramente sorpresi dal bombardamento furono i marinai americani usati come carne da macello (cfr. pp. 211-218).
Anche gli incidenti del Golfo del Tonchino dell’agosto 1964, quelli che provocarono l’intervento in forze degli Stati Uniti in Vietnam, erano una bugia. La vicenda finì talmente male, con l’inglorioso ritiro americano di dieci anni dopo, che gli stessi diretti responsabili politici statunitensi furono costretti ad ammettere pubblicamente la loro colossale frode (cfr. pp. 218-220).
Per brevità tralascio tutta la propaganda che diede inizio alla prima e seconda guerra irachena, come la penosa vicenda delle fotografie dei cormorani incatramati, o la serie di false dichiarazioni fatte al Congresso da testimoni compiacenti istruiti per l’occasione dai servizi segreti statunitensi.

Quello che a me interessa è fare notare che gli Stati Uniti sono un paese come gli altri. Il Destino Manifesto non impedisce a questo paese di fare tutte quelle brutte figure che sono così consuete nei paesi in cui abitano i comuni mortali. Certo loro producono telegiornali per tutto il mondo e questo migliora la loro immagine. Per esempio nei pacchetti informativi è implicito chi sia il buono e chi sia il cattivo, così com’è ovvio che loro, che sono buoni, stiano aiutando i buoni. Vorrei solo far notare che anch’io, pur avendo ritenuto certa l’esistenza di Babbo Natale, dopo qualche anno ho smesso di crederci.


Fonte:  http://www.carmillaonline.com/2013/12/21/breve-elogio-del-complottismo/.
Ripubblicato da: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=93839&typeb=0&Breve-elogio-del-complottismo.

16 dicembre 2013

Per dei forconi con un progetto

di Francesco Gesualdi*.

Siamo stati zitti quando i nostri governanti hanno riscritto le regole del commercio internazionale per consentire alle multinazionali di spadroneggiare contro le piccole imprese, contro i lavoratori, addirittura contro gli stati che corrono il rischio di finire in tribunale se si azzardano a fare leggi che per difendere ambiente e salute pongono limiti alle attività delle imprese straniere.
Siamo stati zitti quando ci hanno prospettato un’Europa costruita sul principio supremo della concorrenza selvaggia.
Siamo stati zitti quando ci hanno trascinato in una moneta unica senza alcun meccanismo a difesa delle economie più deboli.
Siamo stati zitti quando le imprese tedesche hanno avuto buon gioco a invadere i mercati degli altri paesi europei grazie a leggi di casa propria che hanno abbattuto i costi di produzione sulla pelle dei loro lavoratori.
Siamo stati zitti quando hanno progettato l’euro avendo come unico obiettivo quello di renderlo appetibile per la finanza internazionale affinché il suo valore salisse sempre più su.
Siamo stati zitti quando il governo dell’euro è stato affidato al sistema bancario europeo che ha a cuore solo l’interesse delle banche contro i cittadini e i governi.
Siamo stati zitti quando i governi sono stati scippati del potere di stampare moneta non avendo nessun’altra possibilità di finanziare i propri deficit se non ricorrendo a banche e investitori privati che si comportano come strozzini.
Siamo stati zitti quando i trattati europei hanno anteposto l’interesse dei creditori ai diritti dei cittadini imponendoci l’austerity come regola di vita.

Siamo stati peggio che zitti. Siamo stati assenti considerando tutto ciò roba noiosa da lasciare ai professionisti della politica.
Ed è successo l’inevitabile.
Senza un fronte popolare che mantenesse la rotta, la politica ha deragliato. Ha trovato più conveniente mettersi d’accordo con i poteri forti che in cambio di denaro hanno preteso regole a proprio favore. Ed oggi che tutti i nodi vengono al pettine, non sappiamo da che parte rifarci. Sopraffatti dalla complessità ci limitiamo alla protesta rendendoci simili a bambini che strillano nella speranza che qualcuno venga in loro soccorso per ripristinare i bisogni insoddisfatti. La delega continua ad essere l’atteggiamento dominante, ma ormai dovremmo averlo capito che solo la partecipazione e la proposta possono tirarci fuori dai guai.

Ma per proporre, prima ancora che idee di tipo tecnico, occorrono chiarezze di obiettivi.
E qui si aprono due strade di fronte a noi: quella della difesa degli interessi corporativi e quella della difesa dei valori. Ad oggi sembrano avere prevalso le logiche corporative, per cui le piccole imprese, i professionisti, le partite iva di ogni ordine e grado, scendono in strada per protestare contro tasse, vincoli burocratici, ingerenza delle merci tedesche, che compromettono i loro affari.
L’attenzione rivolta al proprio ombelico, non si rendono conto che la crisi è il frutto di una lunga concatenazione di eventi prodotti dai meccanismi su cui questo sistema mercantil-finanziario è fondato: concorrenza sfrenata, taglio dei salari, aggravarsi delle disparità, licenza di azzardo fino al fallimento, intervento statale a favore delle banche, indebitamento pubblico, austerity per garantire il pagamento degli interessi.
In definitiva, invece di andare all’origine della frana se la prendono con gli ultimi sassi che cadono sulle loro teste. In particolare la pressione fiscale, da sempre odiata, e l’euro, come se il problema fosse l’estensione territoriale delle monete e non il loro governo.
È arrivato il tempo di capire che la situazione di impoverimento in cui ci troviamo è il frutto di un’impostazione economica organizzata per consentire ai forti di arricchirsi usando come strategia la concorrenza sfrenata e la demolizione di tutto ciò che è collettivo affinché ogni bisogno personale e sociale sia trasformato in occasione di guadagno per loro.
Per cui o arrestiamo questa logica o saremo perdenti. Finché il progetto rimarrà il predominio dei forti, euro o lira, Europa o Italia, non farà differenza.
Anzi il ritorno ai vecchi confini nazionali può renderci ancora più vulnerabili e più esposti al ricatto delle forze transnazionali che libere di muoversi sullo scacchiere mondiale eviteranno i paesi che osano sfidarle per rifugiarsi in quelli disponibili a soddisfare i loro interessi.
Per questo, la lotta per un cambio di progetto, ossia di valori, a livello di più paesi europei, è la vera strada per uscire definitivamente da una situazione di crisi che non è solo economica, ma anche sociale e ambientale. Ed è proprio la difesa della dignità personale di tutti, nel rispetto dei limiti del pianeta, la battaglia di valori che dobbiamo condurre se vogliamo garantirci un futuro.
Un simile progetto richiede cambiamenti a tutti i livelli, da quello globale a quello continentale, da quello nazionale a quello locale, in numero così ampio da non poterli esporre neanche in forma di elenco. Ma alcuni passaggi meritano di essere evidenziati per la loro urgenza e la loro importanza strategica.
Dopo secoli di cultura mercantile ci siamo convinti che non esiste altra formula economica all’infuori del mercato. Abbiamo dimenticato che oltre alla produzione per la vendita affidata al mercato, esiste anche la produzione gratuita per il godimento di tutti affidata alla comunità.
Abbiamo accettato di trasformarci in piccoli imprenditori di noi stessi che intrattengono rapporti con gli altri solo sulla base della compravendita e della concorrenza. Ma così facendo siamo finiti in una guerra di tutti contro tutti: milioni di gladiatori pronti al corpo a corpo con chiunque si pari davanti. Eppure dovremmo averlo imparato che la logica del divide et impera è funzionale solo al potere. Ai deboli, la storia lo ha dimostrato, conviene l’alleanza, la cooperazione, la solidarietà. Per cui dovremmo rafforzare e riformare la dimensione comunitaria in modo da costruire una grande casa comune dentro la quale tutti possano trovare rifugio come tripla area di sicurezza.

Prima di tutto la salvaguardia dei beni comuni (aria, suoli, fiumi, boschi, spiagge, mari) perché la nostra esistenza dipende da un ambiente in buona salute.
In secondo luogo il soddisfacimento dei bisogni fondamentali (acqua, cibo, alloggio, energia, salute, istruzione e altro ancora) affinché la vita non sia più un’angoscia, ma una gioia.
Infine la garanzia di un lavoro affinché tutti possano sentirsi utili e socialmente apprezzati.
Per questo la nostra prima battaglia dovrebbe essere a difesa dell’economia pubblica contro chi oggi vuole depredarla in nome del debito. Basta continuare a farci spennare dai signori della finanza sull’onda del senso di colpa. Se abbiamo duemila miliardi di debito non è per colpa dei nostri eccessi di spesa, ma degli interessi che ci hanno strangolato.

Per cui non dobbiamo pagare solo noi ma pretendere che lo facciano anche i creditori accettando riduzioni sostanziose degli interessi e abbattimenti del capitale.
E sullo sfondo di tutto ciò, la riforma fiscale in senso progressivo, la riqualificazione della spesa pubblica per liberarci dalle spese inutili e dannose, la regolamentazione delle attività finanziarie per impedire la speculazione sui titoli del debito pubblico, la riforma dei trattati europei e della sovranità monetaria affinché l’euro sia messo al servizio degli stati per la creazione della piena occupazione, la promozione dei servizi pubblici, la soluzione del debito pubblico fuori dalle logiche di strangolamento.
Sogno impossibile? Dipende da noi, dalla nostra capacità di smettere di venerare il mercato come un dio assoluto e cominciare, invece, a prenderci cura della nostra casa comune.



* Centro Nuovo Modello di sviluppo.
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11 dicembre 2013

Festival della Storia 2013

Si svolge al Teatro Electra di Piazza Pichi a Iglesias la rassegna "Festival della Storia 2013 - VII Edizione" (12/13dicembre 2013) ideata dall'Associazione Figli d'Arte Medas e dedicata quest'anno al concetto di identità in chiave storica, antropologica ed economica.



LA PRIMA GIORNATA Il programma della prima giornata al Teatro Electra prevede due conferenze (ore 10:30 per le scuole, ore 17 per il pubblico) sul tema Convenzioni Reali e Virtuali - Dialoghi sul Mondo delle Immagini. Animeranno il dibattito gli interventi di Francesco Bachis, antropologo e borsista di ricerca all'Università di Cagliari, Pino Cabras, condirettore del sito www.megachip.info, Carmelo Masala, medico specialista in neurologia, Donatella Petretto ricercatrice di psicologia clinica nell'ateneo cagliaritano, e Antonio Maria Pusceddu, antropologo che collabora con l'Università di Cagliari.
Coordina i lavori il giornalista Massimiliano Messina.

