29 agosto 2008

Il “momento unipolare” degli USA: in Caucaso finisce la grande illusione

di Pino Cabras.




Caucaso 2008: un punto di svolta.La grande stampa non se n'è accorta subito, ma la guerra caucasica dell'agosto 2008 è uno degli eventi più importanti degli ultimi vent'anni. Segna un passaggio molto delicato, per molti spiazzante.
Dopo l'11 settembre 2001 fu recitato il mantra del “nulla sarà come prima”. La formula andrà rispolverata, magari in modo più giudizioso.
Non potranno essere più “come prima” né l'autopercezione dell'Occidente atlantista, né la valutazione che questo mondo dà della Russia putiniana, né si potrà più pensare di prendere decisioni con implicazioni militari nei confronti di Mosca con l'illusione che non abbiano un prezzo salatissimo da pagare, e subito. Si è già consumato tutto il tempo di un colossale abbaglio, ma dobbiamo capirlo al più presto se non vogliamo precipitare nella più grande catastrofe del nostro secolo.
La cosa che più mi ha colpito è lo stupore dei georgiani di fronte alla determinazione della reazione russa alle azioni scellerate del loro governo.
L'inconsapevolezza che regna non dico fra le nostre popolazioni ma anche fra le nostre classi dirigenti è della stessa pasta di quella di Tbilisi.
Su «The Times» del 26 agosto 2008 è stato ricordato che «Lord Salisbury, ministro degli esteri e Primo Ministro ai tempi dell'Impero Britannico, irradiò un potere globale immenso; il che non significa che amasse giocare con questo potere. Di fronte a proposte di scelte politiche britanniche che riteneva in grado di danneggiare profondamente gli interessi di altre grandi potenze, Salisbury avrebbe guardato i suoi colleghi negli occhi chiedendo semplicemente: “siete davvero pronti a combattere? Altrimenti, non imbarcatevi in questa politica”. Se gli eventi delle ultime due settimane hanno dimostrato chiaramente qualcosa, è che la Russia combatterà se percepirà sotto attacco i suoi interessi vitali nell'ex Unione Sovietica, mentre l'Occidente non lo farà, e in effetti non lo potrà, dati i suoi conflitti in Iraq e Afghanistan»
L'autore dell'articolo, Anatol Lieven, ricorda anche che «non c'è stata alcuna trappola russa. Negli ultimi anni Mosca ha reso assolutamente, pubblicamente e ripetutamente chiaro che se la Georgia avesse attaccato l'Ossezia del Sud, la Russia avrebbe combattuto». Eppure i ministri degli esteri continuano ad agire come se la Russia fosse ancora lo Stato esausto degli anni novanta su cui sobbalzava etilicamente Boris Eltsin e sul cui collo gravava il cappio del Fondo Monetario Internazionale.
Perciò è importante aprire gli occhi, capire da cosa nascono le illusioni e dissiparle con una migliore percezione dei tempi di ferro e di fuoco che si preparano.


Il Cremlino che non c'è più

L'egemonia culturale e il momento unipolareLa rimozione del Muro di Berlino e la fine dell'Unione Sovietica, a cavallo degli anni ottanta e novanta del secolo scorso, aveva scatenato negli Stati Uniti una nuova specie di politologi ambiziosi. Erano dei novelli fornitori di ideologia che architettavano una loro spaziosa nicchia nell'ecosistema imperiale nordatlantico, all'interno di un intreccio strettissimo fra fondazioni di pensiero politico, università, industrie editoriali e militari, ruoli di governo, lobby potentissime.
Per un po' di tempo l'interprete più alla moda fu Francis Fukuyama, l'ideologo della “fine della Storia”, secondo cui l'unica evoluzione possibile di società e di Stato non fa che adempiersi nel liberalismo in chiave americana. Ma una delle più durature influenze fu quella di Charles Krauthammer, che elaborò il concetto di “momento unipolare”: la congiuntura storica che chiudeva il XX secolo, con gli USA unica superpotenza ancora in campo – una chance definita precisamente come il «momento unipolare» – delimitava un’occasione eccezionalmente favorevole per instaurare un dominio globale che, si disse poi, è il manifest destiny dell’America.
Fukuyama e Krauthammer sono tra i tanti neoconservatori che hanno fatto parte del PNAC, il pensatoio che ha dettato i principi della rivoluzione neocon durante l'amministrazione Bush, l'apice del loro momento unipolare.
I neocon – così come altri animatori dell'ideologia americanista che pure hanno accenti diversi - sanno nella pratica cosa significa “egemonia culturale”. È un tema affrontato da un intellettuale italiano del secolo scorso, i cui testi ebbero pure una certa fortuna ma che poi furono fatti ingiallire e furono o dimenticati o citati con sterile e cristallizzata nostalgia: Antonio Gramsci. Fra le sue pagine si legge che l'egemonia culturale è un concetto atto a descrivere il dominio culturale di un gruppo o di una classe che «sia in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i presupposti per un complesso sistema di controllo». Una definizione perfetta, che spiega per quale motivo certe norme culturali prevalenti non debbano essere viste come "naturali" o "inevitabili", perché dietro di esse c'è il lavoro di apparati che le forgiano.
Ebbene, le instancabili officine delle idee della rivoluzione neoconservatrice e delle ideologie sorelle - ancorché apparentemente contrapposte - dei grandi elemosinieri “democratici” alla Soros hanno modellato un messaggio chiave, al centro di tutto un nuovo sistema di controllo.
Il messaggio egemonico è: il tempo per americanizzare il mondo fino in fondo è ora.
Questo proponimento ha avuto declinazioni diverse, con un arco di sfumature più democratiche o più militariste, ma ferreamente imperiali.
Zbigniew Brzezinski, noto politologo, esperto di strategia e analista internazionale, membro del Council on Foreign Relations (CFR) e della Commissione Trilaterale, capostipite della politica del nuovo espansionismo nordamericano, nonché consigliere per la sicurezza nazionale durante la presidenza Carter e grande consigliere, oggi, di Barack Obama, aveva elaborato una grandiosa analisi geopolitica proiettata sul XXI secolo nel libro La Grande Scacchiera (Milano, Longanesi, 1998). L’analisi faceva perno su alcuni capisaldi:

  1. La fine del sistema sovietico lascia agli Stati Uniti il ruolo di unica superpotenza in termini politici, militari, economici e tecnologici, con interessi considerati vitali in ogni parte del mondo.
  2. È fondamentale che nel XXI secolo gli Stati Uniti mantengano la loro supremazia mondiale, estendano la loro area di influenza ed esportino il loro sistema politico e sociale e il proprio sistema di valori.
  3. Per conservare la leadership mondiale occorre controllare lo spazio geopolitico dell’Eurasia. Chi egemonizza l’Eurasia, e ne controlla le risorse, domina il mondo. Questo perché «fin da quando i continenti hanno cominciato ad interagire politicamente, circa cinque secoli fa, l’Eurasia è stata il centro del potere mondiale», e perciò diventa «assolutamente indispensabile che non emerga alcuna potenza capace d’instaurare il proprio dominio sull’Eurasia e di sfidare per ciò stesso l’America». Il continente eurasiatico, in termini geopolitici e geostrategici, ha un’area chiave definita come i «Balcani dell’Eurasia», un’area estesa che include Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan, Turkmenistan, Azerbaigian, Armenia, Georgia, Afghanistan e parte dell’Iran e della Turchia.
  4. Bisogna impedire che si affaccino sulla scena mondiale tanto delle potenze globali eurasiatiche, come l’Europa e la Cina, quanto delle potenze «regionali» come l’India e l’Iran, nonché far recedere la Russia dal tentativo di riacquisire lo status di potenza globale sulle orme dell’URSS.
  5. Occorre creare, sul piano interno, fra masse abituate a un certo costume democratico, un’adesione alla politica di potenza, sapendo che «la democrazia è nemica della mobilitazione imperiale».
Si può riconoscere la filigrana di queste linee strategiche in tutte le correnti politiche statunitensi e britanniche che si sono misurate con le questioni internazionali nel corso dell’ultimo decennio. Sebbene i neocon siano stati gli interpreti con più potere a impadronirsi di queste idee (e per più tempo), proprio loro sono stati duramente criticati, e proprio da Brzezinski, per via dell’errore d’impantanarsi nella guerra irachena, troppo in contraddizione rispetto al punto 5 prima elencato.
Meglio uno strumento imperiale più morbido come le “rivoluzioni colorate”, realizzate o tentate a ridosso dei paesi ancora in notevole misura integrati con la Russia, per accerchiarla, in attesa di una rivoluzione sintetica che l'avrebbe disgregata, magari con un Mikhail Khodorkovskij al Cremlino, pronto a svendere ai “valori occidentali” tutta la tavola periodica degli elementi contenuta nel sottosuolo della patria di Mendeleev.
In attesa di mettere le mani sulla cornucopia dei minerali, ecco le rivoluzioni di accerchiamento.
La “rivoluzione delle rose” georgiana è un caso esemplare. In Georgia viene costruito ex nihilo un regime – quello di Mikheil Saakashvili – tuttora alimentato interamente dagli stanziamenti governativi degli Stati Uniti e da quelli privati dei fondi legati a George Soros. Potete contemplare il risultato già percorrendo la via che vi conduce dall'aeroporto di Tbilisi fino al centro della capitale georgiana: forse l'unica strada al mondo a chiamarsi viale George W. Bush. Il regime cerca di soffocare la naturale vocazione geografica del suo paese a integrarsi con l'economia russa. L'energia di cui ha bisogno viene fornita dagli americani. Dopo Israele, la Georgia è il paese che riceve più trasferimenti finanziari diretti dall'amministrazione USA. Come Israele, spende gran parte di questi turbo-dollari in armamenti di matrice statunitense. Non ci sorprende perciò che i ministri chiave del governo di Tbilisi (primo ministro, difesa e gestione delle aree contese) siano retti da cittadini israeliani. Nessun cenno su questo lo avete letto o sentito sui media mainstream, più realisti del re. Lo apprendo invece dai giornali israeliani, che rivelano anche che il primo ministro di Tbilisi, Lado Gurgenidze, pochi minuti prima che iniziasse l'attaco all'Ossezia del Sud, ha chiesto per telefono una benedizione del vecchio rabbino Aharon Leib Steinman, leader del partito più ultraortodosso e razzista di Israele. È in questo contesto che la Georgia decuplica le sue spese militari – soprattutto armamento pesante, quello poi usato nell'attacco all'Ossezia - e diventa il terzo contributore per numero di uomini nella guerra in Iraq. Delle privatizzazioni selvagge, non dissimilmente da quelle realizzate presso il grande vicino ai tempi di Boris Bottiglia Eltsin, beneficiano pochi clan, mentre l'economia tracolla. Ne gode su tutti il clan tribale della madre di Shaakasvili, un sistema di potere al centro della corruzione dilagante. Gli oppositori sono vessati, alcuni spariscono nel nulla. Il regime vieta persino l'uso della lingua russa, offrendo un'inequivocabile conferma alle repubbliche di Abkhazia e Ossezia del sud circa il loro destino una volta che fossero ricomprese nei confini della Repubblica, qualora non bastasse loro l'atroce memoria dei bombardamenti subiti negli anni novanta.
Questo re di Gomorra è dunque il campione dei diritti umani, della “giovane democrazia” e dei valori occidentali difeso a spada tratta contro quel cattivone di Putin sul «Corriere della Sera» del 17 agosto 2008 da Filippo Andreatta, professore di relazioni internazionali a Bologna, consigliere di amministrazione della principale holding italiana di produzioni militari, Finmeccanica, nonché – come Saakashvili – educato in quelle scuole d'élite di emanazione militare che istruiscono gli intellettuali organici dell'atlantismo.
Andreatta – il giovane vecchio allievo dell'Atlantic college - naturalmente non esprime nessuna originalità rispetto alla vergognosa manipolazione dei fatti che ha permeato i media occidentali in questa vicenda. Sebbene ci risparmi l'ormai triviale richiamo all'icona dell'Orso russo, anzi sovietico, ripercorre tutti i luoghi comuni sulla minaccia russa e sulla sua violazione – udite udite - della «santità dei confini». Siamo alla mistica.
Altrettanta devozione riecheggia nei proponimenti di Bernard Kouchner, il ministro degli esteri francese, mentre lancia l'idea di inattuabili sanzioni a difesa della santità dei confini. Sanzioni? A questa superpotenza, alla Russia del 2008? Anche lui, Kouchner, non aveva fatto cenno a confini santi durante i bombardamenti del Libano da parte di Israele né agli esordi dell'invasione dell'Iraq, da lui appoggiata. È ovvio che il suo collega russo Lavrov possa permettersi di soppesare le parole di Kouchner come quelle di un bellimbusto ciarliero e fallace.
La linea che passa nei governi e nei giornali occidentali, interrotta da rare prese di posizione contrarie, è dunque quella di coloro che hanno già appoggiato con catastrofici errori di valutazione gli enormi disastri bellici del mondo post-11 settembre. Vedo un Occidente che per anni ha allargato la NATO e umiliato la Russia, con insistenza mai doma, da “bastona il cane che affoga”. Un'espansione che avveniva intanto che gli USA perdevano prestigio e forza, l'Europa si ingrippava, la Russia emergeva dal gorgo dei debiti e diventava un player energetico globale, un paese in grado di far valere anche militarmente la sua indipendenza, un super-creditore con posizioni di forza.
«Non si capisce per quale arcana ragione un creditore dovrebbe fare sconti ad un debitore che ogni giorno cerca di prenderlo a calci nel sedere», ha ironizzato in tempi non sospetti, nel 2006, il blogger Mark Bernardini.
Se siamo a quel che siamo, nelle classi dirigenti atlantiste c'è stata perlomeno una profonda incapacità di analisi e valutazione. Nei governi emerge avventurismo e irresponsabilità. Nel sistema della comunicazione una colossale inattendibilità.
Mentre le convention dei grandi partiti statunitensi pullulano dei nostri inviati che raccolgono cinguettando anche la più minuta nota di colore di quei riti falsamente spontanei, e in realtà pianificati quanto una coreografia nordcoreana (solo in chiave più jazz), le corrispondenze occidentali da Mosca – dove pure si decide il futuro del mondo proprio in questi giorni - hanno viceversa una staticità da avamposto nel deserto dei tartari, un fumo di mistero e un tocco televisivamente brezneviano. Hic sunt ursi.
In un simile contesto, chiedersi se proprio lì, sulle rive della Moscova, ci sia un trattamento migliore della verità, chiedersi se per caso oggi la disinformacija non abiti qui da noi, può apparire come una grande eresia. Eppure è una domanda utile da farsi. Forse una delle più utili in questo mondo più bugiardo deformatosi nei tempi della Guerra Infinita.

