29 luglio 2008

Sardegna, terra di War Games. Ipotesi di riconversione

di Pino Cabras


Fonte dell'immagine: Sardegna DigitalLibrary

Il CoMiPa un punto di osservazione davvero propizio per capire il rapporto fra attività militari e territorio, più che in altre parti d’Italia, più che in altri territori anche di altri paesi.
Parlo del Comitato Misto Paritetico sulle Servitù Militari (CoMiPa) della Sardegna, del quale faccio parte dal 2005.
In ogni regione è presente un Comitato misto paritetico che ha il compito di esaminare i programmi delle installazioni militari per conciliarli con i piani di assetto territoriale della Regione. La legge 898/1976 che istituiva i CoMiPa - composti alla pari da sette rappresentanti dello Stato e sette della Regione - intendeva trovare un equilibrio fra esigenze molto diverse fra di loro.
Nelle cose militari di Sardegna, il dare e l’avere per cinquant’anni si è fissato in tremendi squilibri. I poligoni militari dell’isola occupano 24mila ettari. In tutte le altre regioni messe insieme si raggranellano appena 16mila ettari. Qui si concentra dunque il 60% dei poligoni della nazione. La percentuale degli ordigni esplosi nelle esercitazioni sale all’80%, senza contare le esercitazioni di forze armate straniere non comprese in questo computo.
Durante le riunioni e le missioni sul campo del CoMiPa ho visto da vicino la mole sproporzionata del carico di attività e presenze militari. L’impatto economico e ambientale è enorme: aree a perdita d’occhio off limits, rischi ambientali con sparuti controlli, superfici sottratte ad attività economiche connaturali a quei territori, popolazioni non coinvolte, accordi mai rispettati, altri accordi ancora segreti.
Un dato su tutti mi colpisce. Durante il dopoguerra, mentre tutti i comuni costieri sardi tendevano a raddoppiare la popolazione, il comune di Teulada la vedeva dimezzare, nonostante avesse alcune delle insenature più belle del Mediterraneo e una pianura nota come il Giardino, settemila fertilissimi ettari di paradiso agrario oggi ridotti a una landa devastata dai cingoli. I terreni furono espropriati e in molti casi ottenuti anche con l’inganno, quando ai contadini fu promesso – intanto che venivano caricati sui camion - che sui loro fondi sarebbe stata fatta la riforma agraria. Piccola pesca, un film di Enrico Pitzianti, racconta bene quel che rimane di questa piccola deportazione sconosciuta.


Ho avuto però il privilegio di assistere ad alcuni importanti cambiamenti. Nulla è più come prima, non ci sono precedenti altrettanto forti: esistono nuovi accordi, con molti beni restituiti al demanio civile e la base di La Maddalena smantellata e in via di riconversione. Qualcosa di più di un piccolo passo, sebbene i poligoni di Teulada, Quirra e Capo Frasca non siano stati ancora ridimensionati.


Perfino gli avversari del presidente della Regione Renato Soru riconoscono che su questo tema ha esercitato una spinta che prima del suo ufficio non c’era. Tanto è vero che il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, ancorché non entusiasta, si trova a in mezzo al ballo della riconversione e balla anche lui, in vista del G8 del 2009 previsto nell’arcipelago maddalenino. Allo stesso modo anche il sindaco di centro-destra di Cagliari si avvantaggia nel gestire l’arrivo di una manna immobiliare che ora ritorna civile. Per non parlare dei miei colleghi di centro-destra nel CoMiPa, che si son trovati senza patemi a votare con me contro il governo, a volte quello di Berlusconi, a volte di Prodi, mentre rinvenivano ferme sponde nell’istituzione regionale nel corso della battaglia procedurale per la riduzione delle servitù militari.

Oggi c’è insomma una Regione che non si distrae, non lascia cadere, non si fa sostituire l’agenda, e dice ad esempio che quando un ministro mette una firma in calce a un testo, quelle parole non devono essere mai dimenticate. Le firme dei ministri di venticinque anni fa promettevano un riequilibrio “a breve termine”. Tutto venne sottoscritto nonostante i blocchi militari, l’URSS, l’equilibrio del terrore, cose che non ci sono più da ormai tanto tempo. Quanto accidenti doveva durare un “breve termine”? Un mio caro amico americano mi corregge, quando mi congedo dicendogli “ci vediamo i prossimi giorni”, perché questa frase – mi dice puntigliosamente - è un “nonsense”, visto che non fissa un’ora e una data.

In questi ultimi quattro anni sono state stabilite date, percorsi, tempi, per non rassegnarci agli accordi “nonsense”, che restano tali se non li rivendichiamo con forza.
La Sardegna aveva ceduto troppe superfici e troppe stagioni all’uso militare, senza proporzione e senza equità rispetto al resto del Paese. Quando la Germania fu riunificata, ottenne un programma comunitario per la riconversione economica e sociale delle aree dipendenti dalle produzioni e dalle presenze militari. Qualcosa di simile serve anche in Sardegna. L’economia dell’isola può convivere con una significativa presenza militare. È una realtà corposa e radicata, anche solo per il grande numero di persone che vi lavorano. Riconversione vuol dire però cambiare nella quantità e nella qualità della presenza militare. Nella quantità, chiedendo esercitazioni più corte, molti terreni più liberi, molti specchi d’acqua più disponibili. Nella qualità, legando le competenze riutilizzabili in ambito civile provenienti dal mondo militare alla qualità economica e tecnologica della Sardegna. La presenza militare sarebbe percepita con una diversa armonia fra dare e avere.