La giornata si chiude alle 20 sul palco del teatro di Piazza Pichi con lo spettacolo Canne al Vento di Grazia Deledda, prodotto dall'Associazione Figli d'Arte Medas e interpretato da Gianluca Medas con l'accompagnamento musicale della chitarra di Andrea Congia e delle voci del Tenore Grazia Deledda di Nuoro. Pubblicato nel 1913, Canne al Vento narra il destino di tre sorelle, ormai nel pieno dei loro anni, che vedono sfiorire la giovinezza e con essa le loro proprietà. Un impervio e pesante viaggio attraverso la fragilità umana offerto da Grazia Deledda attraverso la storia della famiglia Pintor di Galte.

LA SECONDA GIORNATA
La rassegna si conclude venerdì 13 dicembre. Il programma della seconda giornata prevede due conferenze dal titolo Monete e Identità - Dialoghi sulla Pluralità delle Economie (ore 10:30 per le scuole, ore 17 per il pubblico) e lo spettacolo Il Codice della Vendetta Barbaricina di Antonio Pigliaru (ore 20).

IL FESTIVAL
Ideato e diretto da Gianluca Medas, prodotto e organizzato dall'Associazione Figli d'Arte Medas, il Festival della Storia nasce con la volontà di avvicinare il pubblico alle tematiche storiche e scientifiche, senza banalizzare i contenuti ma veicolando quest'ultimi anche attraverso le attività di spettacolo.

10 dicembre 2013

I missionari del dio mercato

di Daniela Palma e Francesco Sylos Labini.

La crisi economica è giunta al suo sesto anno e, soprattutto in Europa, ancora pochi sono i segni di un suo arretramento. La ricerca di una via di uscita s’impone con sempre più urgenza, ma le contraddizioni che hanno scatenato la crisi continuano a mettere in discussione l’intero periodo che ha segnato lo sviluppo economico del secondo dopoguerra. 

L’irruzione sulla scena dei debiti pubblici ha mascherato le fragilità del sistema finanziario privato – vero responsabile della crisi – che per troppo e lungo tempo ha drogato il mercato, incapace di autosostenersi. 

Così, senza esitazione, il dito è stato puntato contro lo “Stato spendaccione”. E l’“austerità espansiva” è sciaguratamente diventata la chiave di volta delle politiche per la ripresa, riaffermando la posizione di thatcheriana e reaganiana memoria. Quella secondo cui “lo Stato è il problema”. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti: una nuova e più profonda depressione, l’azzeramento delle prospettive di ripresa e lo spettro di dover fare un balzo all’indietro, cancellando di colpo decenni di storia in cui il progresso economico è stato reso inscindibile dalla conquista dei diritti sociali e dal radicamento della democrazia.

La verità è che lo Stato è diventato una stampella del mercato, senza però assolvere a un ruolo costruttivo per lo sviluppo dell’economia e della società. I bilanci pubblici sono esplosi per salvare le banche, senza per questo riuscire a recuperare le sorti dell’economia reale, visto che il credito rimane “congelato”: malgrado ciò si continua ad affermare che la zavorra dell’economia è rappresentata dal welfare, e che bisognerà rinunciarvi, pena l’impossibilità di dare spazio alla ripresa.

Per capire la crisi bisogna andare oltre. Oltre il quadro teorico del neoliberismo – trasmessoci dall’alto e acriticamente accettato. Andare oltre il neoliberismo, significa innanzitutto riconoscere le ragioni culturali della crisi. Un po’ meno austerità forse ci sarà concessa, ma se non si dà una lettura corretta delle vere cause che hanno portato alla crisi, essa sarà destinata a riprodursi in forme sempre più drammatiche e sempre più tendenti a compromettere lo sviluppo dei Paesi e la loro coesione sociale.

Il modo con cui la riflessione economica prevalente si è rapportata alla crisi fin dal suo nascere è tipico della visione mainstream, che affonda le sue radici nei riferimenti principali della cosiddetta teoria neoclassica: 
l’economia è concepita come una scienza (economics) che studia le scelte alternative tra risorse scarse; 
il mercato è il luogo di allocazione ottima delle risorse, garantita da soggetti razionali in grado di utilizzare tutta l’informazione disponibile. Nel mercato si determina “naturalmente” un equilibrio che è il punto d’incontro tra domanda e offerta, stabilito nel prezzo, inteso come misura della scarsità, capace di assicurare l’allocazione ottimale delle risorse
Un processo che è di tipo esclusivamente logico, che prescinde totalmente dalle diversità nel tempo e nello spazio delle diverse economie. 

Secondo questa lettura eventuali scostamenti dall’equilibrio del mercato hanno solo natura temporanea perché il sistema economico è destinato a convergere verso l’equilibrio. 

In tale contesto la crisi non può essere prevista, semplicemente perché non è neppure concepita

Ed anche di fronte al suo manifestarsi è possibile attribuirle un carattere di momentanea accidentalità, oppure individuare imperfezioni del mercato che non consentono il raggiungimento dell’equilibrio. Le crisi possono essere innescate solo da grandi perturbazioni esogene come gli uragani, i terremoti o sconvolgimenti politici, ma certo non causate dal mercato stesso.

Molti economisti hanno, infatti, interpretato la crisi del 2008 attraverso il pregiudizio ideologico secondo cui essa è stata innescata da cause del tutto imprevedibili – come il fallimento della Lehman Brothers – ma giacché i mercati liberi tendono alla stabilità, non ci sarebbero dovute essere ripercussioni sull’economia reale. È questo paradigma che deve essere messo profondamente in discussione, perché la crisi del 2008 ha mostrato in maniera spettacolare che sono le fluttuazioni stesse dei mercati a generare instabilità: i mercati liberi non tendono all’equilibrio ma generano squilibri selvaggi e pericolosi.

Dunque, l’economics si traveste dietro una veste pseudo-scientifica, si presenta come una disciplina tecnica e apolitica. Ma non è stato sempre così. Anzi, secondo la visione che ha segnato lo stesso nascere della disciplina economica e che si afferma all’indomani della prima Rivoluzione industriale con il pensiero di Adam Smith, l’economia è invece una riflessione scientifica sulla società, tesa a studiarne le caratteristiche che ne assicurano le condizioni di riproducibilità e di sviluppo, in un contesto sociale, istituzionale e normativo che condiziona l’azione dei soggetti

Non a caso si parla di “economia politica”, guardando al mercato come a un complesso sistema di norme, storicamente determinato e privo di qualsiasi connotato di naturalità, non necessariamente capace di assicurare il pieno impiego delle risorse. L’approccio dell’economia politica classica è dunque intrinsecamente predisposto a concepire il prodursi di crisi e la necessità di operare quei correttivi che assicurino la riproducibilità del sistema economico. Di là dalle diverse versioni ed approfondimenti che si sono succeduti passando per Ricardo, Marx e arrivare fino a Keynes, la visione dell’economia politica resta ancorata a una rappresentazione del sistema economico in cui la dimensione delle classi sociali e la diversità di interessi che a queste si associano ne determinano un assetto fondamentalmente instabile.

Invece nella visione neoclassica mainstream è assente un qualsiasi ruolo della politica. La predominanza trentennale di questa visione ha tuttavia prodotto una specifica egemonia culturale, dura a morire, nonostante il perdurare della crisi. La visione mainstream appare dotata di un’intrinseca capacità di sopravvivenza: il sistema economico, inteso come dato di natura suscettibile di essere studiato con il metodo delle scienze naturali, porta ad escludere l’esistenza di qualunque alternativa con la quale confrontarsi. La visione mainstream è fatta di assiomi. Le uniche discussioni ammissibili sono quelle condotte entro la propria cinta concettuale.

La lettura della crisi e le terapie per superarla continuano pertanto a essere appannaggio degli economisti mainstream. Con la possibilità, peraltro, di condizionare l’opinione pubblica e di creare consenso a proprio favore. 

A questo proposito Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Guido Rossi e altri hanno recentemente denunciato quella che è, a loro avviso, una gravissima distorsione della realtà da parte dei principali media del Paese:
«La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia. Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e un’intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate come comportamenti obbligati immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori».

Legenda: Abbiamo  considerato la lista dei professori di economia politica, che erano 704 nel 2008, e per ognuno abbiamo contato quanti articoli hanno scritto su la Repubblica, il Corriere della Sera, Il Sole 24 ore e La Stampa negli ultimi 5 anni e precisamente dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2011 (per questo abbiamo utilizzato l’archivio della Camera dei Deputati). Per capire le relazioni tra i diversi autori è interessante misurare il loro grado di connessione. A questo scopo abbiamo usato Repec che è il più grande database bibliografico di economia disponibile gratuitamente su internet. Abbiamo dunque costruito il grafo seguente, mettendo una connessione tra due diversi autori se sul database Repec compare almeno un articolo scientifico in cui sono coautori. Le connessioni in rosso se due autori sono coautori di articoli su quotidiani. (Fonte originale)

Il nuovo e vincente attore nella politica internazionale è dunque l’estrema destra economica che ha finalmente rimpiazzato il vuoto dell’estrema destra politica
In Italia l’estrema destra economica ha riempito il vuoto politico cercando di sovvertire la Costituzione nei suoi tre punti fondamentali: rimuovere ogni controllo alle decisioni del settore privato, togliere al governo dei cittadini il controllo e la responsabilità della spesa pubblica con il vincolo del pareggio del bilancio e tagliare i diritti dei lavoratori

Nella confusione politica generale che stiamo vivendo, le idee dell’estrema destra economica hanno permeato i partiti di centrosinistra in tutta Europa. Nel vuoto generale d’idee, spesso artificialmente indotto, questa lobby di pensieri prefabbricati cerca dunque di vendere a una politica ormai priva di contenuti la soluzione liberista come l’unica possibile, spesso falsando i dati e manipolando la realtà

La battaglia culturale è dunque intrinsecamente legata a quella politica: senza un punto di riferimento culturale l’azione politica rimane alla mercé di chi è più organizzato per manipolare l’opinione pubblica.  Ed è proprio questa la battaglia che bisogna intraprendere a partire dalla nostra Costituzione e dal ruolo fondamentale che essa assegna all’attore pubblico: quello di essere artefice di una “programmazione” economica mirata alla piena e buona occupazione e per una società giusta e democratica, capace al tempo stesso di farsi interprete delle domande più urgenti poste dalla storia e del tempo presente.


