28 ottobre 2014

Il testamento della condannata a morte? Conservate i fazzoletti

di Pino Cabras.
da Megachip.

Tutti commossi dal messaggio alla madre pronunciato dall'ultima donna iraniana giustiziata, Reyhaneh Jabbari? Le parole sono toccanti, richiamano quel genere estremo di letteratura che ci ha emozionato quando leggevamo le lettere di condannati a morte della Resistenza, brevi e strazianti lasciti di umanità che sopravvivevano all'annichilimento delle loro vite materiali.
Eppure mi sento di invitare tutti alla prudenza, e a controllare attentamente le fonti, per cercare di capire da dove provenga ogni singolo dato di questa vicenda. Lo ha già fatto in parte Francesco Santoianni. Qui aggiungo nuovi particolari. 
La storia della povera Reyhaneh è come un treno. In testa c'è la locomotiva del nudo fatto: l'applicazione della pena capitale per un caso di omicidio, in uno dei troppi paesi che ancora prevedono la pena di morte. Ma alla locomotiva sono attaccati tanti altri vagoni, con passeggeri che nessuno conosce. In alcuni vagoni c'è anche esplosivo.
Raccomando sempre di rileggere in proposito la storia molto istruttiva di Sakineh, e di come sia stata usata per preparare un clima ostile all'Iran con formidabili manipolazioni.
I giornali anglosassoni sono meno imparziali di quel che vorrebbero far credere, ma sicuramente sono migliori dei nostri media nell'usare espressioni come “alleged” (presunto), “claim” (asserire), “labelled as her will” (etichettato come sua volontà). Lo hanno fatto anche per il caso della supposta trascrizione del testamento morale della giovane Reyhaneh. Nei giornali italiani queste forme basilari di prudenza giornalistica spariscono: tutto è scritto all'indicativo, quello è il messaggio autentico, e più non dimandare. L'edizione serale del Tg3 del 27 ottobre aggiunge alla sua lettura una musica di pianoforte, voi aggiungete i fazzoletti. 


L'Huffington Post, richiamando la sua versione britannica, ci fa alla fine sapere che il messaggio è stato fatto circolare «da pacifisti iraniani». E sulla parola «Iranian peace activists» c'è il link che porta al testo dell'estremo saluto di Reyhaneh Jabbari. Seguite dunque il link e atterrate su una pagina gestita dal NCRINational Council of Resistance of Iran. Sarebbero dunque loro i pacifisti. Loro, l'unica fonte da cui parte il tutto.
Il bravo cittadino medio europeo, che dà un significato positivo alla parola 'pacifista', si ferma lì, non è mica pagato per scavare nelle notizie. Il giornalista medio, che- lui sì - dovrebbe essere pagato per verificare le fonti e non abboccare a chi gli dà la pappa pronta, si ferma lì, anche lui. Riposti i fazzoletti che hanno asciugato le lacrime, migliaia di persone intanto condividono la storia su Facebook. Il loro click non sa più che farsene dell'aggettivo “presunto”. L'indignazione si nutre ormai di certezze irriflessive. Condividete, Fate girare. Indignatevi. Odiate.
Segnalo perciò sommessamente che il NCRI, l'unica fonte della notizia, non è affatto un circolo gandhiano. È un'organizzazione di opposizione che ha largamente fatto uso di metodi terroristici per combattere il potere dell'Iran post rivoluzionario, causando la morte di migliaia di persone. È gestita con metodi da psico-setta, tanto che ricorrono persino denunce di abusi sessuali consumati al suo interno. Non so quanto queste ultime siano accuse attendibili, o frutto di opposta propaganda, ma è un fatto che i nostri media non colgono l'esistenza di controversie che non corrispondono minimamente al ritratto pubblico di un'organizzazione pacifista.
Tra i suoi maggiori sostenitori a livello internazionale troviamo i campioni statunitensi dell'ingerenza (neocon repubblicani e democratici tutti insieme, come sempre): John Bolton, Howard Dean, Newt Gingrich e Rudy Giuliani. Erano loro a urlare di più, quando si scatenavano le campagne mediatiche sulla “Bomba Iraniana”. E citavano proprio il NCRI, che molto spesso gridava “al lupo al lupo” quando descriveva il normale programma nucleare civile di Teheran come una fabbrica di bombe atomiche pronte «entro pochi mesi» e riportava notizie "di prima mano", dimostratesi poi ogni volta infondate.
Alcune lunghe e faticose azioni lobbystiche hanno fatto sì che l'Unione europea e il Dipartimento di Stato USA togliessero infine il NCRI dalla lista delle organizzazioni terroristiche (uno degli ultimi atti di Hillary Clinton in veste di Segretario di Stato).
Qui si entra in un terreno minato, in tutti i sensi, come sempre succede per organizzazioni che hanno un'intreccio indistinguibile fra “ala politica” e “ala militare”, che hanno intrecci ulteriori con le "fabbriche" delle “rivoluzioni colorate” e un costante riferimento anche finanziario presso i falchi di Washington.
Mentre ogni singolo episodio terroristico in Occidente scatena ondate di allarme e di nuove leggi liberticide, si rimuove completamente il fatto che l'Iran sia uno dei bersagli più colpiti al mondo dal terrorismo, proprio per mano dei “mujaheddin del popolo” collegati al NCRI. L'ambiguo ruolo dei miliziani di questo movimento di opposizione pieno di porte girevoli che lo riconducono alla politica USA è completamente sconosciuto presso il pubblico che si informa solo con i media occidentali.
Raccomando perciò di conservare i fazzoletti per le lacrime da versare in guerra. Perché la gerarchia delle notizie ha già oggi la falsità della manipolazione bellica.





22 ottobre 2014

Monsieur Total, la morte del meno atlantista

di Pino Cabras.



