29 aprile 2013

Letta, la tela atlantica

di Pino Cabras - da Megachip.


L’approdo al governo di Enrico Letta ha molti punti di contatto con il viaggio nel potere di Barack Obama. A molti questo potrebbe apparire come un complimento rivolto a due campioni progressisti. Per chi obamiano non è, come chi scrive, è invece la critica a due conservatori impegnati a salvaguardare creativamente gli interessi dell’Impero, Obama al centro e Letta in periferia. Tralasciamo per ora le scontate differenze fra USA e Italia, il divario in termini di loro ruolo e peso internazionale, la diversità dei sistemi politici ed elettorali. Quel che interessa qui sottolineare è il fatto che un sistema in profonda crisi di legittimità ha trovato una soluzione “creativa” all’interno delle proprie classi dirigenti. Gli Stati Uniti erano segnati da un “impresentabile” come il presidente Bush. In Italia venivamo da un livello di fiducia nei partiti politici ormai prossimo allo zero. In entrambi i casi il rimedio è stato covato dalle classi dirigenti promuovendo un leader relativamente giovane, messaggero di una retorica che necessariamente promette il cambiamento, ma protegge i rapporti di forza esistenti.
Obama vince le elezioni promettendo di stare dalla parte della strada (Main Street), contro la finanza (Wall Street), ma poi fa il contrario, al netto di qualche concessione secondaria da sbandierare sui media, fino a riempire l’esecutivo di esponenti di Wall Street e del complesso militare-industriale. Si fa poi rieleggere dicendo che gli altri sono peggio.
Letta raccoglie voti promettendo innovazione e nessun governo con Berlusconi, ma poi si accorda con lui e accoglie i suoi esecutori nel governo, assieme a volti nuovi. Anche Letta riesce a contare su quelli che soccombono continuamente al presunto meno peggio. O almeno: nel PD funziona strutturalmente così, finché, salasso dopo salasso, rimarranno soltanto gli ultimi veterani menopeggisti, una manica di cinici e di poveri illusi.
Per le cariche istituzionali c’è una certa competizione all’interno delle élites, con strategie diverse, sgambetti, trame, giravolte, cordate di potere contrapposte, contestazioni reciproche, ricatti. Gli oligarchi giocano la loro partita in mezzo alle masse, e le associano, cercando di inquadrare interessi diffusi di milioni di persone dentro le battaglie di pochi potenti. La manipolazione mediatica è lo strumento principe in questa partita. Interi spezzoni del sistema politico un tempo riuscivano a sottrarsi in parte al gioco, e gli interessi popolari non erano senza peso negoziale e politico. Negli ultimi decenni la cooptazione di vaste componenti semi-autonome della società e del sistema politico si è invece perfezionata, al punto da non tollerare più nulla che non obbedisca al Pensiero Unico. Chi non obbedisce vede via via deperire gli strumenti e le relazioni che rendevano politicamente spendibile la sua autonomia. In questo deserto, rimangono in piedi gli strumenti e le relazioni della nuova tecnopolitica, le reti di cui Letta è certamente un primatista. Per molti l’alternativa è essere assimilati o non trovare nessun luogo politico dove stare.
Anche il più sofisticato network di potere non riesce tuttavia a convincere enormi porzioni dell’elettorato a farsi rappresentare dai suoi avatar, soprattutto durante una crisi sistemica che sconvolge la società e l’economia. Negli Stati Uniti la larghissima voragine dei non rappresentati è più facilmente neutralizzata perché non vota o perché le sue proteste (come Occupy Wall Street) non puntano a scalfire il gioco politico alle elezioni. In Italia però è accaduto qualcosa di diverso: la formidabile spallata elettorale del Movimento Cinque Stelle guidato da Beppe Grillo è stata talmente aggregante da aver ricostituito un grande polo di opposizione, molto più vasto e variegato del nucleo militante del M5S.
La creatura politica di Grillo e Casaleggio ha i gravi limiti che più volte abbiamo sottolineato, in molti articoli su queste pagine. Ha il problema di dover maturare in fretta per contribuire a una grande alleanza di forze politiche alternative in seno al popolo italiano, mentre i tempi della crisi galoppano e non aspettano i balbettii tattici e le lacune culturali e strategiche di Vito Crimi & Co..
