26 novembre 2008

Se questo è un terrorista

di Pino Cabras - da «Megachip»



Ziad Jarrah, nelle versioni ufficiali dell’11/9, era il fondamentalista fanatico e suicida che pilotò l’aereo dirottato della United Airlines (volo 93) fino al suo schianto nelle campagne della Pennsylvania. Oggi ci viene mostrato un suo video risalente a qualche tempo prima.
Come gli altri documenti sul “gruppo di fuoco” dei mega-attentati, anche questo conferma anomalie stridenti per il ritratto di un fondamentalista.
Video e accertamenti ricavati da vari investigatori, anche dell’FBI, e ignorati dalla Commissione sull’11/9, ci mostrano dei giovani ben poco pii, per nulla dediti ad austere consuetudini salafite, e molto inclini a momenti di vera débauche, ubriacature, cocaina, vestiti alla moda e gioielli, senza trascurare qualche braciola di maiale.
I presunti dirottatori Marwan Alshehhi e Hamza Alghamdi – ad esempio - acquistarono video porno e giocattoli erotici per centinaia di dollari in Florida. Spesero 252 dollari in video e 'giocattoli' ai primi di luglio 2001, e poi altri 183 dollari nel corso di quel mese. Come se non bastasse, Satam Al-Suqami probabilmente pagò per un'accompagnatrice a Boston il 7 settembre 2001. Alshehhi venne inoltre riconosciuto da sei ballerine del Cheetah’s, un nightclub di Pompano Beach, Florida. Questo combacia con altre prove del fatto che i dirottatori bevevano alcol, pagavano per ballerine di lap dance, guardavano video porno, ecc., ben lontani dal comportamento che ci si aspetterebbe da dei religiosi radicali.
Le presenze dei presunti dirottatori in bar e ristoranti lasciano grandi tracce con le carte di credito. Va detto che alcune carte di credito usate dai presunti dirottatori furono usate ancora negli USA dopo l'11/9. Per esempio, una carta di credito posseduta congiuntamente da Mohamed Atta e Marwan Alshehhi venne usata due volte il 15 settembre. Ciò risulta di sostegno alle notizie giornalistiche di fine 2001 che riportavano che le carte di credito dei dirottatori furono usate sulla Costa orientale degli USA non più tardi dei primi di ottobre del 2001.
In ogni caso, sappiamo anche che i linceziosi picciotti di al-Qā‘ida non disdegnavano le sale da gioco di Las Vegas, altro luogo in cui dei musulmani non fanno esattamente la figura dei devoti al Corano. Nulla si sa sulla data originale del filmato di Jarrah tirato fuori dalla NBC. Di norma gli aspiranti attentatori suicidi filmano i loro testamenti video alla vigilia dei loro attentati. Sono intesi come un messaggio finale alle proprie famiglie, e come uno strumento di propaganda da trasmettere in ambienti di militanti. L’assenza di dati così specifici si presta a manipolazioni e deviazioni che aggiungono dubbi, più che risolverne.
Ziad Jarrah appare impacciato, come se recitasse controvoglia, senza solennità, un copione idiota in cui non crede minimamente, tanto che gli scappa da ridere, come uno che esclami “che s’ha da fa’ pe’ campa’!”
A sostegno della versione ufficiale, i suoi mitografi hanno interpretato così il video di Jarrah: guardate come sono insidiosi questi fondamentalisti, si sono mimetizzati così bene da diventare il vostro invisibile vicino, la minaccia nascosta della porta accanto. Gente normale, in apparenza, ma assassina.
È possibile una diversa lettura di simili comportamenti? Lo spiegava bene Jim Garrison, nel suo libro JFK - Sulle tracce degli assassini (Milano, Sperling&Kupfer, 1992 ) al capitolo 5, intitolato “La messa a punto del capro espiatorio”: nel gergo dei servizi segreti una lunga operazione che si svolga nel corso degli anni e faccia compiere a una pedina, inconsapevole vittima sacrificale, gesti che solo in seguito verranno capiti e interpretati, si dice “inzuppare la pecora” (sheepdipping). Allora sono possibili diverse ipotesi investigative sugli atti della “pecora inzuppata” Ziad Jarrah, differenti dal balbettante sconcerto che invece ha accolto questo video sui media mainstream. Di certo Ziad Jarrah appare coinvolto in veste di esecutore di un qualche segmento delle azioni terroristiche dell’11/9, magari per mandare fumo negli occhi. Ma il suo profilo – come quello degli altri presunti dirottatori - non appare adeguato al grado di complessità dell’operazione. Qualche anno fa il generale Fabio Mini diceva che si tratta di scovare «non quelli che hanno condotto l'attacco, né quelli che hanno pianificato e diretto le operazioni, ma coloro che hanno ideato il piano». Essi hanno capacità, che bin Lāden e associati non possiedono, «da geni della politica, della strategia e della guerra».
Il filmato con le papere di Jarrah è un piccolo tassello di conferma.

Il presente articolo è stato pubblicato anche da «AriannaEditrice» [QUI].

Questo stesso video su «Luococomune» è analizzato con gustosi spunti umoristici: [QUI].

20 novembre 2008

Presentazione di Pandora TV


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L’economia “iraqizzata”

di Pino Cabras - da «Megachip»

Quando una nazione impegna se stessa in una missione con risorse immense, questa missione determinerà una parte significativa della sua identità nel tempo a venire. Il modo di agire delle istituzioni ne è influenzato. La massiccia semina statunitense in Iraq non fa eccezione. È stata una semina di vento che raccoglie ora la grande tempesta.

A lungo, temo.

Parti dell’economia sviluppano nuovi usi.

Non si tratta solo banalmente dei cannoni che non lasciano dollari al burro. È che cambiano gli interessi organizzati, gli strumenti d’intervento, i metodi. L’economia USA è stata “iraqizzata”.

Come negli interventi a Baghdad, anche su Wall Street il Congresso è all’oscuro di quanti soldi si spendano realmente, e in quali direzioni. Il senatore repubblicano Jim Inhofe si lamenta delle elargizioni di denaro - di fatto occulte – da parte del Segretario del Tesoro, Henry Paulson: «Potrebbe aver dato ai suoi amici. O a chiunque altro. Che ne sappiamo? Non c’è modo di saperlo».
Sulla stessa lunghezza d’onda è Bloomberg News, quando denuncia che la Federal Reserve non ha adempiuto ai requisiti di trasparenza richiesti dal Congresso. Bloomberg rivela nel frattempo la destinazione di montagne di denaro che si inerpicano sopra quota duemila miliardi di dollari. Su una scala più grande, è lo stesso meccanismo visto all’opera per “ricostruire” l’Iraq con miliardi di dollari difficilmente rintracciabili. Naomi Klein fa notare un fatto clamoroso: la stessa persona inizialmente scelta nella funzione di chief investment officer per il programma di megasalvataggio delle banche, Reuben Jeffery III,

«era in carica quale direttore esecutivo della famigerata Autorità Provvisoria della Coalizione capeggiata da Paul Bremer, agli esordi della guerra irachena.
Una parte del suo lavoro consisteva nell’assumere personale civile che lo rendeva parte integrante della macchina partitica che ha infarcito la Zona Verde di Giovani Repubblicani, banchieri d’investimento e stagisti di Dick Cheney. Le competenze non erano in cima alle preoccupazioni, laggiù, poiché la principale funzione dello staff era quella di elargire mucchi di denaro dei contribuenti a dei contractor privati, che poi erano quelli che di fatto gestivano l’occupazione [dell’Iraq]. È stato questo inarrestabile nastro trasportatore di denaro a far guadagnare alla Zona Verde quella reputazione, secondo le parole di uno dei funzionari dell’Autorità Provvisoria della Coalizione, di “zona di libera truffa”. Durante le audizioni al Senato lo scorso anno, quando [al capo in pectore del programma di salvataggio]» fu chiesto cosa avesse imparato dalla sua esperienza all’Autorità della Coalizione, rispose che riteneva che i
contratti avrebbero dovuto essere distribuiti con più “velocità e flessibilità”: ha citato ancora la stessa filosofia una volta assunto il compito di dare regole agli operatori di Wall Street.»