L'11/9 visto da Mosca. Altro che “complottismo”
L'11 settembre 2001 fu il tempo clou per dare adempimento al “momento unipolare”. Nemmeno la Russia, fresca di default e con un Putin agli esordi, poteva dire no al dispiegamento di nuove basi USA che la circondavano in Asia centrale, in luoghi influenzati per secoli da Mosca.
Molti osservatori – anche quelli che non sono venuti giù con l'ultima pioggia - sono colti di sorpresa dalla durezza con cui, diversamente da allora, si manifesta l’indipendenza russa. Eppure, senza aspettare che la copertina del settimanale «Time» consacrasse Putin Persona dell’Anno 2007, c’erano già i segnali che i russi avevano capito benissimo – e da subito – il significato dell’11 settembre, ed erano pronti a riorganizzarsi, come poi hanno fatto.
Il settimanale moscovita «Zavtra», ben addentro alle questioni dell'intelligence russa, ha pubblicato il 14 settembre 2002, appena un anno dopo i mega-attentati, la trascrizione di una tavola rotonda che analizzava la situazione mondiale generata da quel drammatico spartiacque della storia recente. Sebbene Vladimir Putin per alcuni anni abbia ripreso a suo modo la retorica statunitense della ‘guerra al terrorismo internazionale’ (in Cecenia fa comodo) e non abbia mai ufficialmente messo in dubbio le versioni ufficiali dei fatti, molti eminenti figure dei servizi segreti, cioè il suo ambiente di provenienza e la sua principale riserva di public servant, si sono mossi quasi all’unisono per esternare la loro visione della realtà effettuale, molto diversa da quella che si propala da Washington.
È interessante rivedere oggi quanto fu detto in quella occasione. Si possono capire molte consapevolezze della Russia di Putin e di Dmitrij Medvedev.
I partecipanti al panel di «Zavtra» erano il vice editore del periodico, Alexander Nagornij, l’analista strategico Generale Leonid Ivašov (che sino al 2001 era capo di Stato Maggiore), l’esperto finanziario Mikhail Khazin, il noto commentatore televisivo russo Mikhail Leont’ev e l’ex numero 2 del KGB Leonid Šebaršin.
La discussione ci racconta bene come questi osservatori russi - tutti collocati in un punto d’osservazione relativamente privilegiato – valutavano la nuova situazione. Non si dimentichi, era appena il 2002.
Per Ivašov l’11 settembre è stata – né più né meno – un’operazione interna agli Stati Uniti, l’espressione di uno scontro tra due forze operanti negli USA, aventi due concezioni molto diverse sull’uso della forza militare, seppure entrambe miranti all’obiettivo di modellare un impero mondiale. Una di esse – a parere dell’ex capo di Stato Maggiore – è più direttamente collegata ad ambienti militari, la seconda è collegata alle mafie finanziarie mondiali con addentellati inseriti nei vari snodi cruciali del potere americano, a partire dai servizi segreti.
Ivašov non si sorprendeva del fatto che – in parallelo con le indagini in corso sugli attentati – alcune inchieste mirassero alle attività di varie altre organizzazioni.
La pressione proveniente dagli ambienti finanziari spingeva ad anticipare le date del calendario che segnava il rafforzamento del potere imperiale, un po’ in urgente risposta alla spinta minacciosa della crescita cinese, un po’ perché l’occidente arabo si stava consolidando e, infine, perché in tutto il Sud-Est asiatico decollava uno sviluppo potente, in grado di spostare grandi equilibri. La sequenza che Ivašov nel 2002 prevedeva nell’agenda imperiale USA post-11 settembre era la seguente: attaccare prima l’Iraq, poi l’Iran, giungere a rendere stabile il proprio potere di controllo globale per poi piegarsi nuovamente su problemi interni, in previsione di un collasso economico e politico-sociale.
Sulla stessa linea si muoveva l’opinione di Mikhail Khazin, il quale connetteva strettamente la minaccia di guerra e l’inaudita crisi strutturale dell’economia statunitense, vista con larghissimo anticipo rispetto alla nostra stampa mainstream, oggi stupita dalla crisi dei subprime. Il solo modo per sfuggire a un catastrofico collasso economico-finanziario negli USA, sarebbe consistito per Khazin nel pieno controllo delle risorse petrolifere del Medio Oriente, a partire dall'Iraq, e per arrivarvi non sarebbe esclusa l’opzione dell’uso delle armi nucleari tattiche, mostrando al mondo una determinazione inarrestabile in grado di indurre tutti in soggezione.
Per Khazin «la grande debolezza attuale degli USA è il fatto che, nel bel mezzo di una situazione veramente critica, gli uomini al potere sono tutti mentalmente limitati. Questa è esattamente la condizione in cui si trovava l’URSS.»
Nell’analisi della crisi americana, Mikhail Leont’ev la paragonava a quella dell’Unione Sovietica dei primi anni ottanta: l’élite degli Stati Uniti, come prima di essa quella dell’URSS, non dimostrava altre capacità di fuoriuscire dalla crisi che attingendo ai metodi e alle soluzioni che aveva nel suo armamentario. L’11 settembre – rimarcava Leont’ev – è stato fondamentale per passare a metodi nuovi. Emergeva il contrasto, sempre più brutale, tra due gruppi: quello della ‘forza militare’ e quello degli ‘isolazionisti’. A questi ultimi importava di salvare l’economia statunitense e la sua industria e pensavano che il sistema dovesse concentrarsi sui propri problemi mettendo in atto intanto una svalutazione ‘controllata’ del dollaro. Cosa che in parte è poi comunque avvenuta. L’opinione di questo gruppo è che gli Stati Uniti non abbiano necessità di esercitare su tutta la scala della loro potenza militare un dominio mondiale, ma solo di costruire un efficace sistema di gendarmi regionali. Il che spiegherebbe l'ambigua politica nei confronti della Russia, le aperture, l’inserimento in logiche di sicurezza bilaterale, ecc.
Tuttavia Leont’ev constatava la prevalenza e l’egemonia dei propugnatori della ‘forza militare’, i quali intendevano sfruttare a fondo l’unica area in cui registravano per gli USA un vantaggio soverchiante e nessun rivale all’altezza, ossia la sfera politico-militare.
L’analisi di Leont’ev proseguiva a quel punto in un modo che ci appare particolarmente degno di attenzione, perché al tempo di quella tavola rotonda non era ancora partita l’invasione dell’Iraq da parte delle forze anglo-americane e descriveva uno scenario che oggi possiamo considerare straordinariamente esatto e lungimirante. Una cosa – per Leont’ev – erano i massicci bombardamenti aerei dell’Iraq senza gravi perdite per i militari USA, mentre una cosa molto diversa sarebbe stata un’operazione di terra, che sarebbe potuta durare a lungo. In quel caso, la situazione sarebbe peggiorata sempre di più, e la lotta intestina tra i due gruppi all’interno degli USA si sarebbe intensificata costantemente. Leont’ev non fece previsioni di lungo termine. Ciò che a suo avviso contava era che la Russia definisse una risposta chiara, previo un grande cambiamento nella politica interna. Oggi possiamo dire che il comportamento di Putin degli anni a seguire – quando a costruito un'efficacissima nuova “verticale del potere” - ha scommesso con successo su una linea molto affine a queste acute analisi.
Leonid Vladimirovič Šebaršin analizzava invece l’intervento USA in Afghanistan, che in quel momento – senza che fosse ancora in atto la grande ‘distrazione’ di truppe in Iraq – dimostrava tutta la potenza americana, subito dopo aver travolto i Taliban, scelto un Primo Ministro di comodo, creato una qualche stabilità. Altro rilevante successo americano – a parere di Šebaršin – è stato l’uso dell’Afghanistan per prendersi le posizioni dell’ex Unione Sovietica in Asia centrale, con ottime basi in Kirghizistan, in Tagikistan, accordi con l’Uzbekistan, e qualche sollecitazione di un certo effetto sul Kazakhistan. La pressione sulla Russia a quel punto si spingeva verso il massimo, negli stessi anni dell'allargamento a Est dell'Unione europea e della NATO, oltre che della disdetta del trattato ABM da parte di Bush.
Solo con la recente espansione della SCO (Shanghai Cooperation Organization) – l’associazione centroasiatica che sotto l’egida di Mosca e di Pechino si sta velocemente trasformando in una consistente alleanza politico-militare, oltre che in uno spazio di cooperazione economica – assistiamo a una netta inversione di tendenza rispetto al quadro tracciato nel 2002 da Šebaršin.
Le riflessioni di Leonid Šebaršin son riapparse, più aggiornate, nel marzo del 2005. In un’intervista esclusiva con «RIA Novosti», diffusa fuori dalla Russia da «Réseau Voltaire», l'ex numero due del KGB valuta che «soltanto fra dieci-quindici anni i giacimenti del Kazakhstan e del Turkmenistan saranno valorizzati in modo intensivo e occorrerà anche controllare il percorso dei prodotti energetici. La campagna afgana ha permesso agli USA di impiantare basi militari in Uzbekistan e Kirghizistan e adesso va al massimo “la valorizzazione politico-militare” della Georgia e dell’Azerbaigian. La regione caspica è sotto sorveglianza. Essa è un nuovo punto caldo del pianeta.»
Il senso di quanto accade nella regione sta nella creazione di condizioni adatte per un’offensiva degli Stati Uniti nella regione caspica, una ulteriore tappa di confronto con la Cina e la preparazione degli USA a un «inevitabile» scontro con questo Paese. Nell’accaparramento delle materie prime, la Cina tende a divenire il principale competitore degli Stati Uniti. Presto o tardi, lo scontro avverrà. Šebaršin domanda:
«perchè gli Stati Uniti hanno bisogno di una base militare in Kirghizistan? Per i voli sull’Afghanistan? Niente affatto. Peraltro, gli effettivi lì schierati eccedono nettamente il personale incaricato di assicurare il controllo dei voli e continuano a crescere. Gli Stati Uniti cominciano a circondare la Cina di basi militari e non è senza ragione che negoziano con il Vietnam un loro ritorno alla base militare di Cam Rahn.
Il compito della Russia, quale potenza indipendente, risulta dettato da precise condizioni storiche.
Nello stato in cui si trova attualmente, la Russia è particolarmente vulnerabile rispetto a un pericolo esterno inatteso, nato da un cambio della congiuntura mondiale. Oggi il nostro scudo nucleare è il solo garante della nostra indipendenza. Occorre preservarlo, tenercelo stretto. Fintanto che esisterà, nessuno tenterà di attaccare seriamente la Russia. È fuor di dubbio che i nostri partner s’impegneranno a indebolirlo al massimo. Quello è un obiettivo strategico che non abbandoneranno.»
Šebaršin nel 2005 è dunque a dir poco profetico riguardo alla successiva decisione degli USA di impiantare sistemi antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca.
«Per noi – aggiungeva Šebaršin - è prioritario prendere delle misure energiche e meditate in vista della creazione di un’economia che ancora non esiste. Fintanto che il paese non disporrà di un’economia efficace – osservava Šebaršin – esso resterà dipendente dalla congiuntura sul mercato mondiale del petrolio, tutto ciò che potremo dire resterà lettera morta.»
Queste parole di Šebaršin oggi ci colpiscono, perché vediamo che la politica di Putin si è mossa con una profonda cognizione di questi problemi, ottenendo risultati clamorosi dalla congiuntura favorevole per i prezzi degli idrocarburi. Nel 2006 la Russia ha restituito in anticipo di molti anni il debito nei confronti delle istituzioni finanziarie internazionali, e oggi ha un surplus commerciale senza precedenti, disponibile per l’acquisizione di nuovi asset strategici per l’economia russa. L’istituzione di un ‘fondo sovrano’ di diretta emanazione statale, che raccoglie centinaia di miliardi di dollari, fa della Russia un predatore rispetto alle industrie e alle materie prime su scala globale. Avviene lo stesso anche per la Cina.
Sul piano militare, la Shanghai Cooperation Organization, la cui importanza e le cui funzioni si accrescono di continuo, è un formidabile fattore di riequilibrio rispetto alla proiezione imperiale degli Stati Uniti, in un clima di crescente competizione e riarmo, gravido di pericoli. L’aggressività americana sullo scacchiere asiatico, ossia il vero movente che ha covato l’11 settembre, ha generato un blocco d’interessi che vi si oppone con molta determinazione, pienamente consapevole del fatto che si sta preparando una catastrofe bellica su scala planetaria.
La corsa verso un simile cataclisma deve preoccupare qualsiasi persona di buon senso.
Di certo, per capire i veri retroscena dell'11 settembre e di quel che ne è seguito, la nostra opinione pubblica ha avuto armi spuntate, mentre a Mosca sono stati usati strumenti analitici fondamentalmente esatti, sebbene non disinteressati e non immuni da distorsioni nazionalistiche.
Da noi le classi dirigenti hanno creduto alle proprie bugie e danno segno di crederci fino ad accelerare la prossima guerra mondiale. In Russia, d'altro canto, si conta sulla durezza inaggirabile dei fatti.
Lo ricorda bene Giulietto Chiesa:
La crisi energetica, evidente a tutti salvo a chi non vuole vederla, incombe ormai sull'intera economia mondiale e determinerà contraccolpi drammatici in tutto il mondo, mentre la Russia si trova ad essere l'unica grande potenza che ha tutte le risorse al suo interno e non avrà alcun bisogno di andarsele a prendere, con la forza, fuori dai suoi confini. Il cambiamento climatico colpirà ogni area del pianeta, ma tra tutte la più avvantaggiata sarà proprio la Russia, mentre Europa e Stati Uniti dovranno difendersene in tempi relativamente rapidi.
Il nuovo realismo politico deve ridimensionare l'atlantismo
Nel frattempo, la corsa agli armamenti è in atto. Lo segnala l’ultimo rapporto del SIPRI di Stoccolma, uno degli istituti più quotati in materia. Le spese militari su scala planetaria sono ora arrivate all’enorme somma di 1.200 miliardi di dollari (a valori costanti del 2005), la più elevata di tutti i tempi, in costante incremento.
Gli Stati Uniti, orientati secondo le loro dottrine militari ufficiali a non concedere a nessuno la più lontana possibilità d’insidiare la loro supremazia militare, restano di gran lunga in testa per le spese militari, con un bilancio di 547 miliardi di dollari.
Le spese militari della Russia sono di circa 15 volte inferiori (34,7 miliardi di dollari), e sono indirizzate soprattutto a rendere più moderno un apparato militare sì imponente, ma trascurato per anni. La cosa fa riflettere, se si pensa che i media mainstream attaccano la ‘corsa agli armamenti’ del Cremlino, con allarmi gonfiati. Il bilancio del Regno Unito, per dire, è molto più voluminoso (59 miliardi di dollari), così come quello della Francia (53 miliardi), o perfino quello di un paese ben poco proiettato all’esterno dal punto di vista militare, come il Giappone (43,7 miliardi di dollari).
Mentre l'allarme sul presunto “espansionismo” russo è pura fuffa propagandistica, è però vero che – se non vogliamo valutare male la forza e l'esperienza militare russa, pur sempre dotata di un arsenale strategico termonucleare - dovremo sapere che i russi stanno investendo molto ed efficacemente, con tecnologie che solo un irresponsabile come Saakashvili potrebbe sminuire. Per ora la disfatta delle sue forze armate se l'è beccata lui. Sarebbe folle trovarci presto - e senza sapere perché – a rintanarci in inutili rifugi mentre ci sorvolano i Tupolev.
A Mosca non ci sono nuovi Hitler. Ci sono statisti che fanno i loro interessi nazionali, e lo fanno maledettamente bene. Alcuni interessi contrasteranno con i nostri. Ma è normale.
Sono più numerosi però gli interessi comuni. Non potremo passare a un futuro paradigma energetico senza idrocarburi escludendo una transizione di alcuni decenni che utilizzi proprio gli idrocarburi regolati da Mosca. La posta in gioco alternativa è una guerra mondiale, cioè – dati i mezzi distruttivi a disposizione e le dinamiche fra potenze – l’Apocalisse. Con questi mezzi e queste dinamiche una simile guerra è già da tempo fuori dal campo della razionalità politica. Il realismo politico oggi non può che ridimensionare l'atlantismo e prefiggersi un mondo multipolare. È la vera chiave della sicurezza collettiva.