Nondimeno, la sola presenza di questo coagulo di opposizione ha fatto crollare per sempre tutti gli alibi della sinistra istituzionale italiana. Quella sinistra stava semplicemente gestendo un eredità derivante dai decenni in cui aveva schierato vaste forze popolari, i tempi in cui aveva vasti margini di autonomia, programmi propri, grandi spinte intellettuali, una propria idea di geopolitica, una sua coscienza degli interessi nazionali. Per due decenni quel patrimonio storico è stato usato dai dirigenti della sinistra in funzione sempre più subalterna: hanno guidato milioni di persone sotto l’ala di altri centri di potere che avevano e hanno una loro fermissima agenda “atlantica”. Mentre le forze un tempo antioligarchiche non studiavano più nulla e smantellavano ogni luogo in cui avrebbero potuto formare un proprio pensiero autonomo, l’oligarchia atlantica si incuneava profondamente nel loro campo e lo egemonizzava, fino ad assoggettarle. Il vecchio patrimonio è ora totalmente dilapidato. Il maestro di Letta, Beniamino Andreatta, faceva studiare suo figlio Filippo all'Atlantic College. Altri si legavano a istituzioni analoghe. Uno per uno, i rampolli stavano dentro strutture legate al nucleo vero del potere transnazionale dominante.
Perciò le lobby lettiane non hanno quasi nulla di misterioso. L’Aspen Institute, VeDrò, la partecipazione alla Commissione Trilaterale, la cooptazione alle riunioni del Club Bilderberg, gli accademici che ovunque diffondono il Verbo Atlantico e le fesserie teoretiche sul nesso fra austerità e crescita economica, tutte queste relazioni sono reti solide in mezzo a un oceano di dispersione. In quell’oceano le proposte alternative non raggiungono massa critica, e in troppi si perdono nelle illusioni di ricostituire la sinistra senza fare i conti con le vere cause del suo disastro. Basti pensare ai tanti abbagli in sono incorsi i Godot che attendevano inutilmente una qualche riformabilità del PD. Una generazione perduta.
Nulla di misterioso nell’arroccamento del potere nel corso della crisi: è il momento in cui contano solo i rapporti di forza e non sono tollerati esperimenti che possano minimamente mettere in discussione l’agenda atlantica e il pensiero unico della rapina europea. L’unica realtà dirigente rimasta nel campo della fu-sinistra è perciò legata mani e piedi alla ragnatela politica di Letta e simili. I presunti dissensi dei parlamentari durano lo spazio di qualche tweet, e il gregge torna a testa bassa a votare la fiducia, anche se sa che perderà un mare di voti.
SEL si agiterà fuori dal PD, ma non ha grandi potenzialità espansive. Figuriamoci un Civati, dentro il PD.
Intendiamoci, anche Giuliano Amato era un grand commis della tela washingtoniana e londinese. E Romano Prodi era “chairman” del Bilderberg, e via elencando. La novità, con Letta, è che ora non c’è più nient'altro in grado di porsi all’altezza di quei network.
I partiti, i sindacati e altre formazioni sociali si permettevano di esercitare una semisovranità, qualche libertà d’azione sub-dominante. Ora non più, e perciò non c’è più sovranità alcuna.
Non c’è più nemmeno la cauta subordinazione di quando c’era la DC - quando si percorrevano anche certe vie detestate dalle capitali atlantiche importanti - in virtù di interessi che non si voleva liquidare: l'Italia aveva una sovranità limitata, ma non nulla.
Basta scorrere l’elenco dei ministri chiave del governo Letta per capire che adesso il blocco atlantico è il cuore della coalizione. Questo implica un risvolto da non trascurare. Sia prima dell’attacco alla Jugoslavia nel 1999, sia prima dell’aggressione alla Libia nel 2011, le instabilità del sistema politico italiano furono rapidamente regolate da un via vai di parlamentari che si collocavano in modo “innaturale” rispetto ai loro riferimenti. Tutto serviva a rinsaldare il quadro politico per fare meglio la guerra, una guerra decisa altrove. Le occasioni di guerra non mancano nemmeno stavolta.
Perciò l’urgenza di costruire un blocco sociale e politico alternativo, con una sua proposta di governo, è un compito storico di importanza capitale. La tela c’è, ma va rafforzata, perché quelli non scherzano mica, e a chi rimane troppo liquido, se lo bevono.