Il fatto che si sia smantellata la base statunitense di La Maddalena, che fungeva da punto di appoggio per i sommergibili nucleari, non deve far pensare che sia stato un fatto scontato, anzi. Nel 2005 circolavano ancora dei piani dettagliati che descrivevano addirittura un suo imminente ampliamento. La base sarebbe diventata così molto più grande, in larghezza e in profondità, rispetto ai tempi della Guerra Fredda. Dopo la fine dell’URSS sembrava più facile chiudere qualche base e allontanarci dall’Apocalisse nucleare. Viceversa sembrava che andassimo verso una maggiore militarizzazione. Perché accadeva tutto questo? Osservando gli avvenimenti eravamo preoccupati. Vedevamo prendere corpo la preparazione a qualcosa di smisurato e terribile nella scacchiera eurasiatica, una grande guerra. Ancora oggi vediamo troppi movimenti verso quella direzione. Le basi USA nel Vicino e Medio oriente sono cresciute anno per anno, la pressione sulla Russia è aumentata sempre di più, sin dentro il cuore dell’Asia, fino a un passo dal gigante risvegliato, la Cina, a sua volta avvisata che la pressione crescerà anche per essa. Per contro Russia e Cina danno segno di rispondere con un impressionante aumento delle spese militari e il rafforzamento della loro integrazione militare nella Shanghai Cooperation Organization.

Il fatto però è che il dio della guerra si vede scavare molta terra sotto i piedi dal dio del deficit.
Gestire un impero costa.

A La Maddalena si puntava a raddoppiare. Ma i conti impietosi forse hanno spinto a lasciare, per concentrarsi su altri dispendiosi obiettivi da nuova Guerra Fredda, come i sistemi anti-missile da piazzare in Polonia. Anche lì però non è gratis. Il primo ministro polacco Donald Tusk chiede che gli Stati Uniti «forniscano miliardi di dollari di investimenti USA per aggiornare la difesa aerea polacca in cambio dell’ospitare 10 missili intercettori a due stadi» (Reuters, 4 luglio 2008).
Il commentatore conservatore statunitense Pat Buchanan ironizza:
«Perché non dire al presidente Tusk che se vuole un sistema di difesa aerea se lo può comprare? Che noi americani non vogliamo più pagare la Polonia per avere il privilegio di difendere la Polonia? Che la trattativa sui missili anti-missile si chiude qui?»

Ancora una volta: gli equilibri si contrattano, con dignità e senza arrendevolezze, e i risultati si possono ottenere. Per questo insisteremo ancora, affinché non si abbandoni la partita mirante a chiudere il poligono di Capo Teulada. Così come non può essere accettata la recente imposizione di «una striscia tattica polifunzionale» (in pratica un aeroporto per voli senza pilota UAV) nel poligono interforze del Salto di Quirra. Anche qui forse dovremo sperare nel deficit: la stretta finanziaria sta strozzando perfino la routine della polizia (e questo è un segnale preoccupante di tenuta del sistema), ma si estende in altri ambiti, portando a lesinare sulla benzina, figuriamoci sui missili e gli UAV.

Riconvertire è necessario, per non farci travolgere dall’oscillazione dei governi fra le velleità belliche e l’inclemenza del disavanzo, mentre un’idea di come il territorio potrebbe meglio vivere ce l’abbiamo.


22 luglio 2008

I “piegacucchiai” e la guerra mentale

di Pino Cabras




Fonte dell'immagine: dayleyzone.com


La parola agli esperti. Un documentario statunitense sull’11/9, One Nation Under Siege, per valutare l’attacco al Pentagono dà spazio ai dubbi di un vecchio ufficiale, il generale a due stelle Albert Stubblebine III, il quale dichiara che non può essere stato un Boeing 757 a colpire il Dipartimento della Difesa.
La dichiarazione proviene da una fonte di un certo peso. In piena guerra fredda, in anni di massima tensione USA-URSS, Stubblebine comandava una delle più delicate articolazioni dell’intelligence militare americana. L’organizzazione da lui comandata si chiamava (e si chiama tuttora) United States Army Intelligence and Security Command (INSCOM). Vi sono inquadrate decine di migliaia di unità con elevata specializzazione.


Per non perderci nel ginepraio delle sigle, ci basti sapere che l’INSCOM è l’anello di collegamento fra US Army e National Security Agency (NSA), ossia fra l’esercito statunitense e il cuore dello spionaggio elettronico: congiunge la struttura che dispone i piani militari operativi sul terreno con la megastruttura d'intelligence che fornisce - in estremo dettaglio - le immagini e i suoni del territorio e di chi lo percorre, ovunque nel mondo. La sede dell'INSCOM è nella base di Fort Belvoir. L'11 settembre 2001 vi si svolgeva un’esercitazione che supponeva di «testare la sicurezza della base in caso d’attacco terroristico». Una delle tante esercitazioni in corso, proprio quel giorno, lungo tutto il paese, con decine di basi militari e ogni sorta d’agenzia governativa già mobilitate per delle simulazioni.




I dubbi del vecchio Stubblebine – qui ancora incollati a un mondo materiale di misurazioni tangibili che gli americani definirebbero “no-nonsense” - vengono ripresi anche in altri documentari, come Inganno Globale e Zero:

«Calcolavo le dimensioni di parti delle installazioni sovietiche partendo dalle fotografie. Era il mio lavoro» spiega Stubblebine, che aggiunge: «guardo al buco nel Pentagono e guardo alle dimensioni dell’aeroplano che si suppone abbia colpito il Pentagono. L’aereo non ci sta in quel buco. Dunque che cosa ha colpito il Pentagono? Cosa lo colpì? Che cosa succede?»





