31 marzo 2008

La recensione/ Tra Orwell e la strage delle Torri gemelle, Nonno Bush e le follie dei guerrafondai

Di seguito potete leggere alcuni stralci tratti dalla recensione del mio libro scritta da Paolo Maccioni sul numero di marzo 2008 del mensile Sardinews .

Prescott Sheldon Bush [Fonte: USGov]


L’ultimo contributo all’intenso dibattito planetario sugli eventi dell’11 settembre arriva dalla Sardegna. È sardo l’autore del volume Pino Cabras, funzionario di una banca d’affari, ed è sarda la giovane ed ambiziosa casa editrice Aìsara.

Il clima del libro, o forse del mondo, è introdotto da un’epigrafe tratta dal celebre “1984” di George Orwell, che suona come una profezia: “Non importa che la guerra stia davvero avvenendo, e, poiché nessuna vittoria decisiva è possibile, non importa che la guerra stia andando male. Tutto quel che serve è che uno stato di guerra esista.”

Cabras, laureato in Scienze Politiche, non si limita alla materia strettamente legata agli eventi di quel giorno: ricostruisce gli antefatti, esplora i retroscena e i trascorsi. Scopriamo ad esempio qualcosa che l’umanità intera, o quasi, ignora o tace: che il nonno dell’attuale presidente Usa, Prescott Sheldon Bush «fu amministratore e socio della Union Banking Corporation, banca fondata per finanziare la riorganizzazione dell’industria tedesca», il cui partner più importante in Germania era l’industriale nazista Fritz Thyssen. La banca «investiva ad esempio nell’Overby Development Company e nella Silesian-American Corporation (diretta dallo stesso Bush), da cui l’industria bellica di Hitler si approvvigionava di carbone anche dopo l’entrata in guerra degli Usa.» Investiva inoltre nella compagnia di navigazione Hamburg-American Line, le cui navi, negli ani Trenta, fornivano le milizie naziste di armi provenienti dagli Stati Uniti. L’attivismo del senatore Prescott S. Bush fu premiato: venne insignito dal regime nazista dell’“Aquila tedesca”, il certificato di attribuzione di questa onorificenza in data 7 marzo 1938 fu firmato da Adolf Hitler e dal segretario di Stato Otto Meissner, come risulta dagli archivi del Dipartimento della Giustizia statunitense.

L’autore racconta la genesi e la formazione del movimento neocon, l’humus nel quale sarebbero state incubate “le strategie per una guerra mondiale” del titolo, che hanno avuto suggello e non origine in quella fatidica data, e ancora illustra il terreno nel quale è maturato il PNAC, acronimo del Progetto per un Nuovo Secolo Americano, think tank con base a Washington fondato fra gli altri da Dick Cheney e Donald Rumsfeld, che da anni progettava la guerra permanente in Medio Oriente prima all’Iraq, poi all’Iran e così via […].

Quanto agli eventi dell’11 settembre, l’autore entra nel merito delle omissioni, delle menzogne e delle contraddizioni della Commissione d’inchiesta. Cosa per la quale Cabras è in ottima e nutrita compagnia: secondo un recente sondaggio effettuato dall’istituto Zogby (fra i più autorevoli di statistica negli Usa) il 51% dei cittadini americani vorrebbe indagare su Bush e Cheney, il 67% ritiene la Commissione d’inchiesta sull’11/9 colpevole di non avere indagato sull’anomalo crollo del WTC7 inspiegabilmente ignorato dai lavori della commissione e rimosso dalla memoria collettiva […].

Proprio le tre persone che avevano rivestito le più alte cariche in quella commissione (Lee Hamilton, Thomas Kean e l’ex direttore esecutivo Philip Zelikow), sono infatti giunte a denunciare apertamente di essere state “consapevolmente impedite” nella ricerca della verità. «Memorandum uscito dalla penna di Zelikow nel dicembre 2007 e di cui non si ricorda traccia nelle aperture dei tg o dei quotidiani come probabilmente avrebbe meritato» osserva Cabras.

Per venire ai nostri giorni, dopo avere ricostruito gli stretti rapporti, consolidati dal tempo, fra i Bush e i bin Laden, Cabras analizza tutti i segmenti funzionali al controllo degli eventi scatenati dall’11 settembre e privilegia alcuni filoni forse meno esplorati: il consolidarsi del corpus giuridico da “Stato d’eccezione” all’interno dell’ordinamento statunitense, le tecniche di manipolazione di alcune agenzie di disinformazione, prima fra tutte il MEMRI, il ruolo delle esercitazioni militari come leve esecutive per i grandi attentati del 2001 in USA e del 2005 in Gran Bretagna. Infine si sofferma sul fatto, dimostrato con parecchi riferimenti, che a Mosca avessero compreso subito come l’11 settembre fosse frutto di una lotta interna all’establishment USA, una lotta non ancora conclusa e che arriva all’assassinio di Benazir Bhutto e all’alt delle agenzie di spionaggio che scongiura, per ora, un attacco all’Iran.

Un manuale ricco di citazioni, fonti e riferimenti, che va ad aggiungersi alla già nutrita schiera di volumi e ricerche affini. Un ulteriore strumento che può aiutare qualcuno a non trovarsi inerme di fronte al cupo panorama mondiale ben riassunto dall’altra delle due epigrafi del libro, ancora tratta da “1984” di George Orwell: “L’atmosfera sociale è quella di una città assediata... E allo stesso tempo la consapevolezza di essere in guerra, e perciò in pericolo, fa sì che il trasferimento di tutto il potere a una piccola casta sembri la naturale, inevitabile condizione di sopravvivenza.” […]

Paolo Maccioni


Le altre recensioni:
Undici Settembre: la verità (forse) ha le gambe lunghe,
La recensione su Luogocomune.net

26 marzo 2008

Canale Zero - un primo report

Riporto il primo resoconto apparso su MegaChip sulle adesioni al progetto volto a costruire un nuovo format TV in Italia.


Fonte: www.tvhistory.tv

A distanza di 3 settimane dal lancio dell'appello per un'informazione libera, abbiamo i primi risultati della campagna di raccolta delle adesioni. Pubblichiamo i seguenti documenti:

Potete continuare ad aderire scrivendo a: organizzazionemegachip AT gmail PUNTO com

25 marzo 2008

Conversioni e scontro di civiltà

di Pino Cabras



Magdi Allam è un intellettuale organico agli apparati che fomentano uno scontro di civiltà (l'elemento che fa da base culturale per le presenti e le prossime guerre).
Le teorie su questo scontro si irradiano a partire dai think tank neoconservatori.
Il loro rovello è che le nazioni occidentali potrebbero perdere il loro predominio sul mondo, se non saranno in grado di delimitare una natura inconciliabile per le tensioni culturali, soprattutto quella fra Cristianesimo e Islam.

Ecco perché per la battaglia di Allam era necessario che egli si facesse cristiano, anzi: Cristiano.

Cambiare nome e cambiare identità, convertirsi, corazzarsi, sotto l’occhio benevolo dei pensatoi militaristi.

In questi anni - in stretto legame con i fermenti bellici collegati all’11 settembre 2001 - è scoppiata tutta una pubblicistica, che ha tracimato fino al mondo laico, mirante a corazzare un’identità occidentale giudaico-cristiana in opposizione all’Islam nel suo insieme, con una forte identificazione dei destini occidentali con la specialità ormai resa ‘sacra’ e non negoziabile dello Stato di Israele. Grande stampa e premi giornalistici e letterari, con un battage martellante e dovizioso, in Italia e Israele, hanno fomentato ad esempio Oriana Fallaci, Magdi Allam, Fiamma Nirenstein, autori di libri veementemente anti-islamici, scatenati a screditare qualsiasi voce che si discosti da un’agiografia del militarismo israeliano e della funzione ‘democratizzante’ delle guerre angloamericane.
Assieme ai ‘laici devoti’ piazzatisi anche da noi sotto l’ombrello dei neocon e dei teocon americani, hanno spostato tutti gli equilibri esistenti da decenni sulla questione israelo-palestinese nella politica di entrambi gli schieramenti, sui mass media e all’interno della comunità ebraica e del mondo cattolico.

Allam entra dalla fonte battesimale più in vista.
Il giornalista non dà più notizie, si fa notizia.
Non ha tempo per leggere pensatori cattolici che, in merito questione delle sfide identitarie del terzo millennio, sono andati in una direzione molto diversa dalla sua.

Ecco cosa diceva ad esempio Ernesto Balducci (1922-1992):

«Non ci si converte più. Penso che dobbiamo muoverci tutti verso una comprensione più alta della realtà, verso un trascendimento delle identità esistenti. Non ci dobbiamo confrontare l'uno con l'altro per passare l'uno all'identità dell'altro, dato che tutte le identità sono messe sotto questione. Finito il tempo delle conversioni orizzontali, ci sono le conversioni per convergenze
(da Il cerchio che si chiude, 1986).

Il XX secolo, tra le altre tante cose, è stato un secolo di antropologi curiosi e intelligenti. Essi hanno contribuito a relativizzare la nostra comprensione del mondo.

L’antropologia si era fondata in origine sull’ontologia della “differenza” (noi e gli altri, popoli di cultura e popoli di natura, civilizzati e primitivi). Le ricerche etnografiche avevano scoperto la possibilità di «diversi modi di essere uomini nel tempo e nello spazio». Rinnegando i propri presupposti originari, l’antropologia riscopriva l’anelito delle peculiari espressioni umane verso una regola universale che accomuna gli uomini, fra loro e alla natura. Questo è il senso degli itinerari culturali dello strutturalismo di Lévi-Strauss, dell’ecologia della mente di Bateson, della grammatica generativa di Chomsky.