28 aprile 2013

Grillo, e-mail, colombe e serpenti

di Pino Cabras - da Megachip.


Ha ragione Beppe Grillo a denunciare il silenzio di partiti e istituzioni rispetto alle gravissime intrusioni informatiche nella vita privata dei parlamentari Cinquestelle. Chi non stette in silenzio in tempi non sospetti fu Giulietto Chiesa. A risentire oggi il suo videoeditoriale del 27 febbraio, all’indomani del clamoroso successo elettorale delle liste di Grillo, vengono i brividi:
«Si può star sicuri che, per ognuno degli oltre centosessanta deputati e senatori dell’opposizione, si stanno già compilando i dossier: i servizi segreti sono lì per quello, non penseremo mica che se ne staranno con le mani in mano. Si scava e si scaverà nelle loro vite, si cercheranno le loro magagne, per poi “spenderle” prima o dopo nella melma degli intrighi di Palazzo».
 La prima ad essere colpita è stata Giulia Sarti, 26 anni, uno dei nomi in corsa per la presidenza del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Ossia l’organo del Parlamento che controlla i servizi segreti.
Alle sue profetiche considerazioni, Chiesa aggiungeva che «la nostra fortuna è che saranno dei dossier poveri e “giovani” e quindi conteranno poco, perché questo non è un personale ricattabile».
La valutazione risalta di fronte al clima di ricatto e di “decisioni già prese in altre sedi” che sta caratterizzando le scelte sul nuovo governo di “larghe intese” (larghe di taglia XXXL). I veri ricattabili sono altri. La Sarti e altri suoi colleghi Cinquestelle non hanno nei loro armadi gli scheletri delle coperture alle scalate bancarie, né degli accordi di spartizione di tangenti per la linea TAV, né dei baratti sottobanco sulle concessioni televisive. Non si affannano dietro ai ricatti incrociati delle trattative Stato - Cosa Nostra. I neodeputati non sono insomma ghermiti dalla Storia degli ultimi vent’anni. Vent’anni fa Giulia Sarti andava in prima elementare. Sono altri a fare di tutto, perfino contro i propri elettori, non importa quanti milioni ne perdono.
Come sporcare questi giovani, allora, e spaventarli, umiliarli, in un Paese in cui i poteri occulti usano tutte le gradazioni della minaccia? Non potendo ricorrere alle armi usate su gran parte degli altri esponenti politici, con i grillini si va fino ai recessi della loro intimità, violando profondamente un diritto fondamentale riconosciuto dalla Costituzione, la libertà e segretezza della corrispondenza. È per questo che ogni minuto di silenzio del supremo garante della Costituzione - rieletto lo stesso giorno in cui si distruggevano le intercettazioni che lo riguardavano - suonava sempre meno rassicurante, fino a diventare un cupo messaggio politico. Tutti devono essere ricattabili.
Una vita fa Beppe Grillo girò uno dei suoi pochi film, “Cercasi Gesù”, di Luigi Comencini. Non ricordo se fu citato o no questo passo del vangelo di Matteo: « Ecco, io vi mando come pecore in mezzo ai lupi; siate dunque prudenti come i serpenti e semplici come le colombe». Quanto al lato colombe, ci siamo. Quanto al lato serpenti, non ci siamo proprio, ed è ormai un problema per la nostra democrazia.
Il che non significa “scongelarsi e mescolarsi”, nel senso che vorrebbe il nuovo visir del potere arroccato, Enrico Letta. Servirà più tattica, che non è tatticismo. E più strategia: un governo ombra, ossia dirigenti pienamente politici.