Anche nelle parole di Imhofe si coglie la forza del parallelismo tra il bailout e la guerra in Iraq: «L’ho imparato da molto tempo. Quando arrivano a dire che una cosa dev’essere fatta, che deve esserlo immediatamente, e che non si può fare altrimenti, dovete sedervi per fare un profondo respiro, e nove volte su dieci non stanno dicendo la verità», ha detto Imhofe. «Il Congresso ha abdicato alla sua responsabilità costituzionale nel firmare un assegno davvero in bianco a beneficio del Segretario del Tesoro», ha aggiunto.
«E questa è una di quelle nove volte».
In effetti lo scenario apocalittico usato in Iraq, le armi di distruzione di massa, fu un’ottima arma di “distrazione” di massa, in grado di far digerire al Congresso le leggi anticostituzionali, e ai contribuenti la sottrazione di risorse enormi dalle loro tasche. Un bell’assegno in bianco, come oggi. Dopo arrivano parziali ripensamenti, correzioni, negoziazioni parlamentari per le riconferme dei provvedimenti, e così via. Ma si tratta di atti che non emendano più di tanto il cuore delle trasformazioni che intanto si sono affermate. La “iraqizzazione” procede spedita.
Lo Stato, a lungo denunciato come “il problema”, diventa la grande vacca da mungere per chi ha le aderenze giuste.

19 novembre 2008

"Sporchi da morire"



“Difficilmente le nuove generazioni ci perdoneranno per questo suicidio ambientale” questo il sottotitolo al film documentario di denuncia nonchè frase dell’oncologo Lorenzo Tomatis in cui compare anche il dott. Montanari che i nostri lettori conoscono bene. Tutto gira intorno alle nanoparticelle ed ai principali produttori, gli inceneritori. Il promo di dieci minuti scorre velocemente e purtroppo fotografa una situazione critica soprattutto dal punto di vista informativo.
Un’informazione volutamente falsa che viene propagandata per vera in tv e nei giornali, un’informazione “assimilata” (mi pare azzeccato il gioco di parole) agli amuleti ed alle promesse di Wanna Marchi. All’interno del sito, sotto la voce Attualità potrete trovare i risultati delle ricerche sulle nanoparticelle ed altro materiale di interesse.


Autori del film sono Marco Carlucci, David Gramiccioli e Matteo Morittu.


Dopo Biutiful Cauntri, un altro documentario sui rifiuti che evidentemente rappresentano molto più del semplice prodotto di scarto di un qualsivoglia processo. Sono un problema che poco alla volta interessa una fetta sempre maggiore di popolazione. A voi le conclusioni.
» StefanoMontanari.net

Sporchi da morire

17 novembre 2008

La Rivoluzione Colorata di Obama: nuovo pupo, stessi pupari?

di Pino Cabras - da «Megachip»

Ma allora, la fine dell’Amministrazione Bush e l’ascesa di Obama segnano una fine delle guerre, un ritorno della ragionevolezza sul ponte di comando del pianeta dopo anni di follia ideologica? Obama significa forse pace, speranza, cambiamento, nuovo corso?
A sentire certe parole pacate di Zbignew Brzezinski, sembrerebbe di sì. Brzezinski, eminente politologo, profondo conoscitore di strategia e analisi internazionale, membro di lungo corso del Council on Foreign Relations (CFR) e della Commissione Trilaterale, è uno dei padri della politica del nuovo espansionismo imperiale nordamericano, con ruoli di primo piano ricoperti nell’Amministrazione Carter.


Oggi Brzezinski è un omaggiato consigliere di Barack Obama, il quale pende dalle sue labbra per riconfigurare la leadership mondiale degli USA post-Bush. All’ascoltare Brzezinski, molti si sentono rassicurati per via della sua radicale critica delle politiche neocon, quando rimprovera l’assurdità della Guerra al Terrorismo. E sebbene nessuno colga accenti gandhiani nelle parole di Brzezinski, non sia mai!, quando dice che con la Russia bisogna tornare alla "negotiation" le lancette sembrano di colpo allontanarsi dalla mezzanotte nucleare. Dopo un sonno di otto anni, la ragione sembra risvegliarsi allontanando i mostri. Ma è davvero così? Ascoltiamo l’intervista rilasciata dal vecchio Zbig a David Frost, conduttore di “Frost On The World” su Al Jazeera International, e ci rassicuriamo un po’.

Segnalato anche in un precedente articolo: [QUI]

A sentire un altro politologo statunitense, Webster Griffin Tarpley, sembrerebbe invece di no, che Obama proprio non significa pace, ma guerre più grandi e catastrofiche, e proprio perché subirebbe in toto l’influenza di Brzezinski. Uno scenario terribile che qui cercheremo di comprendere e criticare.
Webster Griffin Tarpley è un giornalista investigativo statunitense. Si occupa da sempre di terrorismo internazionale, dei lati terribili e poco noti della dinastia Bush, del narcotraffico gestito ai piani alti dallo spionaggio statunitense. Ha scritto dei fatti dell’11 settembre 2001 puntando la sua attenzione sulle decine di esercitazioni militari e di sicurezza a ridosso degli attentati. Tarpley a suo tempo aveva seguito da vicino il caso di Aldo Moro, quando nel 1978 coordinò una commissione indipendente d'inchiesta sostenuta dal parlamentare democristiano Giuseppe Zamberletti, con risultati molto diversi dalle inchieste ufficiali.
Tarpley osserva dunque il fenomeno Obama, e lo guarda attraverso la lente di Brzezinski, definito come il puparo della “marionetta” Barack. «Dietro Obama e peggio dei Neocon: il Clan Brzezinski» era il titolo di una conferenza tenuta da Tarpley all’inizio del 2008: tanto per non fare giri di parole, e giusto per puntare senza dubbi su un cavallo vincente. Nelle tecniche elettorali adottate da Obama in USA, Tarpley riconosceva gli stessi metodi spregiudicati, raffinati e “sovversivi” delle “rivoluzioni colorate” attuate in vari paesi post-sovietici. Non che in Hillary Clinton scorgesse chissà che metodi cristallini: in lei vedeva una fazione perdente dell’oligarchia che tentava di vincere le primarie con frodi e voti elettronici taroccati.
In cosa si riscontrava l’impronta delle rivoluzioni colorate? Retorica alata, ideali generici e nebulosi, industrie culturali mobilitate in una gigantesca opera egemonica di “soft power”. Il tutto per occultare lo stesso obiettivo di fondo delle altre rivoluzioni colorate, ossia colpire duramente qualsiasi grande potenza che dovesse emergere nella scacchiera eurasiatica. La Russia prima di tutto. Dietro le tranquillizzanti e piatte utopie di Obama – per Tarpley - c’è la catastrofe di un confronto militare con la Russia. Altro che le “negotiation” prospettate da Brzezinski.
Tarpley osservava che la prima vittoria del senatore Obama nei caucus dello Iowa si era incentrata su quella stessa esasperazione organizzativa delle tecniche di persuasione usate nelle rivoluzioni colorate di marca CIA. Gli ingredienti c’erano tutti: figuranti e truppe cammellate, uso massiccio e integrato dei media, attivisti dotati di mezzi immensi, simboli, slogan, falsi sondaggi, e un oratore sufficientemente demagogo. In Iowa la tempesta di falsi sondaggi portò a un torpore mentale dei media su Obama e a una proclamazione prematura della sua conquista della nomination del partito democratico.
A dispetto dell’enfasi di Obama sulle donazioni popolari alla sua campagna presidenziale, i super-ricchi non gli hanno lesinato finanziamenti. Il «Wall Street Journal» notava che l’altro candidato democratico John Edwards era il più temuto dalla superclasse dei miliardari. A Obama arrivavano viceversa milioni di dollari dalla superbanca Goldman Sachs, dice Tarpley.
Tarpley prova a spiegare la freddezza di Obama sulle questioni dell’Iraq e dell’Iran, che invece appassionavano i guerrafondai neoconservatori e la lobby filoisraeliana fino a Hillary Clinton. Come mai il senatore afroamericano, che pure voleva il ritiro dall’Iraq e non dichiarava indisponibilità a un tavolo negoziale con l’Iran, si dichiarava invece a favore del bombardamento di vaste zone del Pakistan, un alleato di lunga data degli USA, fra lo sconcerto di Hillary e altri candidati? Così come si dichiarava favorevole a un massiccio aumento dell’intervento in Afghanistan.
Tarpley nota che uno dei progetti eurasiatici più importanti studiati dall’intelligence anglo-americana è una sorta di soluzione jugoslava per il Pakistan, da smembrare lungo le molte linee etniche. Un Pakistan spezzettato finirebbe molto più difficilmente in blocco nell’orbita di Pechino, l’avversario strategico di medio periodo di Washington. Un piano alla Brzezinski insomma, affine al metodo da lui usato trent’anni prima per destabilizzare l’Afghanistan e attrarre l’URSS in una trappola fatale.

