16 aprile 2016

Dopo i sauditi, anche l'Egitto imbavaglia Al Manar

di Pino Cabras.


Le pressioni degli sponsor dell'ISIS restringono sempre di più gli spazi televisivi per i loro nemici. Dopo la piattaforma satellitare Arabsat, anche quella egiziana denominata Nilesat, vista in tutto il Vicino e Medio Oriente, ha deciso di oscurare le trasmissioni del canale libanese Al Manar (Il Faro). Dal 5 aprile, uno degli organi di informazione in lingua araba più influenti, legato al movimento di resistenza libanese Hezbollah, è stato escluso dalla piattaforma la cui sede è in Egitto. Sono stati gli stessi media egiziani ad annunciarlo, precedendo l'incontro al vertice tra il presidente egiziano Al Sisi e il re saudita Salman, accolto dunque con un regalo per lui molto gradito

AL MANAR - I PRECEDENTI:
ECCO COME STANNO SOFFOCANDO UNA VOCE FONDAMENTALE PER L'INFORMAZIONE MEDIORIENTALE


In questo cinico scambio di doni fra capi di Stato si assiste a un grande dirottamento di miliardi. I 4 miliardi di dollari che fino a poche settimane fa i sauditi avevano destinato alle forze armate libanesi atterrano invece al Cairo, per rafforzare il rapporto con uno dei maggiori "clientes" di Riad - il regime egiziano - e indebolire la tenuta del fragile Stato libanese. Il tutto avviene per rafforzare l'asse di interessi saudita, impegnato direttamente o indirettamente su varifronti di guerra (Siria e Yemen su tutti) in contrapposizione all'asse legato alle forze sciite (Iran, Repubblica Siriana, Hezbollah). AncheIsraele ha un interesse strategico a mettere il bavaglio ad Al Manar, una delle voci più informate e critiche rispetto alle azioni militari israeliane. Non è il primo caso in cui Israele realizza una forte convergenza d'interessi con Casa Saud.

Non prende nessuna posizione la coalizione libanese del «14 Marzo». Il suo leader Saad Hariri, ha radici familiari, ideologiche ed economiche fortissime con l'Arabia Saudita, perciò tace. Rimangono invece le forti proteste della coalizione dell'«8 Marzo», che associa Hezbollah alla Corrente Patriottica Libera di Michel Aoun(egemonizzata dai cristiani maroniti). Queste diverse posizioni rappresentano bene la spaccatura politica che rischia di paralizzare o persino far esplodere la vita politica libanese.

I reporter di Al Manar hanno raccontato con grande impegno e professionalità dettagli importantissimi della guerra siriana. Senza la loro capillare presenza nei luoghi di battaglia, il mondo avrebbe saputo molto meno e l'ISIS-Daesh e le altre formazioni jihadiste sarebbero apparse come una galassia lontana. Il servizio reso al mondo consiste nel raccontare la portata di questo immenso pericolo per la pace mondiale. E soprattutto nel rivelare chi foraggia gli autori delle brutalità. I sauditi non vogliono testimoni, e nemmeno i loro alleati vicini e lontani, compreso Israele (anche se la liaison fra Tel Aviv e Riad può apparire contro-intuitiva).

Al Manar proseguirà le sue trasmissioni su una piattaforma satellitare russa (il che comporterà qualche macchinoso adattamento per milioni di parabole nelle case arabe) e in streaming, sul seguente canale:
Nel frattempo l'altro grande sponsor dei tagliagole, jihadisti , il regime del presidente turco Erdoğan - che ha il record mondiale di giornalisti incarcerati - ha oscurato il sito in lingua turca dell'agenzia russa Sputnik.

Per parte nostra, ci sentiamo di condannare questo attacco alla libertà di parola che vuole impedire una narrazione più autentica delle vicende mediorientali. Esprimiamo piena solidarietà ai giornalisti colpiti, anche in mezzo al silenzio occidentale. La "saudizzazione" e l'"erdoganizzazione" dei media rappresentano un attentato non solo alla libertà di parola, ma alla comprensione dei temi della pace e della guerra nel mondo.


DONAZIONE


Caso Regeni e 11 Settembre: messaggio ai giornalisti italiani

Luogocomune.net  ---  PandoraTV.it.

Videoeditoriale di Massimo Mazzucco - Cari giornalisti, sul caso Regeni avete svolto impeccabilmente il vostro lavoro, smontando una per una le versioni ufficiali. Allora perché per l'11 settembre...