Riepiloghiamo. Un militare al quale la massima superpotenza ha affidato negli anni più tesi della sua storia la valutazione delle immagini del nemico, oggi dice che le immagini dell’11 settembre non gli quadrano per nulla.
È interessante o no, come attestazione?
Parla una figura qualificata oppure no?
A me sembra di sì. Converrete che si tratta di una faccenda degna di approfondimento, come minimo.
A loro modo hanno voluto “approfondire” anche i mitografi della versione ufficiale. Dal cesto che contiene i frutti della biografia di Stubblebine hanno scelto un frutto storto e strano: il generale curava vasti programmi che studiavano i poteri paranormali come arma da addomesticare e utilizzare per le guerre future.
I mitografi usano questa informazione per presentare Stubblebine come un mentecatto isolato, dedito a esperimenti folli e solitari. Fanno solo un vago cenno ad “altri” personaggi che sostennero questi programmi, ma lasciano la pazzia tutta a Stubblebine.
Assai comodo, tutto ciò, e anche molto selettivo, oltremodo manipolatorio direi.

Chi sono gli “altri”? Fra questi “altri” viene dimenticato nientemeno che il generale Peter Schoomaker, un personaggio che ha toccato l’apice della sua carriera addirittura dopo l’11 settembre, come Capo di Stato Maggiore dell’esercito USA (2003-2007) quando fu richiamato – fatto senza precedenti – dalla pensione, dopo una vita nelle forze speciali. Proprio il libro citato selettivamente per screditare Stubblebine (Jon Ronson, The Men Who Stare At Goats, Simon & Schuster, New York 2004), racconta che il generale Schoomaker ha costituito un think tank presso l’ufficio di Capo di stato maggiore della US Army volto a diffondere tecniche paranormali nell’esercito USA. Il libro descrive la propagazione di obiettivi estremi – fino alle frontiere più lunatiche della New Age – una diffusione che si è fatta strada nelle alte sfere militari statunitensi: si tratta di un sistema di idee inteso a forgiare le armi più impensabili, rivolte ai teatri di guerra più inimmaginabili, per le volontà di dominio più esagerate.

Qualcuno definisce il mondo di militari descritto da Ronson come “the spoonbenders”, cioè “i piegacucchiai”. Come tutte le “volontà di potenza” incorporate nella burocrazia militare, anche le evocazioni dei “piegacucchiai” sono molto comiche. Il comico è il tragico visto di spalle. La guerra è molto tragica. Perciò è molto comica. Non esisterebbero capolavori come Il Dottor Stranamore o Il buon soldato Švejk, altrimenti.

A un certo punto però possiamo anche smettere di ridere. E possiamo provare a capire perché enormi rivoli di denaro, grandi organizzazioni e interi pezzi delle nuove scienze militari siano inghiottiti da smisurati capitoli del budget della Difesa. Stanziamenti occulti (perché impenetrabili anche alle commissioni parlamentari). Stanziamenti occultisti (per il repertorio di forze parapsicologiche evocate).
Il punto è che la “guerra totale”, oggi, vuol essere totale in tutti i sensi. La nuova corsa al riarmo ha obiettivi massimi: il controllo militare totale dello spazio , il controllo assoluto del clima come arma entro il 2025, il controllo delle menti e dell’opinione pubblica.

Altro che Stubblebine, ancorato alla fisica e frustrato dal paranormale...
Sono interi spezzoni della macchina bellica americana – fra i più accaniti difensori della verità ufficiale dell’11/9 – a voler spingere con preoccupante esaltazione la “Guerra al terrorismo” verso confini inauditi.

Pensate ad esempio a uno di questi “piegacucchiai”, il generale Paul E. Vallely. È uno di quegli ufficiali a riposo beccato dal «New York Times» a fare in TV propaganda sfegatata e bugiarda per le guerre di Bush e Rumsfeld mentre nascondeva i suoi corposi interessi privati. Vallely scrisse assieme a Michael Aquino un inquietante saggio, From PSYOP to MindWar: The Psychology of Victory (ovvero “dalla guerra psicologica alla guerra mentale: la psicologia della vittoria”). Il saggio partiva da idee già spregiudicate:
«La guerra mentale è soprattutto strategica ... Nel suo contesto strategico deve estendersi in ugual modo ad amici, nemici e neutrali in tutto il globo - non attraverso i primitivi volantini gettati sui campi di battaglia o gli altoparlanti della guerra psicologica, né attraverso gli sforzi deboli, imprecisi e limitati della psicotronica - ma attraverso i mezzi d'informazione posseduti dagli Stati Uniti che hanno la capacità di raggiungere virtualmente ogni popolo sulla faccia della terra. Questi mezzi d'informazione ovviamente sono quelli elettronici, radio e televisione.»
Fin qui sembrano le parole di un Goebbels che abbia letto McLuhan. Ma Vallely – per anni colonna editoriale di Fox TV - si abbeverava a queste parole:

«Gli sviluppi più avanzati delle trasmissioni permettono una penetrazione delle menti ovunque nel mondo in una maniera che sarebbe stata inconcepibile appena pochi anni fa. Come la spada di Excalibur, noi dobbiamo arrivare a prendere possesso di questo strumento e tutto ciò può trasformare il mondo per noi, se avremo il coraggio e l'onestà di promuovere con esso la civiltà.»


Va bene, siamo ancora in zona Harry Potter. Ma è ora che arriva il bello, per i profeti della MindWar:


«Ci sono delle condizioni puramente naturali in cui le menti posso diventare più o meno ricettive e la guerra mentale deve servirsi pienamente di fenomeni quali l'attività elettromagnetica dell'atmosfera, la ionizzazione dell'aria e le onde dalle frequenze estremamente basse».

