28 giugno 2009

Una vittima italiana di una "Extraordinary Rendition" ancora detenuta in Marocco sulla base di confessioni estorte con la tortura

di Megachip (QUI)
kassim






Gruppi di difesa dei diritti chiedono ai relatori speciali ONU di indagare e prendere iniziativa.


NEW YORK, 25 giugno 2009 – Gruppi di difesa dei diritti umani hanno richiesto in questa data a due relatori speciali dell’ONU di indagare sul caso di Abou Elkassim Britel, un cittadino italiano vittima del programma illegale di “extraordinary rendition”(le catture e detenzioni extragiudiziali, ndt) della CIA, attualmente detenuto in una prigione marocchina sulla base di una confessione estortagli per mezzo della tortura.

giustizia_per_kassimL'American Civil Liberties Union e Alkarama for Human Rights hanno chiesto che il Relatore Speciale dell'ONU sulla tortura e il Relatore Speciale dell’ONU sulla promozione e la protezione dei diritti umani nella lotta al terrorismo indaghino sulle circostanze della sparizione forzata di Britel, la sua consegna, la detenzione e la tortura, e sollevino il suo caso presso i governi degli Stati Uniti, del Marocco, del Pakistan e dell'Italia.

«Le vittime del programma di “extraordinary rendition” detenuti a Guantanamo e altre prigioni in tutto il mondo sono state ignorate dal governo degli Stati Uniti, il cui programma illegale li ha sbarcati lì, come prima destinazione», ha detto Steven Watt, legale di staff nel programma ACLU sui diritti umani. «Gli Stati Uniti non sono riusciti ad assumere la responsabilità per le loro azioni più rilevanti, lasciando il signor Britel e innumerevoli altre vittime del programma 'extraordinary rendition' senza altra scelta se non quella di rivolgersi alla comunità internazionale per ottenere giustizia».

Britel, che fa ricorso anche nell’azione legale della ACLU contro la Jeppesen DataPlan, una controllata della Boeing, per il suo ruolo nel programma di ‘rendition’, è una delle poche vittime del programma la cui identità sia nota, e che sia tuttora detenuta al di fuori di Guantanamo.

Britel è stato fermato e arrestato in Pakistan dalle autorità pakistane su presunte violazioni in materia di immigrazione, nel febbraio 2002. Dopo un periodo di detenzione e interrogatori è stato consegnato a funzionari statunitensi.

Nel maggio 2002, i funzionari americani spogliarono e picchiarono Britel prima di rivestirlo con un pannolone e una tuta, ammanettarlo e bendargli gli occhi e poi farlo volare in Marocco per la detenzione e gli interrogatori. Una volta in Marocco, i funzionari statunitensi lo consegnarono ai funzionari marocchini di intelligence che lo incarcerarono in isolamento nel centro di detenzione di Temara, dove è stato interrogato, picchiato, privato del sonno e del cibo e minacciato con torture sessuali.

«Secondo il resoconto dello stesso Britel sul suo trattamento e la lunga storia documentata della tortura e degli abusi nei centri di detenzione gestiti dal governo marocchino, abbiamo un solido presupposto per ritenere che il signor Britel sia stato, e sia tuttora, sottoposto a tortura,» ha detto Rachid Mesli, direttore del Dipartimento giuridico di Alkarama. «Britel e tutte le altre vittime delle "extraordinary rendition" meritano il loro passaggio in tribunale e processi equi, non viziati da prove ottenute con la tortura. Ci auguriamo che i relatori speciali agiscano immediatamente sulla nostra istanza di rivolgere un’attenzione molto più rapida e necessaria al caso di Britel, prima che le condizioni in cui è tenuto cagionino ulteriori danni alla sua salute fisica e psicologica».

Secondo l’istanza, dopo essere stato liberato dalla custodia da parte delle autorità marocchine nel febbraio 2003, Britel è stato nuovamente arrestato e detenuto nel maggio 2003, non appena ha cercato di lasciare il Marocco per la sua casa in Italia. Mentre era recluso in isolamento nello stesso centro di detenzione dove era stato brutalmente torturato solo pochi mesi prima, Britel ha falsamente confessato sotto tortura il suo coinvolgimento in attività terroristiche. Britel è stato poi processato e condannato da un tribunale marocchino rivolto ai casi di terrorismo, e sta attualmente scontando una condanna a nove anni di reclusione in un carcere marocchino.