Fonte: Left, 7 dicembre 2013.
Tratto da: http://keynesblog.com/2013/12/09/i-missionari-del-dio-mercato/.

21 novembre 2013

L'alluvione sarda e i fantocci impiccati



di Pino Cabras.
 

Gli hanno dato molti nomi: ciclone, Cleopatra, uragano, bomba d'acqua. La mia terra gli ha dato un tributo di vite umane. Il presidente della regione Ugo Cappellacci, pronto ad aggiornare l'elenco di piaghe descritte nel Libro dell'Esodo, gli ha dato la definizione di "piena millenaria". La tempesta che ha rovesciato sui suoli sardi sei mesi d'acqua in appena mezza giornata ha saputo guadagnarsi così il primo posto nella borsa mediatica delle catastrofi, in Italia e nel mondo, prima di essere inevitabilmente sostituita da altre notizie.
I lutti e i danni, tuttavia, non sono tutti dovuti al meteo cinico e baro. Questa devastazione deriva da un equivoco di fondo che la Sardegna di oggi e l'Italia sin dai tempi del Vajont si portano dietro: avere un suolo prevalentemente montagnoso e collinare, ma percepirsi come un paese di pianura, dove la pianura ha dimenticato per sempre tutta quella inutile materia fangosa e "prevalente" che sta a monte.
È uno spazio addomesticato, quella pianura ideale, segnato da linee d'asfalto, case, scantinati, capannoni, e mille altri segni di "sviluppo" che la separano dal passato rurale e la proiettano in un mondo magico e progressivo che fa a meno della geologia.
Olbia alla fine della seconda guerra mondiale era un borgo di diecimila abitanti, oggi ne ha sei volte di più. E dove ha fatto il nido tutta questa gente nuova? Lo ha fatto là dove volevano gli speculatori e dove la portava la corrente dell'abusivismo: dove un tempo c'erano stagni e dove scorrevano magri torrenti.
Le "piene millenarie", proprio perché hanno memorie lunghissime, ricordano ogni tanto che dove il fiume è già passato tanti anni fa, prima o poi ci ripassa ancora. In autunno in Sardegna e in altre regioni non sono infrequenti i flash flood. Non possono essere considerati eventi sorprendenti.
Solo che un tempo il torrente gonfiato dalle tempeste autunnali aveva modo di diluirsi in un suolo intatto, o di sfogarsi in canali costruiti a regola d'arte, senza alvei intombinati che lo accelerassero, né ponti che diventassero dighe prima di cedergli il passo.
Olbia è crescuta in fretta, è un piccolo emblema dell'ideologia della crescita libera che ripudia qualsiasi pianificazione. Il PIL veniva prima di tutto, e perciò si doveva dimenticare che una vera città, prima di tante altre cose, è un sistema idraulico artificiale che si sovrappone a un sistema idraulico naturale. Olbia però andava oltre. Non si sovrapponeva alla natura, la sostituiva senza criterio. L'onda del PIL era un flutto di cemento che impermealizzava ettari ed ettari, al galoppo. Poi, ieri, fine corsa. All'acqua della città, incanalata senza regola e non più assorbita, si è aggiunta l'acqua della montagna, e tutto è stato devastato.
Ora la cronaca ha il suo momento di frastuono, di pianti, di governanti che snocciolano compunti i milioni stanziati per l'emergenza: Enrico Letta 20 milioni, Ugo Cappellacci 5 milioni. Dev'essere lo stesso Cappellacci che ha guidato un'amministrazione che ha revocato 1,5 milioni di euro destinati alla difesa del suolo e contro il dissesto idrogeologico. Certo, quei milioni non sarebbero bastati, nemmeno a Olbia, interessata negli ultimi decenni anni da 17 (diciassette) "piani di risanamento". Cioè: prima si lasciava fare, senza permessi, poi si condonava, si "risanava", senza nemmeno completare fogne, argini. Niente di niente. Erano bolli e timbri aggiunti ai fatti compiuti: fatti irrimediabili, ferite non sanabili se non abbattendo tutto. Ma come fai ad abbattere interi quartieri? Risanare, ma per davvero, costa molte volte di più del gesto iniziale, mai fermato, che cambiava natura a quel pezzo di territorio.
Facile strapparsi i capelli adesso. I nomi dei quartieri olbiesi sommersi di oggi c'erano già tutti in un articolo del 2010. Era un trafiletto di cronaca locale sul "rischio alluvione". La prevenzione non fa notizia, non porta voti, non mobilita risorse, non diventa la pagina d'apertura di Repubblica. È solo un misero fondino di un giornale locale che non rompe il silenzio. La gente non sa, e crede perciò di stare nel suo Belpaese di pianura, senza pericoli, senza colline, e senza verità sul clima.
Negli anni in cui la Regione Sardegna fu guidata da Soru (2004-2009) venne approvato un piano paesaggistico fra i più avanzati al mondo, molto chiaro nel considerare il paesaggio un bene pubblico non negoziabile. Dopo, a livello nazionale e regionale, vi è stata una pressione costante per una nuova liberalizzazione edilizia e per abrogare le regole restrittive, in nome dello sviluppo e della crescita, e al diavolo i geologi.
Proprio un geologo, Fausto Pani, sul sito sardiniapost.it, in veste di autore del PAI (Piano stralcio per l'assetto idrogeologico) e del Piano delle fasce fluviali, si toglie oggi qualche detrito dalla scarpa: «solo pochi giorni fa i sindaci interpellati dicevano che nei loro paesi non pioveva così tanto, che il Piano stralcio delle fasce fluviali era tutto sbagliato e bloccava lo sviluppo dei Comuni. Oggi chiederei a quegli stessi amministratori locali se la pensano ancora allo stesso modo».

Infatti il problema non è solo Olbia. Uno dei comuni più colpiti dall'alluvione è Terralba, nell'oristanese. Ho visto in TV il sindaco di centrosinistra Pietro Paolo Piras con la faccia tesa del tipico sindaco in lotta sincera con il disastro, circondato da uomini della protezione civile. Poche settimane fa proprio Piras partecipava a una manifestazione a Cagliari contro il Piano per le fasce fluviali. Lo considerava troppo rigido. Persino le norme di una giunta post-Soru, teoricamente più morbida con chi vuole sviluppo edilizio, non andavano bene a una parte della gente di Terralba. 
Lo scorso 15 giugno un comitato locale aveva impiccato decine di fantocci per opporsi «con fermezza al piano delle fasce fluviali previsto dalla Regione e ai vincoli idrogeologici che limitano lo sviluppo del territorio.»
Uno dei promotori spiegava: «Devono fare una scelta politica, con questi vincoli ci stanno condannando a morte. Tutte le attività rischiano di scomparire e non ci sarà uno sviluppo futuro per il nostro paese». Alle magnifiche sorti e progressive di Terralba ha però bussato il Rio Mogoro, un torrentello spesso asciutto che per un giorno è diventato l'Orinoco.
Gli impiccatori di fantocci hanno maneggiato in modo molto imprudente i simboli. Parafrasando una vecchia storia, l'ultimo sviluppista è disposto a vendere la corda con la quale verrà impiccato.
Adesso la ricostruzione, nel far girare denaro, farà bene al PIL. È forse cinico dirlo, ma dopo le catastrofi naturali, questo succede in molti casi. E, nel crescere, il PIL dimostrerà ancora una volta di non essere la misura corretta del vero benessere.
Quel pezzo di società civile che rimuove in modo dissennato e cocciuto la vera natura del nostro suolo, quelle classi dirigenti la cui mentalità è intimamente modellata dalla stessa concezione del territorio, si trovano davanti a una scelta. La scelta non è "costruire oppure no": è semmai cosa costruire senza consumare ancora di più il suolo, cosa costruire per salvaguardarlo nella sua integrità, fare manutenzione costante e piccoli interventi sulle infrastrutture che già ci sono, e finirla con le grandi opere e le eterne emergenze. Finirla con il fantoccio della crescita infinita. Magari così ci sarà più lavoro, e meno senno del poi.
 

8 novembre 2013

11/9: LA NUOVA PEARL HARBOR

DOMENICA 10 NOVEMBRE 2013 , ROMA - Teatro Palladium .

La prima italiana del monumentale film di Massimo Mazzucco "11 settembre - La nuova Pearl Harbor"




6 novembre 2013

Rapporti Ue-Russia ad alto rischio

di Giulietto Chiesa.