Capito dove arrivano i “piegacucchiai” con le stellette?

Il co-autore era il maggiore Michael A. Aquino, uno specialista di guerra psicologica che nel 1975 aveva fondato una setta satanica denominata "Il tempio di Set", aspirante alla leadership della “Via della mano sinistra”. Si tratta di ambientini che incrociano facilmente le cose peggiori, dalla pedofilia ad Abu Grahib. E che infatti hanno incrociato le stanze dell’Amministrazione Bush.



Michael A. Aquino. Fonte dell'immagine: Wikipedia

Quel che possiamo notare è che il vecchio Stubblebine sembra un tizio ormai fuori dai giochi, mentre buona parte dell’ambiente psichico di riferimento della MindWar continua ad agire concretamente nel dispositivo della propaganda che sta modellando la parte occulta della nuova guerra. Ad uso del pubblico vengono rilasciate formule eufemistiche, vagamente orwelliane. Si parla di sviluppare "armi non letali", di curare la "ciber-organizzazione della guerra", di attuare una "intelligence in tempo reale". Dietro le formule si celano categorie meno inoffensive. Proprio Peter Schoomaker, proteso a contaminare metodi d’azione, ha parlato esplicitamente di "fusione tra guerra e criminalità".

Altri militari puntano a creare "soldati cibernetici": truppe con un microchip impiantato nel cervello da interfacciare con i comandi di "intelligence in tempo reale".

È però un lavoro di lunga lena, che non riesce dall’oggi al domani. C’è chi anticipa il nuovo scenario: «ora i figli vanno ribellicizzati», sebbene «in discontinuità generazionale», sottraendoli alle vecchie agenzie educative. In attesa di mezzi paranormali, qualcosa c’è già. «I veicoli d'istruzione migliori saranno i nuovi videogiochi e i film». Ecco dove spacciare sin dall’infanzia i videogiochi più spietati e violenti che affrontano le sfide «di gestione e superamento di difficoltà estreme». Chi usa parole tanto esaltate? Un tal Carlo Pelanda, in un articolo apparso sull’organo tartarinesco italiano della cultura neocon (Il progetto di rieducare i diciottenni di oggi alla possibilità reale della guerra, «Il Foglio», 28 giugno 2006).

John Maynard Keynes, che collezionò molti degli scritti di Isaac Newton sull'alchimia, disse che «Newton non fu il primo dell'età della ragione: fu l'ultimo dei maghi.» Parafrasandolo – si parva licet componere magnis – potremmo dire che in questo mondo di Stranamore dissennati «Stubblebine non fu il primo dei nuovi maghi: fu l'ultimo dell’età della ragione.»

Stubblebine sembra ancora potersi permettere incursioni nel mondo della vecchia fisica al momento di valutare un incidente aereo.

Gli altri "piegacucchiai" sono invece in giro a colonizzare i cervelli intanto che anelano alla prossima grande guerra. Le loro incursioni nel mondo della fisica le riservano alle stanze in cui si spartiscono gli appalti della Difesa.

Cosa diranno in quei momenti? Qualcosa come: «Odio la realtà, ma è l’unico posto dove mangiare una buona bistecca» (Woody Allen).


Aggiornamento del 31 luglio 2008:

Il presente post è stato ripreso anche da «Luogocomune» [QUI], da «ZEROfilm» [QUI] e da «Megachip» [QUI]

15 luglio 2008

Scavando su Ground Zero: rispetto, memoria e verità

di Pino Cabras



Diversi mitografi che fanno l’apologia delle versioni ufficiali sull’11 settembre adottano spesso una tattica: spostare l’attenzione dal tema. Secondo questo schema, mettere in discussione la versione ufficiale è qualcosa che «manca di rispetto per le vittime e le loro famiglie».
La realtà, tuttavia, è un’altra. Circa metà dei familiari delle vittime ritiene che l’11 settembre abbia avuto complicità ad alto livello negli apparati statali.
Molti parenti e amici delle vittime non si limitano a sostenere la ricerca della verità sull’11/9, ma chiedono a gran voce una nuova inchiesta, come fa – fra gli altri – Bob McIlvaine, una delle voci più toccanti che abbiamo conosciuto anche in Italia grazie al film Zero. Non è affatto una voce nel deserto.

Le stesse “vedove dell’11 settembre” che si batterono per la creazione della Commissione d’inchiesta, dopo i suoi scarsi risultati e dopo i depistaggi che hanno appurato, stanno ora chiedendo una nuova indagine.



Altre voci esprimono dubbi e domande radicali. Lo fanno con un’autorevolezza naturale, che viene dalla loro storia personale valorosa e dai segni che portano nel corpo. Sono i pompieri e i soccorritori che avevano lavorato instancabilmente per salvare vite umane in mezzo alle nubi tossiche. Parliamo di veri e propri eroi, oggi colpiti dalla malattia per ciò che respirarono in quel giorno infausto. Proprio loro, queste vite predestinate a una sorte segnata da inesorabili patologie, sostengono che fu una demolizione controllata a buttare giù le Torri Gemelle e reclamano un’indagine che non sia una farsa.



Possiamo portare documenti, testimonianze, contatti, video. Ma ci sarà comunque ancora qualcuno che continuerà a ripeterlo: indagare sull’11 settembre è irriguardoso nei confronti delle vittime.
Ponendoci all’ascolto dei familiari dei caduti, dovremo pazientemente spiegare che è vero il contrario.
Accontentarsi delle versioni ufficiali: questo sì, sarebbe veramente irrispettoso di chi morì quel giorno e di chi lo piange da allora.