18 aprile 2013

Una pallottola spuntata 8 e ½

di Pino Cabras - da Megachip.


Il decollo della candidatura di Stefano Rodotà alla Presidenza della Repubblica rivela gli aspetti più profondi del risultato elettorale di fine febbraio e scopre l’inettitudine di gran parte delle classi dirigenti italiane, che continuano a sottovalutare la portata storica di queste elezioni perché non sanno più leggere nulla, perché pensano che siano una parentesi, tanto poi si farà come e più di prima. Gli dei accecano coloro che vogliono portare alla rovina. Stavolta gli dei si sono accaniti oltre ogni misura con gli occhi politici di quel povero cocciuto di Pierluigi Bersani, che si è presentato ai grandi elettori quirinalizi del suo partito annunciando, dopo i suoi incontri con il Caimandrillo, la sua carta segreta meravigliosa: niente meno che Franco Marini, presentato come «un uomo che conosce le sofferenze dei lavoratori e in questi tempi di crisi rappresenterebbe un segnale di apertura della politica». E noi, con un groppo in gola, sognamo la scena in milioni di case italiane. Ansiosi per il lavoro? Animo! C’è Marini! Ah, sollievo!
Questo è il mondo di Bersani. La cosa tragica è che il suo non è stato il classico ballon d’essai, né una machiavellica manovra per bruciare Marini e preparare il terreno ad altri. No, Bersani si è proprio giocato tutta la sua faccia, senza affatto intuire la forza del putiferio che avrebbe fatalmente scatenato, non solo fra la gran massa dei suoi elettori, ma fin dentro i suoi gruppi parlamentari.
Nichi Vendola non ha atteso un minuto per sganciare i voti di SEL da quelli di Berlusconi. Matteo Renzi, che un’idea di dove giri il fumo ce l’ha, non ha aspettato nemmeno lui.
E aggiungiamo che la rete - leggi milioni di elettori del PD e non solo - travolgerà questo assurdo tentativo in poche ore: per noi è una facile profezia, per i fautori del «segnale di apertura della politica» è una cosa incomprensibile, come sempre. Eppure, per capire che la cosa non poteva funzionare, a questi strateghi bastava ricordarsi due fatti: che il 40% degli operai ha votato le liste di Beppe Grillo, e che Marini è stato allegramente trombato dagli elettori abruzzesi. Le «sofferenze dei lavoratori» avevano trovato le aperture.
Bersani ascolta ancora quel volpone di Massimo D’Alema, un re Mida all’incontrario che da anni in politica sbaglia sempre tutto, mosse, previsioni, alleanze: un perdente di razza, ancora miracolosamente sorretto da una pertica di spocchia che dal calcagno lo innalza fino al Palazzo.
È presto per capire se e come avremo un governo, ora che dobbiamo aspettare anche l’assestarsi della battaglia per il Quirinale. Ma è già certo che non ci sono margini di consenso né di sufficiente legittimazione per un “governissimo”.
L’effetto dirompente della candidatura di Rodotà dovrebbe far prendere coscienza ai Cinquestelle dei loro mezzi reali, quando si accorgono che tattica non è affatto sinonimo di tatticismo. Se i parlamentari del M5S prendono l’iniziativa e si ricordano di avere un peso, come hanno fatto adesso, allora cambia tutto lo scenario. E questo può accadere persino per un governo. I saggi che piacciono agli elettori, quegli elettori che vogliono rinnovare la nostra Repubblica, vanno indicati con nomi e cognomi. E intanto, ora, ci vuole un Rodotà.