Ernesto Balducci fondava il suo discorso su questo anelito verso l’universale. Molte delle sue simbolizzazioni vertevano sulla dialettica fra dimensioni particolari e universali dell’uomo.
«Ciascuno di noi porta in sé [...] il segno di una identità culturale. Anche noi siamo di una tribù che è la nostra, con i linguaggi, i riti, i simboli in cui ci riconosciamo. Per l’altro verso io sono certo che in ogni uomo, in ogni gruppo umano, in ogni nazione, in ogni etnia c’è una tensione verso la realizzazione di possibilità umane che sono rimaste latenti. Ogni realizzazione porta con sé uno sperpero. Se noi siamo quello che siamo non potremo più essere quello che avremmo potuto essere. L’uomo possibile che è dentro di noi porta in sé un ventaglio di possibilità che certamente sono finite come possibilità reali ma rimangono in noi come sogni, come aspettative. All’interno delle diversità umane c’è una unificazione che non è data, attuata, ma potenziale ed è per questo che ci intendiamo fra culture diverse. Se io riesco, come mi consiglia in una bella pagina Ernesto De Martino, a decifrare le culture aliene, altre dalla mia, e scoprire quello che c’è di autenticamente umano in quella alterità, in quel momento si dilata la mia stessa umanità, perché una parte delle mie possibilità è sigillata nella alterità che ho davanti. Se io riuscissi a capire bene un negro che viene dal Ghana diventerei più ricco perché quello che è in lui di autenticamente umano, e non mi appartiene in quanto uomo di cultura, mi appartiene in quanto uomo, rientra nel ventaglio delle possibilità che io ho dovuto in qualche modo mutilare nel mio farmi storicamente determinato. C’è nell’individuo e nei gruppi una dialettica che è importante. Al di là di ogni analisi metafisica della persona umana, rimanendo nell’empirico, io dico che nessun uomo si identifica con la sua cultura, c’è altro in lui, e tuttavia la sua cultura ha realizzato in forma particolare qualcosa che rispondeva alle sue attese. Oggi ci troviamo in una situazione nuova per opera della tribù occidentale [...]. Le ombre degli illuministi sussultano, ma anche noi siamo una tribù come i cannibali, siamo una tribù fra le altre […]. Il problema nostro è quello di domandarci che cosa di questa tribù resta di valido per tutti gli uomini, perché anche il mussulmano che ancora crede nella guerra santa deve domandarsi se quello che noi occidentali abbiamo conquistato con tante guerre sante alle spalle - il concetto dei diritti umani, la necessità di risolvere secondo ragione i conflitti fra gli uomini, la Carta delle Nazioni Unite che è in gran parte un prodotto della nostra tribù anche se firmata da tutte le tribù della terra - non sia qualcosa che è condizione sine qua non per essere autenticamente uomini del 2000. Il mio rispetto per il mussulmano non mi porta ad accettare la bellezza della guerra santa. In ogni cultura c’è il disumano, c’è il tribale aggressivo, c’è il rifiuto dell’altro. La guerra santa è una paurosa sacralizzazione del rifiuto dell’altro. Abbiamo realizzato una condizione planetaria nuova e gli etnologi lo sanno. Se guardo al futuro io dico che l’uomo del futuro non sarà né occidentale, né africano, né... L’uomo del futuro dovrebbe aver realizzato in sé tutte le ricchezze custodite dalle diverse culture, non perché in un uomo esse possano tutte realizzarsi ma perché, attraverso l’ammirazione, in qualche modo io realizzo ciò che ammiro. Quando avrò compreso meglio - come già comincio a fare - il tesoro delle culture africane, in quel momento io sarò un uomo planetario, al modo stesso, come mi è capitato di sottolineare scrivendone la vita, con cui Gandhi ha saputo essere perfettamente indiano e occidentale. I suoi maestri erano i libri Vedici ma erano anche Tolstoj, Rousseau, il Vangelo, il Corano. Egli aveva dilatato la sua coscienza rimanendo fedele alla sua identità. Credo che il nostro futuro andrà in quel senso. È questo l’ideale che ho cercato di esprimere nel mio libro L’uomo planetario
(da Le tribù della terra: orizzonte 2000, 1991).

La lunga 'preistoria' delle chiusure fra le isole culturali, in cui la paura del diverso era un riflesso che cementava le tribù, è finita. Anche l'aggressività verso gli altri gruppi aveva avuto senso finché non c'erano le strutture di unificazione del pianeta.
«Ogni tribù tende a demonizzare il diverso, appunto perché il diverso evoca le personalità latenti nella stiva della coscienza, soggiogate a fatica dalla personalità culturalmente determinata: se esse emergessero, ci sarebbe la dissoluzione dell'identità.»
(da Montezuma scopre l'Europa, 1992).

Ma le minacce alla sopravvivenza dell'umanità unificano il destino di tutti. L'umanità passa dalla fase della ominazione alla fase della planetarizzazione.

«L'ipotesi da assumere come principio di discernimento nei rapporti tra le culture è quella di un umanesimo planetario in cui una medesima civiltà si integri in culture diverse. Intendo, a questo punto, per civiltà l'insieme degli strumenti materiali e mentali che, com'è avvenuto nel passato, diventano comuni in virtù della trasmissione e degli scambi; intendo per cultura la modalità antropologica nata da una particolare maniera di percepire e di interpretare le sfide della realtà fisica e storica. La civiltà è l'insieme degli oggetti materiali, istituzionali e mentali prodotti da una cultura che rientrano in certa misura nell'ambito degli strumenti esportabili; la cultura è l'insieme sistemico delle concezioni in cui il gruppo esprime e tutela la propria interiorità. La civiltà si trasmette, la cultura si comunica. »
(da Montezuma scopre l'Europa, 1992).

Il fallimento dell'Occidente moderno è nella pretesa di «trasformare in dominio la propria egemonia di civiltà». Un dominio che ha preteso di identificare l'etica con l'affermazione della propria cultura, mentre ignora o sopprime le culture differenti.
Per Balducci il metro è quello dell'etica planetaria, «per la quale, in ultima istanza, è bene tutto ciò che favorisce la vita, è male tutto ciò che accelera il declino entropico [...]. Se Marx vedeva il male del modo capitalistico di produzione negli effetti alienanti che esso causava nei suoi protagonisti, sia borghesi che proletari, noi siamo in grado non tanto di correggere quanto di portare più a fondo la sua analisi perché abbiamo sotto gli occhi, per dir così, i documenti dell'alienazione della stessa biosfera, dell'accelerazione entropica che quel sistema produce.»

La speranza di pace non è riposta insomma in una qualche improbabile riedizione della Respublica Christiana da scagliare contro gli altri.

22 marzo 2008

Il Gruppo Carlyle assume Sarkozy

di Pino Cabras

Il Carlyle Group è uno dei principali azionisti di molti fornitori delle forze armate, americane e non solo. Altro campo di grande interesse: i media. Nella Carlyle gli interessi delle forze armate più potenti del mondo e delle industrie a produzione militare si intessono con le convenienze della politica e dell’alta finanza.
La famiglia bin Lāden investì nel Carlyle Group circa 1,3 miliardi di dollari e anche la famiglia Bush ha avuto partecipazioni di primo piano. Per anni guidato dall'ex segretario USA alla Difesa Frank Carlucci, il fondo ha ricompreso nel tempo – oltre a George Bush padre e ai bin Lāden - figure del calibro di George Soros, Mikhail Khodorkovsky e John Major.
È molto trasversale e bipartisan anche il parterre dei referenti italiani: Marco de Benedetti, Letizia Moratti, Chicco Testa, Giulio Tremonti.
La tendenza a costruire questi intrecci, poco segnalati dai principali media, continua ancora, e appare in grado di condizionare la vita politica di Stati molto importanti. Per esempio anche la Francia di Sarkozy, ultimamente riportata in un ambito più 'atlantico'. Ecco perché potrebbe essere interessante leggere la traduzione di un articolo apparso su «Réseau Voltaire» il 21 marzo 2008, intitolato Le Carlyle Group engage M. Sarkozy. La stampa importante ormai insegue solo il gossip di Carla Bruni, mica queste vicende:



fonte: Réseau Voltaire


Il Carlyle Group, che amministra le fortune delle famiglie Bush e bin Lāden, ha deciso di creare un servizio finanziario particolare destinato a piazzare le eccedenze di petro-dollari dei fondi sovrani, principalmente quelli del Kuwait e di Singapore. Per dirigere questo servizio, il direttore onorario di Carlyle, Frank Carlucci, ha consigliato di reclutare il quinto più importante negoziatore d'affari di Wall Street : Oliver Sarkozy.
Sarkozy, fratellastro del presidente della Repubblica francese, avrebbe realizzato nel 2007, secondo la classifica Dealogic, un volume di operazioni pari a 514 miliardi di dollari. Si è messo in luce in numerose acquisizioni, soprattutto quella dell'emittente di carte di credito MBNA per Bank of America nel 2006 (35 miliardi di dollari), o quella di Sallie Mae per un consorzio di banche e di società di capitali-investimento (25 miliardi). Ha altresì consigliato ABN Amro e Barclays nella loro fusione. Ora passa a una categoria a velocità superiore.
Oliver Sarkozy aveva organizzato l'incontro tra il presidente Bush e il suo fratellastro quando quest'ultimo non era ancora che ministro dell'Interno.
Christine de Nagay, madre di Oliver Sarkozy, si è risposata in seconde nozze. Nei primi anni Cinquanta, suo patrigno aveva assunto Frank Carlucci al dipartimento delle operazioni della CIA.

21 marzo 2008

Il collasso della potenza americana

di Paul Craig Roberts.

Titolo originale:
A Bankrupt Superpower
The Collapse of American Power
pubblicato su «counterpunch»
il 18 marzo 2008.
Traduzione di Pino Cabras


Il dollaro oggi [fonte: http://www.worldproutassembly.org]

Nel suo famoso libro intitolato The Collapse of British Power [Il collasso della potenza britannica] (1972), Correlli Barnett racconta che nei primi giorni della Seconda Guerra Mondiale alla Gran Bretagna l'oro e la valuta straniera necessari a finanziare le spese di guerra bastavano per appena pochi mesi.
I britannici si rivolsero agli americani per finanziare la loro capacità di portare avanti la guerra. Barnett scrive che questa dipendenza segnò la fine della potenza britannica.