Nel 2006, un giudice istruttore italiano ha archiviato un’indagine durata sei anni sul presunto coinvolgimento di Britel in attività terroristiche dopo che il magistrato aveva riscontrato una totale mancanza di elementi di collegamento con qualsiasi attività che fosse legata al terrorismo o comunque criminale.


La documentazione odierna con i relatori speciali è disponibile online all'indirizzo: www.aclu.org/intlhumanrights/nationalsecurity/relatedinformation_resources.html
Maggiori informazioni sull’azione legale ACLU contro DataPlan Jeppesen sono online all'indirizzo: www.aclu.org/jeppesen

Fonte: http://www.aclu.org/intlhumanrights/nationalsecurity/40028prs20090625.html

Traduzione a cura di Pino Cabras per Megachip
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E sul blog dell'ACLU : Awaiting an End to Injustice: Rendition Victim’s Wife Speaks About Accountability and Torture:
http://blog.aclu.org/2009/06/25/awaiting-an-end-to-injustice-rendition-victims-wife-speaks-about-accountability-and-torture/

Aggiornamenti: *
* http://www.giustiziaperkassim.net/
* http://www.kassimlibero.splinder.com/

26 giugno 2009– Giornata internazionale ONU a sostegno delle vittime di tortura.

18 giugno 2009

La presunta mente dell’11/9: «M’inventavo le storie»

di Devlin Barrett – Associated Press



WASHINGTON -- Khalid Sheik Mohammed, accusato di essere il genio criminale dietro all'attentato dell'11 settembre, ha confessato di aver mentito profusamente agli agenti che lo torturavano per estorcergli la verità sulle sue attività eversive. Secondo quanto riferito in alcune sezioni dalle trascrizioni governative che sono state recentemente desecretate, Mohammed avrebbe orgogliosamente rivendicato la sua paternità su più di due dozzine di attentati terroristici.

«Mi invento delle storie,» ha detto Mohammed nel 2007, durante una delle udienze del tribunale militare a Guantánamo Bay. In un inglese stentato, ha descritto l'interrogatorio in cui gli è stata chiesta l'ubicazione del leader di al-Qa‘ida, Osama bin Laden.

«L'agente mi ha chiesto “Dov’è?”, ed io: “non lo so”», racconta Mohammed. «Poi ha ricominciato a torturarmi. Allora gli ho detto: “Sì, si trova in questa zona...” oppure “Sì, quel tizio fa parte di al-Qa‘ida”, anche se non avevo idea di chi fosse. Se rispondevo negativamente, riprendevano con le torture.»

Nonostante ciò, durante la medesima udienza, Mohammed ha illustrato un elenco di 29 attacchi terroristici a cui avrebbe preso parte. Le trascrizioni sono state rese pubbliche grazie ad una causa civile, con la quale la American Civil Liberties Union si è messa a caccia di documenti ed informazioni sulle condizioni della detenzione che il governo ha riservato agli imputati per terrorismo.

In precedenza, erano stati resi pubblici altri testi provenienti dalle udienze dei tribunali militari, ma l'amministrazione Obama è tornata sul tema ed ha riesaminato le sezioni rimaste segrete per poi valutare che sarebbe stato possibile desecretarne ulteriori porzioni.

La maggior parte dei nuovi documenti è incentrata sulle dichiarazioni che i detenuti hanno rilasciato a proposito degli abusi subiti durante gli interrogatori, mentre erano prigionieri in carceri extra-nazionali gestite della CIA.

Un detenuto, Abu Zubaydah, ha riferito al tribunale che «dopo mesi di sofferenza e di tortura, fisica e psicologica, non hanno nemmeno curato le mie ferite».

Zubaydah è stato il primo detenuto ad essere sottoposto alle tecniche di interrogatorio “avanzato”, approvate dall'amministrazione Bush, in cui avveniva una simulazione di annegamento (detto waterboarding), oppure l'indagato veniva sbattuto contro le pareti o era costretto a prolungati periodi di nudità.