La posizione di chi reclama questa verità è molto scomoda, specie per chi ha avuto una visione dei fatti personale e diretta. I “muri di gomma” esistono.

Il maggiore Mike McCormack, ad esempio, è uno degli eroi di Ground Zero, nonché uno degli individui interessati a far divulgare i documenti che hanno provato il depistaggio governativo che ha deliberatamente messo a rischio poliziotti, vigili del fuoco e soccorritori (quando l’aria venne dichiarata «sicura e respirabile»). Il 12 settembre 2006, per fermarlo e perquisirlo sono state mobilitate anche le teste di cuoio della polizia. Come è ovvio, McCormack ha percepito il tutto come una potente opera di intimidazione. Le sue prese di posizione non sono uno scherzo. Sull’11 settembre ha rivelato cose di una certa pesantezza: «molti pompieri mi andavano dicendo che sentirono numerose esplosioni secondarie per tutto l'edificio – questi ragazzi sono professionisti con grande esperienza – molti hanno una formazione militare e non sono sciocchi.»
McCormack ha sostenuto che circa tre quarti dei poliziotti, dei pompieri e dei soccorritori con cui ha parlato personalmente credono ora che sull’11/9 ci sia un insabbiamento e ha rivelato che molti sono stati minacciati che «se aprono bocca possono dire addio alla loro pensione.»

Nonostante questo clima, a dispetto del “rumore di sciabole”, delle intimidazioni, delle inevitabili paure, gli interessati vanno avanti.
Plaza de Mayo, in un altro emisfero, dovrebbe averci insegnato che c’è chi non si arrende mai.

13 luglio 2008

Edificio 7: il cibo precotto della versione ufficiale


Jerome Hauer e Rudolph Giuliani nel 1996

Articolo originale:
WTC 7 Emergency Head Was Building Collapse Specialist
di Paul Joseph Watson
«Prison Planet»
10 luglio 2008

Traduzione di Pino Cabras


L'ex capo della gestione delle emergenze di New York, Jerome Hauer, il cui ufficio era al ventitreesimo piano del WTC 7 (l'Edificio 7 del World Trade Center), era anche uno specialista in crolli di edifici, secondo un articolo del «New York Times» recentemente scoperto. Hauer ha attirato dei sospetti da parte del movimento per la verità sull'11/9 a causa dello zelo che usò nel sospingere la versione ufficiale già nelle ore successive all'attacco, quando i dettagli erano ancora lacunosi.

Hauer era inoltre il direttore amministrativo della Kroll Associates – la società che all'epoca forniva i servizi di sicurezza al complesso del WTC – e denunciava una conoscenza preventiva degli attacchi all'antrace una settimana prima che accadessero.
In un articolo del 27 luglio 1999 apparso sul «New York Times» riscoperto da 9/11 Blogger e intitolato Che cosa potrebbe andare male? È il suo lavoro sapere (What Could Go Wrong? It's His Job to Know), Hauer riceve un incandescente peana a cura del giornalista Randy Kennedy.

«C'è una storia che lui racconta nella quale questo fascino è abbastanza letterale... ma un altro esempio, un po' più metaforico, è difficile da fraintendere quando entri nel suo ufficio al ventitreesimo piano del WTC 7, altrimenti noto come “il bunker”, ossia il centro per le crisi di emergenza da 13 milioni di dollari a prova di proiettili, uragani e blackout, aperto dal comune il mese scorso».

L'articolo descrive l'Edificio 7 per quel che era, un oggetto stabile strutturalmente rafforzato, costruito per lo scopo manifesto di reggersi vigorosamente in una situazione di crisi, non la debole scatoletta di esche per fuoco che si presume sia diventato il primo edificio in acciaio nella storia a collassare a causa dei soli incendi, al dire dei debunker del calibro di BCC, History Channel, Popular Mechanics e altri.

In effetti, stando alla citazione da parte del «New York Times» di una dichiarazione di Larry Silverstein del 1989, i progettisti del WTC7 «costruirono con abbastanza ridondanza da consentire a intere porzioni di piani di essere rimosse senza danneggiare l'integrità strutturale dell'edificio», una solida struttura che venne ulteriormente migliorata dopo quell'anno con «più di 375 tonnellate di acciaio, che hanno richiesto oltre 19 km di saldature.»

L'articolo spiega il ruolo di Hauer: «nella veste di capo della gestione delle emergenze, Hauer sovrintende alla pronta reazione ai crolli di edifici, dei quali non c'è stata certo mancanza nel corso degli ultimi tre anni».

«Per buona parte della sua vita professionale, il compito di Jerome Hauer, 47 anni, è stato quello di sapere bene in che maniera le cose funzionano in un certo modo quando smettono di funzionare: quando cadono, quando implodono o esplodono, quando congelano o s'incendiano o si spengono; in tutti questi casi, lui sa cosa fare. Come ammettono tutti coloro che sono totalmente dedicati alle emergenze, non fa altro che pensare in ogni momento ai modi orribili in cui le cose si distruggono e la gente muore, sperando nel frattempo che tutti i suoi piani giacciano sugli scaffali».

È perciò stesso interessante che Hauer avesse il suo ufficio nel bel mezzo di un palazzo di 47 piani che poi crollò entro il proprio perimetro in non più di 7 secondi nel tardo pomeriggio dell'11/9, dopo essere stato colpito da poche macerie e aver subito danni da incendio limitati.

L'articolo enfatizza la numerosità dei tipi di emergenza su cui Hauer era esperto e potrebbe elencare nel suo curriculum: «incidenti di elicottero, incendi alla metropolitana, grandi perdite d'acqua sulle condutture, bufere, ondate di caldo, blackout, crolli di edifici, crolli di edifici, crolli di edifici».