Nell’indifferenza generale dei media italiani (un po’ meno di quelli europei, ma è la stessa cosa) si giocherà, a fine mese, a Vilnius, una partita strategica cruciale tra Russia ed Europa. Il suo significato, per quanto brutale, è questo: chi si prende l’Ucraina?
Va detto subito che, in casi come questo, una grande responsabilità è nelle mani dei dirigenti del paese contestato: quella di essere stati più o meno capaci di difendersi, più o meno dignitosi anche nella sconfitta, più o meno consci del ruolo di difensori della propria identità nazionale. Nel caso in questione i leader ucraini hanno dimostrato di essere negli scalini più bassi. E che la sorte assista loro e i loro soggetti.
Ma la responsabilità maggiore sta nei pretendenti al loro dominio. Come andrà a finire a Vilnius è ancora, in piccola parte, da decidere perché non tutte le carte sono ancora scese sul tavolo. Quello che è certo è che i preparativi sono molto avanzati: tutti i documenti dell’”associazione” dell’Ucraina all’Unione Europea sono già pronti per essere firmati. Resta solo da decidere se la signora Julia Timoshenko – la Giovanna D’Arco di Ucraina, come la descrivono gli ammiratori, esagerando non poco le sue qualità spirituali – sarà liberata dalla prigione in cui si trova da due anni (meno della metà della reclusione di 7 che un tribunale ucraino le ha inflitto per “abuso di potere” e altri ammennicoli piuttosto pesanti).
Il fatto è che l’Unione Europea ritiene che il processo sia stato viziato da spirito di vendetta (il presidente Janukovic ha dovuto faticare non poco per avere ragione della potente avversaria, dotata dell’appoggio unanime dell’Occidente). Riuscì a sconfiggerla anche con l’aiuto di Mosca, ma adesso Mosca gli piace meno di Bruxelles, per non dire che non gli piace più del tutto. Resta l’eredità del passato, mentre la galera della Timoshenko non è un gesto davvero galante.
Del resto Janukovic sarebbe pronto, ormai, a consegnare la reclusa in mani tedesche, affinché possa curarsi del male alla schiena che l’affigge. Con la speranza che non ritorni più in patria e non gli dia più fastidio. Peccato che l’”associazione” all’Ue comporti la necessità di chinarsi alle imposizioni di Bruxelles. Di là gli fanno sapere che lui la deve proprio liberare dalla galera e dalle accuse, in modo tale che Julia di tutti i santi possa un giorno toglierlo di nuovo di mezzo e diventare lei presidente di Ucraina.
Vedremo. Io ho l’impressione che si metteranno d’accordo in qualche modo. Janukovic lo vuole, Bruxelles lo vuole. La posta in gioco è lo spostamento di 50 milioni di ex sovietici nel campo occidentale. Non è ancora l’ingresso nella Ue, ma è un passo decisivo. Di ingresso si parlerà più avanti, pensano a Bruxelles e a Francoforte. Forse – come è già avvenuto con le altre tre repubbliche ex sovietiche del Baltico, Estonia, Lettonia e Lituania – prima si aprirà il fascicolo dell’ingresso di Kiev nella Nato. E non è certo una distrazione la decisione di lanciare all’inizio di novembre una esercitazione militare congiunta con la partecipazione della Polonia e delle repubbliche baltiche per – ufficialmente – fronteggiare un’eventuale occupazione di quei territori da parte di una “potenza straniera”. Se non si ipotizza l’intervento di truppe marziane, è l’equivalente di uno schiaffo in faccia a Putin.
In ogni caso saranno dolori. Perché questa strada porta diritto a un collisione con la Russia. In questi giorni moscoviti ho potuto misurare bene la gravità degli effetti che una tale decisione sta avendo sui russi. E’ chiaro che si tratta di un colpo pesantissimo alla strategia di Putin. Che – non è un mistero per nessuno – ha puntato e punta alla ricostruzione di un’area politica omogenea che ha i confini della parte centrale dell’ex Unione Sovietica. La sua – di Putin – unione doganale, tra Russia, Bielorussia e Kazakistan, ha bisogno dell’Ucraina. Senza Ucraina questa unione è irrimediabilmente zoppa. E l’Ucraina se ne va con l’Europa. Accetta le regole europee, in lungo e in largo. E’ perduta. Dopo, tornare indietro non sarà facile, forse impossibile. E’ uno di quei cambi che avranno effetti di lunga durata.
Se ne va l’Ucraina e si porta dietro la Crimea russa, che Krusciov regalò agli ucraini quando si pensava che l’Urss sarebbe stata eterna. E la Russia avrà soltanto il porto del Mar Nero di Novorossijsk. Niente più Sebastopoli, con tutta la sua gloria. E qui la faccenda non riguarda solo Putin, riguarda la gran parte dei Russi. Non c’è famiglia che non abbia legami dall’altra parte. Mezza Ucraina parla russo. La Grande Guerra Patriottica è stata una tragedia e una vittoria comune. La Russia, inclusa quella ortodossa, è nata qui. Ed è come strappare il cuore alla Russia dirle che non ha più diritto al suo cuore, anche se questo sentimentalismo non sfiora neppure il cuore degli ucraini che preferiscono l’occidente.
Questo è un dato che va compreso. Per la quasi totalità degli europei occidentali la conquista dell’Ucraina non significa niente (infatti nessuno ne ha discusso). Al massimo, per quei pochi che se ne occupano, ha un significato economico e politico: aumenta la forza dell’Unione, o il suo prestigio. Anche se costerà non poco togliersi questa soddisfazione. Non c’è una storia comune e sentita. Dunque, per misurare le reazioni di Mosca è indispensabile cogliere questa differenza, storica e psicologica. Chi ignora questi “dettagli”, o finge di non vederli, o è troppo ignorante, o è un disonesto che gioca sporco. Ecco: l’Europa gioca sporco.
I russi insistono nel dire, all’unanimità, che la decisione di Vilnius sarà una catastrofe per gli ucraini. I numeri danno loro ragione. La Russia è il primo destinatario delle esportazioni ucraine, ed è anche il loro primo partner commerciale in assoluto. Dove andranno adesso le esportazioni ucraine? L’Europa non è un mercato facile per le derrate alimentari, né per la tecnologia ucraina, che è sorella gemella di quella russa ex sovietica. Il mercato russo è invece fiorente e pieno di soldi. Ovvio che Mosca innalzerà barriere, che costeranno di più all’Ucraina che alla Russia.
E c’è l’enorme questione dei gasdotti. Il gas passa in gran parte attraverso il territorio dell’Ucraina, e quel passaggio la Russia l’ha sempre pagato a caro prezzo, consentendo agli ucraini di prelevare, senza pagarle, quote non indifferenti di energia. E quello che era concordato veniva pagato a prezzi inferiori a quelli del mercato: un modo costoso per rimanere in contatto con il proprio cuore e con il proprio prestigio di grande potenza, se si vuole. In più l’Ucraina deve circa 4 miliardi di dollari di gas, che non ha pagato. Ovvio che Putin chiederà il conto. E chi pagherà? L’Europa pagherà, si presume, perché la faccenda è prima di tutto politica e poi economica. Ma resta pur sempre il problema: e dopo? Quali tariffe, quali ricatti reciproci. Le tv russe mostrano i nuovi gasdotti che dovrebbero aggirare l’Ucraina, ma ci vorrà del tempo prima che siano pronti. Prepariamoci a un inverno freddo, ecco la prima cosa che mi viene in mente.
Ma la cosa più importante è che questa mossa da Guerra Fredda non lascerà intatti i rapporti tra Russia ed Europa. Una strada come quella che si sta scegliendo modificherà tutte le precedenti “percezioni” della sicurezza europea. L’Europa (e la Nato) entrano in profondità nel ventre della Russia. Se pensiamo che questa cosa sia indifferente per i russi, allora ci sbagliamo. Altro che un sistema europeo comune di sicurezza collettiva! Qui stiamo cercando di imporre alla Russia di cedere la propria sicurezza all’Occidente. La Russia risponderà. L’Europa sta commettendo il più grave errore da quando è nata.


Fonte: http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/06/rapporti-ue-russia-ad-alto-rischio/766521/.
Ripreso anche da: megachip.globalist.it.


2 novembre 2013

Datagate: ipocrisia europea ed egemonia USA

di Gaetano Colonna - clarissa.it.