Durante l'udienza, Zubaydah ha rivelato che queste pratiche lo hanno «quasi ucciso in almeno quattro occasioni».

«Dopo un paio di mesi, durante i quali ho quasi perso la ragione e la vita,» ha dichiarato Zubaydah, «hanno incominciato a prendere le misure necessarie per non farmi morire».

Ha inoltre affermato che, dopo essere stato trattato per molti mesi in questo modo, le autorità hanno concluso che non fosse il numero 3 di al-Qa‘ida, come avevano a lungo creduto.

Fonte: http://www.miamiherald.com/news/nation/story/1098707.html

Traduzione di Massimo Spiga per «Megachip»

12 giugno 2009

Berlinguer, pensieri lunghi

di Pino Cabras - Megachip



A venticinque anni dalla morte di Enrico Berlinguer, diverse commemorazioni provano a distillare un ricordo della figura di questo importante politico italiano. Il paesaggio modellato dalla sabbia del tempo è irriconoscibile rispetto ad allora, perciò è il momento di iniziare a collocarlo storicamente.

Quando Berlinguer esercitò la carica di segretario del Pci, si misurò acutamente con i problemi specifici della crisi italiana. Dopo il 1968 fu sempre più chiara la crisi della formula di governo del centro-sinistra imperniato sulla Dc e il Psi. Il quadro costituzionale italiano non era una democrazia dell’alternanza; dalle crisi strutturali di una formula politica, così come era accaduto per il centrismo alla fine degli anni cinquanta, si tendeva a uscire con un allargamento “consociativo” dell’area di governo intorno alla Dc. I leader più avvertiti della Dc e del Pci, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, organici a quel quadro costituzionale, riflettevano sulla prospettiva di intese nuove tra i loro partiti e tra le forze sociali e culturali che rappresentavano. Questo non avveniva senza conflitti. La fine di quell’esperienza storica ha mutato profondamente la sfera pubblica italiana, fino a trovare una suo forma materiale opposta, negli anni di Berlusconi.
Ma i loro mondi di riferimento, quelli di Moro e Berlinguer, erano pronti al salto di qualità che volevano imprimere alla democrazia italiana? Possiamo dire che non era pronto il quadro internazionale, quando c’erano i blocchi politico-militari imperniati su Usa e Urss, che mal tolleravano esperimenti come quello di un paese allora di frontiera, l’Italia. E forse non lo era la società, nel frattempo attraversata da un sottofondo di grandi mutamenti che si sarebbero presentati prima o poi in tutta la loro forza, pronti a un impatto politico e culturale di vaste proporzioni.

La secolarizzazione dei valori e dei costumi degli italiani, avvenuta con lo sviluppo capitalistico del dopoguerra, aveva reso minoritaria la porzione degli italiani che adeguavano il loro comportamento alla dottrina della chiesa. Ma anche i valori della sinistra erano stati erosi dal tipo di sviluppo che c’era stato in Italia. Lo Statuto dei lavoratori, approvato nel tempo in cui esisteva ancora una diffusa etica del lavoro, trovava applicazione in una società in cui certe riserve etiche si erano via via logorate: le nuove garanzie offerte ai lavoratori si saldavano anche con nuovi comportamenti che diventavano spesso un fattore aggiuntivo di crisi della produttività.

Affluent society, si è detto. Sia il patrimonio culturale cattolico che il patrimonio culturale comunista erano sottoposti a forti sollecitazioni che nascevano dalle trasformazioni di una società ormai vicina agli altri paesi industriali dell’Occidente. Una società molto diversa dai tempi del compromesso costituzionale e dal quadro etico tradizionale di quelle due culture.

La battaglia del referendum sul divorzio (12 maggio 1974) rimescolò ulteriormente le carte. Una parte dei cattolici sostenne pubblicamente le ragioni del No all’abrogazione della legge sul divorzio. Il Pci arrivò subito dopo ai suoi massimi storici.