L'amministratore delegato della Total (l'Eni francese), Christophe de Margerie, qualche mese fa dichiarava che «non c'è ragione alcuna per dover pagare il petrolio in dollari», e si è battuto strenuamente per non far precipitare l'Europa nel suicidio economico delle sanzioni alla Russia.
Un incidente aereo in quel di Mosca lo ha ieri eliminato dalla scena. 
Per molte ore, l'edizione on line di 'Le Monde' aveva come titolo, anziché "muore il capo della Total", il seguente epitaffio: "Christophe de Margerie, un «vrai ami» de la Russie".

La nuda cronaca del disastro che al momento conosciamo ci dice che quello dell'aeroporto Vnukovo appare come un banale incidente che il destino cinico e baro ha gettato nella fornace dei sospetti, in un'era che conserva ancora la memoria di Enrico Mattei.
Quel titolo di 'Le Monde' sembra voler dire invece: "guardate cosa succede a un vero amico della Russia".
Potrete scommetterci: anche quando gli porteranno prove irrefutabili che è stata la vodka e non la CIA a fare le sue mosse fatali, nessun alto dirigente di questa Europa asservita rimarrà sereno di fronte al destino toccato in sorte all'alto dirigente meno asservito che c'era sulla piazza europea. 

20 ottobre 2014

Geopolitica della guerra contro la Siria e di quella contro Daesh

«Sotto i nostri occhi», cronaca di politica internazionale n°101
di Thierry Meyssan.
da Megachip.

In questa analisi, nuova e originale, Thierry Meyssan espone le ragioni geopolitiche del fallimento della guerra contro la Siria e gli obiettivi reali della presunta guerra contro Daesh. Questo articolo è particolarmente importante per capire le attuali relazioni internazionali e la cristallizzazione dei conflitti nel Levante (Iraq, Siria e Libano).



DAMASCO (Siria)

Le tre crisi in seno alla coalizione
Stiamo assistendo alla terza crisi nel campo degli aggressori dall'inizio della guerra contro la Siria.
- Nel giugno 2012, in occasione della Conferenza di Ginevra 1, che doveva segnare il ritorno della pace e doveva organizzare una nuova spartizione in Medio Oriente tra gli Stati Uniti e la Russia, la Francia - che aveva appena eletto François Hollande - sancì un'interpretazione restrittiva della dichiarazione finale. Poi organizzò il rilancio della guerra, con l'aiuto di Israele e della Turchia e il sostegno del Segretario di Stato Hillary Clinton e del direttore della CIA David Petraeus.
- Dopo che Clinton e Petraeus erano stati eliminati dal presidente Obama, la Turchia organizzò nell'estate del 2013, con Israele e la Francia, il bombardamento chimico della Ghoutta presso Damasco facendolo attribuire alla Siria. Ma gli Stati Uniti rifiutarono di lasciarsi imbarcare in una guerra punitiva.
- A gennaio 2014, gli Stati Uniti fecero votare in una sessione segreta del Congresso il finanziamento e la fornitura d'armi a Daesh con la missione di invadere le aree sunnite dell'Iraq e la zona curda della Siria, al fine di dividere questi grandi Stati. La Francia e la Turchia armarono quindi Al-Qa'ida (il Fronte al-Nusra) affinché attaccasse Daesh e costringesse gli Stati Uniti a tornare al piano originale della Coalizione. Sebbene Al-Qa'ida e Daesh si siano riconciliati a maggio a seguito di un appello alla calma di Ayman al-Zawahiri, la Francia e la Turchia non partecipano ancora ai bombardamenti alleati.
In generale, la Coalizione deli Amici della Siria, che comprendeva nel luglio 2012 «un centinaio di Stati e organizzazioni internazionali», non ne comprende ora più di 11. La Coalizione contro Daesh raggruppa, da parte sua, «più di 60 Stati», ma hanno talmente poco in comune che il loro elenco resta segreto.

Interessi distinti
In realtà, la Coalizione è composta da numerosi Stati che perseguono ciascuno obiettivi specifici e non riescono ad accordarsi sul loro obiettivo comune. Si possono distinguere quattro forze:
- Gli Stati Uniti cercano di controllare gli idrocarburi della regione. Nel 2000, il National Energy Policy Development Group (NEPDG) presieduto da Dick Cheney aveva identificato - attraverso immagini satellitari e dati di trivellazione - le riserve mondiali di petrolio e aveva osservato le immense riserve del gas siriano. Durante il colpo di stato militare del 2001, Washington decise di attaccare in successione otto paesi (Afghanistan, Iraq, Libia, Libano e Siria, Sudan, Somalia, Iran) per impadronirsi delle loro risorse naturali. Il suo stato maggiore ha poi adottato il piano per rimodellare il «Medio Oriente allargato» (che prevede anche lo smantellamento della Turchia e dell'Arabia Saudita), mentre il Dipartimento di Stato ha creato l'anno successivo il suo dipartimento MENA per organizzare le "primavere arabe".
- Israele difende i suoi interessi nazionali: a breve termine, ha continuato passo a passo la sua espansione territoriale. Contemporaneamente e senza attendere di controllare l'intero spazio tra i due fiumi, il Nilo e l'Eufrate, intende controllare tutta l'attività economica della zona, tra cui beninteso gli idrocarburi. Per assicurarsi la sua protezione nell'era dei missili, intende da una parte prendere il controllo di una zona di sicurezza lungo la sua frontiera (oggi ha cacciato le forze di pace al confine del Golan e le ha sostituite con Al-Qa'ida) e dall'altra parte neutralizzare gli eserciti egiziano e siriano prendendoli alle spalle (dispiegamento di missili Patriot della NATO in Turchia, creazione di un Kurdistan in Iraq e del Sud Sudan).
- la Francia e la Turchia continuano il sogno di restaurare i loro imperi. La Francia spera di ottenere un mandato sulla Siria, o almeno su una parte del paese. Ha creato l'Esercito siriano libero e gli ha dato la bandiera verde, bianca, nera a tre stelle del mandato francese. La Turchia, dal canto suo, intende restaurare l'Impero Ottomano. Ha designato un wali fin da settembre 2012 per amministrare questa provincia. I progetti turchi e francesi sono compatibili perché l'Impero ottomano aveva ammesso che alcune sue province potessero essere amministrate con altre potenze coloniali.
- Infine, l'Arabia Saudita e il Qatar sanno che non possono sopravvivere se non servendo gli Stati Uniti e combattendo i regimi laici, di cui la Repubblica araba siriana resta ormai l'unica espressione nella regione.