La bomba a implosione russa


Aggiornamento del 17 settembre 2008:
Il presente articolo è stato ripreso anche da «ComeDonChisciotte» [QUI], da «Megachip» [QUI], da «Aginform» [QUI], da «Arianna editrice» [QUI], da «Pressante.com» [QUI], da «ZeroFilm» [QUI] e da «Emigrazione Notizie» [QUI]

25 agosto 2008

Operazione Saakashvili

di Giulietto Chiesa,

Megachip – da Galatea
Fonte: Megachip
Link: QUI



Quei giorni di agosto 2008 resteranno sicuramente nella storia come giorni di una svolta, di un drastico del quadro politico internazionale. La Russia non è più quella che, per 17 anni, l'Occidente aveva immaginato che fosse. È ben vero che, i primi anni dopo il crollo, l'euforia del trionfo dell'Occidente era stata corroborata da una leadership russa di Quisling, capitanati da un ubriacone rozzo e baro, come lo fu Boris Eltsin.
Ma dopo, con la sua dipartita dal potere russo, la musica aveva cominciato a cambiare.
I segnali erano tanti. Ma i vincitori erano convinti che Vladimir Putin facesse il muso duro solo per rabbonire i russi umiliati, mentre, in realtà, proprio lui stava - lentamente, ma con chiara progressione - mettendo le basi per un cambiamento. Solo che, come dice un antico proverbio coltivato sotto ogni latitudine, Dio acceca coloro che vuole perdere.
L'illusione sulla disponibilità dei russi a lasciarsi mettere ormai il piede sul collo in ogni occasione avrebbe dovuto assottigliarsi e dare spazio al realismo.
Da queste colonne ho scritto più volte - i lettori lo ricorderanno - che la Russia aveva smesso di ritirarsi e che sarebbe venuto il momento in cui tutti avremmo dovuto accorgercene.
Al giovane avvocato americano Saakashvili, e ai suoi consiglieri e amici americani e israeliani, agli europei che continuano a tenere bordone, è toccato di sperimentare che la ritirata della Russia è finita. Resta loro ancora da capire che è finita per sempre. Nel senso che, per un periodo di tempo oggi non prevedibile, l'Occidente, o quello che ne resta, dovrà fare i conti con una Russia tornata protagonista mondiale.
E non solo perché la Russia è oggi molto più forte di quello che era nel 1991, ma perché l'Occidente - e in primo luogo gli Stati Uniti d'America - è molto più debole di allora. Sotto tutti i profili. Otto anni di George Bush hanno logorato l'America, il suo prestigio.
Ma non è solo politica. La crisi della finanza internazionale è nata dalla "Grande Truffa" dei mutui facili, costruita da Wall Street. La crisi energetica, evidente a tutti salvo a chi non vuole vederla, incombe ormai sull'intera economia mondiale e determinerà contraccolpi drammatici in tutto il mondo, mentre la Russia si trova ad essere l'unica grande potenza che ha tutte le risorse al suo interno e non avrà alcun bisogno di andarsele a prendere, con la forza, fuori dai suoi confini. Il cambiamento climatico colpirà ogni area del pianeta, ma tra tutte la più avvantaggiata sarà proprio la Russia, mentre Europa e Stati Uniti dovranno difendersene in tempi relativamente rapidi.
L'Europa, in primo luogo, avrà un bisogno imperioso, non eliminabile, dell'energia russa per fronteggiare una transizione a una società che non sarà più quella della crescita dei consumi (che verrà resa impossibile dalle nuove condizioni di scarsezza relativa e assoluta di risorse).
Queste sono considerazioni di elementare realismo, alle quali molti dirigenti europei e entrambi i candidati alla presidenza americana, sembrano essere impermeabili.
La loro visione del mondo ha continuato, in questi diciassette anni, ad essere quella della guerra fredda, dei vincitori. E hanno assunto come bibbia per i loro pensieri il libretto che Zbignew Brzezisnki aveva scritto parecchio tempo prima della caduta dell'Unione Sovietica: obiettivo prossimo venturo, "dopo la liquidazione del comunismo", dovrà essere la liquidazione della Russia, la sua scomposizione, la sua trasformazione in tre repubbliche (Russia Europea, Siberia Occidentale, Estremo Oriente russo) prima "leggermente federate" e poi indipendenti. Con la parte europea assorbibile dall'Europa, la Siberia Occidentale in mano americana, e l'estremo oriente russo messo a disposizione di Giappone e Cina, a sua volta omogeneizzata alla globalizzazione americana.
Come sappiamo le cose sono andate molto diversamente su tutti i fronti.
Ma la pressione sulla Russia è stata mantenuta, continua, asfissiante. Basta guardare oggi alle immagini della manifestazione di Tbilisi, in cui Saakashvili ha cercato di rimettersi in piedi dopo la durissima lezione subita tra il 6 e il 9 agosto, e passare in rassegna i nomi degli "ospiti" alleati morali (l'Ucraina anche alleata materiale) dell'aggressione all'Ossetia del Sud, per avere il quadro dei risultati di quella politica di Washington. Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia, Ucraina in fila, con i loro presidenti, di fronte alla folla georgiana: vista sulla carta geografica è la rappresentazione dell'accerchiamento, di una nuova, davvero insensata, irrealistica operazione di accerchiamento. Aggiungendo la Georgia ecco completato il semicerchio con cui tutte le frontiere della Russia diventano bastioni di un'offensiva politico-diplomatico-energetica-psicologica antirussa.
Mancavano, tuttavia, la Romania, la Bulgaria, perfino la Repubblica Ceca di quel reazionario con i fiocchi di Vaclav Klaus. Mancavano l'Ungheria la Slovacchia e la Slovenia, forse solo un tantino più prudenti, forse resesi conto che la corda era stata tirata troppo ed è giunto il momento di frenare se non si vogliono maggiori guai.
Mancava perfino l'Italia, figurarsi!
E il giorno dopo Varsavia firmava l'accettazione del nuovo sistema missilistico americano.
Primo atto, presentato come "di ritorsione" dai media occidentali, mentre era in preparazione da almeno due anni. E, a proposito dei media occidentali, resta solo da constatare che l'ondata di menzogne da essi prodotte (con rarissime eccezioni) , se ha dato l'impressione momentanea di un isolamento completo della Russia in tutto l'Occidente, ha rappresentato la classica vittoria di Pirro.
Non solo perché i fatti, gli avvenimenti sul terreno, hanno confermato le versioni che venivano date dalla Russia e dai suoi media, ma perché la falsificazione è stata così imponente, così sfacciata che negli anni a venire verrà ricordata da milioni di russi (e da miliardi di persone in tutto il mondo non occidentale) come la prova definitiva che il mainstream informativo occidentale è ormai diventato un megafono - attivo e passivo - dei centri imperiali del potere. Dunque non più affidabile.
Sono quelle cose che in politica si pagano, magari non subito, magari dopo anni, ma restano nella memoria dei popoli, nella psicologia collettiva.
Questa volta i bugiardi, gli aggressori non sono stati i russi, ma "i nostri". E non hanno mentito, imbarazzati, solo i portavoce. In quelle ore mentivano i numeri uno, sfilando, uno dietro l'altro davanti alle telecamere famose delle maggiori catene disinformative. Bush che annuncia il prossimo assalto a Tbilisi e il rovesciamento del "democratico governo della Georgia", McCain che ripete la giaculatoria, e via tutti gli altri, incluso Obama. Dio ci protegga da questo futuro presidente americano, chiunque sia, nero o bianco, vecchio o giovane, democratico o repubblicano. "La Russia ha occupato Gori"; "colonne di tank russi si dirigono su Tbilisi". Le vie di Tzkhinvali, devastate dall'assalto di un esercito di migliaia di uomini di centinaia di carri armati, di aerei e elicotteri, mostrate al pubblico come fossero le strade di Gori "selvaggiamente bombardate" dagli aerei russi. Notizie di bombardamenti dell'oleodotto Baku-Ceyhan date per certe, ma inventate, offrono spazio a decine di commenti sul nulla.
Ma il vertice dell'ipocrisia avviene quando i media occidentali, resisi conto che la Russia non punta affatto a conquistare Tbilisi e che si è fermata sulle frontiere dell'Ossetia del Sud e dell'Abkhazia, cominciano a stigmatizzare indignati i bombardamenti che la Russia ha effettuato fuori da quelle frontiere. Come se tutti si fossero dimenticati che gli aerei della Nato, nel 1999, andarono a bombardare Belgrado e decine di piccoli e medi centri urbani della Jugoslavia. Semplicemente per punire la popolazione, per democratizzarla, distruggendo ponti, infrastrutture, fabbriche, ospedali. E naturalmente uccidendo centinaia, anzi migliaia di civili. Due pesi e due misure, come al solito. Noi siamo i buoni, loro sono i cattivi. Punto e basta.
Punto e basta lo ha detto ora la Russia di Medvedev e Putin. L'Ossetia del Sud e l'Abkhazia saranno riconosciute formalmente come repubbliche indipendenti dalla Russia. Fino ad ora non era avvenuto. L'avventura sanguinosa di Saakashvili e di Washington lo ha reso inevitabile prima ancora che possibile. Medvedev ha detto, senza la minima ambiguità, che la Russia accetterà le decisioni dei due popoli e le trasformerà in atti politici e diplomatici, "uniformando la propria posizione internazionale a quelle decisioni". E non vi è dubbio quali saranno quelle decisioni. E non vi saranno passi indietro rispetto a quello che ossetini e abkhazi hanno già ripetutamente scelto nei referendum per la sovranità che hanno approvato.
L'"integrità territoriale" della Georgia - questa la formula difesa da diverse risoluzioni del Parlamento Europeo che io non ho mai votato - non sarà più possibile. Saakashvili è politicamente finito. Lo terranno in piedi ancora per qualche tempo, poi dovranno spiegargli che e meglio se torna a fare l'avvocato negli Stati Uniti. La Georgia nella Nato forse entrerà, se l'Occidente insiste nella sua offensiva antirussa. E forse entrerà anche l'Ucraina. Impossibile prevedere lo sviluppo di questi eventi perché le variabili sono troppo numerose per essere calcolate tutte.
Ma gli occidentali dovrebbero sapere che ogni passo che faranno in questa direzione sarà duramente contrastato dalla Russia che, come è evidente, ha smesso di ritirarsi. Georgia e Ucraina in Europa sembrano oggi, viste da Bruxelles, più difficili di prima.
La crisi georgiana ha mostrato che in Europa vi sono forze ragionevoli che non vogliono portarsi in casa una guerra e non vogliono creare una crisi di enormi proporzioni (con l'Ucraina spaccata in due).