Il motivo iniziale del profilarsi di nuove intese, secondo la formula della “terza fase” di Moro e la formula del “compromesso storico” di Berlinguer, era essenzialmente un motivo difensivo. Ci si difendeva dalle difficoltà di una democrazia ormai più complessa e difficile da governare.
berlinguerCosa c’era dietro la strategia berlingueriana del compromesso storico? C’era un’analisi della nostra società, basata su una visione fortemente pessimistica della strutturale debolezza delle nostre istituzioni democratiche e della incessante tentazione autoritaria in una parte significativa delle classi dirigenti. Questa analisi era associata alla convinzione che solo la difesa del sistema dei partiti, così come configuratosi ai tempi della Resistenza, potesse lasciare spazio alla possibilità di rinnovare e trasformare l’Italia.

Tuttavia in Berlinguer, si produceva uno sforzo creativo: l’incontro del Partito comunista con il mondo cattolico era visto quale condizione necessaria per dare una risposta al degrado morale del paese, opponendosi alla logica «[dell’esaltazione di particolarismi e] dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». Il compromesso storico acquisiva nel giudizio del leader comunista sull’«austerità» un crescente significato morale e diventava il modo di superare molti elementi del sistema capitalistico, per la realizzazione di un processo rivoluzionario, in forme democratiche e nonviolente.
L’idea dell’austerità, come vedremo, è un esempio molto interessante dell’approccio di Berlinguer alla crisi italiana. Tutte le società opulente si ritrovarono a fronteggiare, dopo lo shock petrolifero del 1973, la fine dell’età dell’oro del capitalismo del Novecento. L’Italia, così come altri paesi dell’Occidente, era reduce da decenni di notevoli consumi, di demagogia fiscale, di speculazioni monetarie e finanziarie, di spirali di indebitamento. Era una crisi meno grave di quella che viviamo oggi, ma certamente fu il primo e perciò più scioccante arretramento dopo decenni.

La crisi energetica acuì la fragilità del sistema economico e minò le basi di consenso democratico degli Stati. Le risorse non apparivano più illimitate. Produrre di più minacciava l’equilibrio ecologico. Se l’ampliamento dei diritti sociali era ancorato solo alla prospettiva della crescita economica, la fine della crescita minacciava i diritti. In prospettiva minacciava la pace e la sopravvivenza dell’umanità.

Una percezione nuova di tali temi andava maturando in luoghi ‘borghesi’, come il Club di Roma e il suo The Limits of Growth (che in italiano è stato impropriamente tradotto con I limiti dello sviluppo), o come il Massachussets Institut of Technology. Le tematiche dell’ambientalismo iniziarono allora a sollecitare un’autocritica del paradigma tecnologico delle moderne società industrializzate.

È da quegli anni che il problema dei problemi per l’azione quotidiana di chi governa diventa quello dei sacrifici e dei tagli. È la crisi del Welfare state. Da allora nessun politico che voglia agire da statista può eludere questo problema. Il dramma è che molti politici sono giunti alla conclusione che qualsiasi proposta di aumenti delle imposte equivalga a un suicidio elettorale. Come conseguenza, le competizioni elettorali sono diventate gare di menzogna fiscale. I governi eludono sia l’elettorato sia le assemblee rappresentative. Siccome i politici temono di dover dire agli elettori le cose che questi non desiderano sentire, la politica è diventata l’arte dello schivare. Le vere sedi delle decisioni politiche sono senza controllo elettorale. Il declino dei partiti di massa, che abbiamo potuto registrare anche nelle elezioni europee del 2009, sta sopprimendo il più importante motore sociale, quello che trasformava anche uomini e donne comuni in cittadini capaci di azioni politiche incisive.

Certo, è stato proposto un diverso paradigma politico e sociale, quello neoliberista, che ha avuto campo libero per decenni. Il proposito è stato la corrosione della ragion di stato ad opera della ragion d’impresa che rifiuta vincoli perché non riconosce le disuguaglianze. Questo è avvenuto con altissimi costi sociali e con l’aggravamento del debito pubblico e del caos finanziario. L’effetto più evidente di tutto ciò è stata una progressiva delegittimazione delle politiche di solidarietà e della politica tout court.