L'evoluzione della Coalizione
Queste quattro forze hanno potuto collaborare solo durante la prima parte della guerra, da febbraio 2011 a giugno 2012. Si trattava in effetti di una strategia di quarta generazione: alcuni gruppi di forze speciali organizzavano incidenti e agguati qui e lì, mentre le televisioni atlantiste e del Golfo mettevano in scena una dittatura alauita che reprimeva una rivoluzione democratica. Le somme investite e i soldati schierati non rappresentano granché e ognuno pensava di poter tirare un po' la coperta su di sé una volta che la Repubblica araba siriana fosse stata rovesciata.
Tuttavia, nei primi mesi del 2012, il popolo siriano ha cominciato a dubitare che il presidente Bashar al-Assad torturasse i bambini e che la Repubblica venisse rovesciata a favore di un sistema confessionale di tipo libanese. La sede dei takfiristi dell'Emirato Islamico di Baba Amr lasciava presagire la sconfitta dell'operazione. La Francia negoziò allora l'uscita della crisi e la restituzione degli ufficiali francesi che erano stati fatti prigionieri. Gli Stati Uniti e la Russia negoziarono al fine di sostituirsi al Regno Unito e alla Francia e di spartirsi l'insieme della regione, così come fecero Londra e Parigi con gli accordi Syke-Picot del 1916.
Da quel momento, niente funzionava più nella coalizione. I suoi successivi fallimenti dimostrano che non può vincere.
Nel luglio 2012, la Francia organizzava in pompa magna a Parigi l'incontro più importante della Coalizione e rilanciava la guerra. Il discorso pronunciato da François Hollande era stato scritto in inglese, probabilmente dagli israeliani, e poi tradotto in francese. Il Segretario di Stato Hillary Clinton e l'ambasciatore Robert S. Ford (formato da John Negroponte) s'impegnavano nella più vasta guerra segreta della storia. Come era già accaduto in Nicaragua, eserciti privati reclutavano mercenari e li inviavano in Siria. Solo che stavolta questi mercenari vebivano inquadrati ideologicamente per addestrare delle orde jihadiste. La supervisione delle operazioni sfuggiva al Pentagono per tornare in mano al Dipartimento di Stato e alla CIA. Il costo di questa guerra fu enorme, ma non fu imputato al Tesoro degli Stati Uniti, né della Francia né della Turchia, giacché fu interamente coperto dagli esborsi dell'Arabia Saudita e del Qatar.
Secondo la stampa atlantista e del Golfo, qualche migliaio di stranieri vennero e dare manforte alla "rivoluzione democratica siriana." Ma non c'era nulla di una "rivoluzione democratica", bensì gruppi di fanatici che scandivano slogan come «Rivoluzione pacifica: i cristiani a Beirut, gli alauiti nella tomba!» [1] oppure ancora «No a Hezbollah, no all'Iran, vogliamo un presidente che tema Dio!»[2]. Secondo l'Esercito arabo siriano, non sono state poche migliaia, bensì 250mila, gli jihadisti stranieri che sarebbero venuti a combattere, e spesso a morire, dal luglio 2012 al luglio 2014.
Ora, il giorno dopo la sua rielezione, Barack Obama costringeva alle dimissioni il direttore della CIA, il generale David Petraeus, e si sbarazzava di Hillary Clinton durante la formazione della sua nuova amministrazione. Cosicché all'inizio del 2013, la Coalizione si basava quasi solo esclusivamente sulla Francia e la Turchia, con gli Stati Uniti che facevano il meno possibile. Questo era ovviamente il momento che aveva atteso l'Esercito arabo siriano per lanciare la sua inesorabile riconquista del territorio.
François Hollande e Recep Tayyip Erdoğan, Hillary Clinton e David Petraeus intendevano rovesciare la repubblica laica per imporre un regime sunnita che sarebbe stato posto sotto il dominio diretto della Turchia, ma che avrebbe compreso anche alti funzionari francesi. Un modello ereditato dalla fine del XIX secolo, ma che non rappreentava alcun interesse per gli Stati Uniti.
Il democratico Barack Obama e i suoi due segretari democratici e repubblicani alla Difesa, Leon Panetta e Chuck Hagel sono guidati da una politica radicalmente diversa: Panetta è stato espresso dalla Commissione Baker-Hamilton e Obama è stato eletto sulla scorta del programma di tale Commissione. Secondo loro, gli Stati Uniti non sono né devono essere una potenza coloniale nel senso mediterraneo del termine, il che vale a dire che non dovrebbero prendere in considerazione di controllare un territorio installandovi dei coloni. L'esperienza dell'amministrazione Bush in Iraq è stata estremamente costosa rispetto al suo ritorno sugli investimenti. Non dovrebbe essere riprodotta.
Dopo che la Turchia e la Francia hanno cercato di impelagare gli Stati Uniti in un vasto bombardamento della Siria, mettendo in scena la crisi chimica dell'estate 2013, la Casa Bianca e il Pentagono hanno deciso di riprendere il bandolo della matassa. Nel gennaio del 2014, hanno convocato una riunione segreta del Congresso al quale è stata fatta votare una legge segreta che approva un piano di divisione dell'Iraq in tre parti nonché la secessione della regione curda della Siria. Per far questo, hanno deciso di finanziare e armare un gruppo jihadista in grado di realizzare ciò che il diritto internazionale proibisce all'esercito statunitense: una pulizia etnica.
Barack Obama ei suoi armati non stanno prendendo in considerazione il rimodellamento del "Medio Oriente allargato" come un obiettivo in sé, ma solo come un mezzo per controllare le risorse naturali. Usano un concetto classico, divide et impera, non per creare posizioni di re e presidenti in nuovi Stati, ma per continuare la politica degli Stati Uniti in vigore dai tempi di Jimmy Carter.
Nel suo discorso sullo stato dell'Unione del 23 gennaio 1980, il Presidente Carter sanciva la dottrina che porta il suo nome: Washington ritiene che gli idrocarburi del Golfo siano indispensabili alla sua economia e gli appartengono. Pertanto, qualsiasi rimessa in causa da parte di chiunque, in virtù di questo assioma, sarà considerata «un attacco agli interessi vitali degli Stati Uniti d'America, e un tale attacco sarà respinto con ogni mezzo necessario, compresa la forza militare». Nel corso del tempo, Washington si è dotata dello strumento di questa politica, il CentCom, e ha esteso la sua zona riservata al Corno d'Africa.
Pertanto, l'attuale campagna di bombardamenti della Coalizione non ha più alcun rapporto con l'obiettivo iniziale di rovesciare la Repubblica araba siriana. Non ha rapporto alcuno con la sua vetrina di "guerra al terrorismo". Essa punta esclusivamente a difendere gli interessi economici dei soli Stati Uniti, se necessario con la creazione di nuovi Stati, ma non necessariamente.
Allo stato attuale, il Pentagono è simbolicamente aiutato da qualche aereo saudita e qatariota, ma non dalla Francia né dalla Turchia. Rivendica esso stesso di aver condotto più di 4.000 sortite, ma di aver ucciso soltanto poco più di 300 combattenti dell'Emirato islamico. Se ci atteniamo al discorso ufficiale, ne risulta che per uccidere un solo jihadista occorrono più di 13 missioni aeree e un numero imprecisato di bombe e missili. Si tratterebbe perciò della campagna aerea più costosa e più inefficiente della Storia. Ma se si considera il ragionamento precedente, l'attacco di Daesh contro l'Iraq corrisponde a una manipolazione dei prezzi del petrolio che li ha fatti cadere da 115 dollari al barile a 83 dollari, ossia un calo di quasi il 25%. Nouri al-Maliki, il primo ministro iracheno legittimamente eletto, che vendeva la metà del suo petrolio alla Cina, è stato subitaneamente stigmatizzato e rovesciato. Daesh e il governo regionale del Kurdistan iracheno hanno ridotto essi stessi il loro furto di petrolio e l'esportazione di circa il 70%. L'insieme degli impianti petroliferi utilizzati dalle aziende cinesi sono stati puramente e semplicemente distrutti. Di fatto, il petrolio iracheno e il petrolio siriano sono sfuggiti agli acquirenti cinesi e sono stati reintegrati nel mercato internazionale controllato dagli Stati Uniti.
In definitiva, questa campagna aerea è un'applicazione diretta della "Dottrina Carter" e un monito al presidente Xi Jinping che tenta di concludere, qua e là, dei contratti bilaterali di fornitura di idrocarburi per il suo paese, senza passare per il mercato internazionale.