Nella storia dei rapporti transatlantici vi sono state numerose pagine percorse da un sottile umorismo, ma nessuna è pari a quanto si sta leggendo e ascoltando in questi giorni sullo "scandalo" Datagate.
Chiunque abbia una pur vaga idea di come l'intelligence rappresenti storicamente una delle basi portanti della potenza delle grandi Nazioni imperialiste dell'Occidente europeo, fin dal Settecento, per la cui strategia navalista era imprescindibile la costante acquisizione di informazioni tattiche e strategiche su scala planetaria, non può che considerare estremamente ipocrita l'apparente scandalizzarsi delle classi dirigenti europee, dalla Germania, alla Francia, all'Italia.
Nel giugno 1948, proprio quando aveva appena avuto inizio la Guerra Fredda, con l'accordo UKUSA, USA, Gran Bretagna, Canada, Australia, Nuova Zelanda, i cosiddetti "Five Eyes", mettevano a punto quella vasta rete planetaria di attività spionistiche l'ultima manifestazione della quale sarebbe stata quella rete Echelon di cui si ebbe notizia negli anni Novanta: anche in questo caso si sprecarono articoli sui giornali, inchieste dell'Unione Europea e più o meno tiepide contrizioni da parte di qualche alto ufficiale americano, senza per altro che si sia mai andati a fondo sul da farsi - nonostante fosse già allora risultato evidente il poderoso ruolo della NSA nell'organizzare e gestire lo spionaggio elettronico con una onnipervasività planetaria totale. Quella avrebbe dovuta essere l'occasione ultima per affrontare tempestivamente tutte le implicazioni politiche dell'evidente capacità americana di "intercettare il mondo".
Il 3 dicembre 1952, il North Atlantic Council, versante politico della NATO, decise la costituzione di un meccanismo permanente di scambio e condivisione di intelligence fra i Paesi occidentali aderanti alla NATO, noto come AC/46, il cui raggio di attività si estendeva anche a non meglio precisate "minacce non-militari", la cui estendibilità alle tecniche di contro-insurrezione e contro-rivoluzione risulta oggi del tutto ovvia. 
Non possiamo infatti oggi dubitare del fatto che le celebri reti Stay-Behind, in Italia note come "Gladio", fossero ricomprese nelle competenze dell'AC/46, allo scopo di garantire dapprima la presenza di strutture di resistenza anti-comunista in caso di conflitto con l'Urss e, in una seconda fase, il supporto alle più oscure operazioni delle diverse "strategie della tensione", realizzate non solo in Italia, ma anche, come minimo, in Germania Occidentale, Francia e Belgio nel corso degli anni Sessanta, Settanta e Ottanta.
Dopo la fine dell'Unione Sovietica e l'ingresso dei Paesi Est europei vuoi nella NATO vuoi nella UE, si è poi assistito al rafforzamento di uno speciale rapporto, sovente mediante protocolli di accordo diretto, fra gli Usa e Paesi Baltici, Polonia, Ungheria, Romania e Bulgaria, anche in materia di spionaggio, come hanno dimostrato vicende quali le extraordinary renditions, che hanno utilizzato punti d'appoggio in alcuni almeno di quei Paesi, di nuova accessione alla rete occidentale di intelligence governata dagli Usa.
Dal 1971, ma a nostro avviso da ben prima, si era inoltre costituito il segretissimo Club di Berna, organismo informale che riuniva con costante periodicità i capi dei servizi segreti e delle polizie occidentali: un club le cui impostazioni strategiche hanno probabilmente svolto un ruolo di tutto rilievo per l'Italia, dato che alcune delle principali operazioni destabilizzanti confluite nella strategia della tensione italiana, come quella dei cosiddetti "manifesti cinesi", hanno comprovatamente avuto impulso dalle direttive dettate in Europa da quell'organismo.
Nel 1977, dietro impulso dello Stato di Israele, a seguito delle imprese terroristiche che lo avevano avuto come obiettivo negli anni Settanta, si dava vita al cosiddetto "Kilowatt Group", un accordo assai poco noto, cui partecipano ben 24 Stati, tra i quali numerosi appartenenti all'Unione Europea, oltre a Canada, Norvegia, Svezia, USA, Israele stesso e Sudafrica.
In conseguenza della globalizzazione economico-finanziaria degli anni Novanta, della caduta del sistema comunista sovietico e dell'accrescersi delle difficoltà economico-finanziarie dei sistemi occidentali, nel 1995 prendeva vita l'Egmont Group of Financial Intelligence Units, che, nel giugno 2002, riuniva la bellezza di 69 agenzie specializzate nella raccolta e nell'analisi di informazioni economico-finanziarie.
Facendo seguito agli eventi dell'11 settembre 2001, poi, l'Unione Europea ha dato la propria immediata disponibilità a stabilire relazioni permanenti in campo di intelligence ed anti-terrorismo con le corrispondenti strutture Usa, cosa che portò il 14 marzo del 2003 alla firma di un inedito accordo fra Unione Europea e NATO relativo proprio allo scambio di informazioni sulla sicurezza, considerato dagli studiosi "prerequisito per lo scambio di intelligence fra le due organizzazioni".
Nel 2003, come se non bastasse quanto già emerso con il caso Echelon, la NSA tornava ancora alla ribalta della cronaca grazie alle rivelazioni di una funzionaria del Government Communications Headquarters (GCHQ), organizzazione britannica "gemellata" con la NSA, che rendeva pubblico un memorandum di quest'ultima organizzazione nel quale si dava dettagliato conto delle attività di spionaggio elettronico sistematicamente svolte dall'agenzia Usa ai danni dei membri del Consiglio di Sicurezza della Nazioni Unite.
Tutto ciò senza minimamente tenere conto delle centinaia di accordi bilaterali diretti fra gli Usa, Gran Bretagna, Israele, le maggiori potenze spionistiche oggi, e un gran numero di Paesi europei ed extra-europei. Ragione quest'ultima per cui non desta certo alcuna sopresa la notizia di questi giorni, ripresa da Le Monde, Der Spiegel e altri giornali europei, sull'esistenza di un programma di raccolta e condivisione di informazioni, denominato in codice Lustre, che avrebbe coinvolto la Francia; cosi come di analoghi programmi di spionaggio israeliani che conterebbero sull'attiva partecipazione di USA, Regno Unito, Svezia e Italia, secondo notizie della Suddeutsche Zeitung.
Del resto è passata assai presto nel dimenticatoio in Italia una delle poche significative performance del governo Monti, il decreto del 24 gennaio 2013 grazie al quale le nostre agenzie di intelligence, notoriamente assai poco indipendenti da quelle statunitensi ed israeliane, avrebbero completo accesso a un'enorme mole di dati e informazioni di natura riservata: numerose aziende italiane, tra le quali Telecom e Poste Italiane, avrebbero dato immediata disponibilità, stipulando convenzioni coperte da segreto, a fornire alle nostre agenzie di intelligence questi dati, secondo notizie di stampa mai smentite.
Scrivevano nel giugno scorso i giornalisti di Repubblica che hanno svolto questa inchiesta, per spiegare l'importanza dell'apporto di aziende del genere alle reti di sorveglianza occidentali:
"Telecom Italia Sparkle possiede un'infrastruttura fisica strategica: la complessa rete di dorsali in fibra ottica lunga 55.000 km in Europa, 7.000 km nel Mediterraneo, 30.000 km in Sud America, continente collegato con un cavo sottomarino nell'Atlantico di 15.000 km. (...) Ancor più importante è Poste Italiane. Rappresenta un unicum nel panorama nazionale: essendo contemporaneamente agenzia di recapiti, banca, operatore telefonico e assicurativo, ha nella sua pancia la più completa banca dati nazionale. (...) E tra i suoi partner ci sono i servizi segreti americani. Nel 2009 la società guidata dall'ad Massimo Sarmi ha costituito a Roma la European Electronic Crime Task Force, un organismo per il contrasto dei crimini informatici a cui partecipano la Polizia di Stato e lo United State Secret Service, l'agenzia governativa deputata alla sicurezza del presidente degli Stati Uniti. A giugno del 2010, poi, è nato il Global Cyber Security Center, istituto voluto da Poste e creato insieme alla Booz Allen Hamilton, l'azienda dove lavorava Edward Snowden, la spia del datagate".
Ma il lavoro sui cosiddetti "big data", i grandi ammassi di informazione ricavabili grazie alle reti elettroniche ed ai social network, assume un'ampiezza tale da coinvolgere persino gli ambiti culturali, come già era avvenuto durante la guerra fredda, quando la Cia fu in grado di mobilitare, spesso senza che ne fossero consapevoli, le maggiori istituzioni culturali occidentali
Lo scorso febbraio, senza che i media vi abbiano prestato l'attenzione che meritava, è comparsa la notizia secondo cui l'Office of the Director of National Intelligence statunitense, la massima autorità nello spionaggio Usa, avrebbe finanziato e coordinato ben 13 università statunitensi, europee e israeliane in un progetto di raccolta di informazioni tramite social network rivolta a sviluppare una maggiore capacità di analizzare dati per prevedere i futuri sviluppi sociali a livello globale. 
Nel progetto sono coinvolti centri specializzati come il Center for Collective Intelligence del MIT, e come lo Intelligence Advanced Research Projects Activity (IARPA), "incubatore governativo per la ricerca nell'intelligence", che si concentra sulla possibilità di "valutare le notizie con maggiore accuratezza e farlo più rapidamente grazie alla capacità di combinare diverse tipologie di dati".
Come si vede, la questione di fondo è che, nel corso di oltre settant'anni, la potenza egemone dell'Occidente ha costruito con abilità e costanza una rete di vincoli, in materia di intelligence così come di politica estera e militare, trasversale a orientamenti politici e partitici, a istituzioni e settori, tale da costituire ormai una sorta di "Stato permanente" entro i singoli Stati nazionali europei
Per questo è ipocrita affrontare la questione del Datagate senza porre la questione di fondo, vale a dire di come si possa attuare una sovranità politica europea capace di svincolarsi dagli orientamenti globali degli Stati Uniti.


23 ottobre 2013

La strage dei SEALs anti Bin Laden, un inside job


di Rowan Scarborough - Washington Times.
Con nota di Pino Cabras in coda all'articolo.

I Familiari delle vittime dell’incidente aereo afghano del Team 6 dei Navy SEALs sospettano che si sia trattato di un “inside job”

Molte domande perseguitano i familiari delle vittime di “Extortion 17”, la missione aviotrasportata in Afghanistan che ha sofferto il numero più alto di vittime USA verificatosi nello stesso giorno durante tutta la guerra contro il terrorismo.
I materiali di inchiesta di cui il Washington Times è entrato in possesso dimostrano che la zona di atterraggio dell’elicottero dei SEAL non era stata correttamente controllata per verificare la presenza di possibili minacce, né protetta da fuoco di copertura, mentre certi comandanti militari hanno criticato sia la missione in quanto eccessivamente precipitosa, sia l’utilizzo di un elicottero convenzionale del tipo Chinook, non adatto per azioni di infiltrazione di truppe in zone pericolose.
Ogni giorno, Charlie Strange, il padre di uno dei 30 soldati americani morti il 6 agosto del 2011 nel lampo dell’esplosione di una granata RPG, si chiede se suo figlio Michael sia stato incastrato da qualcuno all’interno del Governo afghano, qualcuno che volesse vendicarsi dei killer di Osama bin Laden, del Team 6 dei SEAL.
Qualcuno ha fatto una soffiata ai Taliban”, ha detto Strange, il cui figlio, che lavorava come tecnico delle comunicazioni cifrate per la Marina degli Stati Uniti, aveva intercettato alcune comunicazioni. “Loro sapevano. Qualcuno li aveva avvertiti. C’erano degli uomini in una torre. Altri uomini lungo la linea dei cespugli. Stavano seduti, ad aspettare. E hanno mandato i nostri ragazzi proprio lì nel mezzo”.
Il figlio di Doug Hamburger, Patrick, un sergente dell’Esercito, è morto insieme agli altri quando il Chinook CH-47D si apprestava ad atterrare in un punto a meno di 140 metri da dove combattenti taliban armati li stavano osservando da una torretta.
Hamburger si chiede perché il comando della missione abbia mandato suo figlio nella valle del Tangi verso un’area di atterraggio pericolosa utilizzando un elicottero da trasporto invece di un mezzo adatto ad operazioni speciali. Gli elicotteri modificati per questo tipo di operazioni, come l’MH-47 e l’MH-60 Black Hawk, di cui lo stesso Team 6 dei SEAL aveva utilizzato la versione “stealth” per condurre l’operazione di cattura e uccisione di Osama bin Laden, sono pilotati da ufficiali specialisti addestrati specificamente alle rapidissime manovre evasive che si utilizzano per mantenere la copertura ed evitare di essere individuati dal nemico.
Quando devi volare in una vallata, e ti trovi in mezzo alle colline, e voli tra le case costruite lungo tutta la valle, allora sei in una missione estremamente pericolosa”, ha detto Hamburger. “Gli elicotteri MH, quelli di ultima generazione, hanno radar in grado di individuare un missile o una granata RPG in arrivo. Sono più veloci, sono più agili. C’erano tutte le ragioni del mondo per utilizzare quel tipo di elicottero quella notte”.
Sith Douangdara, il cui figlio ventiseienne John era uno specialista di Marina delle truppe cinofile, ha detto di avere moltissime domande ancora prive di risposta.
Io voglio sapere perché così tanti uomini delle forze armate USA, e specialmente dei SEAL, erano tutti imbarcati su un solo elicottero”, ha detto. “Io voglio sapere perché la scatola nera dell’elicottero non è stata trovata. Io voglio sapere molte cose”.
Non tutte le famiglie delle vittime credono che le conclusioni del rapporto investigativo stilato dal Brigadiere Generale Jeffrey Colt abbiano dato risposta a tutte le domande. Il Generale Colt, che in seguito è stato promosso a Maggiore Generale, ha detto ai comandanti militari coinvolti nell’inchiesta che il suo compito non era quello di trovare dei colpevoli e che il suo rapporto non intendeva puntare il dito su singole persone o decisioni. 1
Io voglio che le persone siano tenute a rispondere delle proprie azioni”, ha detto Strange, un ex operaio edile che oggi lavora al tavolo di Blackjack in un Casinò a Philadelphia.
Un portavoce del Comando Centrale Militare USA, ha rifiutato di rispondere alle domande dei familiari delle vittime, e ha rimandato i giornalisti alle conclusioni del rapporto del Generale Colt.