L'operazione Saakashvili si è rivelata un vero disastro geopolitico per gli Stati Uniti. Le onde di risucchio andranno lontano. La guerra fredda è ricominciata, e non per colpa della Russia.
L'Europa dovrà decidere da che parte stare.

11 agosto 2008

La guerra nel Caucaso: le premesse che non ci raccontano

di Pino Cabras


Fonte dell'immagine: Justyna Mielnikiewicz for The New York Times

Non finisco mai di meravigliarmi dell'indecenza che ormai caratterizza l'informazione fornita da molti dei media più importanti.
Nei primi giorni della guerra fra Georgia e Russia, molte importanti testate, in Italia e altrove, non hanno nemmeno citato l'attacco perpetrato dalla Georgia in Ossezia, quando i bombardieri e i fanti di Saakashvili hanno colpito la popolazione civile osseta proprio a ridosso di una dichiarazione di tregua. Si è distinto nell'indecenza il Tg1 di Gianni Riotta.
L'altra cosa che continua a stupirmi è il modo in cui notizie importanti (e la guerra caucasica lo è) arrivano come un fulmine a ciel sereno nelle redazioni che contano, quando invece analisti con molti meno mezzi avevano già per tempo la percezione piena di quel che si stava apparecchiando. Possiamo vedere questo tipo di preveggenza analitica in un articolo di Maurizio Blondet del 21 luglio scorso, intitolato Provocazioni contro Mosca, apparso su «Effedieffe».
L'articolo di Blondet cita anche un passo del mio libro, laddove descrivo il dato di fondo della politica USA di questi anni, la pressione militare sulla Russia in costante aumento nel cuore dell’Asia, in combinazione con un aumento di pressione nei confronti della Cina, il tutto con un ruolo chiave dell'area del Caucaso.
Alla luce dei fatti legati all'inizio della guerra in Georgia, vale la pena riportare per intero l'articolo di Blondet [l'originale è
QUI].


Provocazioni contro Mosca
di Maurizio Blondet,
«Effedieffe»,
21 luglio 2008

Persino Victoria Nuland, ambasciatrice americana presso la NATO, ritiene che Georgia e Ucraina «non sono pronte ad unirsi all’Alleanza Atlantica»: e lo ha dichiarato alla Novosti il 10 giugno scorso, con l’evidente intento di rassicurare Mosca, in rovente contrasto con la «democrazia delle rose» (della CIA) di Tbilisi per le regioni secessionista dell’Abkhazia e Sud Ossezia, russofone.
Ebbene: subito dopo, forze armate USA cominciano una esercitazione congiunta con l’esercito georgiano (chiamiamolo così), a cui danno il nome «Immediate Response 2008», che dovrebbe durare tutto luglio. Con l’evidente scopo di provocare Mosca.
Perché Washington manda segnali così contrastanti, e così forti? Può trattarsi di un sintomo della gravissima crisi di leadership USA, nel tramonto della sciagurata presidenza di Bush junior: una leadership da acefala diventata policefala, dove diversi centri di potere conducono colpi di mano, forse sabotandosi a vicenda, strappandosi di mano il timone. La Nuland rassicurante dipende, come ambasciatrice, dal Dipartimento di Stato, ossia da Condy Rice; a lanciare i giochi di guerra in Georgia è il Pentagono, apparentemente per conto suo. Piuttosto allarmante, dato che la policefalia americana è armata di testate nucleari.
Almeno due centri di potere sembrano voler arrivare ai ferri corti con la Russia: il complesso militare industriale e, soprattutto, gli interessi petroliferi. La speranza di trovare in Medvedev un presidente più «occidentale» di Putin, ha subìto una rovente smentita. Il 9 luglio, dopo una visita di Putin al colonnello Gheddafi avvenuta in aprile, Gazprom ha annunciato di essere prossima ad un accordo con la Libia, per cui Gazprom «comprerà tutti i futuri volumi di gas (libico), petrolio e gas naturale liquefatto per l’esportazione a prezzi competitivi».
Insomma, il vecchio progetto di Putin – formare una «cartello del gas» che non sarà un’OPEC, ma un coordinamento fra Stati produttori e Stati consumatori basato su contratti a lungo termine – ha fatto un passo avanti decisivo. La Libia ha riserve di gas stimate a 1.470 milioni di metri cubi.
Mosca, come si ricorderà, ha già un accordo simile con l’Algeria (che fornisce il 10% del gas che consuma l’Europa), e con il Qatar (riserve comprovate quasi doppie di quelle libiche); e nei giorni scorsi, il capo della Gazprom Alexei Miller ha fatto una visita a sorpresa a Teheran dove ha incontrato Ahmadinejād. Secondo quest’ultimo, i due hanno parlato di «soddisfare collettivamente la domanda di gas in Europa, India e Cina» dividendosi di buon accordo i mercati, ossia di non farsi concorrenza. Di certo hanno firmato un accordo che assegna alla Russia lo sviluppo di campo petroliferi iraniani; la cooperazione nello sfruttamento del giacimento del Nord Azadegan, di ricchezza favolosa; e il tutto apertamente, proprio mentre Israele annunciava l’imminente annichilimento dei laboratori nucleari iraniani, e le ditte europee (Total è la più grossa) si ritiravano dall’Iran per paura delle sanzioni USA.
Si capisce che in precisi ambienti a Washington si canterelli con senso di urgenza: «Bomb, bomb, bomb Iran».
Agli inizi di luglio, Medvedev è volato in visita diplomatica in Azerbaigian, Turkmenistan e Kazakhstan; a Baku, capitale del primo Stato, ha offerto di acquistare l’intera produzione di gas azero a prezzi di mercato; a Ashgabat, ha ottenuto il consenso turkmeno alla modernizzazione dell’oleodotto Central Asia Center Pipeline (CACP), e la costruzione di un oleodotto litorale attorno al Caspio.
Insomma, di fatto, Gazprom commercializzerà l’intera produzione energetica della Libia e quella dell’Azerbaigiian, e si è assicurata che greggio e gas di Turkmenistan e Kazakhstan non arrivino ai consumatori «scavalcando» le tubature russe.
Non basta. Gazprom ha chiesto licenze di prospezione alla Nigeria – cortile di casa delle petrolifere anglo-americane – ed ha proposto alla Nigeria di costruire un gasdotto che porti il gas nigeriano in Algeria (ormai socia dei russi nel «cartello»), per la vendita congiunta del gas in Europa.
La goccia ha fatto traboccare il vaso: «Il monopolio Gazprom si comporta da monopolio», ha sbottato Matthew Bryza, vice-segretario di Stato USA per gli affari eurasiatici: «Tenta di controllare le maggiori quote possibili del mercato per stroncare la concorrenza. Il Cremlino vuole fare di Gazprom una forza dominante nell’energia globale, e “la” forza dominante nel gas, raggruppando le risorse di gas dell’Asia Centrale e dell’Africa». Gazprom, ha concluso con furia, «vuol dominare in ogni angolo del pianeta».
Il che è alquanto comico, dato che il proposito americano di «dominare ogni angolo del pianeta» sta scritto a chiare lettere nei documenti-guida del governo Bush-Cheney, a cominciare dal «Project for a New American Century» e dal suo rapporto «Rebuilding the American Defense», dove si auspica «una nuova Pearl Harbor» onde convincere gli americani a lunghe guerre e grandi spese militari per il petrolio: specie per l’area del Caspio, nell’ex zona di influenza sovietica, con le sue riserve valutate come ricchissime nonostante la difficoltà di trasporto da quel mare chiuso ai clienti consumatori.
L’Afghanistan non è stato invaso per liberare le donne dal chador, ma per costruire una pipeline sul suo territorio, che portasse gas e greggio del Caspio ai porti turchi senza dover passare nelle tubature sovietiche; l’occupazione dell’Iraq è servita ad assicurare all’America una delle più grandi fonti petrolifere esistenti.
Ora, tutto ciò che Washington ha cercato di ottenere con la forza bruta, a costi altissimi (anche in prestigio), Mosca sta ottenendo con la diplomazia e le offerte commerciali.
Nel 1999, la «Strategic Review» dell’US Strategic Institute (una fondazione di Boston, oggi disciolta) scriveva a chiare lettere: «È necessario assicurare alle compagnie statunitensi la leadership nello sviluppo delle risorse nella regione (centro-asiatica) e azzerare l’influenza russa sull’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti, nonché sulle direttrici delle pipelines per l’export» [Citato da Pino Cabras, «Strategie per una guerra mondiale – Dall’11 settembre al delitto Bhutto», Cagliari 2008, pagina 84]. E' ovvio che a Mosca abbiano letto questo consiglio strategico, e ne abbiano tratto le conseguenze.
Tanto più che, allo scopo, la «Strategic Review» consigliava l’aumento della presenza militare USA in Asia Centrale; il che è stato eseguito. Ma consigliava anche cose, che non certo per colpa di Mosca, sono state disfatte dall’amministrazione Bush: «Collaborazione con il Pakistan in quanto punto di passaggio del gas e in chiave anti-iraniana», e gli USA stanno perdendo la presa sul Pakistan con l’eclissi di Musharraf. Consigliava «sostegno alla Turchia, fedele alleata contro Russia e Iran», e la Turchia sta cooperando militarmente con Teheran nella repressione del secessionismo kurdo, che ora ha come centro la repubblica curda semi-indipendente dell’Iraq. Consigliava la messa sotto schiaffo dell’Iran, e – salvo sorprese israeliane – non ci sta riuscendo: Cina e Russia subentrano alle imprese occidentali che, sotto minaccia di sanzioni, se ne vanno dalla Persia.
Ora si capisce meglio il senso – più che allarmante – della ostinazione di Bush a piazzare il sistema antimissile in Polonia: far pesare la minaccia militare su Mosca in modo decisivo e brutale. Ottenere con la forza quel che la sua non-diplomazia ha perduto. La provocatoria esercitazione militare congiunta in Georgia fa pensare all’intenzione di provocare un casus belli, alla ricerca di una «confrontation» anche militare con Mosca.
La Russia spende per l’armamento una frazione insignificante di ciò che spende il Pentagono, e certo non è preparata, né desidera una vera guerra con gli Stati Uniti, che non potrebbe essere che nucleare. Solo dei dementi possono volerla, e Mosca è razionale. Forse il calcolo è di indurre Mosca a cedere di fronte a questo pericolo, giocando il tutto per tutto sulla sfida; forse, nel tramonto di Bush, a Washington alcuni gruppi puntano al fatto compiuto, contro altri che appaiono più prudenti.
Sono possibili colpi di testa e colpi di mano, corrono tentazioni di usare la forza assoluta, quella dove gli USA, alle corde, mantengono una superiorità schiacciante. Inutile dire quanto questo sia inquietante.