Anticipare il Futuro
Da questa analisi possiamo concludere che:
- Nel periodo attuale, gli Stati Uniti sono disposti a condurre una guerra solo per difendere il loro interesse strategico a controllare il mercato internazionale del petrolio. Di conseguenza, possono andare in guerra contro la Cina, ma non contro la Russia.
- La Francia e la Turchia non saranno mai in grado di realizzare i loro sogni di ricolonizzazione. La Francia dovrebbe riflettere al ruolo che l’AfriCom le ha assegnato sul continente nero. Essa può continuare a intervenire in tutti gli stati che tentano di avvicinarsi alla Cina (Costa d'Avorio, Mali, Repubblica Centrafricana) e riportare l'ordine "occidentale", ma non sarà mai in grado di ripristinare il suo impero coloniale. La Turchia dovrebbe ugualmente abbassare i toni. Anche se il presidente Erdoğan riesce a fare un'alleanza contro natura tra i Fratelli Musulmani e gli ufficiali kemalisti, dovrebbe abbandonare le sue ambizioni neo-ottomane. Soprattutto, dovrebbe ricordarsi che finché è un membro della NATO, il suo paese è più di ogni altro suscettibile d'essere la vittima di un colpo di Stato filo-statunitense, così come lo sono stati prima di lui il greco Georgios Papandreou e il turco Bülent Ecevit.
- L'Arabia Saudita e il Qatar non saranno mai rimborsati dei miliardi che hanno investito a fondo perduto per rovesciare la Repubblica araba siriana. Peggio ancora, è probabile che dovranno pagare per una parte della ricostruzione. La famiglia Saud dovrebbe continuare a soddisfare gli interessi economici statunitensi, ma evitare di perseguire guerre di grande ampiezza e considerare che - in qualsiasi momento - Washington può decidere di partizionare la loro proprietà privata, l'Arabia Saudita.
- Israele può sperare di continuare a giocare sotto il tavolo per provocare nel medio termine l'effettiva divisione dell'Iraq in tre parti. Otterrebbe così un Kurdistan iracheno paragonabile al Sud Sudan che è stato già creato. È tuttavia improbabile che possa collegarvi immediatamente il Nord della Siria. Allo stesso modo, è improbabile che possa spodestare la missione UNIFIL nel Libano meridionale e sostituirla con Al-Qa'ida come ha fatto con la missione UNDOF alla frontiera siriana. Ma in 66 anni Israele ha preso l'abitudine di osare molto spesso per ottenere ogni volta qualcosa in più. In realtà è l'unico vincitore in questa guerra contro la Siria e all'interno della Coalizione. Non solo ha indebolito il suo vicino siriano per lunghi anni, ma è riuscito a costringerlo ad abbandonare il suo arsenale chimico. Così è oggi l'unico Stato al mondo a disporre ufficialmente sia di un arsenale nucleare sofisticato, sia un arsenale chimico e biologico.
- L'Iraq è di fatto diviso in tre Stati separati di cui uno, il Califfato, non potrà mai essere riconosciuto dalla Comunità internazionale. Inizialmente, non vediamo che cosa impedirebbe la secessione del Kurdistan, se non la difficoltà di spiegare per quale incanto abbia aumentato il suo territorio del 40% in rapporto alla sua definizione amministrativa, compresi i campi petroliferi di Kirkuk. Il Califfato dovrebbe gradualmente lasciare il posto a uno Stato sunnita, probabilmente governato da uomini che hanno ufficialmente "lasciato" Daesh, ma in maniera meno crudele. Si tratterebbe in tal caso di un processo paragonabile a quello della Libia, dove sono stati collocati al potere veterani di Al-Qa'ida senza sollevare la minima protesta.
- La Siria gradualmente ritroverà la pace e si concentrerà sulla sua lunga ricostruzione. Si rivolgerà allo scopo alle imprese cinesi, ma terrà Pechino lontano dai suoi idrocarburi. Per ricostruire la sua industria petrolifera e per sfruttare le sue riserve di gas, si rivolgerà a imprese russe. La questione dei gasdotti che la attraverseranno dipenderà dai suoi sostegni iraniano e russo.
- Il Libano continuerà a vivere sotto la minaccia di Daesh ma mai l'organizzazione avrà un ruolo diverso da quello dei terroristi. Gli jihadisti saranno solo un mezzo per congelare un po' di più il funzionamento politico di un paese che affonda nell'anarchia.
- Infine, la Russia e la Cina dovrebbero urgentemente intervenire contro Daesh, in Iraq, in Siria e in Libano, non tanto per compassione per le popolazioni locali, quanto perché questo strumento sarà presto utilizzato contro di loro dagli Stati Uniti. Già ora, se Daesh è controllata dal principe saudita Abdul Rahman, che finanza, e dal califfo Ibrahim, che dirige le operazioni, i suoi ufficiali principali sono georgiani, tutti membri dei servizi segreti militari, e talvolta cinesi turcofoni. Inoltre, il ministro della difesa georgiano ha ammesso, prima di smentirsi, di aver ospitato campi di addestramento per jihadisti. Se Mosca e Pechino esitano, dovranno affrontare Daesh nel Caucaso, nella valle di Ferghana, e nello Xinjiang.