Fonti:





6 aprile 2016

#PanamaPapers: segreti manipolati

di Pino Cabras.


La diffusione della mega-soffiata sulle ricchezze offshore, già confezionata con il nome di ‘Panama Papers’, va osservata con criteri distaccati, come tentai di fare al momento del massimo impatto delle rivelazioni via Wikileaks, nel 2010, quando moltissimi cablogrammi diplomatici americani divennero improvvisamente di pubblico dominio. In quella occasione pensai che «deve valere una premessa: non ci sono individui, e neanche organizzazioni, che siano in grado di leggere 250mila documenti in breve tempo. Quindi ci arriva solo un flusso filtrato di documenti. E chi lo filtra, per ora, è la vecchia fabbrica dei media tradizionali». Oggi, che i documenti trapelati sono 11 milioni e mezzo, una cinquantina di volte di più di allora, il discorso vale ancora di più. Dunque dobbiamo capire quali fonti producono i materiali, chi li studia e filtra, chi li diffonde e rifiltra, con quale parabola mediatica alla fine arrivano a tutti noi.

Nel caso dei Panama Papers, nessuno di noi conosce i primi manipolatori delle fonti.
Sappiamo solo che, oltre un anno fa, una manina ha sottratto un enorme fascicolo digitale custodito dallo studio legale panamense Mossack Fonseca, una di quelle officine tropicali degli affari segreti che armonizzano le alchimie fiscali del capitalismo finanziario globalizzato. Il portafoglio panamense è una piccolissima frazione degli affari planetari, però ritagliata con particolare cura in modo da non ricomprendere i grandi padroni americani. Fra i documenti scoperchiati, infatti, sono ricostruiti i giochi finanziari di nemici e amici dell’America, ma non degli americani. Molti commentatori sono concordi: si tratta di un’anomalia ma non si tratta di un caso, se gli americani stanno fuori dal mirino.
La manina, che rimane segreta e non chiede un dollaro in cambio, affida tutto alla redazione di Süddeutsche Zeitung, quotidiano di Monaco di Baviera edito da una casa editrice legata alle principali conglomerate editoriali tedesche. Il materiale, tuttavia, è troppo voluminoso anche per un grande giornale. I redattori ricorrono perciò all’International Consortium of Investigative Journalists (ICIJ), una rete che mette insieme 190 giornalisti di oltre 65 Paesi, ed è l’emanazione internazionale di un’organizzazione basata negli Stati Uniti d’America, il Center for Public Integrity, che vanta tra i suoi finanziatori le principali fondazioni delle grandi famiglie capitalistiche americane, compresi i Rockefeller, i Rothschild, la Open Society di Soros, e altri super-filantropi di peso paragonabile. Il consorzio dei giornalisti investigativi è insomma alimentato dal cupolone dei padroni universali, gli stessi che i Papers non nominano, i medesimi che guidano affari opachi e speculazioni su una scala enormemente maggiore rispetto a quanto emerso dalle carte panamensi.
Come mai un cenacolo di straricchi capaci di muovere vagonate di miliardi con un solo clic, senza battere ciglio si mette a finanziare proprio i giornalisti che quasi ogni anno tirano fuori grosse inchieste contro i paradisi fiscali? Anche qui: si tratta di un’anomalia, ma è improbabile che si tratti di un caso.