Tra le tante letture del fenomeno “Tangentopoli” e della “Casta” che oggi possiamo fare, una può essere questa: se la politica elude il problema di coniugare efficienza e solidarietà, allora si corrompe e mette in scacco la democrazia. Può ingannare i cittadini corrompendo il bilancio, ma il nodo prima o poi viene al pettine. Oppure inizia a denunciare lo Stato sociale e ad abbandonare i deboli, ma non riesce a controllare il disagio e la decadenza, a meno che non la controlli per via repressiva, uscendo da un quadro democratico. Oppure, ancora, c’è la soluzione del “governo dei tecnici” che toglie le castagne dal fuoco, a Roma come a Bruxelles. Ma per quanto?

Questa era la preoccupazione fondamentale di Enrico Berlinguer. Sapeva benissimo che la fine dell’età dell’oro dell’economia mondiale avrebbe obbligato a un ripensamento globale delle basi della democrazia. Se le conquiste del movimento operaio del dopoguerra - che egli rivendicava puntigliosamente - non dovevano regredire, il nodo del budget doveva essere affrontato con un respiro strategico.


L’AUSTERITÀ.
Berlinguer coglieva la verità interna che sta dentro la ritrosia e la paura dei politici a pronunciare la parola sacrifici, la più impopolare delle parole. Antonio Tatò, che fu il più stretto collaboratore di Berlinguer, raccontò di quanta cura fosse stata posta nello scegliere il termine austerità: «“Sacrifici”, dico io. “No”, mi risponde Berlinguer. “Sacrifici non mi piace, non mi convince. È frusto, è riduttivo e può creare malintesi, suscitare diffidenze fra i lavoratori, che già ne fanno tanti di sacrifici e continuamente... Direi austerità...”».
Questa parola aveva un forte contenuto morale e progettuale. Dicendo semplicemente sacrifici non ci si chiede per cosa questi sacrifici debbono essere fatti. Assecondare il mutamento della divisione internazionale del lavoro, le fluttuazioni dei prezzi, il riorganizzarsi degli interessi e delle spinte corporative lasciando immutati i rapporti sociali: tutto questo può essere contemplato da una politica di rigore che non si fa domande. Il minimo che può capitare è il “governo dei tecnici”. La Grande Crisi si diverte a spazzare tanta tecnocrazia presuntuosa.

Per Berlinguer invece l’austerità era un’occasione per cambiare l’Italia, era una politica di solidarietà volta alla trasformazione sociale. Una crisi economica che minacciava il lavoro, il benessere, lo studio, poteva trasformarsi invece nella possibilità di ricostruire un senso per l’attività produttiva, per il godimento dei beni, per il sapere. Oggi anche Obama sostiene la necessità di andare verso un nuovo modello di sviluppo. Ma negli anni settanta erano pochi i leader che ne parlavano. Berlinguer era il leader politico che affidava il massimo valore strategico a questa consapevolezza.

La solidarietà non era pensata come ristretta all’ambito nazionale. Berlinguer guardava con favore al moto di liberazione dei paesi del Sud del pianeta, che doveva comportare per l’Occidente e per il nostro paese «due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.» Appaiono parole di grande attualità.

L’austerità non era intesa come «una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza», né come la razionalizzazione tecnocratica e burocratica di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Era interpretata come un processo democratico che doveva coinvolgere individui, imprese, movimenti e istituzioni per distogliere l’economia dai consumi dissipativi e orientarla verso il «godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura».

L’intuizione dell’austerità si collegava ad altre intuizioni. Innanzitutto l’idea degli «elementi di socialismo», un’idea di trasformazione socialista distinta dal modello sovietico, verso il quale Berlinguer conservava comunque la speranza di una sua riformabilità. Lungi da utilizzare versioni dogmatiche e ossificate del pensiero di Marx e di Gramsci, Berlinguer adoperava in modo disinvolto l’essenza profondamente antidogmatica del loro metodo. Quando proponeva al suo partito di lavorare concretamente «per introdurre nella complessiva vita civile, e negli orientamenti ideali» ciò che chiamava «elementi di socialismo», implicitamente concepiva una società molto dialettica, dove la trasformazione non poteva avvenire all’ora X con la presa del Palazzo d’Inverno ma doveva immergersi nell’evoluzione delle «formazioni sociali», per dirla con Marx, e agire sulle «casematte» della società civile, per dirla con Gramsci.