Fin dal loro inizio, le guerre americane del XXI secolo contro l’Afghanistan e l’Iraq sono state delle guerre “in rosso” finanziate da stranieri, soprattutto cinesi e giapponesi, che acquistano i buoni del tesoro che il governo USA emette per coprire i suoi bilanci in rosso.

L’amministrazione Bush prevede un deficit di bilancio federale pari a 410 miliardi di dollari per quest’anno, il che indica che, siccome il saggio di risparmio USA è circa zero, gli USA dipendono dagli stranieri non solo per finanziare le loro guerre ma anche per finanziare parte della spesa pubblica interna. I prestatori stranieri stanno pagando gli stipendi statali USA – forse quello dello stesso presidente – o stanno finanziando le spese dei vari ministeri. Dal punto di vista finanziario, gli Stati Uniti non sono una nazione indipendente.

La previsione del deficit da 410 milioni di dollari dell’amministrazione Bush si basa sul presupposto irrealistico di una crescita del PIL del 2,7% nel 2008, mentre di fatto l’economia USA è caduta in una recessione che potrebbe essere grave. Non ci sarà alcuna crescita del 2,7%, per cui il vero deficit si dilaterà ben oltre i 410 miliardi di dollari.
Così come il bilancio pubblico è in confusione, altrettanto lo è il dollaro USA che continua a vedere declinare il suo valore rispetto alle altre valute. Il dollaro è sotto pressione non solo per via dei deficit di bilancio, ma anche a causa degli immani deficit commerciali e delle aspettative d’inflazione che derivano dallo sforzo della Federal Reserve volto a stabilizzare il perturbatissimo sistema finanziario con grandi iniezioni di liquidità.

Un sistema monetario e finanziario sconvolto e grandi deficit di bilancio e commerciali non mostrano un bel viso ai creditori, eppure Washington nella sua sfacciataggine sembra credere che gli USA possano contare per sempre sui cinesi, i giapponesi e i sauditi per finanziare il tenore di vita dell’America oltre i suoi mezzi. Immaginate lo sgomento quando arriva il giorno in cui un’asta del Tesoro USA sui nuovi strumenti di debito non risulta interamente sottoscritta.
Gli USA hanno gettato al vento 500 miliardi di dollari in una guerra che non serve ad alcuno scopo americano, Inoltre quei 500 miliardi sono soltanto le spese vive. Non includono i costi di sostituzione degli equipaggiamenti distrutti, né i futuri costi previdenziali per i veterani, né il costo degli interessi da pagare sui prestiti che hanno finanziato la guerra, né il PIL statunitense perso per aver deviato delle risorse scarse sulla guerra. Gli esperti che non fanno parte degli ingranaggi di governo calcolano che il costo della guerra irachena raggiunga i 3mila miliardi di dollari.

Il candidato alla presidenza repubblicano ha detto che sarebbe lieto di continuare la guerra per 100 anni. Con quali risorse? Quando i creditori dell’America considerano il nostro comportamento vedono una totale irresponsabilità fiscale. Vedono una nazione ingannata che crede che gli stranieri continueranno ad accumulare il debito USA fino alla fine dei tempi.
La questione vera è che gli USA sono in bancarotta. David M. Walzer, il Comptroller General degli USA nonché capo del GAO (Government Accountability Office, una funzione paragonabile alla nostra Corte dei Conti, NdT), nel suo rapporto del 17 dicembre 2007 al Congresso sul rendiconto finanziario del governo USA ha annotato che “il governo federale non ha mantenuto un controllo interno efficace sulla rendicontazione finanziaria (comprese le attività di salvaguardia) né ha ottemperato a importanti leggi e regolamenti alla data del 30 settembre”. Detto nel linguaggio di tutti i giorni: il governo USA non passerebbe una revisione di bilancio.
Come se non bastasse, il rapporto GAO ha indicato che le passività accumulate del governo federale “assommavano a circa 53mila miliardi di dollari al 30 settembre 2007”. Nessun fondo è stato messo da parte per coprire questo sconvolgente passivo.

Tanto perché il lettore capisca, 53mila miliardi di dollari sono 53 milioni di milioni di dollari.
Stanco di parlare a delle orecchie sorde, Walzer si è recentemente dimesso dalla carica di capo del Government Accountability Office.

Al 17 marzo 2008, un franco svizzero valeva più di un dollaro. Nel 1970 il tasso di cambio era di 4,2 franchi svizzeri per un dollaro. Nel 1970 un dollaro comprava 360 yen giapponesi. Oggi un dollaro compra meno di 100 yen.

Se tu fossi un creditore, vorresti tenerti un debito in una valuta che registra prestazioni così scarse rispetto a quelle di una moneta di una piccola nazione isolana che venne colpita atomicamente e sconfitta nella Seconda Guerra Mondiale, o rispetto a una piccola nazione europea senza sbocchi al mare abbarbicata alla sua indipendenza e che non fa parte dell’Unione europea?

Ti terresti il debito di un paese le cui importazioni eccedono la sua produzione industriale? Secondo le ultime statistiche USA riportate il 28 febbraio 2008 su «Manufacturing and Technology News», nel 2007 le importazioni erano il 14% del PIL statunitense mentre la produzione manifatturiera USA comprendeva il 12% del PIL. Un paese le cui importazioni eccedano la sua produzione industriale non può chiudere il suo deficit commerciale esportando di più.

Il dollaro ha anche visto crollare il suo valore rispetto all’Euro, la moneta di una nazione immaginaria che non esiste: l’Unione europea. La Francia, la Germania, l’Italia, l’Inghilterra e altri membri della Ue esistono ancora come nazioni sovrane. L’Inghilterra conserva addirittura la propria moneta. Eppure l’Euro batte nuovi primati ogni giorno contro il dollaro.
Noam Chomsky recentemente ha scritto che l’America pensa di “possedere” IL mondo. Questa è decisamente la visione dell’amministrazione Bush egemonizzata dai neocon. Ma la realtà effettuale è che gli USA “devono” AL mondo. La “superpotenza” USA non può nemmeno finanziare le proprie operazioni interne, tanto meno le sue guerre gratuite, se non attraverso l’accondiscendenza di stranieri a voler prestare denaro che non potrà essere ripagato.
Gli Stati Uniti non ripagheranno mai i prestiti. L’economia americana è stata devastata dalle delocalizzazioni, dalla concorrenza straniera e dall’immigrazione di stranieri con il permesso di lavoro, mentre si aggrappa a un’ideologia di libero scambio che avvantaggia i pesci grossi delle multinazionali e gli azionisti a spese della forza lavoro americana. Il dollaro sta fallendo nella sua funzione di moneta di riserva e sarà presto abbandonato.

Quando il dollaro smetterà di essere la valuta di riserva, gli USA non saranno più capaci di pagare i propri conti facendosi prestare più denaro dagli stranieri.
A volte mi chiedo se la “superpotenza” fallita riuscirà a raggranellare le risorse per riportare a casa i soldati posizionati nelle sue centinaia di basi oltremare, o se costoro saranno semplicemente abbandonati.

Paul Craig Roberts è stato sottosegretario al Tesoro nell'amministrazione Reagan. E' stato commentatore sulle pagine del «Wall Street Journal» e collaboratore della «National Review».
È coautore di
The Tyranny of Good Intentions
Gli si può scrivere su PaulCraigRoberts, at, yahoo, punto, com.
Si veda sul tema anche un interessante video olandese:

Un sacco di latinorum governativo

di Pino Cabras



Richard Daughty, alias Mogambo Guru

Sono tempi di grande crisi economica e finanziaria, un materiale in grado d’impastarsi con le guerre. Ci vogliono più che mai memorie in grado di confrontarsi con altre crisi per cercare di capire dove si va a parare. Queste memorie le troviamo ben poco sulle pagine economiche dei nostri giornali seri. Sono molto più utili le osservazioni scherzose di Richard Daughty, general partner della Smith Consultant Group, il quale firma una divertente newsletter con il nome di «Mogambo Guru», alla quale anche negli ambienti della finanza che conta si presta una certa attenzione.
Lì sanno che Mogambo Guru è un economista di razza: ha ben presenti gli sviluppi e i salti della storia economica. Ci fa scoprire alcuni retroscena delle ultime vicende monetarie. Presto ne vedremo le conseguenze. Ecco cosa ravvisa Mogambo Guru nel suo articolo intitolato A Bunch of Government Gobbledy-Gook, che vi traduco:


Il Credito totale della Federal Reserve era giù di 4,1 miliardi di dollari, la settimana scorsa. Questa è la materia magica da cui si crea il credito bancario, che diventa denaro quando qualcuno lo prende in prestito, e - capiti quel che capiti - io sto per risultarne spaventato e/o offeso. Così sono rimasto sorpreso che non sia stato creato molto nuovo denaro, specialmente da quando tutto quello che sento è che c’è una qualche grande “crisi di liquidità” visto che nessuno ha il becco di un quattrino, e poi sento di quanto ciascuno abbia bisogno di così tanto denaro che la Fed adesso sta lanciando il salvagente alle banche d’investimento perché non hanno più il becco d’un quattrino, e di come uno degli stupidi figlioletti debba andare dal dentista mentre non vedo il becco d’un quattrino tranne i soldi di cui avrò bisogno per giocare a golf questa settimana, e io ne necessito.
La ragione per cui sono sorpreso è che stanno creando un sacco di soldi, visto che l’ultima stima che ha fatto John Williams sull’offerta di moneta M3 sul sito shadowstats.com è che la biasimevole Federal Reserve stia creando ed espandendo l’offerta di denaro a un tasso del 16,9% all’anno e oltre, il che era “il più alto tasso di crescita mensile mai visto delle serie M3 (il calcolo della Federal Reserve dell’aggregato monetario ampio va indietro con le date sino a gennaio 1959)”.
Quel che rende tutto ciò così sorprendente è che “il record precedente della crescita mensile su base annuale dell’aggregato M3 era del 16,4% nel giugno 1971, e l’inflazione derivante da un’eccessiva creazione di moneta a quel tempo era uno dei fattori cruciali che facevano pressione sui verdoni, spingendo il presidente Richard Nixon fino alla chiusura della finestra d’oro e all’imposizione di controlli su salari e prezzi nell’agosto di quell’anno”.
Non ci sorprende quindi che dica che “l’attuale incremento nella crescita dell’offerta dell’aggregato ampio della moneta abbia parimenti minacciose implicazioni per l’inflazione monetaria e le pressioni sul dollaro nel corso dei prossimi 9-12 mesi, ben dentro il 2009”.
E questa inflazione attesa è già qui, dal momento che l’inflazione annualizzata "SGS Alternate Consumer Inflation" (inflazione alternativa del consumatore, NdT) a febbraio era dell’11,6%, e l’inflazione annualizzata per i precedenti tre mesi era l’altrettanto orrendo 11,7% (novembre), 11,7% (dicembre) e 11,8% (gennaio).
Naturalmente, avendo tutti questi dati, la metodologia classica e molti sapientoni, ossia l’opposto di The Mogambo, che non ha nulla di quanto sopra, non è che un gioco da ragazzi per lui darci il Prodotto Interno Lordo (la somma di tutti i beni e servizi prodotti in un anno) tanto che trova che “una volta rimossi molti degli espedienti metodologici degli ultimi decenni” la più recente valutazione è “un declino pressappoco del 2,3% anziché un ‘aumento ufficiale, ogni anno più lento, del 2,5%.” Urca! Uno schifosissimo aumento è in realtà una terribile contrazione economica!
E per quelli che mi scrivono con richieste (“Crepa!”) di non approfittarne, sono lieto di riferire che Mr Williams risponde gentilmente alle richieste che vengono dai sottoscrittori, e sta ora introducendo il Tasso di Disoccupazione Alternativo SGS, che suona come un sacco di latinorum governativo, quel che è per davvero, e prende la misura della disoccupazione usata dal Dipartimento del Lavoro nota come U6, la quale dice che era all’8,9% a febbraio, e la “aggiusta” incorporandovi “un calcolo dei milioni di lavoratori scoraggiati che furono definiti separatamente durante l’amministrazione Clinton: quelli che sono rimasti ‘scoraggiati’ per più di un anno”
A questo punto cominciavo a essere un po’ stufo dei numeri che da un orecchio mi entravano e dall’altro mi uscivano, e come al solito il mio cervello si avviluppa al diluvio di ricordi vaghi di fatti e figure, tanto che sto cominciando ad imbestialirmi poiché il mio Prezioso Tempo Mogambo (PTM) è stato sprecato a farmi raccontare tutte queste faccende metodologiche quando potevo starmene fuori, proprio ora, a mangiare un paio di tacos e magari sfogliare i temi del mese di un giornale di donne nude e birichine pronunciando commenti indecenti ancorché elogiativi.
Ma tutto questo è stato dimenticato all’istante quando egli ha detto che il risultato di questo lavoro è che la stima del tasso alternativo di disoccupazione SGS è un tremendo 12,8% per febbraio! Di colpo, non ho più fame. Disoccupazione al 12,8%! A spanne è la metà del tasso che si misurava al culmine della Grande Depressione!
Fortunatamente, ho ancora qualcosa da leggere che mi porterà la mente da un altra parte. Ahhh! E anche un taco avrebbe davvero un gran sapore, adesso!

(Copyright 2008: The Daily Reckoning)

19 marzo 2008

Come lo "Stato profondo" sopravvive alle alternanze dei partiti

di Thierry Meyssan
Réseau Voltaire
Titolo originale: "La continuité du pouvoir US, derrière la Maison-Blanche"
Fonte: http://www.voltairenet.org/
24 febbraio 2008
Scelto e tradotto per http://www.blogger.com/www.comedonchisciotte.org da Matteo Bovis
Postato il 18 Marzo 2008 (19:00)


Sessanta anni di propaganda atlantista ci hanno convinto che gli Stati Uniti sono una grande democrazia. Eppure, nessun osservatore pensa che Ronald Reagan o George W. Bush abbiano esercitato appieno il potere legato alla loro funzione, e allora chi comanda? O ancora, gli osservatori concordano che una volta ricontate le schede elettorali Al Gore aveva vinto le elezioni del 2000, ma allora perché Bush occupa la Casa Bianca? Tante domande alle quali nessun giornalista desidera rispondere. Thierry Meyssan rompe il tabù.

Nel corso degli ultimi sessanta anni, gli Stati Uniti si sono dotati di quello che è stato chiamato "l’apparato di sicurezza di Stato". E’ stato costituito come uno Stato dentro lo Stato, incaricato di condurre nell’ombra la Guerra Fredda contro l’URSS, poi di occupare lo spazio lasciato vacante dall’Unione Sovietica dopo il suo smantellamento e di condurre la Guerra al terrorismo. Dispone di un governo militare fantasma deputato a rimpiazzare il governo civile se dovesse accadere che questo ultimo venisse decapitato da un attacco nucleare.

Il presidente Eisenhower ha dichiarato nel suo celebre discorso di addio (17 gennaio 1961): "Nel consiglio di governo dobbiamo stare attenti all’acquisizione di una influenza illegittima, voluta o meno, da parte del complesso militar-industriale. Il rischio di uno sviluppo disastroso di un potere usurpato esiste e continuerà. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa unione minacci le nostre libertà o il processo della democrazia."

Ma questo avvertimento sarebbe stato insufficiente. La logica dell’"apparato di sicurezza dello Stato" ha progressivamente sommerso quella delle istituzioni civili che avrebbe dovuto proteggere. Il complesso militar-industriale ha usato il suo potere per modellare a suo vantaggio le istituzioni civili invece di servirle. In definitiva, la lobby della guerra ha falsato il processo elettorale ed è arrivato, ad ogni elezione presidenziale, a scegliere l’uomo che avrebbe occupato la Casa Bianca.

Senza eccezioni, da sessanta anni, il presidente è il candidato che più si è impegnato a realizzare le esigenze dell’"apparato di sicurezza dello Stato", e che ha ottenuto il massiccio finanziamento delle imprese appaltatrici del Pentagono. Beninteso, una volta installato nello Studio Ovale, l’eletto cerca sempre di affrancarsi dai suoi padrini e di avvicinarsi ai reali interessi del suo popolo. Tocca a lui scoprire di quali margini di manovra dispone, a rischio di perdere la sua investitura e di essere eliminato, politicamente, se non addirittura fisicamente. Del resto, il rischio di un presidente che si affranchi dallo "Stato profondo" e si mantenga tuttavia al potere, è limitato dal divieto, stabilito nella stessa epoca, di ambire a candidarsi per più di due mandati consecutivi.

In queste condizioni – come possiamo vedere – l’alternanza tra democratici e repubblicani non è per i cittadini statunitensi un mezzo per cambiare politica, ma un mezzo per "l’apparato di sicurezza dello Stato" di perseguire la stessa politica al di là dell’impopolarità di un presidente logorato. E’ l’applicazione del principio che Giuseppe Tomasi di Lampedusa attribuisce al Gattopardo: "Bisogna che tutto cambi perché niente cambi e che noi si resti i padroni".

Occasionalmente lo "Stato profondo" riaffiora e lascia intravedere la sua forza. Capita a volte nel periodo di transizione tra due presidenti: una semi-vacanza del potere quando il presidente uscente amministra gli affari correnti e il presidente eletto si prepara a governare.

Nel XVIII secolo, questo periodo di transizione di 11 settimane si giustificava con il tempo necessario a stabilire i risultati [elettorali] e a costituire una squadra adeguata rispetto all’immensità del paese e alla lentezza dei mezzi di comunicazione. La prima volta si svolse nel 1797 quando John Adams succedette a George Washington. Per un secolo e mezzo, questo periodo non è stato regolato da alcuna procedura perché i due presidenti (uscente e entrante) non avevano alcun motivo per collaborare l’un l’altro. E’ del tutto diverso adesso, quando questo periodo è messo a frutto dall’"apparato di sicurezza dello Stato" per presentare al nuovo inquilino della Casa Bianca quello che deve sapere dello "Stato profondo". Per comprendere il sistema, torniamo alla storia di queste transizioni.

La Guerra fredda mette la democrazia tra parentesi

Harry Truman (1945-1953) modificò profondamente la natura dello Stato federale creando al suo interno "l’apparato di sicurezza dello Stato" composto dal trittico: Consiglio dei Capi di Stato Maggiore (JCS), Central Intelligence Service (CIA) e Consiglio Nazionale per la Sicurezza (NSC). Questi opachi organismi dispongono di poteri esorbitanti, come ne esistono in tempo di guerra. Perché la loro missione era precisamente di prolungare la mobilitazione della Seconda Guerra mondiale, senza però mantenere la società civile sotto pressione, per condurre una nuova forma di guerra contro l’Unione Sovietica, la Guerra fredda.

Per "contenere" l’influenza sovietica, Truman organizza il ponte aereo verso Berlino, costituisce l’Alleanza Atlantica (NATO) e dichiara guerra alla Corea. Inoltre, estende lo "Stato profondo" USA all’interno degli Stati alleati, attraverso la creazione di reti stay-behind e la loro integrazione in seno alla CIA [1].

"L’apparato di sicurezza dello Stato" considerò che il migliore successore di Truman sarebbe stato il generale Dwight Eisenhower. Era stato il comandante supremo delle forze alleate in Europa durante la Seconda Guerra mondiale, poi della NATO. Era l’uomo adatto per proseguire la guerra di Corea fino alla vittoria. L’opinione pubblica lo adorava e lo considerava un eroe, anche se non aveva mai combattuto personalmente, né si era mai nemmeno avvicinato al fronte.