Nei momenti immediatamente successivi agli attentati Hauer apparve sugli schermi di CBS News mentre con Dan Rather, a caldo, forgiava in quattro e quattr'otto delle spiegazioni sorprendentemente assertive in merito agli eventi, e concepiva un raccontino che presto sarebbe diventato la versione ufficiale.



Hauer risultava sospettosamente propenso a porre l'accento sul fatto che gli edifici non erano stati demoliti da esplosivi ma dagli aeroplani che li avevano colpiti, nonostante ciò fosse un completo rovesciamento di quanto avevano concluso a suo tempo i capi architetti e i progettisti del WTC durante gli studi in merito all'impatto di aerei sulle torri gemelle.

Hauer oltre a ciò puntò il dito direttamente su Bin Lāden allorché la sceneggiatura iniziava a svilupparsi.

«La mia idea è che - data la velocità dell'aereo e il fatto che questo fosse pieno di carburante al momento di colpire l'edificio poi incendiato - la velocità dell'aereo certamente abbia avuto un impatto sulla struttura stessa. E inoltre il fatto che si sia incendiato e si sia verificato un intenso calore probabilmente ha indebolito allo stesso modo la struttura. E io ritengo che sia stato questo: che semplicemente gli aeroplani hanno colpito il palazzo e causato il crollo», disse Hauer a Rather.
Rather inoltre chiese ad Hauer se gli attentati si sarebbero potuti eseguire senza la sponsorizzazione di uno Stato. Hauer replicò: «non son certo di poter concordare sul fatto che tutto ciò sia necessariamente sponsorizzato da uno Stato. Di sicuro reca le impronte digitali di qualcuno come Bin Lāden».

Hauer fu incredibilmente “accurato” nel prefigurare la versione ufficiale che sarebbe più tardi comparsa a confermare la totalità delle sue congetture iniziali, malgrado il caos che circondava gli attentati nelle ore immediatamente successive al loro verificarsi.

Al tempo dell'11/9, Hauer era direttore amministrativo della Kroll Associates, una società di servizi di sicurezza intrecciata con il complesso militare-industriale, che per coincidenza aveva anche in carico la sicurezza dell'intero complesso del World Trade Center in quel giorno fatale.
Come se non bastasse, fu proprio Hauer che, si dice, consigliò la Casa Bianca a iniziare ad assumere ciprofloxacina (nome commerciale: "Cipro"), un antibiotico efficace contro l'antrace, proprio il giorno 11 settembre e una settimana prima che fosse ricevuta la prima lettera all'antrace.

Due mesi dopo l'11/9, Hauer faceva parte di un gruppo di lavoro al Council on Foreign Relations che produsse un documento intitolato “Task Force indipendente sulla risposta dell'America al terrorismo”, che in parte chiamava a contrastare attivamente le spiegazioni alternative dei retroscena dell'11/9.

Il modo repentino e meticoloso con cui Hauer aveva tirato le somme sulle cause dei crolli dei palazzi che pure non avevano analoghi precedenti nella storia, associato alla sua “expertise” sulle caratteristiche delle demolizioni controllate, in aggiunta alla sua prefigurazione degli attentati all'antrace e la sua posizione all'interno della Kroll Associates, continuano legittimamente ad attrarre interesse fra i ricercatori del movimento per la verità sull'11/9.

11 luglio 2008

La pista spagnola: "Atta, incapaz de pilotar un Boeing 767"

di Pino Cabras


Mohamed Atta ancora ragazzo.

Un Boeing 767 non era alla sua portata.
Lo ha detto l’istruttore di volo di Mohamed Atta, uno spagnolo che lo conobbe e seguì per mesi e mesi.

C’è tutta una pista spagnola per le inchieste dell’11 settembre, quasi sconosciuta fuori dal suolo iberico, ma ricca di dettagli meritevoli di riflessioni.

Sappiamo che la biografia di Mohamed Atta, il presunto dirottatore e pilota suicida di al-Qā’ida, ha avuto ramificazioni e ubiquità incongruenti, prodigiose “bilocazioni” in stile Padre Pio, che però era un santo, mentre Atta è il demonio per eccellenza. Dopo Osāma bin Lāden, sia chiaro. Una di queste vite parallele ha portato Atta in Spagna.

La giornalista Pilar Urbano, editorialista di «El Mundo», vicina politicamente a José Maria Aznar, nonché biografa ufficiale dei reali spagnoli e membro dell’Opus Dei, racconta il vissuto spagnolo di Atta in un libro, Jefe Atta, el secreto de la Casa Blanca (Janet & Plaza, 2003). La figura di Pilar Urbano, come si vede, è già una sorpresa. È quella di una personalità saldamente conservatrice, portata in più punti decisivi a non discostarsi dal paradigma della versione ufficiale. Ma è altresì il profilo di un’abile giornalista d’inchiesta, alla quale decenni di mestiere hanno insegnato un certo rispetto nei confronti della durezza dei fatti. E i fatti, nel corso dell’indagine, la portano fino alle domande più scomode, così che si trova a criticare le contraddizioni della versione ufficiale dell’11 settembre, tanto da investire con un radicale scetticismo i resoconti governativi sull’attentato al Pentagono. A ulteriore dimostrazione che i fatti dell’11 settembre non sono materia per contrapposizioni novecentesche destra-sinistra, bensì materia per analisi coraggiose in cui conta l’indipendenza di giudizio. E Pilar Urbano è una che tiene davvero la schiena dritta: quando nel 1981 gli spari dei militari golpisti risuonarono nell'aula del parlamento di Madrid, lei - allora giornalista parlamentare - fu una delle pochissime persone a rimanere coraggiosamente in piedi sfidando gli uomini di Tejero.