Era un’idea di socialismo aperta a nuovi sviluppi in direzione di sensibilità diverse da quelle tradizionali dei socialismi tanto dell’Est quanto dell’Ovest, entrambi ancora inseriti all’interno di un paradigma produttivista e industrialista, oltre che incentrati su una preponderante funzione redistributiva dello Stato.

L’apertura si collegava a un’attenzione nuova nei confronti dell’emergente movimento ambientalista e assumeva le battaglie del movimento di liberazione delle donne, implicitamente portatore di una concezione dell’individuo che coinvolgeva dimensioni della cittadinanza più ampie rispetto a quelle economiche.
Non è qui il caso di dilungarsi a spiegare in che modo la strategia del compromesso storico si esaurì, e come si spense la forza politica dell’idea dell’austerità. Basti dire che l’incalzare del terrorismo - culminato nel 1978 con il rapimento e l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro - combinandosi con le forti resistenze conservatrici di un largo settore della Dc collegato al “doppio stato” illegale (servizi segreti, mafia, sistema della corruzione) in cui risiedeva da sempre una parte della sovranità reale, spinse il Pci di Berlinguer a spendere le sue energie in un lealismo istituzionale politicamente costosissimo. Le battaglie perdevano il loro respiro riformatore e si piegavano a esigenze difensive difficili, mentre una parte dei giovani contestava o abbandonava il Pci. L’esperienza dei governi di solidarietà nazionale (monocolore Dc, Andreotti presidente del Consiglio, maggioranza comprendente il Pci) si concluse nel 1979. Le elezioni anticipate costarono al Pci una flessione.


L’UOMO CHE NON ASPETTÒ DI PIETRO.
Berlinguer aveva aperto il suo partito a nuovi scenari e nuove intuizioni che poi furono spese nella strategia dell’alternativa democratica. Fu lucidissima la sua critica della degenerazione del sistema dei partiti. La sua analisi, riletta a tanti anni di distanza, risulta impressionante per l’esattezza con cui descriveva e denunciava le cause della illegalità e della corruzione.
Berlinguer non si era affidato a una “supplenza” delle tempeste giudiziarie, così come invece si è poi affidata – senza ottenere molto - la nostra democrazia. Non riduceva la questione morale a una questione di ‘pulizia’ di corpi - i partiti - altrimenti ritenuti sani. Poneva invece un problema che riguardava l’essenza stessa dei partiti. In una famosa intervista a Eugenio Scalfari nel 1981 Berlinguer si espresse con estrema nitidezza:

«I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente: idee, ideali, programmi pochi o vaghi: sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti [...] sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...» Questa mappa dei boss è il ritratto di Tangentopoli disegnato dieci anni prima.
Oggi sappiamo che il sistema berlusconiano ha consolidato quel sistema e lo ha portato al centro della costituzione materiale del paese, intanto che si sono ricostruite e rafforzate le reti delle omertà e delle collusioni.

In realtà l’unico modo per non travisare il messaggio di Enrico Berlinguer è quello di non ridurne la portata: quella di Berlinguer era la scelta di porre il tema non semplificabile della riforma dei partiti dentro tutte le novità emergenti tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. La sensibilità nei confronti dei temi verdi e del movimento per la pace in Berlinguer implicava anche la sperimentazione di forme organizzative originali e la partecipazione diretta degli innovatori alla vita del partito.

Berlinguer non visse abbastanza da poter riorganizzare compiutamente il suo partito secondo questa ispirazione. In ogni caso continuò a discuterla in diverse occasioni. Rimase celebre la sua intervista a Ferdinando Adornato per «l’Unità» del 18 dicembre 1983, giusto alle soglie del 1984. L’intervista affrontò il problema di come far convivere le innovazioni scandite dalla tecnologia e la promozione della democrazia. Lo spunto era dato dal romanzo 1984 di Orwell, che del nesso fra tecnologia e democrazia aveva prefigurato lo scenario più pessimista. Adornato poi diventò deputato del partito più orwelliano mai visto, ma questa è un’altra storia.