Eisenhower non era un uomo politico e, non avendo una precisa appartenenza politica, ogni partito cercava di attirarlo verso di sé. Truman lo sollecitò invano in favore dei democratici, alla fine Eisenhower aspirò all’investitura repubblicana. Concluse un accordo con questo partito secondo il quale gli sarebbero state lasciate le mani libere per condurre una politica estera anti-sovietica e "mettercela tutta" in Corea fino alla vittoria. Come contropartita, Eisenhower s’impegnò a condurre una politica conservatrice negli affari interni e in economia. Scelse come compagno di lista Richard Nixon (la cui figlia avrebbe presto sposato suo nipote); un personaggio che si era messo in luce animando la "caccia alle streghe" contro i comunisti.

Dopo che Eisenhower fu eletto, Truman prese contatto con lui per presentargli il dispositivo della sicurezza nazionale la cui esistenza era pubblica, ma il funzionamento segreto.

Eisenhower elaborò la dottrina di difesa che porta il suo nome secondo cui gli Stati Uniti non esiteranno a ricorrere alla forza, ovunque nel mondo, dove l’influenza comunista dovesse minacciare gli interessi occidentali. Inoltre, egli aggiunse al sistema di sicurezza nazionale il principio di continuità del governo. Designò, con un decreto segreto,un governo alternativo, costituito al contempo da militari e da imprenditori scelti tra i suoi amici, incaricato di prendere le redini in caso di annientamento delle istituzioni a causa di un attacco nucleare sovietico. Così, accanto al processo costituzionale relativo alla vacanza del potere, esiste fin dagli anni ’50 una seconda procedura – questa volta militare-amministrativa - che può essere posta in atto in caso di apocalisse nucleare. Nel primo caso, il presidente è sostituito dal vicepresidente, poi se necessario dal presidente pro-tempore del Senato, poi da quello della Camera dei rappresentanti. Nel secondo caso, gli eletti sono corto-circuitati da un governo fantasma – la cui composizione è segreta – che sorge improvvisamente dall’ombra senza disporre di alcuna legittimità elettorale.

Tuttavia, "l’apparato di sicurezza dello Stato" rimproverò Eisenhower di non fare abbastanza, soprattutto in materia di missili, e rifiutò di sostenere il vice-presidente Nixon come successore. Preoccupato per le conseguenze sulla democrazia dal crescente potere del complesso militar-industriale, Eisenhower mise in guardia i suoi concittadini nel suo discorso di addio citato in precedenza. La lobby della guerra volse allora il suo sguardo verso il partito democratico.

E’ cosi che John F. Kennedy ottenne il sostegno dell’industria degli armamenti. Per compiacerli, egli centrò la sua campagna elettorale su un presunto vantaggio che i Sovietici avrebbero acquisito in materia di missili e sulla necessità di colmare questo divario ("gap missilistico"). Inoltre, designò come compagno di lista il bellicoso leader del gruppo parlamentare democratico, Lyndon B. Johnson. In diretto collegamento con il complesso militar-industriale, Kennedy nel corso della campagna elettorale prese l’iniziativa di creare dei gruppi di lavoro per fare un bilancio della situazione e preparare le sue prime decisioni nel caso in cui fosse stato eletto. Piazzò i suoi due principali rivali alla nomination democratica alla testa dei due più importanti gruppi di lavoro, neutralizzando così anche il loro risentimento e beneficiando della loro esperienza. Creò fino a 29 gruppi tematici. Tutti i membri erano volontari. Una volta eletto, Kennedy designò l’avvocato Clark Clifford per coordinare il passaggio dei poteri con Eisenhower, poi nominò almeno un membro di ogni gruppo di lavoro nel suo gabinetto. Clifford non era stato scelto per le sue qualità di avvocato e di negoziatore, ma in quanto era un falco e un rappresentante dello "Stato profondo". Aveva partecipato a fianco a Truman alla creazione dell’"apparato di sicurezza dello Stato" ed era stato nominato da Eisenhower come ministro ombra del governo militare alternativo.

Più tardi Kennedy fece adottare il Presidential Transition Act per permettere ai successivi presidenti di seguire le sue orme beneficiando di un finanziamento federale per pagare i loro gruppi di lavoro.

Kennedy sfidò l’URSS davanti al muro di Berlino, spiegò i missili in Turchia e riuscì a dissuadere i sovietici a replicare installando i loro a Cuba. Soprattutto, lanciò i grandi programmi spaziali. Ma non tardò a rivedere al ribasso i suoi impegni. Certo, autorizzò l’invasione di Cuba, ma per ravvedersi dopo il fiasco della Baia dei Porci. Certo, mise il dito nell’ingranaggio vietnamita, ma cercò subito come impostare un ritiro. Contando sulla legittimità che gli veniva da un vasto sostegno popolare, entrò in conflitto con il suo stato-maggiore e ordinò delle inchieste sulle attività politiche di alcuni generali. In definitiva, fu assassinato a vantaggio del vice-presidente Lyndon B. Johnson – la cui cerimonia di giuramento era stata preparata proprio poco prima che Kennedy venisse ucciso – che approvò senza indugio l’escalation in Vietnam, prendendo peraltro ancora Clark Clifford come Segretario alla Difesa per realizzare questo sporco lavoro.

L’impopolarità di Johnson rendeva impossibile la sua rielezione, per cui rinunciò a ripresentarsi. Poiché il partito democratico era in mano ai pacifisti ribellatisi agli orrori del Vietnam, i falchi avevano bisogno di un’alternanza partitica per mantenersi al potere e perseguire la loro politica. La scelta cadde logicamente sull’ex vice-presidente Richard Nixon, un opportunista che conosceva già tutti i segreti.

Quando i due principali candidati ebbero ricevuta l’investitura dai rispettivi partiti, Johnson li convocò per convenire con loro i dettagli della transizione. Si trattava di una messa in scena puramente formale, ma permise al democratico Johnson di prendere contatto pubblicamente con il candidato repubblicano ancora prima che venisse eletto.

Approfittando del Presidential Transition Act, il repubblicano Nixon seguì le orme del democratico Kennedy creando 30 gruppi di lavoro per definire la sua futura politica in collegamento con lo "Stato profondo".

Nixon condusse una politica di distensione verso l’URSS e negoziò gli accordi per la limitazione della corsa agli armamenti rispettando gli interessi del complesso militar-industriale, sarebbe a dire eliminando alcune armi a favore di altre più sofisticate. Su iniziativa del suo consigliere Henry Kissinger, strinse una sorprendente alleanza con la Cina comunista per isolare Mosca. Tuttavia, rinunciò a vincere in Vietnam e "l’apparato di sicurezza dello Stato" gliela fece pagare organizzando una procedura di destituzione in occasione dello scandalo del Watergate. Il n. 2 dell’FBI in persona, Mark Felt (alias "Gola profonda") diffuse per mesi informazioni devastanti al Washington Post.

Costretto, Nixon preparò in segreto le sue dimissioni e non avvertì che all’antivigilia il vice-presidente Gerald Ford. I due uomini conclusero un accordo: Ford avrebbe occupato lo Studio Ovale in cambio della grazia e della fine di ogni azione giudiziaria. Ford accettò. Aveva già sentito cambiare il vento e aveva radunato attorno a sé una piccola squadra, ma questa fu istantaneamente dissolta. Un importante membro dell’"apparato di sicurezza dello Stato", l’ambasciatore degli Stati Uniti in seno alla NATO, Donald Rumsfeld (avversario di Kissinger), fu richiamato d’urgenza per assicurare la transizione. Aiutò a costituire una nuova squadra dosando vecchi collaboratori di Nixon e uomini nuovi. La cosa era più complicata di quanto sembrasse perché si trattava di sanzionare la politica perdente del Vietnam incarnata da Kissinger, mantenendo tuttavia l’influenza dell’industria degli armamenti incarnata dallo stesso Kissinger (che era stato il segretario generale dell’American Security Council, all’epoca il principale organizzatore del complesso militar-industriale). Ford designò Nelson Rockfeller come nuovo vice-presidente. Non si trattava solo dell’erede della più importante dinastia industriale del paese, ma anche il vecchio padrone delle operazioni segrete dell’"apparato di sicurezza dello Stato" sotto Eisenhower. Rapidamente Ford si rese conto che gli antichi collaboratori di Nixon portavano con sé l’immagine del Watergate e chiese a Rumsfeld di concludere il suo lavoro. Questi divenne quindi il segretario generale della Casa Bianca. Ringraziò brutalmente gli ultimi nixoniani, eccettuato Kissinger, e fece nominare George H. Bush capo della CIA. Con l’aiuto di questo ultimo, Rumsfeld mise in piedi una commissione di valutazione della minaccia sovietica ("la squadra B") che non mancò di gridare "al lupo" e di rilanciare la corsa agli armamenti.

L’immagine di Ford era disastrosa. L’opinione pubblica vedeva in lui un intrallazzatore che aveva graziato Nixon per succedergli, mentre "l’apparato di sicurezza dello Stato" voleva cancellare l’umiliante immagine della caduta di Saigon alla quale [Ford] era associato (anche se non era che la conseguenza della pace voluta da Nixon). Ford non disponeva di sufficiente legittimità per prendere iniziative più ampie. "Lo Stato profondo" aveva quindi bisogno di un nuovo presidente democratico. Questi fu Jimmy Carter, un protetto di David Rockfeller (il fratello del vice-presidente Nelson Rockfeller), capace nel contempo di girare pagina sui crimini precedenti e di tenere testa all’URSS.

Carter scelse come consigliere alla sicurezza nazionale Zbignew Brzezinski [2], il segretario generale della Commissione Trilaterale, il think tank dei Rockfeller. Aveva teorizzato una versione moderna del "contenimento" dell’Unione Sovietica, ridando anche vigore alla dottrina dell’"apparato di sicurezza dello Stato". Su questa base, diminuì l’influenza sull’America del Sud (rinegoziazione dello statuto del canale di Panama e fine delle dittature militari) e la spostò verso l’Asia centrale (guerra d’Afghanistan contro i sovietici). E’ in questa occasione che ingaggiò Osama Bin Laden e sviluppò il sostegno USA alle organizzazioni estremiste sunnite anticomuniste.