13 aprile 2013

Il Casaleggium non funziona

di Pino Cabras da Megachip.
CON AGGIORNAMENTO.


Non enfatizziamo più di tanto i difetti della seconda prova elettorale nazionale del Casaleggium, il dispositivo di voto online con il quale alcune migliaia di militanti registrati del MoVimento 5 Stelle distribuiscono i loro voti sulle candidature. Prima furono le “Parlamentarie”, oggi le “Quirinarie”. Stavolta le votazioni sono state annullate e ripetute dopo la denuncia di intrusioni in grado di alterare il voto. In sé, lo ripetiamo, l’episodio non va enfatizzato, perché - nonostante la retorica martellante del marketing di Grillo e nonostante le raffiche esacerbate degli avversari – rimane un avvenimento politico di modesta importanza, legato a un campione limitato di attivisti che sperimenta i primi rudimenti di un sistema carente. Più importante è invece trarre una lezione di fondo: il voto elettronico, ovunque sia stato applicato in sede di decisione politica di massa, è stato sin qui una storia di insuccessi, tanto più evidenti quanto più alte erano le speranze democratiche attribuite ai voti espressi con un clic.
Negli USA, alla già complicata varietà di sistemi elettorali farraginosi, da un quindicennio in qua si sono aggiunti nelle cabine elettorali vari sistemi di voto elettronico che seminano ogni volta dubbi e polemiche sia nelle primarie sia nelle votazioni generali, al punto da inquinare profondamente la fiducia nel sistema. Il Casaleggium – essendo praticato in un contesto ancora meno controllabile e più vulnerabile come la Rete – per ora riesce a dimostrare poche cose: dà prova di riuscire a coinvolgere ancora poca gente e di essere troppo esposto ad attacchi per poter assicurare fiducia nel sistema e nei risultati.
Le forme di scrutinio tradizionale non sono esenti da brogli, si obietterà. Vero. Ma non c’è ancora un paradigma basato sul voto elettronico in grado di sostituirsi ai vecchi sistemi con più vantaggi. Senza considerare che metà della popolazione italiana non sa nemmeno come si accende un computer, con tanti saluti all’«ognuno vale uno».
Anche in rete non sappiamo che farcene di ideologismi e falsa coscienza. Perciò leggiamo sul Fatto Quotidiano del 13 aprile un’intervista a un vero pragmatico della rete, Umberto Rapetto, da sempre in trincea nella lotta alle frodi telematiche. Rapetto ammonisce: «L’immaterialità del web si presta agli interventi più disparati. Internet è l’anarchia assoluta. Tutti quelli che hanno cercato di imbrigliarlo con delle regole hanno sbagliato: dai governi agli ideologi della rete. Volerla usare come strumento di governo e controllo è una follia». E se non fosse ancora abbastanza chiaro, aggiunge: «Non si può credere all’infallibilità del web. È un sistema che fa errori, tant’è che, come nella vecchia politica, bisogna rifare tutto.»
Anche Marco Schiaffino, un avvocato che nuota come un pesce nella corrente del diritto in rete, porta un argomento convincente contro il Casaleggium: «I furti di dati sono all’ordine del giorno e l’idea di creare un sistema di protezione a prova di bomba è pura utopia. La cronaca è piena di esempi: furti di dati di carte di credito, account Twitter, Facebook e PayPal eseguiti violando direttamente i database centrali in cui erano conservati. E si parla di aziende che spendono una fortuna per proteggere i loro dati. Figuriamoci che livello di sicurezza può garantire il sistema informatico di un movimento semi-spontaneo basato sul volontariato degli attivisti.»
E poi non è solo questione di sicurezza, ma di forma della partecipazione. Col passare degli anni diventa sempre più prezioso scoprire il pensiero di chi aveva visto lontano. C’è una famosissima intervista di trent’anni fa a Enrico Berlinguer (“Orwell, il computer, il futuro della democrazia”, l’Unità, 1° dicembre 1983), nella quale Berlinguer dice:
«La democrazia elettronica limitata ad alcuni aspetti della vita associata dell'uomo può anche essere presa in considerazione. Ma non si può accettare che sostituisca tutte le forme della vita democratica. Anzi credo che bisogna preoccuparsi di essere pronti ad affrontare questo pericolo anche sul terreno legislativo. Ci vogliono limiti precisi all'uso dei computer come alternativa alle assemblee elettive. Tra l'altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l'unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone. Ad ogni modo lo ripeto: io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell'uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi. Ogni epoca, certo, ha e avrà i suoi movimenti e le sue associazioni. Vedi per esempio, nella nostra i movimenti pacifisti, i movimenti ecologici, quelli che, in un modo o nell'altro, contrastano l’omologazione dei gusti e il conformismo: chi avrebbe saputo immaginarli quaranta o anche venti anni fa? Naturalmente compito dei partiti dovrà essere quello di adeguarsi ai tempi e alle epoche. È qui che si misura la loro tenuta: sulla loro capacità di rinnovarsi.»
E in effetti l’incapacità di rinnovarsi dei partiti spiega molto di quanto accade oggi, trent'anni dopo.  Berlinguer naturalmente parlava a partire da quel che vedeva, i vecchi partiti. L’intervistatore gli chiese: «Quindi tu non credi che anche i partiti storici come quelli della vecchia Europa possano diventare solo dei partiti-immagine?». La risposta è attualissima:
«Possono, certo che possono. Ma intanto bisogna attrezzarsi per saper essere anche partiti-immagine e partiti d'opinione. Il rischio è quello di diventare solo questo. Perché sarebbe un impoverimento non solo della vita politica, ma della vita dell'uomo in generale».
Può sembrare paradossale, ma ora il monito berlingueriano vale anche per il M5S: «È qui che si misura la loro tenuta: sulla loro capacità di rinnovarsi.» Nel cambiare profondamente una cosa già sciupata. Il Casaleggium è già obsoleto.