La sua interpretazione delle prove è che l'aereo di Washington sia stato abbattuto dall'aeronautica militare sopra il fiume Potomac e sia caduto poco lontano, mentre quel che si vede nel famoso video del Pentagono non sarebbe altro che l'esplosione di uno dei missili terra-aria dell'obsoleto sistema di difesa del dipartimento della Difesa. In sostanza una grave disfunzione del sistema di difesa militare ereditato dai tempi della guerra fredda e mai attivato per davvero sino ad allora. Sebbene questa ipotesi tenda a distogliere i sospetti sull'intenzionalità dei fallimenti del sistema della difesa, nondimeno fa della versione ufficiale un ferrovecchio. Non va dimenticato che chi ha fatto menzione alla 'necessaria' esistenza di questi sistemi posti a presidio delle zone aeree proibite di Washington è stato attaccato duramente dai mitografi della versione ufficiale.


Pilar Urbano

Un altro giornalista spagnolo ha scritto una voluminosa inchiesta sull’11 settembre. Anche lui è fuori dagli schemi. Si chiama Bruno Cardeñosa. È un noto ufologo, e questo farebbe già strillare come polli spennati i sedicenti anti-bufala nostrani, che nella foga delle loro tecniche di discredito, dimenticano sempre di vedere se per caso il loro bersaglio di turno abbia da dire qualcosa e magari se porta prove o testimonianze.

Bruno Cardeñosa

Non ho idea di dove vada a parare Cardeñosa quando segue la sua passione investigativa per gli “objetos volantes no identificados”. Non ho letto i suoi libri che ne parlano. Posso solo immaginare che sia un tipo che non si accontenta dei sentieri già battuti.
La testardaggine di ricercatori e giornalisti eccentrici, fuori dagli schemi in voga, spesso ostracizzati e talvolta molto discussi, ha portato a trovare comunque notizie rare e preziose, in grado di resistere a controlli incrociati. Notizie che un bravo giornalista ‘responsabile’ – ma anche troppo omologato e troppo attento a non apparire inaffidabile – di solito cerca di non affrontare di petto. Troppi rischi, troppa distanza dall’asse della sua carriera e troppa stonatura rispetto alle scelte dei direttori.
Il giornalista investigativo spagnolo mostra tutti i suoi pregi in due suoi libri in tema di mega-attentati: un grosso volume sull’11 settembre 2001 statunitense (11-S. Historia de una infamia, Corona Borealis, 2003) e un’indagine sull’11 marzo 2004 spagnolo (11-M. Claves de una conspiración, Espejo de tinta, 2004). Sono inchieste vere. Il cronista non intervista alieni. Fa domande e ottiene risposte da uomini e donne in carne e ossa che hanno molte cose da dire, e da una posizione adeguata.

In 11-M, ad esempio, affronta i misteri dei grandi attentati alle stazioni dei treni di Madrid, che sono tanti e inquietanti anche lì, per collocarli lungo un filo che li riporta allo scenario dell’11 settembre.

Uno degli aspetti più clamorosi del libro di Bruno Cardeñosa riguarda le sue rivelazioni su Iván Chirivella, che fu l’istruttore di volo di Mohamed Atta e Marwan al-Shehhi, i due presunti piloti terroristi che si sarebbero suicidati scagliando i Boeing sulle Torri Gemelle. Le dichiarazioni di Chirivella sui due arabi risultano assai rivelatrici. Fra i cinquanta allievi che ebbe nel corso di pilotaggio per piccoli aerei, Chirivella posizionava entrambi ai posti 49 e 50. Nessun dubbio nel considerare semplicemente impossibile che Atta e al-Shehhi potessero «sequestrare, dirottare, farsi beffe dei sistemi informatici dei propri apparecchi, discendere, centrare il proprio obiettivo e manovrare con perizia per colpire le Torri...» (pag. 179).

Stando alla testimonianza di Chirivella, Atta avrebbe potuto fare una simile impresa soltanto se avesse iniziato a far volare l’aereo un paio di secondi prima dell’impatto.
Chirivella ha rivelato anche che appena due ore dopo gli attentati ricevette la solertissima visita degli agenti dell’FBI, i quali volevano parlare un po’ con lui di Mohamed Atta. C’è da chiedersi come facesse l’FBI a conoscere il coinvolgimento di Atta in così poco tempo e a sapere che Chirivella era il suo istruttore. Come minimo, questo dimostrerebbe che Atta era già monitorato dall’intelligence statunitense.

Ivan Chirivella.
Fonte: El Mundo


Oggi Chirivella è un pilota della compagnia aerea Iberia. Pur avendo vissuto per molti anni a Miami senza commettere alcun reato, le autorità statunitensi non gli hanno più concesso un permesso di soggiorno negli Stati Uniti . Chirivella era un testimone chiave che forse era meglio tener lontano dalla ‘versione ufficiale’. Lo stesso Iván Chirivella - assieme alla giornalista Alicia Mederos - ha scritto un libro sulla sua vicenda, intitolato Cómplice Inocente, (Martínez Roca, 2003).

Il saggio di Cardeñosa rivela anche che una trentina di piloti commerciali e militari si riunirono a metà 2002 per 72 ore a porte chiuse in un hotel di Lisbona per analizzare la questione dell’11 settembre. La conclusione degli esperti fu unanime: «i dirottatori della “versione ufficiale” non erano assolutamente capaci di eseguire le traiettorie descritte da quegli aerei» (pag. 186). Altri esperti citati con nome e cognome in questo e nel libro precedente di Cardeñosa sono giunti alle stesse conclusioni.