Si racconta che Winston Churchill, da Ministro delle Colonie, si era vantato di aver inventato la Giordania durante una cena di plenipotenziari. Oggi si potrebbe pianificare la distruzione di uno Stato più popoloso dell’intera Russia, il Pakistan, con altrettanta scioltezza, e con effetti presumibilmente devastanti. Obama ha un’idea di questo tipo? Le sue dichiarazioni non autorizzano questo tipo di speculazione, che si appoggia solo su congetture suggestive ma non documentate.
In ogni caso le riflessioni di Tarpley si sono concentrate su Barack Obama, tanto che nel 2008 ha scritto ben due libri critici sul nuovo presidente degli Stati Uniti: il pamphlet “Obama: The Postmodern Coup” (“Obama: il golpe postmoderno”, NdT) e la prima sua ‘biografia non autorizzata’: “Obama: The Unauthorized Biography”.
Secondo Tarpley, c’è molto fumo e poca investigazione sulle origini di Obama e sul suo ambiente di riferimento. A rinvangare gli anni della formazione di Barack Obama, Tarpley scopre una cosa importante. Obama si è laureato con Zbigniew Brzezinski. La sua tesi di laurea verteva sullo smantellamento dell'arsenale atomico sovietico. Nemmeno nei giorni dell’Obamamania i media più influenti hanno trovato il modo di scavare su questo fatto.
Quel che sappiamo è che Obama aveva speso parole di sentita gratitudine e fiducia verso Brzezinski, con solennità pubblica.




Tarpley prova a scavare sull’argomento, tanto da analizzare le biografie di altre figure vicine a Obama. Da questa rassegna ricava la certezza che Obama sia vincolato alla Commissione Trilaterale (fondata dallo stesso Brzezinski) e a circoli politici ed economici molto elitari. Nel frattempo il "culto" di Obama fa conto su discorsi estremamente generici, caratterizzati da formule vaghe ripetute a oltranza (da “Yes We Can” a “Change”), saturabili da qualsiasi camaleontismo. Intanto che masse di giovani sono confluite nel gregge di questo ispirato pastore, perdureranno le infrastrutture del potere costituzionale deviato predisposte negli anni di Bush, come il Patriot Act. Quanto di quel sistema è disposto a smantellare Obama, a parte la vetrina della vergogna di Guantanamo? Tarpley dà per scontato che Obama non si priverà degli strumenti anticostituzionali e li userà in combinazione con il “soft power” per una sorta di fascismo soffice. Per ora, tuttavia, tutto questo è solo una “soffice congettura” di Tarpley.
La base carismatica del consenso a Obama, insieme alla sua genericità multiuso, nel contesto di una crisi economica di massima portata e di un sistema ormai sempre più portato allo “stato d’eccezione”, può condurre secondo Tarpley a una catastrofe mondiale sotto la guida dei soliti poteri forti.
La funzione della presidenza Obama per Tarpley è stata programmata per dare piena copertura politica a un vasto piano strategico di gittata planetaria:

1) restaurare il “soft power” statunitense, con un’immagine di paese pacifico, di faro democratico, di luogo di accoglienza e tolleranza capace di far dimenticare il disastro Bush;
2) disgregare le potenze emerse (e riemerse) della Cina e della Russia.

A parere di Tarpley, il metodo Brzezinski, in questo caso, porterebbe a ricacciare indietro i cinesi dalla presa che si sono conquistati ultimamente sulle risorse africane, petrolifere e non. Mentre già in Congo, in Sudan e in Zimbabwe, ma non solo, una parte delle gravi tensioni e delle guerre si collega già alla dialettica USA-Cina, la presidenza di Obama l’Africano potrebbe spostare l’ago della bilancia. Una sconfitta della Cina in Africa porterebbe costringere Pechino a cercarsi le risorse in Russia. Ne conseguirebbero tensioni molto forti fra le due potenze eurasiatiche e l’affondamento della Shanghai Cooperation Organization.
Lungi dall’attaccare l’Iran, come avrebbero fatto i neocon e come potrebbe fare ancora Israele, la 'marionetta di Brzezinski', nell’ottica di Tarpley, cercherebbe un accordo con Teheran – magari concedendogli un aumento della sua influenza in una parte dell’Iraq (come già in parte avviene) – fino a ricomprendere l’Iran in un’alleanza antirussa e anticinese.
Sono conclusioni troppo precise per poter essere estrapolate dal rapporto fra Obama e Brzezinski. E le possibili ipotesi si perdono nella complessità imprevedibile degli intrecci geopolitici. Questo è un campo per doppi e tripli giochi. Pensate che il programma nucleare civile iraniano – l’oggetto della disputa più controversa degli ultimi anni – è finanziato per quattro milioni di dollari anche dal Dipartimento dell’energia statunitense, come ha scoperto con raccapriccio la CNN.



La preoccupazione di Tarpley è che un confronto militare con due potenze che il nucleare militare ce l’hanno davvero, la Cina e la Russia (per non parlare dei rischi legati al nucleare del Pakistan), porterebbe a una vera catastrofe. Se Tarpley avesse ragione, tutte le recenti dichiarazioni di quelli che considera i pupari di Obama, i maggiorenti del CFR e della Commissione Trilaterale (da Brzezinski alla Albright, dal vicepresidente eletto Biden a Colin Powell), vanno letti in una luce ancora più minacciosa. Il crescendo di allarmi giornalistici sull’imminenza di grossi eventi terroristici che testerebbero subito l’azione di Obama prefigura uno scenario di guerra.
In realtà non si possono fare processi alle intenzioni. E la realtà - che nel frattempo ha galoppato come non mai, in questo 2008 accelerato - non fa sconti ai grandi progetti imperiali, erosi come sono da problemi materiali ed economici senza precedenti. Possiamo dire ad esempio che il G8 è morto, e che ormai si ragiona in termini di G20. Così come possiamo dire che Cina e Russia hanno basi materiali e sponde diplomatiche abbastanza solide da rafforzare la loro capacità dissuasiva verso nuove avventure imperiali, nel momento in cui si è innescata una crisi colossale degli Stati Uniti. Persino Berlusconi ha fiutato l’aria di una forte preoccupazione europea che vuole impedire la deriva di una nuova corsa al riarmo in una fase così delicata, e ha anticipato un no ai sistemi antimissile americani nell’Est Europa.
Lo Studio Ovale della Casa Bianca è al centro di spinte e intrecci complessi. Molte mani tireranno la giacchetta di Barack Obama per forzarlo a compiere certi atti anziché altri, ad anticipare certi tempi sul calendario dei grandi progetti imperiali. Tuttavia la clessidra si è rotta, è scesa molta sabbia che ormai modella le dune di un nuovo paesaggio cangiante. Quella di Obama sarà un’attraversata nel deserto, fra miraggi, oasi, predoni e terre promesse. Si scriverà la Storia, ma non ha senso scriverla prima che accada, tantomeno sulla base di presentimenti.


Il presente articolo è stato pubblicato anche su «ComeDonChisciotte» [QUI] e su «AriannaEditrice» [QUI].