Berlinguer proponeva invece uno scenario molto aperto: gli esiti delle innovazioni dipendono da come si affrontano politicamente: avvertiva con forza il bisogno di reinvestire la politica di “pensieri lunghi”, di progetti. “Pensieri lunghi” per «la direzione consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale di tutta l’umanità».

Non era rassegnato all’assoggettamento degli individui, tramite i media, a un complesso militare industriale sempre più sofisticato. Raccoglieva la sfida della società della comunicazione e riteneva pacifico che i partiti dovessero essere anche “partiti di opinione”. Anche, ma non solo: «Ci vogliono limiti precisi - affermò Berlinguer - all’uso dei computer come alternative alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone.»

Chi oggi combatte l’impoverimento della democrazia e della comunicazione può trovare un sostegno profetico nella frase che Berlinguer aggiunse a quel punto: «io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi. Ogni epoca, certo, ha e avrà i suoi movimenti e le sue associazioni.» Di qui la sua apertura ai movimenti pacifisti ed ecologici e a «quelli che, in un modo o nell’altro, contrastano la omologazione dei gusti e il conformismo». Era un terreno in cui negli anni successivi si sarebbero incontrate istanze culturali, politiche e religiose diverse.
Quell’incontro può fruttificare oggi in un innesto fecondo di diverse tradizioni. I pensieri di Berlinguer sono, appunto, lunghi.

8 giugno 2009

Elezioni Europee, dopo il Novecento

di Pino Cabras - da «Megachip»


Il voto europeo del 2009 è stato segnato dalle pesanti sconfitte subite dai partiti che hanno ereditato gli insediamenti della sinistra del Novecento. Lo smottamento elettorale è avvenuto nel pieno di una grande crisi economica e finanziaria che pure coincide con il tracollo del neoliberismo. Il punto forse è proprio questo. La sinistra “novecentesca” europea a un certo punto è stata cooptata come interprete terminale del neoliberismo.

Succede così. Quando Margareth Thatcher si ripresenta con il sorriso di Tony Blair. Quando la Spd dà colpi al “modello renano”. Quando l’Ulivo fa del riformismo debole. Quando l’allargamento europeo vede tanta sinistra che vuol fare l’americana. Quando Zapatero si affida a una bolla speculativa. Quando molta sinistra francese slitta verso Sarkozy.

Poi al Blair delle vacche grasse subentra il Brown delle vacche magre, a Schröder succede una sinistra subalterna, il riformismo debole ulivista viene rimpiazzato dall’afasia del PD, l’Europa dell’Est crolla economicamente, la bolla spagnola scoppia in pochi mesi.

Quel che rimane della sinistra del Novecento non ha più le parole per interpretare i fatti, né gli insediamenti sociali di un tempo, né i luoghi per riflettere, pensare, comunicare un progetto. Risultato: i conservatori sfruttano un “riflesso d’ordine” sufficiente a ricompattarli. I partiti novecenteschi della sinistra o le loro evoluzioni sono al minimo storico. Qui e lì esplodono forme di creatività politica in forte crescita ma fortemente minoritarie e disperse, ben lontane da un qualche consolidamento (come interpretare il 16% dei verdi francesi?). Qui e lì esplodono anche i movimenti che vogliono una società più cattiva, un’Europa chiusa e xenofoba, altrettante riserve di spietatezza che vuol farsi istituzione per quando la grande crisi morderà ancora di più. Cos’è la sparuta retorica operaia della nostra sinistra-sinistra senza quorum di fronte all’ondata di voti operai nel Nord italiano per la Lega partito di massa?

Berlusconi non sfonda, titola «la Repubblica». È vero, forse il suo risultato non è stato tale da accelerare le condizioni di una dittatura senza ostacoli. Tuttavia emerge la continuità ancora inscalfibile di un blocco politico e sociale che non ha avversari organizzati né progetti alternativi.

Serviranno alleanze nuove e capacità di interpretare la crisi, occorrerà la voglia di ritessere una fitta trama di rapporti sociali, servirà un’agenda politica che sia davvero alternativa e aperta, senza nostalgie per i simboli del XX secolo. E servirà una cura particolare per il sistema della comunicazione nel quale si rinsaldano i valori guida. Le prove da affrontare saranno presto tremende.

elezioni-europee-2009