Sfortunatamente la credibilità degli Stati Uniti fu subito incrinata dall’affare degli ostaggi all’ambasciata di Teheran. Soprattutto, dopo le rivelazioni delle commissioni parlamentari d’inchiesta, il battista Carter si mise in testa di moralizzare la CIA sulla scia della pulizia seguita al Watergate. Minacciato da questa pretesa, "l’apparato di sicurezza dello Stato" organizzò una campagna mediatica contro di lui, accusandolo di essere affetto da "sindrome vietnamita". Poi, si mise a cercare un repubblicano con cui sostituirlo. In definitiva, lo "Stato profondo" organizzò il ticket Reagan-Bush (questo ultimo ancora a capo della CIA). Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti, il vice-presidente era l’uomo forte mentre il presidente non era che un attore di Hollywood che recitava un ruolo d’immagine [3].

Reagan e Bush designarono un triumvirato per organizzare la transizione: Ed Meese doveva preparare le nomine e il programma, l’avvocato William Casey si occupava delle relazioni con "l’apparato di sicurezza dello Stato", mentre il brillante James Baker faceva un po’ di tutto. In realtà, Casey era stato il funzionario incaricato di Reagan quando, anni prima a Hollywood, era diventato il padrino del Comitato internazionale dei rifugiati (International Refugee Committee), una vetrina anticomunista della CIA. E, appena possibile, Reagan nominò Casey direttore dell’Agenzia.

Sopraggiunse presto il triste episodio del tentativo di assassinio contro Ronald Reagan ad opera di un amico dei Bush. L’attentato fallì, ma Reagan capì il messaggio e lasciò i problemi della difesa interamente nelle mani del suo vice-presidente.

E’ durante questo periodo che fu sviluppata la procedura di continuità del governo. Il governo militare di sostituzione, creato da Eisenhower, fino a quel momento si limitava a delle indicazioni. Si decise di dargli corpo. Fu costituita una squadra permanente e costruiti o ristrutturati giganteschi bunkers per metterla al riparo insieme ai dirigenti sopravvissuti: Cheyenne Mountain, Raven Rock (detto "sito R") e Mount Weather. Reagan installò un sistema di sorveglianza del governo civile in maniera da poter seguire in tempo reale tutti gli affari in corso e proseguire l’azione di governo senza un minuto di interruzione in caso di apocalisse nucleare. Due volte all’anno, furono organizzate esercitazioni di simulazione della continuità di governo.

In tutta fiducia, "l’apparato di sicurezza dello Stato" sostenne il vice-presidente Bush nella successione a Reagan. Il collegamento tra lo "Stato profondo" e la squadra della campagna [elettorale] fu assicurata da un membro del Consiglio nazionale di sicurezza, il generale Colin Powell.

Nel 1989-91, i "guerrieri freddi" assistettero alla caduta dell’Unione Sovietica, che avevano sempre desiderato ma che li lasciò spiazzati. "L’apparato di sicurezza dello Stato" aveva compiuto la sua missione. Per 45 anni, uomini sinceri avevano creduto di difendere il loro paese manipolando le istituzioni e mettendo tra parentesi la democrazia. Come aveva previsto Dwight Eisenhower, alcuni avevano troppo assaporato il potere per accettare di allontanarsene. Privato della sua ragion d’essere, lo "Stato profondo" restava in piedi. Ma a quale prezzo?



In mancanza di nemici, "l’apparato di sicurezza dello Stato" entra in guerra con se stesso.

George H. Bush Sr. ebbe il pesante compito di definire gli obiettivi degli Stati Uniti nel mondo post sovietico. Non senza esitazioni, egli immaginò la costruzione di un "nuovo ordine mondiale" favorevole ad una dominazione economica globale degli Stati Uniti. Ordinò una riduzione nelle dimensioni dell’esercito e studiò la possibilità di una riconversione dell’"apparato di sicurezza dello Stato" per lottare contro l’emergenza di nuovi competitori. Davanti a questa minaccia esistenziale, lo "Stato profondo" suscitò un’alternanza tra i partiti.

I giornalisti trotskisti che la CIA aveva un tempo reclutato per lottare all’interno della sinistra contro l’influenza sovietica erano passati al partito repubblicano sotto il nome di "neo-conservatori". Erano diventati i propagandisti della lobby della guerra. Come banderuole che girano al vento, si rivoltarono contro Bush Sr. rimproverandogli di non aver approfittato della fine dell’URSS per rovesciare Saddam Hussein alla fine della Tempesta sul Deserto e esortando a votare l’unico candidato capace di compiere la guerra ventura in Jugoslavia, Bill Clinton.

Perfettamente cosciente dell’occasione che gli si offriva, il governatore Clinton fece la sua campagna sulle nuove minacce e sulla necessità di fare i gendarmi in Jugoslavia. Propose anche di modernizzare l’esercito adattandone la gestione alle evoluzioni sociali, il che significava tra l’altro l’apertura alle donne e agli omosessuali. Bush Sr., che era il presidente degli Stati Uniti più popolare del XX secolo (90% di consensi!) sottostimò la capacità dei "guerrieri freddi" di scalzarlo. Per privarlo di una parte dei suoi voti, essi finanziarono la candidatura indipendente di Ross Perot, un miliardario che era servito da copertura per una operazione di salvataggio delle Forze speciali in Iran. Bush Sr. fu battuto.

Bill Clinton si oppose a togliere l’embargo contro l’Iraq dopo che Saddam Hussein si fu conformato alle risoluzioni ONU, affamando così la popolazione e provocando almeno 500.000 morti. Tuttavia, frenò il riarmo (particolarmente bloccando il progetto dello scudo spaziale) e si rifiutò di lanciare l’operazione in Jugoslavia in vista della quale "l’apparato di sicurezza dello Stato" l’aveva sostenuto. Peggio, nel 1995, in occasione di un’esercitazione, scoprì la composizione del governo ombra che "l’apparato di sicurezza dello Stato" aveva costituito per rimpiazzarlo. Era diretto dall’ex ministro della Difesa Donald Rumsfeld e comprendeva alcuni suoi collaboratori come il capo della CIA, James Woolsey. Per essere pronti al cambio di consegne, queste persone spiavano in continuazione il governo civile di cui intercettavano tutte le comunicazioni e tutti i documenti. Considerando che questo dispositivo della Guerra fredda era obsoleto, Clinton – che rifiutò di essere un presidente usa e getta – ordinò lo scioglimento della struttura. Mal gliene incolse.

Il conflitto apertosi a quell’epoca ha cominciato a rodere gli Stati Uniti dall’interno, con alcuni responsabili dello "Stato profondo" trascinati dall’ebbrezza del potere mentre altri cercavano di arrestare questa deriva infernale. Questa lacerazione spinge inesorabilmente gli Stati Uniti verso la disintegrazione o la dittatura.

Passato in totale clandestinità, in parte replicato in Israele, lo "Stato profondo" USA ordì un complotto contro Bill Clinton. Intrappolato nel 1995 in una scandalo sessuale da una stagista israeliana alla Casa Bianca, Monica Lewinsky, fu sottoposto a una procedura di impeachement nel 1998-99. Ma, a differenza di Nixon che non aveva margini di manovra, Clinton fece marcia indietro. Quando la Camera dei rappresentanti si accingeva a votare la sua destituzione, ristabilì il governo ombra e fu salvato dal Senato. Poi, ordinò il bombardamento della Serbia per opera della NATO.

Comunque sia, dopo questo braccio di ferro, per "l’apparato di sicurezza dello Stato" non era il caso di accettare che il vice-presidente Albert Gore succedesse a Clinton. Ma il sistema così ben rodato della continuità politica si inceppò. Il candidato dell’"apparato di sicurezza dello Stato", il repubblicano John McCain, perse una primaria decisiva, passando la mano a una personalità poco credibile, George W. Bush Jr. Nella più grande precipitazione, fu fatto di tutto per inquadrare questo candidato inaspettato. Formò un ticket con Dick Cheney, il gran sacerdote del partito repubblicano e uno degli uomini dello "Stato profondo". Gli fu dispensata una formazione accelerata da parte di un gruppo di specialisti, i Vulcaniani (dal nome del dio che forgia le armi dell’Olimpo), guidato dall’inossidabile Henry Kissinger e dalla sovietologa Condoleeza Rice. Fu raccolto un mare di dollari per la campagna elettorale. Inutilmente. Bush Jr. fu battuto dal Al Gore. Lo "Stato profondo" fu allora costretto a truccare il risultato dello scrutinio in maniera visibile e poco gloriosa e, non essendo riuscito a farlo eleggere, fece nominare il nuovo presidente dalla Corte Suprema.

La transizione Clinton-Bush Jr. fu una lunga crisi. Durante la contestazione dei risultati, i fondi destinati ai gruppi di lavoro, di cui al Presidential Transition Act, furono congelati e gli immensi locali previsti per accoglierli furono chiusi. L’amministrazione Clinton dovette prendere misure di sicurezza eccezionali per proteggere il vice-presidente Gore. In definitiva, questo ultimo gettò la spugna dopo aver ricevuto serie minacce contro la sua famiglia. Il ticket Bush Jr.-Cheney arrivò alla Casa Bianca. Come all’epoca del ticket Reagan-Bush Sr., il vero potere toccava al vice-presidente. Uscito un’altra volta dall’ombra, Donald Rumsfeld fu nominato segretario alla Difesa mentre Colin Powell prendeva la segreteria di Stato e Condoleeza Rice il Consiglio nazionale di sicurezza. Qualche mese dopo, "l’apparato di sicurezza dello Stato" organizzava gli spettacolari attentati di New York e Washington, rilanciando così il militarismo statunitense, questa volta contro un avversario immaginario: il terrorismo islamico.