NOTE:
[1] «Rivoluzione pacifica» significa qui che non si farà del male ai sunniti.
[2] All'inizio della guerra, Hezbollah non era presente in Siria, ma la Siria ha sostenuto militarmente Hezbollah nella sua lotta contro l'aggressore israeliano. Non si trattava quindi di mettere Hezbollah fuori dalla Siria, ma di smettere di sostenere la Resistenza.


Questa "cronaca settimanale di politica estera" appare simultaneamente in versione araba sul quotidiano"Al-Watan"(Siria), in versione tedesca sulla "Neue Reinische Zeitung", in lingua russa sulla "Komsomolskaja Pravda", in inglese su"Information Clearing House", in francese sul "Réseau Voltaire".
Thierry Meyssan, 19 ottobre 2014.
Traduzione per Megachip a cura di Matzu Yagi.


10 ottobre 2014

L’inizio del nuovo ordine mondiale: Asiacentrismo

di Raúl Zibechi.
Tradotto da  Daniela Trollio


Nonostante le crisi in Medio Oriente ed in Ucraina si rubino a vicenda i titoli sui media, esse sono solo le punte emergenti di un movimento tellurico molto più grande: la nascita di un nuovo ordine mondiale post-statunitense centrato in Asia, sulla base della triplice alleanza Cina-Russia-India. 






Uno dei nuclei del colonialismo e dell’imperialismo consiste nel proibire ai paesi periferici di fare quello che sono soliti fare i paesi del centro. Quando questo non funziona più, è perché il vecchio ordine centrato sulla relazione centro-periferia sta lasciando il passo a nuove relazioni internazionali. 
Le stesse potenze occidentali che gridano al cielo per l’intervento della Russia in Ucraina, bombardano la Siria senza l’autorizzazione del suo governo con la scusa di combattere un’organizzazione terroristica, lo Stato Islamico, nella cui creazione queste stesse potenze hanno giocato un ruolo rilevante. 
Che Cina e Russia rifiutino questo tipo di azioni militari, che in altri tempi venivano coperte per lo  meno con l’approvazione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, non è quindi una novità. Che il primo ministro dell’India, Narendra Modi, abbia dichiarato alla catena CNN, ore prima della sua visita negli Stati Uniti, che la Russia ha “interessi legittimi in Ucraina” è già una cosa più seria. Non solo ha rifiutato di criticare l’annessione della Crimea da parte della Russia, ma ha anche mostrato “fiducia” in come Pechino sta gestendo le dispute territoriali nei mari del sud della Cina (The Brics Post, 22.9.2014).
 E’ come se una nuova aria di Bandung (la conferenza che nel 1955 spinse la decolonizzazione) soffiasse sul pianeta. “Se lei guarda nei dettagli gli ultimi cinque o dieci secoli, vedrà che Cina e India sono cresciute a ritmi similari. I loro contributi al PIL mondiale sono aumentati in parallelo e sono caduti in parallelo. L’era attuale appartiene all’Asia”, ha detto Modi. Stava facendo un discorso anticolonialista con un’ottica di lunga durata, negli stessi giorni in cui avveniva la visita del presidente cinese Xi Jinping in India, avvenimenti che hanno consolidato una potente alleanza tra i due più grandi paesi della regione.