Il coinvolgimento del Congresso degli Stati Uniti
Più di due anni dopo i fatti, alcune risposte potrebbero venir fuori.
Il Comitato per il controllo e la riforma del Governo, guidato dal deputato repubblicano dello stato della California, Darrell E. Issa, sta conducendo un’indagine, dopo aver incontrato alcune famiglie delle vittime.
Larry Klayman, che guida l’organizzazione Freedom Watch, ha presentato un ricorso legale contro il Pentagono, l’Aeronautica, l’Esercito e la Marina degli Stati Uniti, presso la Corte Distrettuale di Columbia. Egli chiede che un giudice ordini ai militari di rendere disponibile un insieme di documenti ai sensi del Freedom of Information Act (la legge USA sull'accesso dei cittadini alle informazioni di emanazione pubblica, NdT). Klayman ha affermato che il Dipartimento della Difesa ha respinto tutte le sue richieste scritte di accesso agli atti, e che in seguito al successivo ricorso ai giudici, lo scorso mese Freedom Watch ha visto accolta la propria richiesta, e il Governo è stato costretto a rendere disponibili gli atti dell’inchiesta.
Per la prima volta, Larry Klayman ha consentito al Washington Times di consultare i documenti dell’indagine militare resi finalmente disponibili ai familiari delle vittime dopo due anni dai fatti.
Le famiglie dei nostri eroi caduti, che io mi onoro di rappresentare, esigono che questa tragedia si concluda”, ha detto Klayman. “Ci sono molte domande ancora prive di risposta, e la spiegazione data dai militari, fino ad oggi, circa le cause dell’incidente, non sta in piedi”.
Klayman ha detto che le famiglie delle vittime vogliono che siano cambiate le direttive sulle modalità di combattimento troppo restrittive che hanno impedito ai piloti dell’elicottero USA di rispondere al fuoco dei taliban.
Le famiglie vogliono anche che le direttive sul combattimento siano cambiate, come atto di testimonianza e in onore dei loro figli”, ha detto Klayman. “Quando la nostra nazione entra in battaglia, deve essere per vincere la battaglia, non per conquistare il cuore e la mente degli estremisti islamici e della popolazione civile musulmana che è usata da questi come scudo umano”.
Klayman vuole anche sapere la vera identità dei soldati afghani che erano a bordo del velivolo, e perché la scatola nera dell’elicottero, sparita dopo un fortissimo temporale, non sia stata più trovata, nonostante fosse dotata di un sistema di localizzazione.
Vogliamo essere sicuri che i nostri eroi caduti siano rispettati, che ci siano date le risposte che cerchiamo”, ha detto.
A proposito di un possibile tradimento, Klayman afferma: “non stiamo dicendo che sia successo, ma è una eventualità che va esplorata, perché sempre più Americani vengono uccisi ad opera degli Afghani”.
Persino tra il personale militare c’è chi ha messo in discussione l’operazione.
Il pilota navigatore della cannoniera volante AC-130 che per tre ore ha sorvolato la valle del Tangi dopo l’accaduto, ha espresso già nel 2011 quel che i familiari delle vittime stanno pensando oggi.
Una delle altre cose di cui abbiamo parlato – del genere, cosa ti sta venendo in mente, signore – è a proposito del fatto che, vede, per tre ore siamo stati su a fare buchi nel cielo”, ha dichiarato l’ufficiale al team del Generale Colt. “Hai questi Apache che girano attorno, e c’è un sacco di rumore e, di fatto, l’intera valle sa che c’è qualcosa che sta succedendo in questa area. Allora, se vuoi fare un’infiltrazione su X o Y, è chiaro, avere l’elemento sorpresa all’inizio dell’operazione è una buona cosa, ma quando sono tre ore che stiamo lì sopra, e la festa è iniziata, allora portarsi anche un altro velivolo come quello, signore, potrebbe non essere la decisione tatticamente più sensata”.


La missione
Dopo che il rapporto del Generale Colt fu reso pubblico, nel settembre del 2011, i militari organizzarono un incontro con i parenti delle vittime il 12 di ottobre, a Little Creek, in Virginia, vicino alla base del “NAVAL SPECIAL WARFARE DEVELOPMENT GROUP”, meglio noto come il Team 6 dei SEAL. L’incidente ha portato via la vita a 17 SEAL e 5 membri del gruppo operazioni speciali, facendo di quel giorno il più funesto nell’intera storia delle operazioni speciali navali degli Stati Uniti.
La lista dei passeggeri dell’elicottero includeva cinque soldati dell’esercito, tre avieri, sette soldati afghani ed un interprete afghano. Tutti e 38 gli uomini a bordo sono morti. Ventidue di loro, tra cui il sottufficiale Strange, sono stati sbalzati fuori dal velivolo. Gli altri sono tutti morti nell’esplosione.
La camera mortuaria presso la base aerea di Dover, nel Delaware, ha confermato che tutti sono morti nel giro di pochi secondi. Il Generale Colt ha detto che “si è trattato con tutta probabilità di morti rapide”.
Il Presidente Obama si è recato a Dover per portare omaggio ai caduti e consolare i familiari.
Suo figlio ha cambiato l’America”, ha detto Obama, secondo quanto riportato da Strange. “Io ho afferrato il Presidente dalle spalle e ho detto ‘io non ho bisogno di sapere di mio figlio. Io ho bisogno di sapere cosa è accaduto”.
L’intera nazione si è chiamata in raccoglimento mentre trenta funerali avevano luogo in tutto il Paese, molti dei quali nell’America delle piccole comunità cittadine.
Il pubblico è rimasto inchiodato alle immagini della cerimonia funebre tenutasi a Rockford, nell’Iowa, per il sottufficiale di prima classe Jon Tumilson, dei SEAL. Il suo amato labrador, Occhio di falco, è rimasto accanto al feretro, leale fino alla fine, mentre più di 50 SEAL assistevano alla cerimonia.


L’inchiesta militare
Il Generale Colt aveva l’esperienza necessaria per condurre le indagini: è un veterano delle guerre in Iraq ed Afghanistan, ed un pilota di elicotteri di carriera, che ha prestato servizio nel famoso 160° Reggimento Operazioni Speciali. Oggi è il vice-comandante di Fort Bragg, in Nord Carolina.
Per l’incontro con le famiglie, il 12 ottobre, il Generale ha esposto le sue principali conclusioni, poi il suo staff ha distribuito dei DVD con i dati relativi all’inchiesta.
Ma le domande che i parenti delle vittime hanno oggi, si sono materializzate solo dopo che essi hanno iniziato a sfogliare le oltre 1300 pagine di mappe, schemi, note di riunione e trascrizioni di interviste condotte ai comandanti della task force del Team 6 ed ai pianificatori dell’operazione culminata nel disastro.
La tragedia si è sviluppata alle 10.55 della sera del 5 agosto 2011, quando 47 uomini dei Rangers hanno preso posto su due CH-47 Chinook che dovevano condurre un volo di perlustrazione e monitoraggio della valle del Tangi. La missione faceva parte di una intensa campagna finalizzata all’uccisione o alla cattura di leader taliban, un obiettivo che ha richiesto un enorme sforzo alla flotta degli elicotteri e che ha lasciato i reparti a corto di elicotteri adatti per le operazioni speciali.
Quella notte, l’obiettivo era Qari Tahir, identificato come uno dei massimi leader dell’area critica a sud di Kabul, da dove il nemico è libero di muoversi attraverso le frontiere con il Pakistan.
I Rangers avevano perquisito una casa che si riteneva ospitasse Tahir. I nemici – i militari li chiamano “mocciosi” – si sono dati alla fuga da una porta di servizio. Il comandante del reparto di Rangers allora ha preso una decisione importante: ha chiesto alla task force delle operazioni specali di mandare una forza di reazione immediata per aiutare i SEALS a catturare i “mocciosi”, sebbene non si potesse sapere se Tahir fosse tra loro. È poi venuto fuori che Tahir in quel momento si trovava in un altro villaggio.
Il comando ha schierato la forza di reazione in 50 minuti. Si sono imbarcati su un CH-47 convenzionale, contrassegnato “Extortion 17”, per il breve volo condotto da un esperto militare della Guardia Nazionale ed un più giovane riservista.
A quel punto, la situazione era diventata molto più pericolosa di quanto non fosse tre ore prima, al momento dell’azione di infiltrazione dei Rangers. Essi avevano potuto godere dell’effetto sorpresa, Extortion 17 no. Stava volando nel fuoco nemico, mentre il rumore del volo degli elicotteri Apache, dei droni, e dell’AC-130 stava avvisando chiunque si trovasse nella valle che era in corso un attacco.
Extortion 17 decollò alle 2.22, si fermò in quota per diversi minuti, poi si mosse annunciando “meno un minuto” alle 2.38. In quel momento, rallentò a 58 miglia, scese a non più di centocinquanta piedi, avvicinandosi al punto di atterraggio circondato da alberi e capanne in mattoni di fango, illuminato dallo scintillio di un rivelatore a infrarossi puntato dalla cannoniera volante AC-130.
Nel buio, in quel momento, i taliban hanno lanciato due o tre granate a razzo RPG, del tipo anti-uomo OG-7 di fabbricazione sovietica, molto precise entro 150 metri. Chi ha sparato aveva trovato un buon punto di fuoco, ben all’interno del raggio di portata dell’arma.
Una delle granate a razzo ha tagliato una delle pale del rotore, mandando il Chinook in un violento avvitamento, fino a schiantarsi al suolo, in fiamme. Nel giro di 30 minuti, nelle varie reti di comunicazione cominciarono a vedersi i messaggi con cui i taliban si vantavano dell’abbattimento.
L’ufficio stampa del Comando di Kabul, in prima battuta, raccontò ai giornalisti che Extortion 17 era impegnato in una missione di salvataggio. Ma i Rangers non avevano bisogno di essere salvati. Avevano messo in sicurezza il complesso ed erano a caccia dei taliban.
Una forza di reazione è mandata in un’azione di recupero, tipicamente, se i nostri ragazzi sono nei guai e tu gli mandi qualcuno a tirarli fuori”, ha detto Hamburger. “Tu non mandi una forza di reazione per fermare un gruppo di nemici in fuga che scappano via da un villaggio, specie in una valle pericolosa e con un accesso rischioso come quello.”
Il rapporto del Generale Colt conferma la posizione di Hamburger. È raro che il Comando Operazioni Speciali in Afghanistan impieghi una forza di reazione, ancor più raro che un team di élite come il Team 6 dei SEAL sia utilizzato per un incarico come quello di inseguire un gruppo di talebani in fuga.
Uno degli investigatori della squadra di Colt ha chiesto all’ufficiale addetto alle operazioni, “quanto spesso vi capita di impegnare la forza di reazione sul campo?”.
Raramente, Signore”, ha risposto. “E raro assistere ad un’azione pianificata come questa”.
Analogamente, un ufficiale della brigata di aviazione che aveva fornito Extortion 17 ha detto che non era a conoscenza di alcuna precedente missione di recupero inviata in azioni di caccia ai guerriglieri taliban.
Non è mai accaduto, Signore”, ha detto al Generale Colt.
L’ufficiale ha detto che Extortion 17 era già decollato prima che egli avesse la possibilità di parlare con il comandante della brigata. C’erano poche informazioni circa la condizione dell’area di atterraggio, tutto ciò che si sapeva era che si trovava a due miglia e mezzo dal complesso in cui operavano i Rangers.
Io penso che il comandante abbia chiamato direttamente per cercare di avere più informazioni” ha dichiarato l’ufficiale al Generale Colt.
L’ufficiale ha poi riconosciuto che la brigata non aveva mai fatto una valutazione accurata dei possibili rischi per la missione di Extortion 17.
Per quanto immediata è stata la missione, non abbiamo approfondito quanto avremmo dovuto per capire quali erano le minacce in quell’area”, ha detto.