10 agosto 2008

Follie caucasiche

di Pino Cabras


Un convoglio russo nei pressi del villaggio di Dzhaba, nell'Ossezia del Sud.
Foto: Dmitry Kostyukov/Agence France-Presse — Getty Images
Fonte: New York Times

L'esordio del conflitto fra Georgia e Russia deve farci rizzare i capelli. Non era affatto imprevedibile. Dobbiamo renderci conto dell'irresponsabile leggerezza con la quale presso le cancellerie europee si sono mossi già troppi passi verso un'adesione alla NATO della Georgia. Grazie alla “clausola d'impegno” dell'articolo 5 dell'Alleanza, saremmo facilmente esposti a uno scenario di possibile guerra con la Russia, che in Georgia ha molte vecchie questioni irrisolte, sullo sfondo di una contesa al centro del Grande Gioco della conquista dell'Eurasia, il teatro più ambito dagli strateghi delle medie e grandi potenze e più temuto da chi ha a cuore la pace. Una guerra della NATO con la Russia sarebbe una guerra mondiale. Se non vogliamo far entrare nemmeno nell'anticamera della Storia una simile scena catastrofica, dovremo moltiplicare l'attenzione per cercare soluzioni diplomatiche urgenti e per accantonare la follia di un ingresso di Tblisi nella NATO.

A critica dell'operato del presidente georgiano Saakashvili – in termini molto duri – è intervenuto su «Il Sole 24 Ore» anche Piero Sinatti, un grande esperto di Russia e questioni del Caucaso. Di seguito è riportato un ampio stralcio del suo articolo, che può essere peraltro letto per esteso QUI.

Lo sbaglio di Saakashvili
[...] Prendendo rapidamente il controllo di Tskhinvali, Mosca ha messo il presidente Saakashvili di fronte alle sue pesanti responsabilità e al suo più grave errore: quello di presupporre che la Russia non avrebbe risposto manu militari al massiccio attacco georgiano.
Quella che ieri sembrava una vittoria (la presa della capitale ossetina), giocata sulla sorpresa e sulla violazione di impegni di tregua, assunti alla vigilia anche da lui stesso, rischia di trasformarsi in una micidiale sconfitta per Saakashvili.
Nonostante i grandi e costosissimi sforzi di modernizzazione dell'esercito georgiano, condotta con il supporto politico e finanziario Usa e con quello tecnico ucraino, Tbilisi non è minimamente in grado di sostenere un confronto armato con Mosca. Per questo, Saakashvili ha una sola alternativa ragionevole: accettare la proposta russa - che la comunità internazionale dovrebbe appoggiare - di ritiro delle truppe di Tbilisi nelle posizioni occupate prima dell'attacco dell'8 agosto e accettazione – finora pervicacemente respinta - dell'impegno a rinunciare all'uso della forza. Impegno che si richiede anche alle altre due parti in causa.
La comunità internazionale, gli Usa e in particolare l'Unione Europea, cui Mosca ha chiesto un'attiva e convinta mediazione (si vedano i colloqui telefonici tra il presidente Medvedev e la cancelliera tedesca Merkel del 9 agosto), dovranno intervenire perché cessino i combattimenti e il conflitto non continui e si estenda, provocando ulteriori perdite umane e distruzioni (come quella di Tskhinvali).
Le intenzioni di Saakashvikli di dichiarare lo stato di guerra e il coprifuoco nel suo Paese non promettono niente di buono. Egli si è rivelato un leader avventurista, irresponsabile e inaffidabile. Dovranno ricredersi, finalmente, quanti finora gli hanno conferito diplomi di democraticità, legittimità e abilità politica. Sono gli stessi, a cominciare dagli Usa, che vorrebbero concedere alla Georgia la carta del piano di ammissione alla NATO il prossimo dicembre, nella prevista conferenza di Bruxelles.»

Nella blogosfera troviamo un'altra analisi molto critica della situazione, quella di Stefano Grazioli, anche lui esperto di vicende russe. Il tema viene affrontato con un tono polemico che poco lascia al politically correct. L'articolo originale è QUI.
Ecco l'analisi:

Psicopatologia di Mikhail Saakashvili
Attenzione: post non ortodosso.

Misha ha la fama di essere un po' un puttaniere, ma forse questa è una delle migliori qualità. È un populista di prim'ordine, un politico scaltro, sa utilizzare benissimo i media. La sua strategia politica, imperniata sul nazionalismo antirusso, è finita come doveva finire: dal 2004 ha continuato a ripetere che avrebbe risolto la questione dell'integrità territoriale del paese in un modo o nell'altro. Ha scelto quello peggiore.
La situazione in Sud Ossezia, come in Abkhazia, de jure facenti parti della Georgia, de facto separate (anzi più russe che indipendenti: praticamente tutti hanno passaporto russo, il rublo è la moneta che circola, l'economia va avanti solo con le sovvenzioni di Mosca, e questo non dall'altro ieri, ma da una qundicina d'anni) è peggiorata dopo l'indipendenza del Kosovo, non riconosciuta dalle organizzazioni internazionali, ma da singoli stati. I frozen conflicts si stanno scongelando, con la complicità di chi è sempre stato a guardare.
Misha non si è svegliato l'altra mattina e ha deciso di attaccare Tshinkvali e riportare l'Ossezia a tutti gli effetti sotto la giurisdizione georgiana. Da mesi si preparava da una parte l'attacco, dall'altra la reazione. Saakashvili sapeva che avrebbe scatenato la reazione russa. E come poteva essere altrimenti? Si possono bombardare soldati e civili russi senza che il Cremlino pensi a una reazione?
Un paio di spiegazioni a quello che è successo:
A) Saakashvili è completamente pazzo: ha pensato a una blitzkrieg per riconquistare prima l'Ossezia del sud, poi l'Abkhazia (visto che i problemi si risolvono così per una, si possono risolvere alla stessa maniera anche per l'altra) pensando che i russi fossero tutti a Pechino e nessuno si accorgesse di nulla. Senza pensare alle conseguenze.
B) Saakashvili è completamente pazzo: ha pensato a una blitzkrieg per riconquistare prima l'Ossezia del sud, poi l'Abkhazia, sapendo che i russi sarebbero intervenuti. Ma ha calcolato tutto. In questo caso ci sono altre tre spiegazioni:
B1) Saakashvili è completamente pazzo: ha pensato che la Georgia da sola possa resistere a una guerra con la Russia e magari vincerla.
B2) Saakashvili è completamente pazzo: ha pensato che facendo una telefonata a Washington arrivino in aiuto tutti i marines ora in Iraq.
B3) Saakashvili è completamente pazzo: ha pensato che non potrà comunque resistere, ma un bel bagno di sangue non fa male a nessuno.
C) Saakashvili è completamente pazzo: non ha pensato a nulla, se non al fatto che se non avesse scatenato l'attacco ora non l'avrebbe fatto più. Questo perché quando a Washington sarà cambiata l'aria, saranno in pochi a volerlo tenere in piedi. In questi anni ha combinato più disastri che altro e solo mantenendo la promessa di riconquistare i territori ormai perduti potrà entrare nella storia come un vincente. Il signore è presuntuoso e arrogante a sufficienza per decidere di non ascoltare i consigli di nessuno. Il risultato è visibile a tutti.
Sulla Russia. Il Cremlino non ha certo avuto alternative: non rispondere all'attacco era impossibile. Per ragioni geostrategiche e umanitarie. C'è solo da sperare che non esagerino. In questa situazione si vedrà la capacità di Medvedev di reggere la scena internazionale.
Previsione: ritorno allo status quo entro qualche settimana. Abkhazia e Sud Ossezia più vicine all'indipendenza e alla Russia. Fine politica di Mikhail Saakashvili.