I meno distratti sanno che attualmente con il TTIP e altri trattati più o meno segreti si sta ridisegnando lo spazio euroatlantico a guida statunitense in modo da ricompattare il blocco capitalista più legato a Washington intorno a una sorta di “NATO economica”. Ebbene, nel 2009-2010, il presidente Barack Obama aveva composto un collegio di consiglieri economici presieduto dalla storica Christina Romer, una professoressa che aveva studiato a menadito la Grande Depressione degli anni trenta. Secondo la Romer l’unico modo per risolvere strutturalmente la crisi finanziaria con epicentro negli Stati Uniti stava nel determinare un trasferimento di capitali europei verso Wall Street. Da allora, da Washington si sono moltiplicate le iniziative per far chiudere il maggior numero possibile di paradisi fiscali non anglo-sassoni, troppo concorrenziali. E una parte dei giochi ha reso meno forte l’euro. È un’angolazione diversa per osservare le fughe di notizie di questi anni: la crisi di Cipro, gli scandali vaticani, l’attacco al santuario bancario svizzero, ecc. Naturalmente queste ondate di scandali, creando panico, si riverberavano negativamente anche sulla finanza anglosassone, per via delle tante interconnessioni. Ma nell’insieme, quella rimane più protetta dalle regole e dai rapporti di forza nelle istituzioni finanziarie internazionali che essa stessa ha creato e quindi resiste all’urto. 
Come la chemioterapia, che ambisce a sopportare il veleno che uccide molte cellule funzionali al proprio organismo purché uccida tutte le cellule “disfunzionali” del tumore, allo stesso modo i poli della finanza anglosassone vedono ridursi o perfino scomparire i poli concorrenti, al prezzo di un certo caos sistemico.
Malgrado ciò, i capitalisti in cerca di investimenti stabili e sicuri non hanno ancora trovato né così allettante né così facile trasferire i loro soldi in USA, di cui – nonostante tutto – avvertono gli scricchiolii.
Quel sistema che grossolanamente chiamiamo NATO economica spianerà la strada. Se va in porto, gli USA si salvano attirando i capitali europei, a spese di interi popoli, ai quali andranno resi difficili gli affari con paesi fuori da quel giro, anche se più convenienti e più complementari. Magari con uno strumento micidiale: le sanzioni.
Ebbene, la questione delle sanzioni è un punto particolarmente illuminante, che spiega bene dentro quali paletti potesse muoversi l’inchiesta. Nel documento di presentazione dei Panama Papers pubblicato dalla Süddeutsche Zeitung, infatti si spiega che la specializzazione primaria della Mossack Fonseca, oltre al riciclaggio e l’evasione fiscale, riguardava «attività imprenditoriali che potenzialmente violano delle sanzioni».
Rockefeller non ha bisogno di questi schemi, mentre è più probabile che li abbiano dovuti usare le classi dirigenti russe (soggette a un drastico sistema di sanzioni), per riuscire a interagire faticosamente con il resto del mondo, in questi anni. E così hanno fatto altri dirigenti di altri paesi soggetti a sanzioni.
I giornalisti dell’ICIJ, collegati alle principali testate dell’Occidente – che possiamo considerare come altrettanti organi ufficiosi della NATO – non si sono posti il problema. Il contesto sanzioni, nella vulgata dei giornali, cede il passo al contesto corruzione/evasione. E mentre il contesto sanzioni spiegherebbe bene la scoperta dell’acqua calda, che cioè i grandi giri di denaro in Russia non li fanno i nemici di Putin, il contesto corruzione/evasione è inadatto a spiegare il ruolo di Putin. Ma gli organi della NATO preferiscono quello, e riprendono allora tutto il set di interpretazioni che hanno già usato altre volte. A Putin non è riconducibile direttamente nessuno degli schemi finanziari analizzati, ma il suo ritratto deve aprire la notizia, e mangiarsela. Esattamente come quando era esploso lo scandalo doping: riguardava atleti di decine di nazioni, ma la Repubblica faceva il titolone in prima sul surreale “doping di Putin”.
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In Regno Unito il primo giorno hanno fatto di peggio. Nonostante fosse direttamente coinvolto il padre del premier Cameron, il tanto decantato giornalismo britannico è stato zitto, per fare invece a gara, anche lì, a chi metteva la foto più grande di Vladimir il Cattivo.
Eppure ci sarebbe da dire anche su questa tegola per il primo ministro britannico. Nonostante lo storico allineamento di Londra con Washington, recentemente ci sono state moltissime correnti di attrazione economica e finanziaria fra Londra e Pechino. La stessa grande soffiata, pur chiamandosi Panama, riguarda in buona parte affari che si concludono nella City londinese. Ne risulta un bel calcione a eventuali velleità britanniche, così come lo scandalo Volkswagen risultava essere un bel calcione alle velleità germaniche e la supermulta alla banca BNP Paribas era bel calcione alle velleità francesi. Seguono attentati.
Recentemente Sergey Glazyev, un economista molto ascoltato da Putin, ha parlato di “guerra ibrida” per definire le complesse mosse non strettamente militari degli USA contro il “nemico” russo. Possiamo estendere la definizione anche ad altri casi: la “guerra ibrida” viene mossa anche contro gli “amici”. Magari via Panama, ma con il portafoglio ben radicato e protetto a Washington. E con infiniti strati di copertura che rendano irriconoscibile la guerra e facciano credere che esista il giornalismo investigativo con il guinzaglio lungo.