Tradimento?
Alcuni tra i familiari ritengono che i soldati americani siano stati traditi dal Governo afghano, e che qualcuno abbia dato un’imbeccata ai taliban.
Una delle ragioni che essi citano è che i taliban avevano iniziato a infiltrare dei propri agenti all’interno delle forze di sicurezza, allo scopo di uccidere cittadini o soldati americani, una pratica nota come “assassinii verdi o blu”.
Essi sostengono che il Team 6 dei SEAL era un bersaglio designato, a causa del fatto che dall’amministrazione Obama erano filtrate varie indiscrezioni verso i media circa il ruolo del team nella cattura e nell’uccisione di Osama bin Laden, avvenuta tre mesi prima.
Alcuni ufficiali hanno detto al team di investigatori del Generale Colt che i taliban avevano dislocato cento combattenti nella valle del Tangi al solo scopo di abbattere veivoli americani. Un velivolo con 17 SEAL a bordo sarebbe stata una preda molto ambita.
Ancora, c’è il fatto che un gruppo di combattenti taliban, equipaggiati con radio trasmittenti portatili, aveva lasciato la propria posizione per raccogliersi attorno al punto di atterraggio previsto per Extortion 17, una zona di atterraggio mai usata prima fino ad allora dagli Americani.
Due guerriglieri taliban armati con lanciagranate RPG si erano appena appostati in un’alta torretta a meno di centotrenta metri dalla zona di atterraggio del Chinook.
Un paragrafo del rapporto Colt ha suscitato l’attenzione dei parenti delle vittime. In quel passaggio del rapporto, il team di investigatori stava interrogando gli ufficiali in comando della “Joint Special Operations Task Force” che aveva organizzato la missione. Ad uno di essi è stato chiesto dell’elenco del personale imbarcato sull’elicottero.
Si, Signore”, ha risposto uno dei comandanti. “E io sono certo che lei sappia, ad oggi, che l’elenco era preciso, fatta eccezione per il personale [CENSURATO] a bordo. Così il [CENSURATO], quei nomi erano non corretti – tutti e sette i nomi non erano quelli corretti. E io non posso parlare delle ragioni che stanno dietro a ciò”.
I “sette”, dicono i familiari, sono soldati afghani. Il rapporto di Colt non fa riferimento al motivo per cui l’elenco del personale in volo era sbagliato. La censura militare ha oscurato ogni riferimento agli Afghani. Alcuni tra i familiari delle vittime ritengono che il comando della missione, all’ultimo momento, sia stato costretto a sostituire sette soldati afghani, i cui nomi sono rimasti nell’elenco, con altri sette.
Il comando dell’esercito afghano era a conoscenza della missione, perché ogni operazione deve essere preventivamente approvata da un gruppo di coordinamento operativo composto da americani e da membri delle forze della sicurezza nazionale afghana.
Un portavoce del Comando Centrale non ha voluto commentare la questione.
La mia teoria è che siano stati fregati dai militari afghani”, ha detto Hamburger. “Sono veramente convinto che questo sia il motivo per cui gli Afghani che dovevano essere a bordo siano stati sostituiti all’ultimo momento. Ecco perché non erano sull’elenco. Io penso che i nostri militari abbiano scoperto qualcosa e che non vogliano dire la verità alle famiglie. Non posso esserne certo, ma se metti tutto quanto insieme a proposito della missione di quella notte, e viene fuori che c’è qualcosa che non quadra, questo è veramente qualcosa che ti mette inquietudine”.
Il Generale Colt ha scritto che ritiene che i taliban erano pronti a far fuoco per una semplice ragione: la missione dei Rangers che era in corso da ben tre ore, e gli aerei continuamente in volo sull’area, avevano allertato ogni forza nemica nell’aera sul fatto che altri elicotteri potessero essere in volo verso quella zona.
L’arrivo da subito [degli elicotteri Apache] dei Rangers presso entrambe le [CENSURATO] zone di atterraggio, assieme ai primi combattimenti dinamici con elementi nemici, ha probabilmente fornito ai combattenti taliban un allerta preventivo circa la possibilità che altri elicotteri potessero essere in volo verso l’area”, ha scritto.