AGGIORNAMENTO delle ore 21,45, 13 aprile 2013:
Al di là delle critiche all'affidabilità del sistema di votazione online adottato dal M5S, la rosa dei dieci nomi che emerge da questo meccanismo taglia in radice uno degli argomenti più sbagliati usati contro i Cinquestelle: quello di essere un movimento fascistoide. Lo ha usato molto spesso, prima e dopo il 28 febbraio, una parte della sinistra spiazzata da questo movimento. L'assurdità di vedere il fascismo nella forza politica dei Cinquestelle è peraltro confermata dalla mozione per il ritiro dei soldati dall'Afghanistan presentata dai parlamentari grillini: una delle tante cose che la sinistra italiana non ha fatto.
Risalta semmai una contraddizione con due dei dieci nomi emersi, quelli di Emma Bonino e Romano Prodi, due calibri da club Bilderberg che hanno pienamente appoggiato l'intervento militare in Afghanistan. Rimangono otto nomi notevoli, otto nomi che aprono un piccolo spiraglio per il futuro e lasciano un rimpianto per il passato: se fossero stati proposti con forza molto prima, avrebbero messo all'angolo per tempo tutti gli architetti di altri accordi sottobanco.
p.c.



4 aprile 2013

Nord Corea, la guerra atomica può attendere

di Pino Cabras - da Megachip.

Sulla crisi in Corea, un consiglio a chi ci legge (una piccola porzione fra i miliardi di utenti del sistema mediatico): non c'è da preoccuparsi troppo, per ora. Per molti nel mondo è già così, come ha rilevato il quotidiano britannico The Guardian, riscontrando che quasi nessuno prende sul serio i bellicosi comunicati dei comandi nordcoreani, quando proclamano di poter attaccare atomicamente il suolo nordamericano. 
Il livello della retorica del giovane Kim Jong Un sembra voler bucare la nostra noncuranza sollevandosi di parecchi toni. Se un capo di stato minaccia di radere al suolo le città USA si guadagna inevitabilmente i titoli di testa di ogni medium che abbia memoria dell’immaginario di Hollywood, e qualche sopracciglio in più si solleva (e anche qualche elicottero in più). Poco sappiamo delle dinamiche interne del potere in Corea del Nord, uno stato eremita, ma possiamo lo stesso scommettere che nessuno al suo vertice pensi di vincere una guerra con gli Stati Uniti d’America fino a portarla sulla scala della guerra termonucleare. A Pyongyang non sono dei suicidi, o almeno non fino a questo punto.