10 novembre 2008

Le minacce a Obama: abboccano solo i media italiani

di Paolo Maccioni
da «Megachip»





Per alcuni giorni l'informazione italiana ha riempito le sue prime pagine di un allarme basato sulla voce di un fantasma, Omar Abu al-Baghdadi. Un terrorista che i militari USA avevano già ammesso inesistente nel 2007. ««È stato utilizzato un attore iracheno per leggere le dichiarazioni attribuite a Baghdadi», riconobbero allora. Se qualcuno avesse fatto il suo mestiere, oggi non ci sarebbe stata nessuna base per tanta rinnovata isteria. Ma andiamo con ordine.
Il 7 novembre 2008 quasi tutti i giornali italiani davano grande rilevanza a un' allarmante notizia: “Al-Qaeda agli Usa: ora ritiratevi”, come titolava «La Stampa».
Sul «Corriere della Sera» il titolo era: “Al-Qaeda a Obama: convertitevi” .
Addirittura «il Giornale», house organ della famiglia Berlusconi , scrive: “Al-Qaeda minaccia Obama: converitevi e ritiratevi”.
E così pure, con toni più o meno analoghi, i serpentoni di Rainews24 del tg Sky ( “ Al-Qaeda minaccia Obama sul web ” ) e di tutti i Tg , tutti a credere al file audio del presunto Abu Omar al-Baghdadi.
Fa eccezione Toni Fontana, («l'Unità»): su al-Baghdadi ammette: «Nessuno lo ha mai visto, l'intelligence americana dubita addirittura della sua esistenza», senza ulteriori riscontri. Per il resto, la stampa italiana spara l'allarme.
A guardare invece i siti dei maggiori quotidiani statunitensi, e così i media britannici e i network internazionali, appare poco o nulla. Il «New York Times» solo l' 8 novembre pubblica un articolo che tuttavia ha un titolo ben diverso: “Jihadi Leader Says Radicals Share Obama Victory” , ossia “Un leader della jihad dice che gli integralisti partecipano alla vittoria di Obama”. Più correttamente scrive che si tratta di un leader della jihad, non di al-Qaeda come invece scrivono i nostri quotidiani.
È vero: Abu Omar al-Baghdadi in passato è figurato come leader del presunto “ Stato Islamico dell'Iraq ” che rivendica vicinanze alla non meglio precisata galassia al-Qaeda . Tuttavia la parola “al-Qaeda”, l'evocazione stregata che fa rabbrividire, compare sul «New York Times» solo nel testo, non nel titolo. E la minaccia riportata dai quotidiani nostrani semplicemente non c'è .
Venerdì 7 novembre il «Washington Post» diramava senza enfasi, in poche righe quasi irrintracciabili , un 'agenzia dal titolo : “Gli insorti a Obama: ritiratevi dall'Iraq”. Nel dispaccio si legge che Al-Baghdadi è il «sedicente leader del fronte al-Qaeda dello Stato Islamico dell'Iraq». L'agenzia poi, correttamente, spiega che a riferire tutto ciò è “il SITE Intelligence Group che monitora i siti islamici” (precisazione importante, ma che non compare sui media italiani).
Ora i meno sprovveduti, a differenza delle distratte truppe da desk delle nostre redazioni, sanno che significa SITE, il “gruppo di intelligence” che sa in anticipo le date di uscita e diffonde come trailers gli annunci di imminenti video e audio dei siti estremisti islamici. Il SITE , un'agenzia collegata anche ai siti del MEMRI, l'istituto che riempie le redazioni occidentali con la pappa pronta di traduzioni dai media mediorientali tese a mostrarli come un blocco fanatico, è profondamente condizionata da società legate ai servizi segreti statunitensi e israeliani.
Forse i media USA per disciplina attendono conferme indipendenti dell'autenticità dei proclami sui siti web diramati dal SITE, prima di sparare allarmi in prima pagina? Può darsi che a furia di inciampare sui facili sensazionalismi abbiano imparato a prendere certi comunicati con le molle.
Considerate dunque per un istante l'incredibile rivelazione del Luglio 2007 – fatta da un generale di brigata americano, Kevin Bergner, alla giornalista Tina Susman – su un terrorista iracheno impersonato da un attore: « Il presunto capo di un gruppo iracheno affiliato ad al-Qaeda, è stato dichiarato non-esistente da ufficiali USA. I quali hanno chiarito che si trattava di una persona immaginaria creata per dare una faccia irachena a una organizzazione terroristica straniera.» (T. Susman, “US says Iraqi rebel head is an invention”, «Los Angeles Times», 20 luglio 2007).
Avete letto bene. E si parlava proprio di Baghdadi. La dichiarazione sorprende, se si pensa che a marzo 2007 il cattivone era stato dichiarato catturato, mentre a maggio fu dichiarato ucciso, e il suo presunto cadavere venne perfino mostrato alla TV di Stato irachena. L'articolo proseguiva così: «È stato utilizzato un attore iracheno per leggere le dichiarazioni attribuite a Baghdadi, da ottobre indicato come il leader dello ‘Stato Islamico in Iraq', ha detto il generale di brigata dell'esercito USA Kevin Bergner. Bergner ha detto che la nuova informazione è venuta da un uomo catturato il 4 luglio, descritto come l'iracheno più alto in grado nello Stato Islamico in Iraq». Il livello di attendibilità delle rivendicazioni è dunque molto basso, mentre è elevatissimo il tasso di manipolazione. Fiction, più che politica. Teatro dell'assurdo, anziché informazione.
Un buon esercizio per misurare lo stato di salute della nostra informazione (purtroppo limitato solo a chi padroneggia l'inglese) può essere quello di confrontare l'articolo del «New York Times» con uno qualsiasi dei nostri, dal «Corriere» o dalla «Repubblica», per non dire de «Il Giornale». Provare per credere.
Se la minaccia fosse seria e da prima pagina, come appare al lettore italiano, com'è che non abbiamo registrato nessuna reazione da parte dell'amministrazione Usa, né di quella uscente, né di quella in via di insediamento ? Com'è che non c'è stata nessuna chiosa sui grandi media internazionali?
Misteri. Cosa hanno le nostre testate che manca a quelle americane? Perché questa evidente discrepanza fra noi e gli altri? Qual è, e come funziona la catena che fa sì che una notizia prenda una certa piega e si diffonda in modo quasi uniforme su tutte le testate? Forse, anzi senz'altro, la parola “al-Qaeda” nel titolo fa vendere copie, alza l'audience, moltiplica gli accessi alle pagine web. Ma allora il lettore è solo un consumatore? E in tal caso, quanto rispetto ha di lui chi fa informazione?
Domande interessanti, le cui risposte se soddisfacenti ci aiuterebbero a comprendere meglio non solo il pianeta ma anche come funziona il mondo malandato dell'informazione nel nostro Paese.
Incidenti redazionali di un giorno? Niente affatto, è proprio una tendenza, un modo di funzionare del giornalismo nostrano.
Il giorno dopo, la discrepanza fra i media italiani e il resto del pianeta è apparsa ancora più evidente . I nevitabile porsi domande, inevitabile che nascano dubbi e sospetti.
Il serpentone del TG Sky mette come terza notizia “Al-Qaeda prepara un attacco negli Usa più grande dell'11 settembre”, notizia comunicata pure dai Gr Rai e da tutti i T g pubblici e privat i , e sulle prime pagine di tutti o quasi i quotidiani. Su «la Repubblica» la notizia di apertura diventa un guazzabuglio gorgogliante in cui c'entrano anche l'Iran e lo Scudo Spaziale .
Ora , se una notizia così grave – e in effetti suon erebbe come tale - passa fra le più importanti news di tutti i media nostrani, com'è che quasi non se ne trova traccia nel resto del mondo? Come si fa a non chiederselo? Forse che all'estero sono più spensierati?
Mi sono affannato a ritrovarla pure su BBC World News, su Al Jazeera International, sulla CNN, sia sui canali satellitari che su Internet, sui vari media e network planetari. Niente. Niente sulle prime pagine del «Times» di Londra, del «New York Times», del «Washington Post». Com'è possibile che il «Washington Post» non si allarmi come i nostri media? Se è da prima pagina da noi, com'è che non è in prima pagina da loro, dato che li riguarda direttamente? Ma sopratutto come non ci si può fare domande del genere? Il lettore può non farsele, quanti sono coloro che vanno a leggersi « The Washington Post» online? Ma in una redazione, dato che vivono quasi incatenati al desk, non possono non confrontarsi, non accorgersi di essere gli unici sul pianeta a dare l'allarme! Sono forse gli unci svegli nel mondo?
La notizia che “Al-Qaeda prepara negli Usa un attentato peggiore dell'11/9”, titolo principale de « la Repubblica» online, è attinta da una fonte che ha parlato in forma anonima a un giornale yemenita , «al-Quds al-Arabi», in lingua araba ma pubblicato a Londra. «Il quotidiano diretto da Abdel Bari Atwan – si legge su repubblica.it - ha pubblicato oggi in prima pagina le rivelazioni di una persona definita “molto vicina alla direzione di Al-Qaeda nello Yemen”.»
Dunque una fonte anonima su un quotidiano in lingua araba di cui – si accettano scommesse – i redattori italioti non sanno niente . Chissà quante fonti anonime nel tempo avranno espresso minacce o imminenti attacchi qua e là nell'infinita galassia dell'editoria planetaria, del mondo arabo in particolare. Ma una cosa del genere può davvero essere schiaffata in prima pagina? No.
Una cosa è dire “Al-Qaeda prepara negli Usa un attentato peggiore dell'11/9”, al di là di tutte le ragionevoli perplessità sulla paternità esclusiva di Al-Qaeda dei famosi attentati. Ben altra cosa è dire che una non precisata fonte (pertanto chissà quanto attendibile) avrebbe detto ad un quotidiano quasi invisibile che Al-Qaeda prepara negli Usa un attentato peggiore dell'11/9. Per chi lavora questa fonte? Magari è genuina ma magari no, potrebbe pure essere qualcuno a cui conviene che nell'Occidente si rafforzi il terrore per al-Qaeda. In ogni caso, data la seconda ravvicinatissima discrepanza fra la dignità e il clamore concesso a notizie del genere in Italia e nel resto del mondo c'è da chiedersi: ma forse da noi esiste qualche agenzia, qualche apparato sotterraneo nelle agenzie o nelle redazioni che butta queste esche? Può darsi. Ma la ragione potrebbe essere più semplice, senza dover scomodare ipotesi di complotto: in tutte le redazioni ci sono gli “ eserciti del desk ” cui basta poco, forse abboccano all'amo pure senza esca. E, cosa ben più grave, capi di redazione e direttori che non emendano, che non sanno o non vogliono ponderare, verificare, confrontare . A loro interessa vendere, registrare ascolti. E con un senso di responsabilità basso, bassissimo. Pedine più o meno inconsapevoli di un gioco più grande di loro che vuol vendere la paura, merce buona per tutte le stagioni. Alla larga dalle edicole e dai canali televisivi italiani! Imparate l'inglese, guardate altri canali sul satellite e leggete quotidiani internazionali online. Verrete trattati da lettori, da cittadini, anziché da consumatori cui rifilare merce guasta.
Ed ecco la controprova. Serata di domenica 9 novembre 2008. Tutte le testate hanno ritirato da serpentoni e homepage la notizia, o quanto meno l'hanno di molto ridimensionata. Su repubblica.it si passa in poche ore dal titolo d'apertura della homepage al rango di notizia introvabile, scomparsa, senza più traccia.
Nondimeno , Sky persevera: il ‘‘Sondaggio del giorno'' – probabilmente affidato a una cornacchia - chiede: «Al-Qaeda minaccia nuovi attacchi agli Usa: secondo te è possibile un attentato più grave di quello dell'11/9?'».
Ma se i più titolati organi d'informazione nazionale ritirano la notizia significa che hanno ritenuto non meritasse l'enfasi che le avevano dato in precedenza, altrimenti perché ritirarla, data la sua gravità ? Ergo - aristotelicamente - ammettono indirettamente l'errore di valutazione, dunque, perché non si scusano con lo spettatore-lettore-internauta?
Ma soprattutto: che diavolo succede allo spettatore-lettore-internauta italiano che non si fa queste domande, non esige queste scuse e domani è pronto a sorbirsi una nuova bolla di sapone? Se non cambia l'atteggiamento dell'utente, perché mai chi vende merce di seconda scelta dovrebbe smettere di farlo?
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Il presente articolo è stato ripreso anche da «AltraInformazione» [QUI], e da «Uruknet» [QUI].