8 agosto 2008

Quella bandiera europea dietro le spalle del bandito

di Giulietto Chiesa.
Articolo originale su «Megachip»: [QUI]


Piero Gobetti scrisse che «quando la verità sta tutta da una parte ogni atteggiamento salomonico è altamente tendenzioso». Osservando la tragedia dell'Ossetia del Sud trovo che questo aforisma vi si adatti alla perfezione.
Si cercherà, domani, di trovare spiegazioni “salomoniche” per giustificare il massacro della popolazione civile di una piccola comunità schiacciata dal peso della storia, come un vaso di coccio in mezzo a vasi di ferro.
Vi sarà sicuramente qualche sepolcro imbiancato che cercherà di distribuire uniformemente le colpe tra chi ha aggredito e chi è stato aggredito, tra chi ha usato gli aerei e gli elicotteri contro una città di 70 mila abitanti, e chi aveva in mano solo fucili e mitragliatrici per difendersi.
Ci sarà domani chi spiegherà che gli osseti del sud hanno provocato e sono stati respinti. E poi, sull'onda della controffensiva, quasi per forza di cose, i georgiani sono andati a occupare ciò che, in fondo, era loro di diritto, avendo osato gli ossetini dichiarare e applicare l'idea del rifiuto di tornare sotto il controllo di chi li massacrò la prima volta nel 1992.
Ci sarà, posso prevedere con assoluta certezza ogni parola di questi mascalzoni bugiardi, chi affermerà che tutta la colpa è di Mosca, che - non contenta dell'amicizia tra Tbilisi e Washington - voleva punire il povero presidente Saakashvili impedendogli di entrare in possesso dei territori di Abkhazia (il prossimo obiettivo) e di Ossetia del Sud. E così via mescolando le carte e contando sul fatto che il grande pubblico sa a malapena, sempre che lo sappia, dove stia la Georgia, e, meno che mai l'Ossetia del Sud.
Ma le cose non stanno affatto così, anche se il pericolo che questo conflitto si allarghi è grande, tremendo, e chi scherza col fuoco sa che sta facendo rischiare ai suoi cittadini molto di più di quanto essi stessi pensino.
Giocatori d'azzardo, irresponsabili, che puntano tutte le carte sul disastro e il sangue. Chiunque dovrebbe essere in grado di capire che una piccola comunità, con meno di 100 mila persone, disperse in duecento villaggi e una capitale, Tzkhinvali, che è più piccola di Pavia, non possono avere alcun interesse ad attaccare un nemico – questa è l'unica parola possibile alla luce di quanto sta accadendo – che è 50 volte superiore in uomini e armi, che ha l'aviazione (e l'ha usata ieri e oggi, mentre scrivo, con assoluta ferocia, bombardando anche l'unica strada che collega l'Ossetia del Sud con l'Ossetia del Nord, in territorio russo, per impedire che i civili possano rifugiarsi dall'altra parte della frontiera), che non ha ostacoli di fronte a sé. Chiunque potrebbe capire che l'Ossetia del Sud non ha rivendicazioni territoriali e non ha quindi in mente alcuna espansione al di fuori del suo microscopico territorio.
Chiunque potrebbe capire – qui ci vuole un minimo di sforzo intellettuale, quanto basta per liberarsi di qualche schema mentale inveterato – che nemmeno la Russia può avere alcun interesse a inasprire la situazione. Certo Mosca è interessata allo status quo, con l'Ossetia del Sud indipendente di fatto, ma senza essere costretta a riconoscerne lo status, per evitare difficoltà internazionali. Ma chi ha la testa sul collo dovrebbe riconoscere che è meglio una tregua difficile che una guerra aperta; che è meglio negoziare, anche per anni, che uccidere a sangue freddo civili, bambini, donne.
Io sono stato a Tzkhinvali, la primavera scorsa, e adesso mi piange il cuore a pensare a quelle vie dall'asfalto sgangherato, buie la sera, a quelle case senza intonaco, dal riscaldamento saltuario, a quelle scuole ancora diroccate,ma piene di gente normale, di giovani orgogliosi che non vogliono diventare georgiani perché sono cresciuti in guerra con la Georgia e della Georgia hanno conosciuto solo la violenza dei tiri sporadici sui tetti delle loro case. Mi chiedo: e poi? Che ne sarà di quei giovani? Come si può pensare di tenerli a forza in un paese che non ameranno mai, di cui non potranno mai sentirsi cittadini? Se ne andranno, ovviamente, dopo avere contato i loro morti, a migliaia, in Ossetia del Nord, in Russia, di cui quasi tutti sono cittadini a tutti gli effetti, con il passaporto in tasca.
E' questo il modo di sciogliere il nodo georgiano? Lo chiederei, se potessi, al signor Solana, che dovrebbe svolgere il ruolo di rappresentanza dell'Europa in questa vicenda. Che l'Europa, invece di aiutare a risolvere, non ha fatto altro che incancrenire, ripetendo a Tbilisi la giaculatoria che la Georgia ha diritto alla propria integrità territoriale, e dunque ha diritto a riprendersi Ossetia del Sud e Abkhazia. Certo – gli si è detto con untuosa ipocrisia – che non doveva farlo con la forza.
Ma, sotto sotto, gli si è fatto capire che, se l'avesse fatto, alla fin dei conti, si sarebbe chiuso un occhio.
E' accaduto.
Saakashvili non ha nemmeno cercato di nascondere la mano armata con cui colpiva. Non ha nemmeno fatto finta. Ha detto alla televisione che voleva “ristabilire l'ordine” nella repubblica ribelle. Un “ordine” che non esisteva dal 1992, cioè da 16 anni. Perché adesso? Qual era l'urgenza? Forse che Tbilisi era minacciata di invasione da parte degli ossetini?
La risposta è una sola. Saakashvili ha agito perché si è sentito coperto da Washington, in prima istanza, essendo quella capitale la capitale coloniale della attuale Georgia “indipendente”. E, in seconda istanza si è sentito coperto da Bruxelles. Queste cose non si improvvisano, come dovrebbe capire il prossimo commentatore di uno dei qualunque telegiornali e giornali italiani.
Col che si è messo al servizio della strategia che tende a tenere la Russia sotto pressione: in Georgia, in Ucraina, in Bielorussia, in Moldova, in Armenia, in Azerbaigian, nei paesi baltici. Insomma lungo tutti i suoi confini europei. Saakashvili ha un suo tornaconto: alzare la tensione per costringere l'Europa a venire in suo sostegno, contro la Russia; ottenere il lasciapassare per un ingresso immediato nella Nato e, subito dopo, secondo lo schema dell'allargamento europeo e dell'estensione dell'influenza americana sull'Europa, l'ingresso in Europa.
Secondo piccione: chi muove Saakashvili conta anche sul fatto che questo atteggiamento dell'Europa finirà per metterla in rotta di collisione con la Russia. Perfetto! Con l'ingresso della Georgia nella Nato e in Europa gli Stati Uniti avranno un altro voto a loro favore in tutti i successivi sviluppi economici, energetici e militari che potrebbero vedere gli interessi europei collidere con quelli americani.
Javier Solana ha la capacità di sviluppare questo elementare ragionamento? Ovviamente ce l'ha. Solo che non vuole e non può perché ha dietro di sé, alle sue spalle, governi che non osano mettere in discussione la strategia statunitense, o che la condividono.
Cosa farà ora la Russia è difficile dirlo. Certo è che, con la presa di Tzkhinvali, le forze russe d'interposizione, che sono su quei confini interni alla Georgia,dovranno ritirarsi. Il colpo all'Ossetia del Sud diventa così un colpo diretto alla Russia. Che, questo è certo, non è più quella del 2000, al calare di Boris Eltsin e delle sue braghe.
L'emblema di questa tragedia, che è una nuova vergogna per l'Europa, è stato il fatto che Saakashvili ha annunciato l'attacco, dalla sua televisione, avendo dietro le spalle, ben visibile, la bandiera georgiana e quella blu a stelle gialle europea. Peggiore sfregio non poteva concepire, perché la Georgia non è l'Europa, non ancora. E meno che mai dovrebbe esserlo dopo questo attacco che offende - o dovrebbe offendere - tutti coloro che credono nel diritto all'autodeterminazione dei popoli. Che è sacrosanto per chi se lo guadagna, molto meno con chi usa quella bandiera per vendere subito dopo l'indipendenza a chi l'ha sostenuta dietro le quinte.
Qual è la differenza con il Kosovo? Una sola: la Serbia era un prossimo suddito riottoso e doveva essere punita. La Georgia è invece un vassallo fedele e doveva essere premiata.
L'Ossetia del Sud questo diritto se lo è guadagnato. E non c'è spazio per alcun atteggiamento salomonico, perché la ragione sta tutta da una sola parte, e io sto da quella stessa parte.

6 agosto 2008

L'allarme del giurista: il bavaglio su internet aspetta solo un grande pretesto

Articolo originale:
Law Professor: Counter Terrorism Czar Told Me There Is Going To Be An i-9/11 And An i-Patriot Act

di Steve Watson
Infowars.net
5 agosto 2008

Traduzione di Pino Cabras



Lawrence Lessig


Sono emerse delle rivelazioni stupefacenti in relazione ad alcuni attuali piani governativi che intendono mettere mano al funzionamento di internet per applicare restrizioni e controlli molto più estesi sul web.

Il professor Lawrence Lessig, un autorevole giurista della Stanford University, nel rivolgersi al pubblico che quest’anno presenziava alla conferenza Brainstorm Tech - organizzata da Fortune a Half Moon Bay, in California – ha dichiarato che «sta per accadere una specie di ‘11 settembre di internet’», un evento che catalizzerà una radicale modifica delle norme che regolano la Rete.
Lessig ha anche rivelato di aver appreso nel corso di un pranzo con l’ex “Zar” governativo del controterrorismo, Richard Clarke, che c’è già un 'cyber-equivalente' del Patriot Act, una sorta di ‘Patriot Act per la Rete’, mentre il Dipartimento della Giustizia è in attesa di un evento cyber-terroristico per poterne applicare le norme.

Durante una sessione di un gruppo di discussione, intitolata “2018: Vita sulla Rete”, Lessig ha dichiarato:

«Sta per accadere una specie di ‘11 settembre di internet’ (“an i-9/11 event” nell’originale, NdT). Il che non significa necessariamente un attacco di al-Qā‘ida, bensì un evento in cui l’instabilità o l’insicurezza di internet diventi manifesta durante un fatto doloso che poi ispira al governo una reazione. Dovete ricordarvi che dopo l’11 settembre il governo ha predisposto il Patriot Act in appena 20 giorni e lo ha fatto approvare».



«Il Patriot Act è bel mattone e ricordo qualcuno che chiedeva a un funzionario del Dipartimento della Giustizia come avessero fatto a scrivere un cosi vasto corpus giuridico in così poco tempo, e ovviamente la risposta fu che esso se ne era stato buono buono dentro i cassetti ministeriali per tutti gli ultimi 20 anni, in attesa di un evento che lo avrebbe fatto tirar fuori di lì.»
«Naturalmente il Patriot Act è pieno di ogni sorta di follia su come i diritti civili vengono protetti, o non protetti in questo caso. Perciò mentre pranzavo assieme a Richard Clarke gli ho chiesto se ci fosse un equivalente, se c’era per caso un ‘Patriot Act per la Rete’ dentro qualche cassetto, in attesa di un qualunque considerevole evento da usare come pretesto per cambiare radicalmente il modo in cui funziona internet. Disse: “Naturalmente sì”».
Lessig è il fondatore del Center for Internet and Society alla Stanford Law School. È membro fondatore di Creative Commons, fa parte del consiglio di amministrazione della Electronic Frontier Foundation nonché del Software Freedom Law Center.
È ancora più noto quale proponente di riduzioni nelle restrizioni legali nei confronti dei diritti d’autore, dei marchi e dello spettro delle frequenze radio, specie nelle applicazioni tecnologiche.

Questi non sono dunque i vaneggiamenti di un qualche smanettone paranoico.