Come leggere i fatti, allora?

Forse più avanti sapremo qualcosa di più, ma qualche punto fermo c’è già.

Primo. Il contesto delle minacce: ogni anno le forze armate USA e quelle della Corea del Sud fanno gigantesche esercitazioni militari congiunte a ridosso della Corea del Nord. Laggiù al Nord non sono mai tranquilli, come non lo sarebbero gli USA se una grossa armata di un paese lontano migliaia di chilometri considerato un nemico strategico facesse le proprie manovre a un miglio dalle proprie coste. Ogni anno non si contano le proteste e qualche volta si registrano scaramucce di confine. Quest’anno è soltanto tutto più intenso.

Secondo. Le manovre del 2013 sono affrontate per la prima volta dal nuovo leader della dinastia nordcoreana, Kim Jong Un. Poiché il nonno e il padre che lo hanno preceduto hanno incentrato il loro ruolo guida su una retorica agiografica, titanica ed eroica rivolta contro nemici potentissimi, l’ex rampollo (ufficialmente definito come “Grande Successore”) è subito assorbito dal ruolo. Non dovrà essere da meno, anzi: dovrà mostrarsi più risoluto, esibire nemici più duri, e giustificazioni più spietate per schiacciarli. Non verrebbe capito molto, se adottasse invece il linguaggio di papa Francesco sulla “tenerezza”. In genere nessun leader in questo pianeta sembra adottare quel linguaggio. Tanto meno se ne serve un dittatore acerbo che deve iniziarsi per via militare, non tanto agli occhi del mondo, quanto a quelli dei suoi compatrioti, che vivono in una bolla mediatica separata dalla nostra.

Terzo. Il paese è in perenne crisi alimentare, e più volte ha trovato accordi con il nemico per garantirsi degli aiuti. Avere un nemico fa comodo a ogni potere, e un modus vivendi si trova, i do ut des cinici possono essere alimentati dallo scontro, dalle pressioni, dalle minacce reciproche. Proprio mentre il teatro strategico dell’Oceano Pacifico diventa più importante, e gli USA aumentano la propria presenza in funzione anti-cinese, un nemico nell’area fa comodo, per quanto riottoso, imprevedibile e impenetrabile. Chi le sloggia più le basi americane? Il giapponese Hatoyama, che aveva provato a mandarne via una, non c’è riuscito, e ha persino dovuto dimettersi da premier, nel 2010. Già ora tutto il dispositivo si sta rafforzando.

A Mosca tutto questo non piace, perché basterebbe un guasto meccanico per scatenare gli automatismi dei grandi apparati in assetto di guerra.

E anche a Pechino la situazione non piace per nulla, perché va a perturbare la sua sfera d’azione più vicina, nei mesi già agitati dalle nuove tensioni con il Giappone per via delle isolette contese, le Senkaku-Diaoyu.  Di certo i cinesi non vogliono che il vicino abbia armi nucleari, né che faccia un uso così rozzo della deterrenza. All’ONU hanno persino votato con gli USA per imporre sanzioni a Pyongyang sul programma nucleare.

La guerra termonucleare può attendere anche stavolta, ma ovunque nel mondo l’uso delle leve del potere si fa più esasperato di fronte al rapido mutare degli equilibri. A Cipro prosciugano i conti correnti, in Estremo Oriente si dà fondo alla retorica bellica. Ma stanno parlando di noi, anche se per ora non sembra.