7 novembre 2008

L'agenda di guerra per Obama

Fermare una Teheran nucleare
di Daniel R. Coats e Charles S. Robb *
«The Washington Post»
23 ottobre 2008. Traduzione di Pino Cabras



È probabile che il primo e più urgente problema di sicurezza nazionale che dovrà affrontare il prossimo presidente sia la crescente prospettiva di un Iran con capacità di armamento nucleare. Dopo aver presieduto insieme una task force ad alto livello conclusasi di recente sul tema dello sviluppo del nucleare iraniano, siamo giunti a ritenere che cinque principi devono servire quale fondamento di qualsiasi politica ragionevole, bipartisan e globale sulla questione iraniana.
In primo luogo, una Repubblica islamica dell’Iran con capacità di avere armi nucleari sarebbe strategicamente insostenibile. Minaccerebbe la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, la pace e la stabilità regionale, la sicurezza energetica, l'efficacia del multilateralismo, e l’efficacia del Trattato di non proliferazione (TNP). Mentre un attacco nucleare è lo scenario peggiore ipotizzabile, l'Iran non avrebbe bisogno di usare un arsenale nucleare per minacciare gli interessi USA.
Il semplice ottenimento della capacità di assemblare rapidamente un'arma nucleare doterebbe efficacemente l'Iran di un deterrente nucleare e moltiplicherebbe drasticamente la sua influenza in Iraq e nella regione. Mentre saremmo lieti di cooperare con un Iran democratico, il consentire che il Medio Oriente cada sotto il dominio di un regime clericale radicale che sostiene il terrorismo non dovrebbe essere considerata una valida opzione.
In secondo luogo, riteniamo che l'unica accettabile chiusura dell’argomento sia la completa cessazione delle attività di arricchimento dell'uranio all'interno dell'Iran. Presumiamo che nessuna combinazione di ispezioni internazionali o co-proprietà delle strutture di arricchimento offrirebbe sufficienti garanzie che l'Iran non stia producendo materiale fissile della qualità necessaria a produrre armi.
Di fatto, l'impianto di arricchimento di Natanz è già tecnicamente in grado - una volta che l'Iran disponga di una sufficiente riserva di uranio a basso arricchimento - di produrre abbastanza uranio altamente arricchito per un ordigno nucleare in quattro settimane. Cioè abbastanza velocemente da eluderne l'individuazione da parte degli ispettori internazionali.
Inoltre, il Consiglio di sicurezza dell’ONUin tre occasioni ha chiesto la cessazione dell’arricchimento in Iran, e l'Agenzia internazionale dell'energia atomica ha giudicato che l'Iran non ottemperava al TNP. L'incapacità di far rispettare questi mandati potrebbe essere un colpo mortale per il fragile equilibrio internazionale.
In terzo luogo, mentre una risoluzione diplomatica è ancora possibile, può avere successo solo se negoziamo da una posizione di forza. Ciò richiederà un migliore coordinamento con i nostri partner internazionali e sanzioni molto più severe. I negoziati con l'Iran sarebbero probabilmente inefficaci se i nostri alleati europei non rinunciano alle relazioni commerciali con Teheran.
Oltre a costruire alleanze, sarà importante costuire una leva. Molto si potrebbe fare per rafforzare le sanzioni finanziarie degli Stati Uniti - sia mediante la chiusura delle elusioni o utilizzando strumenti più potenti, come ad esempio la sezione 311 del Patriot Act,per negare alle banche iraniane l'accesso alsistema finanziario USA.
Se una tale strategia riesce a portare l'Iran al tavolo, è importante che gli Stati Uniti ei suoi alleati fissino un calendario per i negoziati. In caso contrario, gli iraniani potrebbero cercare di ritardare fino a quando non raggiungeranno una capacità nucleare militare.
In quarto luogo, in modo che Israele non si senta costretto a intraprendere azioni unilaterali, il prossimo presidente deve convincere Gerusalemme credibilmente che gli Stati Uniti non consentiranno all'Iran di acquisire la capacità di avere armi nucleari.
In quinto luogo, mentre l'azione militare contro l'Iran è fattibile, deve restare un'opzione di ultima istanza. Se tutti gli altri approcci non avranno successo, il nuovo presidente potrebbe dover soppesare i rischi del fallimento delle azioni atte a impedire il programma nucleare iraniano abbastanza in relazione ai rischi di un attacco militare. Le forze armate sono in grado di lanciare un attacco devastante sulle infrastrutture nucleari e militari iraniane e - probabilmente con risultati più decisivo rispetto a quanto sia consapevole la leadership iraniana.
Una prima campagna aerea potrebbe probabilmente durare fino a diverse settimane e richiederebbe una vigilanza per gli anni a venire. L'azione militare sosterrebbe notevoli rischi, compresa la possibilità di perdite degli Stati Uniti e degli alleati, rappresaglie terroristiche su vasta scala contro Israele e altre nazioni, e accresciute tensioni nella regione.