Lungi dal render eterno il sistema, le forzature successive del complotto Lewinsky del 1995-99, delle elezioni truccate del 2000 e degli attentati del 2001, hanno accelerato la sua disintegrazione interna post Guerra fredda. L’inadeguatezza delle truppe USA alla colonizzazione dell’Iraq e dell’Afghanistan ha portato a una catastrofe paragonabile a quella del Vietnam. Il progetto del vice-presidente Cheney di prendere l’Iran come preda successiva ha suscitato l’ammutinamento di una parte dello stato-maggiore, preoccupato di questa sovraesposizione [4]. Per la prima volta, "l’apparato di sicurezza dello Stato" è diviso, in guerra contro se stesso. Per succedere a George Bush, le due fazioni hanno ciascuna il proprio candidato. E non si capisce molto bene come i Clinton possano sperare di approfittare di questa divisione per prendere la loro rivincita e spingere Hillary fino allo Studio Ovale. Gli ammutinati sostengono Barak Obama con il progetto di un parziale ritiro dall’Iraq in accordo con l’Iran e dell’attacco al Pakistan; mentre il clan di Cheney sostiene John McCain nella speranza di prolungare l’invasione dell’Iraq e di continuare con il rimodellamento del Medio Oriente.

Nessuno di questi due candidati ha un progetto per riconciliare le opposte fazioni in seno all’"apparato di sicurezza dello Stato". Per questo, chiunque sia il nuovo inquilino della Casa Bianca, non potrà arrestare l’implosione del sistema.

Si può deplorare lo sviluppo dell’"apparato di sicurezza dello Stato", ma bisogna riconoscere che rispondeva ad una logica. Si può capire come la democrazia sia stata messa tra parentesi durante la Seconda Guerra mondiale e il suo prolungamento, la Guerra fredda, ma non esiste alcuna giustificazione alla situazione attuale. In definitiva, le contraddizioni interne del sistema hanno raggiunto il parossismo quando i cantori dell’"apparato di sicurezza dello Stato" hanno avuto la pretesa di democratizzare il mondo con le armi.

Thierry Meyssan. Analista politico, fondatore del Réseau Voltaire


Note:

[1] «Stay-behind : les réseaux d’ingérence américains» [Stay-behind : le reti di ingerenza americane], di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 20 agosto 2001. Vedere soprattutto il testo di riferimento: NATO’s Secret Army : Operation Gladio and Terrorism in Western Europe, del professor Daniele Ganser. Versione francese Les Armées Secrètes de l’OTAN, Edizioni Demi-Lune, 2007. Disponibile per corrispondenza attraveso la Libreria del Réseau Voltaire. Intervista di Silvia Cattori con l’autore : «Le terrorisme non revendiqué de l’OTAN» [Il terrorismo non rivendicato della NATO], Réseau Voltaire, 29 settembre 2006.

[2] «La stratégie anti-russe de Zbigniew Brzezinski» [La strategia anti-russa di Zbigniew Brzezinski] , di Arthur Lepic, Réseau Voltaire, 22 ottobre 2004.

[3] «Ronald Reagan contre l’Empire du Mal» [Ronald Reagan contro l’Impero del Male], Réseau Voltaire, 7 giugno 2004.

[4] «Washington décrète un an de trêve globale» [Washington decreta un anno di tregua globale], di Thierry Meyssan, 3 dicembre 2007.


17 marzo 2008

Le dimissioni dell'Ammiraglio Fallon provocheranno nuove battaglie in Iraq

di Thierry Meyssan,

analista politico, fondatore del Réseau Voltaire.

Articolo originale: "La démission de l’amiral Fallon relance les hostilités en Irak",

13 marzo 2008.

Traduzione di Pino Cabras


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Il generale William Fallon [Foto di Peter Yang, fonte: Esquire]


Contrariamente a quanto è stato scritto dai media più influenti, l’ammiraglio William Fallon non è stato mandato via perché si stava opponendo al presidente Bush in merito a un attacco all’Iran. Si è dimesso per sua iniziativa dopo che l’accordo che aveva negoziato e concluso con Teheran, Mosca e Pechino è stato sabotato dalla Casa Bianca. Questa decisione dell’amministrazione Bush rilancerà i combattimenti in Iraq ed esporrà fatalmente i soldati statunitensi a una nuova resistenza, stavolta sostenuta senza remore dall’esterno.

Erano ormai le ore 22 del meridiano di Greeniwich, martedì 11 marzo 2008, quando il comandante in capo del Central Command, l’ammiraglio William Fallon, annunciava dall’Iraq la presentazione delle sue dimissioni. Immediatamente a Washington, il segretario della Difesa, il suo amico Robert Gates, durante una conferenza stampa improvvisata faceva sapere che accettava questa decisione, seppure a malincuore. Nei minuti successivi, i rumori circa un possibile attacco statunitense all’Iran si sono sparsi in tutto il mondo. In effetti, le dimissioni dell’ammiraglio sarebbero state pretese dalla Casa Bianca in seguito alla pubblicazione di un reportage sul mensile Esquire che riportava i commenti «franchi» dell’ufficiale a proposito del presidente Bush. Nel medesimo articolo si poteva leggere che la rimozione dell’ammiraglio avrebbe contrassegnato l’ultimo segnale prima della guerra.

Nondimeno, questa interpretazione risulta sbagliata. Essa ignora l’evoluzione dei rapporti di forza a Washington. Per capire che cosa è in gioco, dobbiamo andare un attimo indietro. I nostri lettori, che sono stati regolarmente informati nelle nostre colonne sulle discussioni in corso a Washington, si ricorderanno delle minacce di dimissioni di Fallon, dell’ammutinamento degli ufficiali superiori, dei retroscena di Annapolis, e dell’infiltrazione della NATO in Libano che abbiamo riferito su queste pagine prima di tutti; delle rivelazioni dapprima contestate al momento della loro pubblicazione e oggi largamente confermate. Qui aggiungeremo informazioni inedite sui negoziati condotti da Fallon.

Il Piano Fallon

Dopo che l’establishment statunitense aveva approvato l’entrata in guerra contro l’Iraq nella speranza di ottenere sostanziosi profitti economici, progressivamente è giunto a più miti consigli. Questa operazione causa costi smisurati, sia diretti sia indiretti, ma non conviene se non a qualcuno. A partire dal 2006, la classe dirigente si è preoccupata di mettere fine a questa avventura. Ha contestato di volta in volta l’eccessivo spiegamento di truppe, il crescente isolamento diplomatico nonché l’emorragia finanziaria. Tutto ciò trovava la sua espressione attraverso il rapporto Baker-Hamilton, il quale condannava il progetto di rimodellare il Grande Medio Oriente e preconizzava un ritiro militare dall’Iraq, coordinato con un riavvicinamento diplomatico con Teheran e Damasco.

Sottoposto a questa amichevole pressione, il presidente Bush era costretto a far fuori Donald Rumsfeld e a sostituirlo con Robert Gates (membro egli stesso della Commissione Baker-Hamilton). Fu messo in campo un gruppo di lavoro bipartisan (la Commissione Armitage-Nye) per definire consensualmente una nuova politica. Ma si è verificato che il tandem Bush-Cheney non aveva rinunciato ai suoi progetti tanto che utilizzava questo gruppo di lavoro per sopire i suoi avversari, mentre continuava ad affilare le sue armi contro l’Iran. Per tagliar corto con queste manovre, Gates ha dato carta bianca a un gruppo di ufficiali superiori che aveva frequentato all’epoca di Bush padre. Questi hanno pubblicato, il 3 dicembre 2007, un rapporto delle agenzie d’intelligence che screditava il discorso falso della Casa Bianca sulla presunta minaccia iraniana. Inoltre essi hanno tentato d’imporre al presidente Bush un riequilibrio, a spese di Israele, della sua politica mediorientale.

L’ammiraglio William Fallon esercita un’autorità morale nei confronti di questo gruppo - che include l’ammiraglio Mike McConnell (direttore nazionale dell’intelligence), il generale Michael Hyden (direttore della CIA), il generale George Casey (capo di stato maggiore dell’esercito) e, di seguito, l’ammiraglio Mike Mullen (capo dei Joints chiefs of staff, gli stati maggiori riuniti delle varie armi). Uomo di sangue freddo, dotato di una brillante intelligenza, Fallon è uno degli ultimi grandi capi delle forze armate a poter vantare di aver prestato servizio in Vietnam. Preoccupato dalla moltiplicazione dei teatri operativi, dalla dispersione delle forze e dalla spossatezza delle truppe, ha apertamente contestato una leadership civile la cui politica non può che condurre gli Stati Uniti alla sconfitta.

Nel prolungarsi di tale ribellione, questo gruppo di ufficiali superiori è stato autorizzato a negoziare un’onorevole via di uscita dalla crisi con l’Iran e a preparare un ritiro dall’Iraq.

Secondo le nostre fonti, essi avevano immaginato un accordo in tre fasi:

  1. Gli Stati Uniti avrebbero fatto adottare dal Consiglio di Sicurezza un’ultima risoluzione contro l’Iran per non perdere la faccia. Ma tale risoluzione sarebbe stata senza reale sostanza e Teheran si sarebbe uniformata.
  2. Mahmud Ahmadinejād si sarebbe recato in Iraq dove avrebbe affermato gli interessi regionali dell’Iran. Ma il viaggio sarebbe stato puramente simbolico e Washington avrebbe lasciato fare tranquillamente.
  3. Teheran avrebbe fatto ricorso a tutta la sua influenza per normalizzare la situazione in Iraq e far passare i gruppi che sostiene dalla resistenza armata all’integrazione politica. Questa stabilizzazione avrebbe permesso al Pentagono di ritirare le sue truppe senza sconfitta. In contropartita, Washington avrebbe cessato il suo sostegno ai gruppi armati dell’opposizione iraniana, in particolare i Mujāhidīn del popolo.