Politica, o la OCS 
Il grande cambiamento è che l’India ha chiesto la piena integrazione nell’Organizzazione della Cooperazione di Shangai (OCS) durante il recente vertice tenutosi l’11 e 12 di settembre a Dushanbe, capitale del Tagikistan. Fino a quel momento era solo un osservatore.
La OCS fu creata nel 2001 da Russia, Cina, Kazakistan, Kirghizistan e Uzbekistan con l’obiettivo di garantire la sicurezza regionale e di combattere il terrorismo, il separatismo e l’estremismo, definiti “le tre forze maligne”. In futuro potranno aggiungersi Iran e Pakistan, anche se questi passi saranno complessi, vista la disputa tra India e Pakistan sulle loro rispettive frontiere.
Nei fatti, la OCS è una sfida alla leadership statunitense in una regione dove la superpotenza ha sempre meno influenza. L’organizzazione orbita intorno alla Cina, come indica il suo nome. Il consolidamento dell’alleanza Russia-Cina, con il suo lato geopolitico e geoenergetico (che comprende il già iniziato gasdotto per fornire gas russo a Pechino), è motivo di profonda preoccupazione a Washington, come analizzano alcuni media come The Washington Post.
Ma la recente visita di Xi in India  presuppone un passo decisivo nel disegno di un nuovo ordine globale. I dodici accordi firmati a Ahmedabad tra Modi e Xi, che vanno dagli investimenti al commercio fino alla cooperazione per l’energia nucleare, fanno parte del “processo storico di rivitalizzazione nazionale” in entrambe le nazioni emergenti, come ha affermato il ministro cinese agli esteri Wang Yi (Xinhua, 19.9.2014). 
La potenza dell’alleanza tra India e Cina sfida i presunti allineamenti ideologici e ha radice nelle necessità geopolitiche di potenze che affrontano problemi e nemici comuni.
Nel maggio di quest’anno ha assunto il potere Narendra Modi in rappresentanza del Bharatiya Janata Party (BJP), che ha vinto le elezioni generali contro il Congresso Nazionale Indiano (CNI) guidato dall’ex primo ministro Manmohan Singh. Sulla carta il CNI funge da forza progressista, erede della famiglia Gandhi e di Jawaharlal Nehru, alleata con  socialdemocratici e comunisti, mentre il BJP è considerato nazionalista e conservatore.
Ma negli allineamenti geopolitici le ideologie hanno poco da dire. Modi sta mostrando una profonda comprensione delle tendenze storiche in questo periodo di cambiamento del sistema-mondo e, in modo particolare, del ruolo che tocca giocare al continente asiatico. La cooperazione tra la OCS è giunta anche al terreno militare. A fine agosto è stato realizzato “un esercizio antiterrorista internazionale” in Mongolia interna (Cina) a cui hanno partecipato settemila soldati di Cina, Russia, Kazakistan, Kirghizistan e Tagikistan (Diario del Pueblo, 24.8.2014).

Economia, o la via della seta 
Se la OCS è la risposta asiatica alla presenza destabilizzatrice degli Stati Uniti nella regione, la Via della Seta è la risposta economica all’accerchiamento che essi pretendono di imporre sulla Cina, chiamato “pivot verso l’Asia” dall’amministrazione di Barak Obama. Ma è molto di più: significa l’alleanza di Russia e Cina con l’Europa, in concreto con la Germania.
La nuova Via della Seta unisce due potenti centri industriali: Chongqing in Cina con Duisburg in Germania, attraversando Kazakistan, Russia e Bielorussia, eludendo così le zone più conflittuali a sud del Mar Caspio come Afganistan, Iran e Turchia. E’ destinata ad essere la più grande via commerciale del mondo, la cui ferrovia taglia il tempo dei trasporti marittimi da cinque settimane a soli quindici giorni. Si prevede che la Cina diventerà il primo partner commerciale della Germania, il che presuppone un dislocamento geopolitico di grande importanza.
Sta venendo tracciata anche la Via della Seta marittima, che attraversa l’Oceano Indiano, e il Cinturone Economico della via terrestre. La rotta marittima è, in un certo senso, la riattivazione del “collare di perle”, un sistema di porti che attorniava l’India e assicurava il commercio cinese verso l’Europa.
Ma è anche la risposta all’Associazione Transpacifica (TPP in inglese), iniziativa degli Stati Uniti che esclude la Cina e comprende  Giappone, Australia, Nuova Zelanda, più quattro membri della AEAN (Brunei, Malaysia, Singapore e Vietnam) e i paesi dell’Alleanza del Pacifico (Perù, Messico, Cile e probabilmente Colombia). La strategia di Washington consiste nell’isolare la Cina generando conflitti intorno a lei (col Giappone e il Vietnam, principalmente), scusa per militarizzare  i mari della Cina, chiudendo così il cerchio commerciale, politico e militare intorno ad  una potenza che nel 2012 è diventata la principale importatrice di petrolio del mondo, superando gli Stati Uniti.
Questo spiega l’accordo energetico con la Russia, che è l’unico modo in cui la Cina può assicurarsi un rifornimento sicuro. Ma spiega anche il tracciato della nuova Via della Seta, sia quella terrestre che quella marittima. L’80% del petrolio che la Cina importa passa attraverso lo Stretto di Malacca (un angusto corridoio di 800 km. che unisce gli Oceani Pacifico e Indiano tra Indonesia e Malaysia), facilmente bloccabile in caso di guerra.
Per questo la Cina sta costruendo una rete portuaria che comprende porti, basi e stazioni di osservazione in Sri Lanka, Bangladesh e Birmania. Tra questi paesi c’è un porto strategico in Pakistan, Gwadar, la “gola” del Golfo Persico, a 72 km. dalla frontiera con l’Iran e a circa 400 km. dal più importante corridoio di trasporto del petrolio molto vicino allo strategico stretto di Ormuz. Il porto è stato costruito e finanziato dalla Cina ed è gestito dall’impresa statale China Overseas Port Holding Company (COPHC).
Il porto è visto dagli osservatori come il primo punto di appoggio della Cina in Medio Oriente” scriveva la stampa occidentale il giorno dell’inaugurazione (BBC News, 20.3.2007). La regione che circonda il porto di Gwadar contiene due terzi delle riserve mondiali di petrolio. Di lì passa il 30% del petrolio del mondo (ma l’80% di quello che la Cina riceve) e si trova sulla strada più corta verso l’Asia.
La Cina guadagna anche spazi nel cuore dell’Occidente. Il governo britannico ha dato via libera per rafforzare Londra quale centro di commercio mondiale e di investimenti in yuan, la moneta cinese. Ancor più, “il governo britannico si trasformerà nel primo paese occidentale ad emettere un buono sovrano in moneta cinese”, cosa che si deve interpretare come "appoggio alle ambizioni della Cina di utilizzare la sua moneta su scala globale” (Market Watch, 15.9.2014).