Sia per aumentare la nostra “leva” sull’Iran, sia per prepararsi a un attacco militare, se ve ne fosse bisogno, il prossimo presidente dovrà iniziare a costruire risorse militari nella regione fin dal primo giorno.
Questi principi sono tutti supportati all'unanimità da una task force politicamente composita, messa insieme dal Bipartisan Policy Center (Centro di politica bipartisan, NdT). Il gruppo, che include ex alti funzionari democratici e repubblicani, generali a quattro stelle e ammiragli a riposo, nonché esperti in proliferazione nucleare e mercati dell'energia, offre un chiaro percorso per la costruzione di un consenso duraturo e bipartisan a sostegno di un’efficace politica degli Stati Uniti sull'Iran.
È fondamentale che, immediatamente dopo il giorno delle elezioni, il Congresso e il presidente eletto inizino a lavorare sulla misure politiche estremamente difficili che saranno necessarie se gli Stati Uniti intendono impedire all'Iran di ottenere la capacità di produrre armi nucleari. Il tempo può essere inferiore di quanto molti immaginano, e il fallimento potrebbe comportare un costo catastrofico per l'interesse nazionale.

* R. Daniel Coats, un ex senatore repubblicano dell’Indiana, e Charles S. Robb, un ex senatore democratico della Virginia, sono co-presidenti del Bipartisan Policy Center's, una task force di sicurezza nazionale contro l'Iran.


Articolo originale:
“Stopping a Nuclear Tehran”
http://www.bipartisanpolicy.org/ht/a/GetDocumentAction/i/8866

L'articolo è presente anche su «Megachip» [QUI].

L’agenda di pace per Obama

Un nuovo inizio?
di Johan Galtung




Un nuovo inizio?
Sì, lo è. La barriera razziale infranta, il referendum sul 43° presidente USA George W. Bush stravinto, ci sarà un cambiamento essenziale nell’immagine USA in tutto il mondo. Alla gente in giro per il mondo piace amare gli USA, verruche comprese. Bush l’ha reso impossibile per quasi tutti, Obama lo rende facile, naturale. La vittoria più massiccia per un candidato democratico dal 1964, una valanga di voti, un Paese con un solo partito; presidenza, senato, camera dei rappresentanti, uniti. La strada è aperta.
Bene, può essere un Nuovo Inizio: può non esserlo. La politica estera di Obama non è anti-imperiale, se lo fosse stata, avrebbe vinto McCain. Ramon Lopez-Reyes (lop-rey.zop-hi@worldnet.att.net), psicoanalista freudiano e junghiano con una profonda comprensione culturale del mondo, nonché tenente-colonnello in pensione con tre anni in Vietnam che deplora vivamente, vede McCain come un’incarnazione dell’archetipo dell’eroe-guerriero, con un disturbo post-traumatico da stress. Un uomo molto pericoloso. L’elezione aveva a che fare con la funzione di amministratore del morente impero USA e, nelle parole di T.S.Eliot “E’ questo il modo in cui finisce il mondo. Non già con un botto ma con un gemito.”. McCain l’avrebbe finito in un botto, forse perfino nucleare.
Obama lo farà in un gemito. Impersona molto di quanto il mondo spererebbe da un presidente mondiale. Il mondo gli regalerà una luna di miele, forse un centinaio di giorni dall’insediamento del prossimo 20 gennaio. Ma se lo vedrà percorrere in sostanza le stesse piste calpestate dal suo predecessore non ci sarà carisma a salvarlo. Ci sarà delusione e sarcasmo da tutte le parti e la sua mancata gestione della caduta accelererà garbatamente il processo. E qui Lopez-Reyes lo vedrebbe come un alchimista che tenta di produrre oro in un laboratorio di cui non ha né comando né comprensione.
Si erge contro le forze dei trattati segreti, le scoperte segrete provenienti dalla comunità dei servizi segreti, i complessi militari-industriali, le grandi aziende USA e – lo spettro oscuro – l’effettiva minaccia di assassinio. John F. Kennedy. Martin Luther King Jr.
Eppure ci sono possibilità, nonostante i suoi consiglieri, la vecchia banda di Buffet, Powell, Summers, Brzezinski. La posizione di Obama sull’Afghanistan assomiglia all’analisi di Brzezinski del grande gioco di scacchi, ispirato alla geopolitica di un secolo fa di McKinder, che considera l’Asia Centrale cruciale per il controllo del mondo – visione che ha affascinato parecchi presidenti USA.
Vedere l’Afghanistan come centro del “terrorismo” è sbagliato; può esserlo per la resistenza musulmana in Cecenia e Kashmir, ma non per i musulmani dei 25 e più paesi calpestati dall’Occidente nell’ultimo secolo. Il comunismo ha potuto cedere alla realtà e implodere, incapace di superare il distacco fra mito e realtà. Ma l’Islam, come il cristianesimo ha un patto con forze divine, messe alla prova non nella realtà sociale ma nelle anime dei devoti. Non ci sarà mai alcuna capitolazione. La guerra è invincibile, non valgono un paio di brigate in più, i paesi europei sono arcistufi di tutta questa faccenda e hanno sempre più l’impressione, come gli svizzeri quando si sono ritirati nel marzo scorso, di essere stati invitati a un mantenimento della pace che è risultato essere un’imposizione della pace, nulla meno che una guerra. Un miliardo supplementare di dollari all’anno in assistenza non-militare a Kabul-Karzai alimenterà la corruzione. E per quanto riguarda il tentativo di dividere i talebani quando sono tutti compatti contro la secolarizzazione, potrà essere possibile solo se gli USA si ritireranno del tutto.
La sua politica sul Medio Oriente congela l’incontenibile. Il sostegno a Georgia e Ucraina come membri NATO rilancia una seconda guerra fredda. E in Medio Oriente: la sicurezza di Israele non è negoziabile, ma passa attraverso una pace equa con tutti i vicini. I quali sono pronti.
Qualche via d’uscita? Sì, ce n’è una: negoziati segreti, dai quali si esce con un accordo già fatto. Obama sembra disposto a parlare senza precondizioni e si avvantaggerebbe mollando i suoi consiglieri a Washington. C’è in Obama qualcosa di nuovo, fresco, quanto mai necessario al mondo. Potrebbe semplicemente capire che per risolvere un conflitto ci deve essere uno scambio di qualcosa (tit for tat), come ritirare missili dalla Turchia in cambio della stessa operazione da parte dell’URSS a Cuba. Esigere che tutti gli altri recedano in cambio di nulla è Impero. E la magia non c’è più.
Vada in Corea del Nord offrendo un trattato di pace, relazioni diplomatiche, una normalizzazione, non limitarsi a toglierli dall’elenco dei “terroristi”, anzi abbandonare quello stupido vocabolario. Il problema nucleare sparirà. Come succederà in Iran, se presenterà le scuse per il colpo di stato della CIA e del M16 [servizio segreto britannico, ndt] del 1953 contro Mossadeq, primo ministro legalmente eletto. Ripari il passato. Riconosca gli errori, in cambio di soluzioni verificabili. Orientamento alle soluzioni, non alla guerra.
Per il Medio Oriente, parli con Hiz-bullāh, Hamas, la Siria. Sono disposti a riconoscere un Israele più modesto con confini fissi prossimi ai limiti del 4 giugno 1967 in cambio della fine dell’occupazione, possibilmente con una zona denuclearizzata in Medio Oriente.
Vada in Russia, rispetti le loro preoccupazioni, concordi una soluzione tipo Andorra per l’Ossetia del Sud e una federazione per l’Ucraina. Cessi l’espansione NATO in cambio dell’assenza militare russa nelle Americhe. Lasci che la Russia sia se stessa.
E mantenga la promessa dei 16 mesi in Iraq, con l’aggiunta di un’offerta generosa per la ricostruzione del paese dopo la sua devastazione, giungendo persino ad ammettendo che l’invasione del 2003 è stata un errore.
In breve, cerchi di cortocircuitare le solite insidie dell’Impero. E gli USA ne guadagneranno enormemente sia a livello globale sia internamente.
Tenga però solo presente: Cambiare, Sì lo possiamo fare! (Change, YES, WE CAN!)