Sempre secondo le nostre fonti, Robert Gates e questo gruppo di ufficiali, inquadrati dal generale Brent Scowcroft (ex consigliere nazionale della sicurezza), avrebbe sollecitato l’ausilio della Russia e della Cina affinché appoggiassero questo processo. Dapprima perplesse, Mosca e Pechino si sarebbero assicurate dell’assenso forzato della Casa Bianca prima di rispondere positivamente, sollevate dal fatto di poter evitare un conflitto incontrollabile.

Vladimir Putin aveva preso l’impegno di non approfittare militarmente del ritiro USA, ma aveva preteso che non se ne traessero le conseguenze politiche. Era stato dunque convenuto che la conferenza di Annapolis avrebbe partorito un topolino, mentre una conferenza globale sul Vicino Oriente sarebbe stata organizzata a Mosca per sbloccare i fascicoli che l’amministrazione Bush non aveva smesso di inasprire.

Putin accettava allo stesso tempo di facilitare il compromesso iraniano-statunitense, ma era impensierito da un Iran troppo forte lungo la frontiera meridionale della Russia. A titolo di garanzia, si convenne che l’Iran avrebbe accettato ciò che aveva sempre rifiutato : di non fabbricare da solo il suo combustibile nucleare.

I negoziati con Hu Jintao furono più complessi, giacché i dirigenti cinesi erano sconcertati nello scoprire fino a che punto l’amministrazione Bush avesse loro mentito in merito alla presunta minaccia iraniana. Occorreva innanzituttoristabilire la fiducia bilaterale. Per buona sorte, l’ammiraglio Fallon, che fino a poco tempo prima comandava la PacCom (zona Pacifico), intratteneva relazioni cordiali con i Cinesi.

Fu convenuto che Pechino avrebbe lasciato passare una risoluzione anti-iraniana del tutto formale al Consiglio di Sicurezza, ma che la formulazione di tale testo non avrebbe affatto ostacolato il commercio sino-iraniano.

Il sabotaggio

Di primo acchito, tutto sembrava funzionare. Mosca e Pechino accettarono di fare le comparse ad Annapolis e di votare la risoluzione 1803 contro l’Iran. Nel mentre il presidente Ahmadinejād si godeva la sua visita ufficiale a Baghdad, dove incontrò in segreto il capo dei Joint chiefs of staff, Mike Mullen, per pianificare la riduzione della tensione in Iraq. Ma il tandem Bush-Cheney non si dava per vinto e, no appena poteva, sabotava questo ben oliato meccanismo.

In primo luogo, la conferenza di Mosca spariva fra le sabbie mobile dei miraggi orientali ancor prima di esistere. In secondo luogo, Israele si lanciava all’assalto di Gaza e la NATO schierava la sua flotta al largo del Libano in modo da riattizzare l’incendio generale del Grande Medio Oriente, proprio mentre Fallon si sforzava di spegnerne i focolai uno ad uno. In terzo luogo, la Casa Bianca, di norma così pronta a sacrificare i suoi dipendenti, si rifiutava di abbandonare i Mujāhidīn del popolo.

Esasperati, i russi ammassavano la loro flotta a sud di Cipro per sorvegliare le navi della NATO e inviavano Sergei Lavrov a farsi un giro del Medio Oriente con la missione di armare la Siria, Hamas e Hezbollah al fine di riequilibrare il Levante. Nel frattempo gli iraniani, furiosi per essere stati ingannati, incoraggiavano la Resistenza irachena alla caccia dei soldati statunitensi.

Vedendo annichiliti i propri sforzi, l’ammiraglio Fallon dava le dimissioni, unico mezzo per lui di conservare alla lunga il proprio onore e la propria credibilità di fronte ai suoi interlocutori. L’intervista di Esquire, pubblicata due settimane prima, non è altro che un pretesto.

L’ora della verità

Nelle prossime tre settimane, il tandem Bush-Cheney si giocherà il tutto per tutto in Iraq facendo parlare le armi. Il generale David Petraeus, spingerà all’estremo il suo programma di contro-insurrezione, in modo da presentarsi vittorioso davanti al Congresso ai primi di aprile. Frattanto, la resistenza irachena, ormai sostenuta sia da Teheran sia da Mosca e Pechino, andrà a moltiplicare le imboscate e cercherà di uccidere il massimo di occupanti.

Spetterà allora all’amministrazione statunitense trarre le conclusioni dal campo di battaglia. O riterrà accettabili i risultati di Petraeus sul terreno e il tandem Bush-Cheney terminerà senza intoppi il suo mandato. O, per evitare lo spettro della sconfitta, dovrà sanzionare la Casa Bianca e riprendere, in un modo o nell’altro, i negoziati che l’ammiraglio Fallon aveva portato avanti.

Nello stesso tempo, Ehud Olmert interromperà le trattative iniziate con Hamas tramite l’Egitto. Egli surriscalderà la regione fino alla visita, in maggio, del presidente Bush.

Questa febbre regionale dovrebbe galvanizzare daccapo il dispositivo Bush, tanto negli investimenti nel settore militare-industriale del fondo Carlyle, la cui branca immobiliare è sull’orlo del fallimento, quanto nella campagna elettorale di John McCain.

Dal punto di vista di Washington, occorre continuare a sacrificare la vita dei GI’s per una guerra che è già costata 3 triliardi di dollari e far odiare gli Stati Uniti anche dai loro partner più fedeli, mentre essa non ha reso che solo ad alcune società possedute dal clan Bush e dai suoi amici?

16 marzo 2008

L'indice del libro

di Pino Cabras
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INDICE

Introduzione

I. Terrorismo: un moderno instrumentum regni
1. Complotti e complottismi
2. 11 settembre: perché i conti non tornano
3. Gli ultimi giorni dell’umanità?
4. Definizioni di terrorismo
5. Le basi per le ‘operazioni coperte’ e le ‘smentite plausibili’
6. Provocare attacchi terroristici
7. Morire di terrorismo: altamente improbabile

II. Appunti per un golpe mondiale
1. Il nonno era socio di Hitler, George W. è socio di bin Lāden
2. La legione araba
3. Follow the money. I beneficiari dell’11 settembre
4. Strategia del colpo di Stato
5. Il bisogno di una Grande Crisi
6. I NeoCon
7. Chi comanda veramente in America?
8. Henry Ford, profitattore di guerra bilaterale

III. Pianificazioni, testimonianze e depistaggi
1. Lungimiranze moscovite
2. Il PNAC (Project for the New American Century)
2.1 il Club Stranamore
3. I trilioni scomparsi
4. Improbabilità della teoria LIHOP
5. L’ipotesi degli aerei replicanti
6. Incubazione di un colpo di Stato, le indagini di Blondet
7. Nella società aperta le voci filtrano
7.1. Il caso Vreeland
8. Mistero Americano

IV. Al-Qā‘ida: nulla è come appare
1. Che cos’è al-Qā‘ida
2. Black Op Al-Qā‘ida
3. Video e testi, una continua manipolazione
4. “Scontro di civiltà”: le manipolazioni del MEMRI.
5. Al-Qā‘ida, ovvero il Database
6. Il bizzarro Atta, ‘pecora inzuppata’
7. Le connessioni tra il leader di al-Qā‘ida e la CIA

V. I 19 dirottatori, la storia non quadra
1. Quel che ci raccontano
2. L’incubazione dell’incubo
3. Paura di volare
4. Il giorno prima
5. Strani progetti pre-suicidio
6. Le impronte di Osāma
7. Il rebus irrisolto delle liste passeggeri

VI. Inchieste ufficiali: una demolizione
1. Le omissioni e le distorsioni della Commissione sull’11 settembre
1.1. Le omissioni
1.2. Le menzogne
1.3. Le contraddizioni

2. Dubbi su quegli spettacolari crolli
2.1. Il World Trade Center
2.2. WTC1 e WTC2
3. Caratteristiche delle demolizioni controllate
3.1. Squib e incendi
3.2. WTC7
4. Larry Silverstein, il nuovo ‘padrone’ del WTC
5. La termite taglia i nodi delle torri?
6. Facile sbugiardare Deaglio sulla ‘boiata pazzesca’
7. Bush ha mentito. L’atto d’accusa del guardiano delle Twin Towers .
8. Dick Cheney, in prima fila fra gli indiziati
8.1. Dov’erano le risorse strumentali: Cheney e il Secret Service
8.2. Un movente: La produzione mondiale di petrolio è al suo picco
8.3. Le occasioni: le simulazioni di attentati


VII. Zibaldone di coincidenze impossibili
1. Manuale sull’11 settembre 2001 per chi crede alle coincidenze
2. 9/11 Florida connection
3. Lo strano caso dei dipendenti Raytheon
4. Volo 77: alta densità militare

VIII. USA & UK: esercitazioni che fanno male
1. La strategia della tensione esplode a Londra
2. Simulazioni che facilitano gli attentati
3. Le esercitazioni che simulano attentati
3.1. Britain’s Atlantic Blue: aprile 2005
3.2. Esercitazioni che anticipavano l’11 settembre
3.3. Esercitazione al World Trade Center
3.4. Esercitazione simulante lo schianto di un aereo su un palazzo
3.5. Global Guardian, un’operazione a largo raggio
3.6. L’anti-terrorismo preventivamente decapitato
3.7. Altre azioni di svuotamento dei cieli USA
3.8. Le telefonate dai cellulari
3.9. Amalgam Virgo e Positive Force
3.10. L’effetto congiunto delle esercitazioni
3.11. Alcune note aggiuntive sul 7 luglio 2005 a Londra
4. L’onnipresente ‘sicurezza’ Made in Israel
5. Londra, 10 agosto 2006. La fiera delle bugie
6. Il caso delle testate nucleari scomparse

IX. La guerra come via d’uscita alla crisi finanziaria

BIBLIOGRAFIA
Siti web