Il Patriot Act, così come il meno conosciuto provvedimento denominato Domestic Security Enhancement Act 2003 (altrimenti noto come Patriot Act II), sono stati universalmente condannati dai difensori dei diritti civili e dai costituzionalisti collocati lungo tutto l’arco delle posizioni politiche. Queste leggi hanno sguarnito i diritti fondamentali e modellato quel che perfino i critici più moderati hanno definito come un “controllo dittatoriale” ceduto al presidente e al governo federale.

Molti credono che la legge fosse una risposta agli attentati dell’11/9, ma la realtà è che il Patriot Act è stato preparato ben prima dell’11/9 e se ne stava in sospeso, pronto per un evento che ne giustificasse l’applicazione.

Nei giorni successivi agli attentati, la legge fu approvata dalla Camera dei Rappresentanti con una maggioranza di 357 a 66. Al Senato fu approvata con 98 voti a favore e un solo voto contrario. Il parlamentare repubblicano texano Ron Paul dichiarò al «Washington Times» che a nessun membro del Congresso fu nemmeno consentito di leggere il provvedimento.
Ora scopriamo che quasi la stessa normativa restrittiva per le libertà è stata già preparata per il cyberspazio.

Un “11 settembre di internet”, così come descritto da Lawrence Lessig, offrirebbe il pretesto perfetto per applicare simili restrizioni in un solo colpo, nonché di offrire la giustificazione per emarginare ed eliminare specifici contenuti e informazioni presenti nel web.

Un tale evento potrebbe presentarsi nella forma di un grande attacco virale, un hacking dei sistemi di sicurezza o dei trasporti ovvero di altri sistemi vitali di una metropoli, o una combinazione di tutte queste cose. Considerando la quantità di domande senza risposta riguardanti l’11/9 e tutti gli indizi sul fatto che fosse un’operazione deviata sotto copertura, non è difficile immaginare un evento simile dispiegarsi nel cyberspazio.

Tuttavia, anche lasciando perdere qualsiasi “11 settembre di internet” o “Patriot Act per la Rete”, c’è già uno sforzo coordinato mirante a circoscrivere il raggio d’azione e l’influenza di internet.

Abbiamo instancabilmente lanciato l’allarme su questo movimento generale teso a restringere, censurare, controllare a alla fine bloccare del tutto internet così come oggi la conosciamo, uccidendo in quel modo le ultime vere vestigia della libertà di parola oggi nel mondo ed eliminando il più grande strumento di comunicazione e informazione mai concepito.
I nostri governi hanno pagine e pagine di norme compilate per mettere le ganasce all’attuale Rete. provvedimenti quali il PRO-IP Act del 2007 /H.R. 4279, inteso a creare uno ‘zar degli IP’ presso il Dipartimento della Giustizia, oppure l’Intellectual Property Enforcement Act of 2007/S. 522, mirante a creare un intera “rete di rafforzamento della proprietà intellettuale”. Non sono che due esempi.

Inoltre, abbiamo già visto in che modo i più grandi siti web privati e i social network si stiano concentrando e convergano per realizzare sistemi onnicomprensivi di identificazione, verifica e accesso che sono stati descritti dal fondatore di Facebook, Mark Zuckerberg, come «l’inizio di un movimento e l’inizio di un’industria.»

Alcune di queste grandi società tecnologiche hanno già unito gli sforzi su progetti quali la Information Card Foundation, che ha proposto la creazione di un sistema di carte d’identità per internet che saranno richieste per entrare in Rete. Naturalmente un tale sistema darebbe a chi lo gestisse la capacità di rintracciare e controllare l’attività degli utenti con molta più efficacia. Questo è solo un esempio.

Non basta. Come abbiamo già raccontato, i più grandi hub dei trasporti, come St. Pancras International, o anche le biblioteche, le grandi imprese, gli ospedali e altre grandi strutture aperte al pubblico che offrono internet wi-fi, stanno mettendo in lista nera i siti web di informazione alternativa rendendoli del tutto inaccessibili ai loro utenti.

Questi precedenti sono semplicemente il primo indicatore di quanto viene pianificato per internet nei prossimi 5-10 anni, con il web ‘tradizionale’ in via di divenire poco più che una vasta banca dati spionistica che cataloga ogni attività delle persone e le bombarda di pubblicità, mentre coloro che si conformano al controllo e alle regole centralizzate saranno liberi di godere del nuovo e velocissimo Internet 2.

Dobbiamo parlar chiaro riguardo a questa spinta irruente che mira ad applicare meccanismi di stretto controllo sul web, e farlo ADESSO prima che sia troppo tardi, prima che la spina dorsale di un internet libero si rompa e il suo corpo diventi in sostanza paralizzato senza rimedio.
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Aggiornamento del 10 agosto 2008
Il presente post è stato ripreso dal sito «comedonchisciotte» [QUI], da «Megachip» [QUI] e da «Indymedia Lombardia» [QUI].
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5 agosto 2008

James Quintiere: mazzate di un super esperto sulla versione ufficiale

di Pino Cabras


James Quintiere

Aggiornamento del 6 agosto 2008:

Il presente articolo è stato ripreso dal sito «Zerofilm»


Lo specialista e il NIST

Pochi in Italia sanno del dottor James Quintiere, una delle personalità più lucide e titolate che si sono impegnate a criticare – da un versante particolare - la versione ufficiale sui crolli del World Trade Center. Proprio Quintiere, ex capo della divisione Scienza degli incendi presso il NIST (l’agenzia che ha prodotto la più voluminosa versione ufficiale) - e ben coperto dalle credenziali di scienziato che ha a lungo lavorato con i governi - ha fatto appello a una revisione indipendente dell’inchiesta sui crolli dell’11 settembre 2001.

Ci sono al mondo ben poche persone che possano vantare l’esperienza scientifica di Quintiere nel valutare gli effetti di un incendio su un edificio. Tra l’altro fu Quintiere a dare ragione alla versione del governo federale in occasione della controversa tragedia di Waco. Perciò le sue severe domande al NIST suonano come altrettante mazzate sulla versione ufficiale.

Le sue domande aleggiano ancora, in attesa di risposte.

Chi può dare queste risposte sarà solo un’inchiesta di vasta portata.

Non le ha date il NIST.

Tanto meno sono in grado di darle gli zelanti censori che pure pretendono di surrogarsi come depositari di una verità irrevisionabile.

Chi ha affrontato la sconfinata materia dell’11 settembre sa che una delle inchieste ufficiali più importanti è stata svolta proprio dal NIST (National Institute of Standards and Technology), l’agenzia governativa USA per la normazione e la tecnologia, un'emanazione del Dipartimento del Commercio che si raccorda con l'industria per sviluppare standard, tecnologie e metodi miranti a favorire la produzione e il commercio, ma il cui budget è alimentato soprattutto dalla sfera pubblica.

È del 2005 la versione conclusiva del Rapporto Finale del NIST sulle cause del crollo delle Torri Gemelle del World Trade Center. L’indagine era durata tre anni. I risultati del NIST hanno in qualche misura il rango di fonte ‘ufficiale’ della teoria per la quale gli impatti degli aeroplani, unitamente agli incendi, avrebbero cagionato i crolli dei grattacieli. Il rapporto del NIST è accompagnato da 43 volumi di documentazione e ricerca. I volumi sono noti collettivamente come NIST NCSTAR, e sono tutti scaricabili da wtc.nist.gov.

Sin da subito, chi ha criticato il rapporto ha fatto notare che i test del NIST sui materiali veri sono surclassati da modellizzazioni virtuali – perfette, ma arbitrarie, nei parametri usati – per cui i risultati s’inoltrano per certe vie e non per altre.

Il subisso di dati e immagini virtuali del NIST mira a puntellare questa spiegazione di fondo: gli aerei, nell’impatto, avrebbero asportato il rivestimento antincendio dall’acciaio esponendo quest’ultimo direttamente all’azione devastatrice del fuoco; le travature a ponte del WTC su cui facevano base i piani, nel piegarsi per effetto del calore, avrebbero tirato all’interno i muri perimetrali provocando una «propagazione dell’instabilità» lungo le colonne perimetrali e stressando maggiormente le colonne centrali del nucleo, già rese meno resistenti dagli incendi; l’energia dei piani posti sopra la zona dell’incendio avrebbe innescato il «collasso globale».

Il NIST tende a suggerire che i collassi totali di grattacieli siano abbastanza “normali”, anche se di norma questi eventi si presentano in modo meno subitaneo e meno catastrofico. Non c’è alcun esempio di “collassi progressivi TOTALI” di edifici in acciaio al di fuori dell’11 settembre 2001.

Fra chi non è rimasto convinto dalle conclusioni del NIST, c’è chi ha anche provato a ipotizzare possibili scenari alternativi, fatti di demolizioni intenzionali, la cui attuabilità non potrebbe che dipendere da drammatiche complicità all’interno delle organizzazioni che gestivano la sicurezza dei grattacieli. A scavare in quella direzione le sorprese sarebbero tante, ma in questa sede, oggi, ci porterebbero lontano.

James Quintiere, prima di concentrarsi sulle domande, prova anche lui a fare delle ipotesi. Non fa parte del ‘partito della termite’, e quindi non punta il dito sulla miscela incendiaria che secondo certe ipotesi avrebbe tagliato il nodo dell’equilibrio delle torri.

Tuttavia Quintiere contraddice con forza il rapporto del NIST. Rispetto al rapporto ufficiale ipotizza una diversa causa per i crolli, ossia l’applicazione di un’insufficiente isolamento antincendio delle travature a ponte delle Torri Gemelle. «Suggerisco che ci sia una teoria ugualmente giustificabile e cioè che le travature cadono allorché sono riscaldate dall’incendio con l’isolamento intatto. Queste sono due diverse conclusioni, e la responsabilità per ciascuna di esse è tremendamente diversa», ha detto.

In sostanza, Quintiere – a differenza del NIST - non è per nulla convinto che sia dimostrabile che ci sia stata una rimozione 'localizzata' delle protezioni antincendio né che essa abbia causato danni così gravi. Ritiene più verosimile una ‘magagna’ più generale e diffusa, che ha reso più vulnerabili le strutture. Altri che chiedono di indagare sull'ipotesi di demolizione sospettano che la cattiva performance della struttura sia derivata da un'azione intenzionale su di essa. Quintiere sospetta invece una carenza costitutiva delle torri. Ma è comunque un'ipotesi lontana dalla versione del NIST. È un’ipotesi di lavoro -chiamiamola così - che sceglie di non varcare la soglia delle complicità più altolocate: si entrerebbe in un paradigma operativo che coinvolgerebbe ben di più che al-Qā‘ida.

Il super esperto non lancia comunque scomuniche ‘anticomplottiste’. Anzi, al cospetto di una platea mondiale di colleghi scienziati e ingegneri della sicurezza, li esorta tutti ironicamente affinché riesaminino i crolli del WTC: «Spero di convincervi a diventare dei ‘cospirazionisti’, ma in un modo più adeguato».

Quintiere ha pronunciato questo suo appello nel 2007 durante una sua presentazione, intitolata “Questions on the WTC Investigations”, illustrata per un’ora davanti a un congresso di livello mondiale sulla sicurezza antincendio (World Fire Safety Conference).

«Mi piacerebbe che ci fosse una revisione paritaria dell’inchiesta NIST», ha detto. «Credo che tutti i dati assemblati dal NIST debbano essere archiviati. Vorrei davvero vedere qualcun altro dare uno sguardo a quanto il NIST ha fatto, sia dal punto di vista strutturistico sia da quello dell’analisi degli incendi».


NIST: conclusioni discutibili

«Ritengo che le conclusioni ufficiali cui è giunto il NIST siano discutibili», ha spiegato Quintiere.

«Dunque si guardi a delle reali cause alternative in grado di spiegare il crollo delle torri del WTC e si osservi come si pongono di fronte alla causa ufficiale e quale sia la rilevanza di ciascuna causa rispetto a un’altra».

L’atteggiamento è aperto, proprio come ci aspetteremmo da uno dei più eminenti scienziati al mondo nel settore dell’analisi scientifica degli incendi e dell’ingegneria della sicurezza. Se le conclusioni del NIST sono «discutibili», allora vanno indagate con un confronto vero le possibili «cause alternative».