Articolo originale: 4 November: A New Beginning?
http://www.transcend.org/tms/article_detail.php?article_id=366
Traduzione di Miky Lanza per il Centro Studi Sereno Regis (con piccole revisioni di Megachip)
http://www.cssr-pas.org/portal/2008/11/4-novembre-2008-un-nuovo-inizio-johan-galtung/


* Johan Galtung (Oslo, 1930) sociologo e matematico, ha fondato nel 1959 l'International Peace Research Institute e la rete “Transcend” per la risoluzione dei conflitti. È uno dei padri della “peace research”. Svariate istituzioni internazionali si sono rivolte a lui per consulenze in materia di mediazioni di conflitti. È autore di un centinaio di libri e migliaia di articoli.

5 novembre 2008

Obamanga

di Pino Cabras

Il blog mostra spesso una versione in stile manga del volto di molti fra coloro che sono qui citati.
Potevamo forse privarci del presidente eletto degli Stati Uniti?
Ed eccovi Obamanga!
Magari è un'immagine che potrebbe far presa fra i cittadini di Obama, la città portuale giapponese della prefettura di Fukui che porta il nome del neopresidente USA. Nella città di Obama, che in giapponese vuole dire 'spiaggetta', la singolare omonimia è diventata un affare. I turisti fanno incetta di gadget nei negozi di souvenir.
Ma qui è gratis.

4 novembre 2008

Con Megachip

di Pino Cabras




C'è una novità che mi riguarda. Sono il nuovo direttore editoriale del sito www.megachip.info. Proprio su quel sito spiego perché questa sfida mi piace, e lo faccio in un articolo che riproduco anche qui
.
Di solito la
ri-publicazione avveniva al contrario, dal blog a Megachip. In fondo, qui non cambia molto. Grazie a tutti coloro che mi hanno privatamente incoraggiato.
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da Megachip
04/11/08

Cari lettori,

E' un anno davvero particolare, questo 2008, ora che inizio a dirigere il sito di Megachip. I cambiamenti sono stati repentini. È esplosa in tutta la sua portata la crisi finanziaria globale, che di colpo ha fatto ingiallire intere annate di pagine economiche dei giornali. Quanta informazione inutile ci eravamo sorbiti. La guerra del Caucaso ha segnato la fine del “momento unipolare” statunitense, intanto che la nuova amministrazione dovrà ricollocare la missione degli Stati Uniti, in un secolo meno americano del previsto.

L'informazione mainstream è vissuta con sempre minore credibilità, laddove cresce un giornalismo partecipativo – qui e oltreoceano - che sa anticipare i fatti, una nuova comunicazione che “conversa” e non si limita a dirci ciò che non sappiamo, ma anche ciò che non sappiamo dire.

Il mainstream è però un'industria culturale dal potere economico ancora schiacciante, mentre i giornali e i siti che propongono un'agenda culturale e comunicativa diversa – come Megachip – hanno pochi mezzi.

Eppure il sito di Megachip è cresciuto. Lo dobbiamo ai passi, uno dopo l'altro, con cui lo hanno saputo accompagnare i miei predecessori, che mi sento di ringraziare anche a nome degli oltre tremila lettori che ogni giorno contattano il sito. Così come ringrazio Giulietto Chiesa, Antonio Conte, Francesco De Carlo e tutto il nuovo comitato di redazione per gli incoraggiamenti e i consigli.

Questa non è l'unica tribuna che coltiva oasi critiche in mezzo al deserto del gossip e delle “armi di distrazione di massa”. Viviamo in società abituate a un certo costume democratico, pur bombardate dai messaggi omologanti dei grandi poteri e delle grandi multinazionali. Cresce sì il potere dei grandi media, ma si creano nuovi strumenti per comunicare, organizzarsi, diffondere saperi originali. A tutto questo mondo – tanti siti, tanti operatori indipendenti, spesso dispersi - vogliamo parlare sempre di più. Megachip mantiene comunque un forte principio guida, che ora dovrà tentare di sviluppare appieno: non vogliamo fare controinformazione per pochi. Vogliamo aprirci a linguaggi che raggiungano la grande massa, oggi toccata solo dal grande sistema della comunicazione che propone il suo povero, seppur voluminoso, menù unico. Abbiamo questa attenzione, sempre. È grazie a questo principio che il sito ha dato e darà grande risalto alle iniziative nate in seno al lavoro svolto a contatto con un pubblico più vasto, interessato ai grandi temi. Parlo di «Zero», il film critico sull'11 settembre, che cerca di parlare del tema al vasto mondo fuori dal web, anche a chi non ha mai cliccato una pagina in rete. E parlo anche di Pandora, il format televisivo che sperimenterà nuovi linguaggi e affronterà i temi che nessuno sa o vuole affrontare in TV.

Il sito inquadrerà tutto (articoli, approfondimenti, saggi, strumenti di formazione, ecc.) all'interno di alcuni grandi temi. Temi che via via, a partire dalle prossime settimane, andremo a scoprire.

Parleremo, com'è ovvio di democrazia nella comunicazione, la nostra missione politica fondamentale. Cercheremo di farlo con una visione globale e internazionale.

Ma parleremo anche della Grande Crisi in cui convergono drammatiche crisi finanziarie, ambientali, energetiche: faremo una critica serrata al vecchio totem del Prodotto Interno Lordo e daremo strumenti per collegarci a chi ragiona concretamente per trovare soluzioni, in lotta contro il tempo scandito dalla natura. Troveremo le voci e i “pensieri lunghi” che ripensano il modello economico e sociale e le forze che possono cambiarlo.

Analizzeremo le notizie e confuteremo le macchine della propaganda bellica. Il radar è già puntato sui temi caldi: USA, Russia, Ucraina, Iran, Terra Santa, Cina, Venezuela. Faremo un'opera organica di “ressourcement” sulle fonti della cultura della pace. Noi non crediamo allo “Scontro di civiltà”. Le varie identità religiose e le grandi soggettività del nostro tempo sono l'eredità millenaria di particolarismi culturali, strumenti di coesione ideologica, politica, culturale e spirituale di monadi culturali che però hanno perduto la propria insularità. Ora, sfidate come sono dalle minacce apocalittiche della guerra moderna e del collasso ambientale, queste identità hanno due possibili funzioni. O una funzione regressiva di richiamo protettivo delle identità particolari. O una funzione di fermento anticipatore per la transizione verso un'età in cui si senta del tutto l'appartenenza a un mondo unificato. Un fermento più affine alle loro proprie intuizioni fondanti. La crisi ci spinge a guardare verso chiunque voglia definire i termini di un patto sociale fondativo della comunità mondiale. La ragione, spogliata della «soggettività iperbolica» dell'uomo occidentale, vi gioca ancora un ruolo fondamentale. Ciò senza rinunciare a certe acquisizioni universali della cultura dell'Occidente, come il principio del primato della coscienza rispetto a qualsiasi legge, il principio correlativo dello stato di diritto e il metodo scientifico. A tutto ciò ci teniamo, e vogliamo essere in buona compagnia.

A proposito dell'importanza del Diritto, la nuova redazione avrà un legame speciale con Antimafia Duemila. Sarà fondamentale il suo apporto sul tema. Opporremo i temi della legalità e della giustizia contro l'assalto di cosche, affaristi irresponsabili e un ceto politico degradato. C'è un mondo pulito che continua ad esistere e a dire sì di cuore a «legge e ordine», ma no ai ministri della paura e al loro modo di manipolare le emozioni mediatiche.