Potenza militare
Le sanzioni alla Russia sono un atto di guerra” ragione il redattore capo della rivista Executive Intelligence Review, Jeff Steinberg (EIR, 199.2014). Intanto The Economist considera la OCS come “una specie di NATO guidata dalla Cina”.
E’ evidente che la guerra tra grandi potenze non è ormai più vista come una remota possibilità.
Ognuno, quindi, fa il suo gioco. La Cina  e l’Iran realizzano le loro prime esercitazioni navali congiunte nel Golfo Persico, dove partecipano “navi dell’Armata cinese coinvolte nella protezione della navigazione nel golfo di Aden” (Russia Today, 22.9.2014). La Cina è ora il primo compratore di crudo saudita e non permetterà che le strade che la riforniscono restino nelle mani di forze nemiche.
A fine agosto è trapelato che Russia e Cina stanno negoziando un “accordo militare storico” che comprende l’acquisto da parte del paese asiatico di sottomarini diesel ‘nascosti’, con “interscambio di tecnologia”, mentre continuano i negoziati per la vendita di caccia Sukhoi-35 e sistemi di difesa aerea S-400, considerati i più avanzati del mondo ( Russia Today, 19.8.2014).
Finora i russi si sono mostrati reticenti a vendere certe armi alla Cina, perché questa le copia e finisce per fabbricare i propri prototipi. A loro volta India e Russia, che hanno una vasta cooperazione militare che comprende sottomarini nucleari e portaerei, si dispongono a fabbricare insieme un caccia di quinta generazione.
Siamo davanti ad un punto molto sensibile, su cui Washington ha alcune difficoltà. Anche se continua ad avere il più grande bilancio della difesa del mondo (circa 600 mila milioni di dollari all’anno, a fronte dei poco più di 100 mila della Cina e poco meno dei 100 mila della Russia), questo bilancio è declinante mentre quello dei suoi avversari cresce. La Cina è passata da poco più di 5 mila milioni di dollari all’anno in investimenti militari del 1990 a 110 mila milioni nel 2012. 
Ma l’importante non è quanto si spende, ma come si spende” sostiene un periodico statunitense (The Fiscal Times, 16.9.2014). Secondo la pubblicazione, le enormi spese militari del Pentagono vengono destinate a mantenere la sua costosa flotta di 11 portaerei, alla modernizzazione di vecchi sistemi e a progetti falliti come il caccia F-35.
Intanto Cina e Russia investono in moderni sottomarini nucleari e nella guerra cibernetica. Le armi anti-navi cinesi sono molto meno care che una portaerei, ma possono affondarla o renderla inutilizzabile anche se il Pentagono le considera inespugnabili.