Nella sua presentazione Quintiere ha anche criticato la ripetuta incapacità del NIST di rispondere alle serie domande sollevate in merito alle sue conclusioni circa i crolli degli edifici del WTC e in merito al processo da esso utilizzato per giungere a tali conclusioni. Parla a ragion veduta.

«Mi son sorbito tutte le audizioni del NIST. Sono andato a tutte le riunioni del loro comitato consultivo, in veste di osservatore. Ho fatto commenti su tutto.»

In risposta a un'osservazione di un rappresentante del NIST presente fra il pubblico, Quintiere ha puntualizzato:

«Ho constatato che lungo tutta la vostra inchiesta era difficilissimo ottenere una risposta chiara. E quando qualcuno è andato alle vostre riunioni o audizioni del comitato, gli venivano concessi cinque minuti per fare una dichiarazione, e non poteva mai fare domande. Con tutti i commenti che ho apportato, e ho passato molte ore a scrivere delle cose - mentre vi tedierei a riversarvele qui - non ho ricevuto, mai, una risposta formale che fosse una».

Arriva la prima grande anomalia investigativa individuata da Quintiere:

«In ogni inchiesta cui ho partecipato, la chiave consisteva nello stabilire una tabella temporale. E tale tabella si compone di testimonianze, informazioni ricavate dai sistemi di allarme, da qualsiasi video che possiate avere dell’evento, e infine di calcoli. E poi cercate di mettere insieme tutto ciò. E se i vostri calcoli sono coerenti con alcuni dei fatti di un certo peso, allora forse potete trovare un qualche conforto nei risultati dei vostri conteggi. Non ho visto alcuna tabella temporale disposta nella relazione del NIST.»

Quintiere ha poi manifestato la propria frustrazione di fronte a un’altra macroscopica anomalia: l’incapacità del NIST di fornire un rapporto sul terzo grattacielo crollato l’11/9, l’Edificio 7 del WTC. «E questo edificio non venne colpito da alcunché», ha sottolineato Quintiere. «È più importante dare uno sguardo a questo. Forse hanno giocato un ruolo importante i danni causati dalle macerie precipitate. Ma oltre a questo avete assistito a degli incendi che bruciavano a lungo senza l’intervento del dipartimento dei vigili del fuoco. E i pompieri erano dentro questo edificio. Devo ancora vedere un qualsiasi tipo di resoconto in merito a quanto hanno visto. Che cosa stava bruciando?»

Guarda caso, il sistema di monitoraggio antincendio del WTC 7 quel giorno mandò alla società di sorveglianza un solo segnale, subito dopo il crollo del WTC2, senza informazioni specifiche su dove si sviluppava l’incendio. Il sistema di allarme era stato messo in modalità test “per lavori di manutenzione” proprio quella mattina. L’ennesima coincidenza dell’11/9, giorno in cui su ognuna delle vicende chiave si sono concentrati gli effetti di decine di esercitazioni, manutenzioni, e war games che alteravano puntualmente la scenda del crimine. In questo caso il risultato fu che per 8 ore qualunque allarme d'incendio ricevuto dal sistema veniva comunque ignorato.

L’Edificio 7 del World Trade Center non era un grattacielo così banale, anche se il crollo delle Twin Towers ne ha offuscato la memoria. Negli USA sarebbe stato comunque l’edificio più alto in 33 su 50 stati. Sebbene l’11 settembre non fosse stato colpito da alcun velivolo, alle ore 17,20 crollò integralmente riducendosi a una magra pila di detriti, in una manciata di secondi. Negli anni successivi il NIST non è riuscito a offrire alcuna spiegazione del crollo. A questa momentanea rinuncia del NIST, si aggiunge l’assoluta mancanza di menzione del crollo dell’Edificio 7 nel rapporto della Commissione d’inchiesta sull’11/9, che pure si autodefiniva, meno male, «il pieno e completo resoconto delle circostanze che contornano gli attacchi terroristici dell’11 settembre 2001.»


Un’inchiesta impedita

Quintiere spiega bene la sua delusione rispetto ai risultati del NIST. In origine riponeva «grandi speranze» sul fatto che il NIST avrebbe fatto un buon lavoro nell’inchiesta.

«Rappresentano il laboratorio governativo centrale in materia d’incendi. Ci sono ottime persone in grado di fare un buon lavoro.» Fin qui, bene.

«Ma ho anche pensato che quel che dovrebbero fare sarebbe di coinvolgere il servizio dell’ATF (l’ufficio che si occupa di alcol, tabacco, armi da fuoco ed esplosivi), il quale ha una squadra investigativa e un laboratorio per proprio conto in materia d’incendi. E ho pensato che dovrebbero far scendere la loro gente per strada per procacciarsi informazioni con il metodo dei detective. Che cosa ha impedito tutto ciò? Ritengo che sia stata la struttura legale che avviluppa il Dipartimento del commercio e di conseguenza il NIST. Pertanto, invece di agire come dei legali impegnati in una causa civile tesi a raccogliere deposizioni e informazioni tramite atti di citazione, questi legali hanno fatto l’esatto contrario e hanno bloccato tutto.»

Le parole, adesso, sono felpate, ma le conclusioni sono gravissime: esistono condizioni strutturali e vincoli pesanti che impediscono un’inchiesta vera e attendibile.

La presentazione di Quintiere alla World Fire Safety Conference ha echeggiato la sua prima dichiarazione alla commissione parlamentare sulle scienze della Camera dei Rappresentanti, il 26 ottobre 2005, durante un’audizione per la “Inchiesta sul crollo del World Trade Center: risultati, raccomandazioni, e prossimi passi”, quando disse:

«A mio parere, l’inchiesta sul WTC del NIST delude le aspettative per non riuscire sicuramente a trovare una causa, per non collegare sufficientemente raccomandazioni specifiche alla causa, per non invocare pienamente tutta la propria autorità nel cercare i fatti nell'inchiesta, e per l'indirizzo dei legali di parte governativa mirante a scoraggiare anziché sviluppare la ricerca dei fatti.»

Queste le prime mazzate di Quintiere, ma poi arrivano le altre, sempre più incalzanti e micidiali.


Le domande senza risposta

«Io ho oltre 35 anni di esperienza nella ricerca sugli incendi. Ho lavorato nel programma sugli incendi del NIST per 19 anni come capo della divisione. Da allora sono stato alla University of Maryland. Sono un membro fondatore ed ex presidente della International Association for Fire Safety Science, il principale forum mondiale per la ricerca sugli incendi...». Premessa necessaria prima di snocciolare l’elenco delle domande ignorate dal NIST.

«1. Perché il processo di progettazione dell'applicazione della protezione antincendio alle torri del WTC non è stato pienamente richiamato per determinare le colpe?»

«2. Perché non sono state indagate e discusse delle ipotesi alternative sui crolli visto che il NIST ha dichiarato ripetutamente che lo sarebbero state?»

«3. La spoliazione di un luogo in cui si sia svolto un incendio è la base per distruggere una prova legale in un'inchiesta. La maggior parte dell'acciaio è stata rimossa, benché gli elementi chiave dell'acciaio presente nel ‘core’ fossero stati catalogati. Un'attenta lettura del rapporto del NIST mostra che non hanno alcuna prova che le temperature da loro previste come necessarie per le rotture siano corroborate da parte dei risultati dei minuscoli detriti in acciaio in loro possesso. Perché il NIST non ha dichiarato che questa spoliazione dell'acciaio fu un errore sesquipedale?»

«4. Il NIST ha usato modelli computerizzati che a loro dire non avevano mai usato prima in una simile applicazione e che sono i più avanzati. Per questo motivo le loro competenze andrebbero encomiate. Ma è la validazione di questa modellizzazione ad essere in questione. Altri hanno calcolato degli aspetti con diverse conclusioni circa il meccanismo che ha causato il crollo. Per di più, è cosa comune nelle indagini sugli incendi calcolare una linea temporale e confrontarla con eventi conosciuti. Il NIST non lo ha fatto.»

«5. I test del NIST sono stati inconcludenti. Sebbene abbiano fatto dei test sugli incendi nella scala di diverse postazioni di lavoro, un test replicato sulla scala di almeno un piano del WTC sarebbe stato di considerevole valore. Perché non è stato fatto questo?»

«6. Il critico crollo del WTC 7 è relegato in un ruolo secondario, poiché i suoi risultati non saranno completi per un altro anno ancora. Era chiaro durante la riunione del comitato consultivo del NIST nel settembre 2005 che questa data non sarebbe stata realistica, giacché il NIST non vi ha dimostrato progressi. Perché il NIST ha rinviato questa indagine importante?»


La necessità di un’inchiesta nuova

Già nel settembre 2006 era apparsa un’intervista di James Quintiere sull’edizione norvegese di «Le Monde Diplomatique». Alla domanda «C'è un bisogno di una nuova inchiesta sul crollo degli edifici?», lo scienziato statunitense rispose affermativamente:

«Credo che ci dovrebbe essere una piena pubblicazione delle analisi e dei risultati del NIST, con la possibilità per il pubblico di fare domande di fronte a una commissione imparziale capace di garantire la determinatezza e accuratezza dei risultati. […]. La commissione dovrebbe stabilire se sono necessarie ulteriori indagini. Un evento di questa scala continuerà ad essere oggetto di inchieste, e dato che i calcoli tendono a essere più precisi per questo scenario, credo che assisteremo a un miglioramento dei risultati. La cosa può richiedere decenni.»

La nostra memoria della strategia della tensione e degli anni di piombo non ci fa stupire di questo lungo arco temporale, previsto con lucido realismo da Quintiere. E questa stessa memoria non ci fa stupire della fretta con cui altri invece ci vogliono rivendere le soluzioni dei gialli politici fornite in quattr’e quattr’otto da certi apparati dello Stato: in genere si tratta di soluzioni piatte, senza profondità, riduttive, banalizzanti, fatte di killer solitari e di gruppi isolati, senza scabrose complicità fra chi potrebbe fermarli. È la fretta dei depistatori.

Di certo servono nuove risorse investigative, inquirenti indipendenti, possibilmente a livello internazionale, con poteri d’indagine penetranti, con dei “mastini” che raccolgano deposizioni e notizie tramite atti di citazione. Fino ad oggi le inchieste ufficiali sono state segnate dall’imprinting della 9/11 Commission, la quale dichiarava candidamente nel suo rapporto che il suo scopo «non è stato di assegnare colpe individuali». Fino alla farsa delle deposizioni di Bush e Cheney, in seduta segreta, senza giuramento e senza la possibilità di prendere appunti.

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Il dottor Quintiere è una delle figure più eminenti al mondo fra i ricercatori in scienza degli incendi e fra gli ingegneri della sicurezza. Ha lavorato presso la divisione Fire Science and Engineering del NIST per 19 anni, fino a ricoprire la posizione di capo della divisione. Ha lasciato il NIST nel 1990 per entrare alla facoltà di ingegneria della protezione dagli incendi alla University of Maryland, dove opera tuttora.

Quintiere è un membro fondatore ed ex presidente della International Association for Fire Safety Science (IAFSS). È anche Fellow presso l'American Society of Mechanical Engineers (ASME). Ha ricevuto numerosi premi per i suoi contributi alla ricerca sulla scienza e l'ingegneria degli incendi, tra cui:

La medaglia di bronzo e quella d'argento del Dipartimento del Commercio (rispettivamente 1976 e 1982);

La Howard W. Emmons Lecture Award insignito da IAFSS nel 1986

Il Sjölin Award del 2002 per il rilevante contributo alla scienza della sicurezza dagli incendi, insignito dal forum internazionale dei direttori della scienza degli incendi, NIST

La Guise Medal del 2006, insignita da parte della National Fire Protection Association

La sua presentazione intitolata “Questions on the WTC Investigations” è stata illustrata due volte, alla World Fire Safety Conference del 2007. Le registrazioni delle presentazioni possono essere acquistate dalla National Fire Protection Association presso il sito http://www.fleetwoodonsite.com/index.php?cPath=.