È un lavoro in fieri. Cercherò di non allungare il rodaggio e di entrare in piena sintonia – mentre mi sento già in piena simpatia - con chi collabora con il sito e con chi lo segue. Questo mio piccolo inizio va a coincidere per caso con un periodo che sembra annunciare grandi cambiamenti, che non saranno narrati solo nel “dopo” degli storici, ma nel “durante” della politica e della cronaca. Questa narrazione sarà un cimento in cui vogliamo trovare parole potenti e fatti solidi. Perciò, cliccate spesso da queste parti.

Video inediti dell'11/9

Ecco alcuni video finora inediti del crollo della Torre Nord, con una prolungata inquadratura sulla "guglia", e un'angolazione leggermente diversa dell'Edificio 7 del World Trade Center. Postato su Veoh, 31 ottobre 2008. (le immagini sono più estese alle pagine originarie: North Tower - WTC7.



Watch North Tower Collapse in How to Videos  |  View More Free Videos Online at Veoh.com



Watch WTC7 in How to Videos  |  View More Free Videos Online at Veoh.com

2 novembre 2008

Licio Gelli: anchorman degli anni 2000, idee degli anni 30, amici degli anni di piombo

di Pino Cabras
Articolo originale pubblicato su «Megachip» [QUI]




Licio Gelli, l'anchorman degli anni duemila con le idee degli anni trenta e gli amici degli anni di piombo: presto vedremo “Venerabile Italia”, il suo autoritratto televisivo. Mi chiedo quale potrebbe essere il suo ritratto cinematografico. Un regista ci sarebbe pure, George Clooney, un intellettuale sensibile che ha saputo fare ottimi film sugli uomini della CIA e sulla vita di un influente conduttore televisivo.
Il vecchio capo della loggia P2 sintetizza tutto. Abbiamo l'uomo della CIA. Avremo anche l'influente conduttore.
Solo che Clooney nel film “Good Night, and Good Luck!” aveva raccontato la coraggiosa carriera di Edward R. Murrow, il giornalista americano che aveva demolito la caccia alle streghe anticomunista del senatore McCarthy. Nel caso italiano invece non c'è spazio per un Murrow. Il suo posto lo prende direttamente un McCarthy più longevo e più occulto.
E mentre Murrow aveva la reputazione di un giornalista onesto, credibile, dalla scintillante integrità, ora lo schermo sarà tutto per un pluripregiudicato, condannato in via definitiva per gravi reati: calunnia, depistaggio per la strage di Bologna, bancarotta fraudolenta (12 anni) e altro ancora. Per Clooney, minimo sforzo con massimo risultato. Gli basterà mettere il segno meno davanti ad ogni capoverso della sua vecchia sceneggiatura, e avrà in pochi minuti un nuovo e irriconoscibile racconto.
Cosa accadrà, ora che Licio Gelli ci riscriverà la storia degli ultimi ottant'anni? « Ai tempi del fascismo non sapevo di vivere ai tempi del fascismo », ha detto Hans Magnus Enzensberger .
Come a dire: è difficile relativizzare un fenomeno storico, se il giudizio della Storia non si è ancora prodotto.
L'anziano piduista taglia il nodo gordiano dei giudizi ingarbugliati e definisce i nostri tempi. «Il fascismo è qui»: questa era la frase che Gianfranco Fini pronunciava ai tempi del MSI, quando era arrivato a essere un alleato dell'allora Capo dello Stato, Francesco Cossiga, nel periodo delle sue “picconate” presidenzialiste. «Avevo molta fiducia in Fini – spiega oggi Gelli - perché aveva avuto un grande maestro, Giorgio Almirante: oggi non sono più dello stesso avviso, perché ha cambiato.» Per Fini il fascismo non è più qui, e ora lo definisce come «il Male Assoluto». È un'esagerazione che molti antifascisti non userebbero, ma una moneta spendibile per aspirare alla presidenza della Repubblica, non più da presidenzialista ma da politico attento a un cerimoniale bipartisan.
Ma stiamo scherzando? Ora che la P2 può proclamare di aver vinto, di aver distrutto il vecchio senso comune costituzionale, di aver plasmato come un retrovirus il Dna dell'opinione pubblica grazie alle TV di Silvio, che poi ha saputo giocare pro domo sua, proprio ora che si può chiudere il cerchio, dovremmo rinunciare al presidenzialismo elaborato dalla P2? Fini, Fini. Continua a immergerti nei fondali, che è meglio.
Qua serve uno che completi il vecchio Piano di Rinascita democratica della P2, cosicché «l'unico che può andare avanti è Berlusconi: non perché era iscritto alla P2, ma perché ha la tempra del grande uomo che ha saputo fare», chiosa Gelli, con l'accondiscendenza di un kingmaker sì distaccato, ma attento a riaprire bene la lunga partita presidenzialista. Al prossimo Quirinale gelliano serve un grande volume di fuoco. Serve l'uomo che a suo tempo aveva tutti gli appoggi per creare una nuova identità americanizzata della provincia italica, ancorché in una strana chiave siculo-brianzolo-televisiva. Occorre la leadership di un'Italia post-antifascista che ha espugnato via via le casematte culturali del vecchio faticoso compromesso costituzionale. Bisogna ricorrere ancora all'energia della vecchia Tessera P2 1816 per dare un tetto duraturo agli intellettuali organici del nuovo disegno, agli zelanti costruttori di patacche, come i falsi diari di un Mussolini compassionevole, o le docufiction seriali sulla Resistenza di Giampaolo Pansa, l'acuto scopritore del fatto che in guerra c'è morte e crudeltà.
Serve insomma una grande operazione culturale che dia il colpo di grazia ai cascami dell'antifascismo e perfezioni il Piano. Non vale più nemmeno la pena nascondersi. L'Occulto si palesa. Si vantano in tutta tranquillità amicizie mafiose e si vincono lo stesso le elezioni. Si potranno a questo punto vantare crimini ben peggiori, stragi, e sedimentarli come cultura. Ecco allora che si usa fino in fondo l'armamentario fascista compresso per anni.
«Non c'è ordine» lamenta Gelli, mostrando così anche il suo spaesamento retrogrado. Licio vuole un ordine da vecchia destra azzimata, quella che “non si sciopera”: «Non mi interessa la minoranza, che non deve scendere in piazza, non deve fare assenteismo, e non ci devono essere offese».»
Nel mentre però non è più la stessa Italia di un tempo, frontiera calda con il mondo comunista. È un'Italia più marginale, provinciale, declinante, impoverita, più 'sudamericana'. Un ambiente che il venerabile maestro conosce bene. Un corpo nazionale così spossato da non saper resistere a certe spinte, alle revisioni più smaccate, o al manifestarsi di tutti gli impeti reazionari: come nel caso di Cossiga, che ricorda quando mandava agenti provocatori nei movimenti studenteschi per manovrare le violenze e che subito è accontentato per il sequel del suo vecchio film.
Un noto programma televisivo di MTV è «Pimp My Ride». Il format consiste nel recupero di vecchie auto malmesse e nel loro aggiustamento da parte di meccanici e designer, i quali aggiungono una quantità esagerata di accessori ed elaborazioni che poi lasciano a bocca aperta i proprietari. Pimp nello slang americano vuol dire magnaccia: e le auto “pimpate” si caricano di ogni sorta di ammennicolo che le rende ridicole e kitsch.
Se riprendiamo il titolo e il significato di una canzone di Caparezza, possiamo re-intitolare lo show di Gelli «Pimpami la Storia». Le premesse ci sono tutte.
In giro è tutto un “pimpare” la realtà, in mezzo ai vecchi riflessi d'ordine. Anni di “Guerra al Terrorismo”, la versione mondiale della “strategia della tensione” sperimentata in Italia negli anni d'oro di Gelli, non passano invano.
Una vittoria di Obama alle presidenziali USA non invertirebbe facilmente la tendenza. Non lo farebbe facilmente negli Stati Uniti, in mezzo al crollo finanziario che militarizza l'ordine pubblico. Figuriamoci nelle incattivite società europee. Da Gelli e i suoi tesserati non arriverà certo nessuna operazione verità sulla crisi, ma un ripiegamento peronista. Motivo di più per aprire le porte della comunicazione.
Good night. And good luck!