Contrasti 
Le autorità della Difesa degli Stati Uniti sono afflitte da innumerevoli denunce di malversazioni dei bilanci.
Nello scorso luglio la flotta degli F-35 non ha potuto volare per falle a un motore, dopo vari problemi ai sistemi di software, agli armamenti e all’assetto. Dopo due decenni di progettazione e sviluppo il costo del progetto è schizzato a 400.000 milioni di dollari, il progetto di armamento più caro della storia del Pentagono, nonostante il fatto che il debutto del caccia sia stato cancellato in due esibizioni aeree nel Regno Unito (El Periodico, 11.7.2014)
La una volta potente Boeing è un buon esempio dei problemi difensivi del Pentagono. La scommessa che l’F-35 fosse sviluppato dalla Lockheed Martin sta drenando i fondi del Pentagono al di fuori della Boeing, che era l’impresa principale della forza aerea. Di fatto la branca della difesa della Boeing si è ristretta al 56% della sua produzione totale nel 2003, ad appena il 38% nel 2013 e si stima che in pochi anni non produrrà più aerei da combattimento, essendo fallita la sua ricerca di mercati alternativi in Brasile, India e Corea del Sud (Wall Street Journal, 20.9.2014). Boeing chiuderà la sua fabbrica di cargo C-18 a Long Beach e può chiudere quella degli F-18  Saint Louis nel 2017 se non ottiene più commesse. 
In sintesi, la politica estera della Casa Bianca è erratica, mentre quella dei suoi avversari ha un orizzonte definito.
Il giornalista Robert Parry analizza come i neo-conservatori siano riusciti a bloccare la “strategia realista” di Obama, consistente nel collaborare con Vladimir Putin per dipanare il caos geopolitico in Medio Oriente. I neocons continuano a scommettere sulla caduta di Bashar al Assad e spingono per creare situazioni caotiche, come quella che vive la Libia, invece che tollerare l’esistenza di regimi avversari (Consortiumnews.com, 19.9.2014).
Vari analisti sostengono che la fabbricazione di crisi è quanto di meglio sa fare la superpotenza e che questo può essere l’unico modo per contenere la sua decadenza. Il conflitto in Ucraina, dove hanno spinto la caduta di un presidente eletto, punta ad isolare la Russia dall’Europa. L’attacco allo Stato Islamico cerca di spingerlo sempre più verso nord.
Tutte e due le operazioni puntano a danneggiare il tracciato della Via della Seta, considerata una delle travi maestre del nuovo ordine mondiale. 





Per concessione di Centro di Iniziativa Proletaria "G. Tagarelli"
Fonte: http://alainet.org/active/77463&lang=es
Data dell'articolo originale: 26/09/2014
Tratto da: http://www.tlaxcala-int.org/article.asp?reference=13618


5 ottobre 2014

Ucraina e Isis: il vice di Obama rivela (per sbaglio) la verità

di Marcello Foa.


Questo è un esempio di come certe informazioni non circolino sui media occidentali. Un amico che pesca molto bene online mi ha inviato la segnalazione di alcuni articoli che recavano un titolo forte: “Il vicepresidente americano Joe Biden ammette di aver obbligato i Paesi europei ad adottare le sanzioni contro la Russia”.
Come mio dovere, verifico le fonti. E scopro che a dare questa notizia sono Russia Today e altre agenzie di stampa russe. Da esperto di spin mi sorge il dubbio che si tratti di una strumentalizzazione da parte di Mosca. E verifico ulteriormente. In pochi minuti.
Sì, Biden ha tenuto un lungo discorso sulla politica estera all’università di Harvard, discorso a cui i media americani hanno dato ampio spazio ma per evidenziare una battuta, anzi una gaffe su quanto sia frustrante fare il vicepresidente, espressa con un linguaggio molto colorito. Negli articoli, però, nessun riferimento alla frase sull’Europa.
Allora indago ulteriormente, vado sul sito della Casa Bianca dove è pubblicata la trascrizione integrale del discorso di Biden. E, come potete verificare voi stessi, la frase riportata dai media russi è corretta e l’indifferenza con cui è stata accolta dai media occidentali, ma anche europei significativa. Praticamente nessun giornalista ha saputo valutare la portata delle dichiarazioni di Biden. Il che è grave professionalmente, ma non sorprendente: a dare il tono sono state le agenzie di stampa e le tv all news che si sono soffermate sull’aspetto più leggero e sensazionale ovvero la gaffe di Biden; tutto il resto è passato in secondo piano. Anche sulla stampa più autorevole. Perché Biden poteva reggere un titolo, non due. E quelle dichiarazioni formulate nell’ambito di un lungo discorso in cui Biden ha toccato molti aspetti. Gli spin doctor della Casa Bianca si sono ben guardati dall’evidenziarle e sono scivolate via assieme ad altre.
Nessuna manipolazione, nessuna censura: se conosci le logiche e le debolezze dei media puoi orientarli a piacimento. Negli Stati Uniti, ma anche in Europa.
In realtà le dichiarazioni di Biden sono davvero sensazionali,una gaffe in termini diplomatici:
“Abbiamo dato a Putin una scelta semplice: rispetta la sovranità ucraina o avrai di fronte gravi conseguenze. E questo ci ha indotto a mobilitare i maggiori Paesi più sviluppati al mondo affinché imponessero un costo reale alla Russia.   “E’ vero che non volevano farlo. E’ stata la leadership americana e il presidente americano ad insistere, tante di quelle volte da dover mettere in imbarazzo l’Europa per reagire e decidere per le sanzioni economiche, nonostante i costi”.
L’ammissione è fortissima: è stata l’America a costringere l’Europa a punire Putin, contro la sua volontà.
Poi un’altra strabiliante ammissione, sull’Isis, che l’America combatte con toni accorati salvo poi ammettere che il pericolo per gli stessi americani non è così rilevante:
“Non stiamo affrontando un pericolo esistenziale per il nostro stile di vita o la nostra sicurezza. Hai due volte più possibilità di essere colpito da un fulmine per strada che di essere vittima di un evento terroristico negli Stati Uniti”.
Dunque l’Isis non è una minaccia seria, così come non lo è più il terrorismo negli Stati Uniti.
Quando qualcuno dice la verità – e chi più di un vicepresidente americano? – il mondo appare molto diverso rispetto alla propaganda ufficiale. In Ucraina e sul terrorismo.
Ma se i media non ne parlano, la propaganda diventa, anzi resta apparente verità. E la vera verità limitata ai pochi che la sanno davvero cogliere e trasmettere.


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Fonte:  http://blog.ilgiornale.it/foa/2014/10/05/ucraina-e-isis-il-vice-di-obama-rivela-per-sbaglio-la-verita/.


Sull'impegno diretto di Biden sulle questioni ucraine, leggi anche: 
Pino Cabras, I denti degli oligarchi. Il caso Biden.
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