Il velivolo sbagliato
I familiari delle vittime ritengono anche che i SEAL siano decollati con il velivolo sbagliato.
Il CH-47D, un elicottero convenzionale guidato da piloti e copiloti comuni, è un ottimo mezzo per il trasporto di truppe e materiali verso aree non situate in zona di combattimento.
Ma infiltrare commando in un’area calda avrebbe dovuto richiedere l’impiego di mezzi ben più sofisticati, come gli MH-47 e MH-60 guidati da piloti abilitati ad operazioni speciali, sostengono i familiari delle vittime.
Si tratta di mezzi che possono volare velocemente e a bassa quota, mentre il CH-47D per raggiungere il punto di atterraggio deve scendere da altezze significative, il che lo rende un bersaglio facile.
Un comandante di un team di operazioni speciali ha detto al Generale Colt, a proposito dei CH-47D, che “il livello di fiducia nel mezzo è basso, perché non volano, non planano e non atterrano come un velivolo adatto alle operazioni speciali. Faranno pure, si sa, un atterraggio piano. O se si ha una squadra diversa che si esercita su diverse zone, faranno l'atterraggio su cima”.
L’ufficiale ha affermato che gli elicotteri convenzionali rendono i commando meno efficaci.
È dura”, ha dichiarato al Generale Colt. “Intendo dire, e io ho dato loro le istruzioni per operare comunque al meglio. E loro erano in grado di eseguirle. Ma ciò comunque limitava la nostra efficacia. Limitava le nostre opzioni e la nostra flessibilità tattica. La nostra capacità di manovra era chiaramente limitata, nel senso di dove potevamo andare, e quanto velocemente potevamo arrivarci”.
A differenza degli elicotteri di tipo MH, il CH-47D non era dotato di alcun sistema di allarme difensivo contro le granate RPG.
Il rapporto del Generale Colt mostra che gli elicotteri MH hanno un miglior ruolo di impiego, almeno nei 45 giorni precedenti l’abbattimento.
Il 6 giugno, due CH-47 che si apprestavano a sbarcare delle truppe nella valle del Tangi hanno dovuto interrompere la missione dopo aver incontrato fuoco nemico di granate RPG. Più tardi, quella stessa notte, un elicottero MH-47G ha incontrato fuoco nemico mentre sbarcava truppe nella stessa zona di atterraggio senza riportare alcun danno.
È rimarchevole che il comando abbia utilizzato elicotteri MH, e non CH, per inviare sul luogo dell’abbattimento la squadra di salvataggio e il gruppo per la rimozione delle armi, e che i 47 Rangers impiegati nell'azione di caccia ai guerriglieri taliban siano stati recuperati utilizzando elicotteri del tipo utilizzato nelle missioni speciali.
Hamburger ha detto che gli è stato riferito che non c’erano velivoli MH disponibili, quando Extortion 17 è stato scelto per la sua ultima missione.
Il rapporto del Generale Colt afferma che i sistemi aerei di controllo e sorveglianza disponibili, probabilmente dei droni di tipo “Predator”, sono rimasti fissi sui guerriglieri in fuga e non sono stati dirottati alla zona di atterraggio di Extortion 17 per verificare la possibile presenza di combattenti nemici.
Ma Hamburger ha anche riferito che un soldato gli avrebbe detto di aver potuto osservare la ripresa video di un Predator che ha mostrato l’abbattimento dell’elicottero. Se ciò fosse vero, il padre esige che il Comando Centrale mostri questo video.
Hamburger sostiene che un altro motivo della sua azione è ottenere maggiore informazioni circa le direttive sulle modalità di combattimento per i soldati statunitensi. Vuole che siano cambiate.
I mitraglieri non possono fare fuoco su Afghani in fuga senza aver prima avuto conferma del fatto che i fuggitivi stiano portando armi, neanche nel caso in cui sia del tutto evidente che si tratti di combattenti taliban.
Regole di questo genere hanno impedito, quella notte, che gli Apache e l’AC-130 in volo potessero fare fuoco. Il comando delle operazioni speciali a Kabul voleva autorizzare che si facesse fuoco sui taliban in fuga, “ma non è stato in grado di determinare se il gruppo di taliban fosse armato”, scrive Colt nel suo rapporto. Il comandante a quel punto ha ordinato alla sfortunata pattuglia di SEAL di aiutare i Rangers a catturare ogni fuggitivo. Se ci fossero state diverse regole di ingaggio, quella missione avrebbe potuto non essere necessaria.
Alcuni momenti dopo l’abbattimento, il pilota di un Apache ha individuato il punto da cui era stata lanciata la granata RPG, ma non ha potuto far fuoco.
A causa delle regole di ingaggio, e delle direttive tattiche, non ho potuto far fuoco alla casa dove pensavo si trovasse il nemico, così ho mirato direttamente al lato ovest dell’edificio”, ha riferito il pilota al Generale Colt.
Hamburger ha anche affermato che la missione non ha seguito il consueto protocollo operativo. Il volo non era dotato di una scorta “dedicata” di Apache, né della protezione della cannoniera volante AC-130, che avrebbe potuto fornire più occhi ad osservare la zona di atterraggio. Il comando si basava sull’aereo che era stato mandato a supporto del team di Rangers, ma il suo equipaggio aveva due compiti, e aveva deciso di dare più attenzione al primo di essi, ossia sorvegliare il taliban in fuga.
Sembra che ci sia una certa contraddizione tra quanto sostiene il rapporto di 27 pagine del Generale Colt e quanto i piloti degli Apache hanno riferito durante le indagini.
Gli elicotteri AH-64 Apache sono utilizzati come “guardie del corpo” per i Chinook durante una tipica operazione di infiltrazione di truppe, scortando i Chinook fino al punto di atterraggio e tenendo sotto mira eventuali nemici sul terreno.
Ma Extortion 17 non aveva Apache di scorta.
Il rapporto del Generale Colt sostiene che il comando dell’operazione non ha disposto che i due Apache a supporto dei Rangers, dotati di sistemi di visione e mira notturna, si muovessero a copertura della zona di atterraggio di Extortion 17. Un ufficiale dei Rangers sul campo si è assunto autonomamente la responsabilità di dare quell’ordine, riferisce il rapporto.
Ma le trascrizioni degli interrogatori mostrano una storia più complessa, e danno un quadro inquietante per le famiglie delle vittime.
Nel corso del suo interrogatorio, il Generale Colt stesso ha detto al comandante dell’operazione: “Lasci che le dia un feedback. I ragazzi dell’Apache, loro veramente pensavano che il loro compito primario fosse quello di continuare a monitorare quegli uomini. Quello era il loro focus. E per quanto riguarda il livello di attenzione dedicato alla zona di atterraggio, quello era un incarico secondario per loro”.
Il pilota di uno dei due Apache, chiamati Gun 1 e Gun 2, incaricato della protezione dei Rangers, ha detto al Generale Colt che non hanno mai interrotto il loro supporto tattico ai Rangers per controllare l’area di atterraggio del Chinhook fino ad appena tre minuti prima dell’ora prevista per l’atterraggio.
Onestamente, Signore, io non credo che nessuno abbia veramente controllato l’area di atterraggio”, ha detto il pilota di Gun 1. “Voglio dire, in qualunque momento avessimo individuato i taliban, o i Rangers avessero trovato armi, noi dovevamo – almeno così è come la vedevo io in quel momento – essere pronti a far fuoco se fosse stato confermato che erano armati, ma noi dovevamo confermare l’identificazione, prima di tutto”.
Così, non avevamo neppure iniziato, ancora, a controllare l’area di atterraggio”, perché in quel momento c’era un livello di minaccia superiore a est, con i taliban”, ha detto il pilota. “A proposito della chiamata dei ‘meno tre minuti’, è quando Gun 2 ha iniziato a dare un’occhiata all’area di atterraggio. Direi che quello è il primo momento in cui abbiamo veramente iniziato a controllare quell’area”.
La pianificazione dell’invio di una forza di reazione rapida si presume sia fatta in relazione alla missione principale. In questo caso non è stato così. La pianificazione è iniziata poco dopo l’una di notte, ed è durata meno di un’ora.
Il comandante dell’AC-130 ha riferito che nessuno, realmente, ha coordinato le operazioni definendo chiaramente chi dovesse controllare i taliban in fuga nella parte orientale della valle, e chi avrebbe dovuto guardare ad ovest per coprire Extortion 17.
Quel coordinamento probabilmente avrebbe potuto funzionare meglio, e, io credo, non sono sicuro, ci e sembrato che l’intero piano di attacco alla zona fosse approssimativo, io credo”, ha detto. “Io non so se questo sia il caso, ma è un genere di cosa che io pensavo avrebbe potuto essere condotta un po’ meglio”.
L’operatore dei sensori dell’AC 130 ha dichiarato: “Semplicemente non ci piaceva l’idea di portare un altro elicottero in zona, specialmente senza un team a terra che mettesse in sicurezza l’area di atterraggio per loro”.


Valutazioni
Secondo I familiari delle vittime, la missione era nata male fin dall’inizio: utilizzare un velivolo inadeguato, volarci verso una zona di atterraggio non verificata e non sorvegliata, infestata di taliban, e mettere su una missione un piano di reazione nel giro di minuti per un’azione che avrebbe dovuto essersi conclusa alcune ore prima.
Il Times ha chiesto l’opinione di un ufficiale dei corpi speciali attualmente in servizio, e che può parlare solo in anonimato e confidenzialmente.
In questo caso, il CH-47 è stato utilizzato in modo completamente inappropriato, date le sue caratteristiche, e il risultato è stata la morte di tutti quelli che erano a bordo”, ha detto l’ufficiale.
Le forze di primo livello devono essere impiegate dietro una accurata pianificazione”, ha aggiunto. “Il costo e il tempo necessario per il loro addestramento comporta che utilizzarle in un modo così inadeguato, come forza di reazione rapida, e in questo contesto, pone risorse critiche a un livello di rischio assolutamente eccessivo, specialmente se utilizzati con questa concentrazione di truppe in una missione del tutto non critica”.
Il Team 6 dei SEAL e la Delta Force dell’esercito sono considerate le risorse di primo livello, le più specializzate unità d’elite impiegate nel controterrorismo.
Quando abbiamo chiesto come un talebano, di notte, abbia potuto colpire il CH-47, ha aggiunto, “non mi sono mai chiesto come abbia potuto fare a colpirlo, non esiste il buio assoluto, e il CH-47 è un bersaglio enorme e rumoroso”.
Il consulente legale del Generale Colt ha iniziato una sessione di interviste con le truppe di terra dicendo: “Ovviamente, qui abbiamo un’inchiesta del Comando Centrale affidata a un ufficiale Generale per essere certi che abbiamo collegato tutti i punti e che il nostro rapporto sia accurato e completo, e che non sia rimesso in discussione dai soliti gruppetti di civili”
Un mese dopo il giorno più tragico della guerra, gli Stati Uniti hanno avuto una specie di vendetta. Il comando NATO a Kabul ha annunciato l’uccisione di Tahir con un preciso attacco aereo, mentre era in compagnia di un altro terrorista.
Traduzione per Megachip a cura di Giampiero Obiso e Pino Cabras.

NOTA DI PINO CABRAS:

Abbiamo già pubblicato articoli su questo oscuro avvenimento sin dal 2011:

Già dopo tre mesi dai fatti di Abbottabad, durante i quali si eliminò dalla storia l'icona del supercattivo Osama Bin Laden, erano già morti 17 su 25 componenti del Team Six dei Navy SEALs. Ad oggi, un incidente dopo l'altro, siamo già a 23 morti su 25. La storia comincia a non quadrare non solo per noi.
L'articolo che avete letto è stato pubblicato da un quotidiano conservatore USA, il Washington Times. Estremamente conservatore è anche l'approccio dei familiari delle vittime, molti dei quali vivono nell'America profonda delle piccole comunità e delle grandi chiese cristianiste che punteggiano la Bible Belt.
Come avete modo di leggere, per loro non è in discussione la Guerra infinita contro nemici incomprensibili, i taliban che – come quarant'anni fa i vietcong – stranamente osano sparare a chi occupa il loro territorio.
Lungi dal mettere in discussione la guerra, i familiari del Team Six eliminato si lamentano che le direttive sulle modalità di combattimento proteggono troppo gli afghani: per loro, si dovrebbe poter sparare al mimimo sospetto, a costo di colpire innocenti. Non si pongono il problema di aggravare così un quadro già odioso di attacchi indiscriminati su assembramenti sospetti, come i tanti banchetti nuziali spazzati via dall'aeronautica USA in Afghanistan e in Pakistan.
I parenti dei Navy SEALs sacrificati pagano dunque il prezzo di un'ideologia che non permette loro di aprire gli occhi sulla guerra. Ma l'ideologia non arriva a impedire loro di vedere i fatti. E i fatti, nella strage del team, sono semplici: quella storia non sta in piedi, le inchieste sono state dei vergognosi insabbiamenti, tutto il potere USA – politici, militari, grandi media - ha lavorato sin dall'inizio per depistare e ingannare. Dall'11/9 in poi, questa palude di inganni pervade la costituzione materiale di USA e satelliti, e le Commissioni d'inchiesta sono Commissioni d'insabbiamento, tanto da dichiararlo, quando spiegano di non voler accertare colpe.

1NdT: Si tratta della stessa identica formula adottata dalle Commissioni d'inchiesta statunitensi sui fatti dell'11/9.