Bruno Cardeñosa menziona anche i problemi avuti dai proprietari delle scuole di volo statunitensi presso cui si sono addestrati Atta e soci. Si tratta di due olandesi, Rudi Dekkers e Arne Kruithof. Quando Dekkers fu accusato, nel dicembre 2002, di alcune frodi gestionali relative alla sua scuola di volo, la Huffman Aviation, sibilò una minaccia: «Aprirò il vaso di Pandora, se sarà necessario». Pochi giorni dopo, il 23 gennaio 2003, il suo elicottero ebbe un misterioso incidente. Nonostante prima del decollo lo avesse rifornito con oltre cento litri di carburante, il serbatoio fu subito disperatamente vuoto e l’apparecchio precipitò sul fiume Caloosahatchae, in Florida. Dekkers salvò miracolosamente la sua vita e un mese dopo chiuse la scuola di aviazione (pag. 219). Il vaso di Pandora sarebbe rimasto chiuso, al momento.

Capitò qualcosa di molto simile ad Arne Kruithof, proprietario della Flight Training di Venice, dove a suo tempo aveva preso lezioni Ziad al Jarrah, l’uomo cui fu ufficialmente attribuito il pilotaggio del volo che si concluse in Pennsylvania. Kruithof ebbe un altro “incidente” a bordo del suo piccolo aereo. Il combustibile si incendiò trasformando il velivolo in una palla di fuoco. Malgrado ciò, anche lui salvò la pelle. Casualmente l’incidente ebbe luogo pochi giorni prima che Kruithof fosse chiamato a testimoniare davanti alla Commissione d’inchiesta sull’11 settembre. Le sue dichiarazioni non riservarono sorprese. Nel frattempo, «i resti dell’apparecchio vennero rimossi con straordinaria celerità dopo l’incidente. Nel giro di poche ore, venne compattato all’interno di una discarica, vanificando qualsiasi tentativo di conoscere le cause dell’incidente».

Il libro continua sulle tracce dei viaggi di Atta tra Spagna e Stati Uniti. Va sottolineato che, nonostante esistesse un mandato di cattura a suo carico, Atta poté uscire dagli USA in tutta tranquillità senza che nessuno lo arrestasse e poté perfino tornare da Madrid sul suolo americano senza un visto in regola, cosa che di norma è impossibile per chiunque e a maggior ragione per qualcuno su cui penda un mandato di cattura, ancorché relativo a un reato del codice della strada (pag. 215).

Sono tracce confuse ma tipiche di chi si muove in un certo mondo dei servizi segreti. Non va dimenticato che Mahmud Ahmed, capo dell’ISI pakistano, aveva autorizzato un pagamento di centomila dollari a favore di Mohamed Atta qualche giorno prima degli attentati. Lo stesso Ahmed si era incontrato con alti funzionari di Washington nella settimana in cui cadeva l’11 settembre 2001.

Aggiornamento del 15 luglio 2008:
Il presente post è stato ripreso dal sito Comedonchisciotte: [QUI]
È stato ripreso anche dal sito Zerofilm: [QUI]

9 luglio 2008

Intervista sul libro a Videolina

di Pino Cabras

Il 14 giugno 2008 il TG di Videolina, la prima televisione della Sardegna, ha trasmesso in varie edizioni un servizio di oltre 8 minuti curato da Giacomo Serreli, durante il quale sono stato intervistato sul mio libro. Le immagini scelte dal giornalista e il montaggio hanno fatto di questo servizio quasi un mini-documentario.
Nel suo piccolo la cosa si inscrive anch'essa in una certa ripresa di attenzione sui temi posti dall'11 settembre che si sta accendendo in questo periodo sui media più 'tradizionali'.

Ecco la registrazione:



Aggiornamento del 18 luglio 2008:
L'intervista è stata ripresa anche
dal sito di «Luogocomune» [QUI]
e dal sito del film «ZERO» [QUI]

7 luglio 2008

Crolli accidentali, una spiegazione che lascia troppi buchi neri sull'11 settembre

Il quotidiano La Stampa ha pubblicato un articolo che aveva in precedenza commissionato a Giulietto Chiesa sulle più recenti indagini del NIST in merito al crollo dell’Edificio 7 avvenuto l’11 settembre 2001. È la prima volta che un autorevole quotidiano a larga diffusione, in Italia, si pone il problema di rompere il silenzio su un caso che –nonostante la sua evidente importanza – è stato finora trattato con le ritrosie di un grave tabù. È stato infatti solo un mese prima dell’articolo di Chiesa, da anni impegnato sul tema, che un grande quotidiano mainstream, il «Financial Times», ha osato intitolare un suo articolo «What happened to building 7?». Il tono dell’articolo di Giulietto Chiesa, dovendosi rivolgere per la prima volta a un pubblico che finora non aveva sentito quasi nulla sull’Edificio 7, è giocoforza divulgativo, tanto da semplificare alcuni nodi della complessa vicenda. È importante che ora cresca una consapevolezza collettiva finalmente aperta ai drammatici approfondimenti che merita il caso.



di Giulietto Chiesa, «la Stampa» - 6/7/08

Ci sono in questa storia troppi punti interrogativi per prendere per buone le anticipazioni (ma perché queste così lacunose anticipazioni? Abbiamo aspettato sette anni, potevamo aspettare ancora qualche mese) fornite dal possiamo dire famigerato NIST (National Institute for Standard and Technologies) in merito alla “famosa” Torre N.7 del World Trade Center.

Torre che è diventata famosa non perché giornali e tv ne abbiano parlato molto, ma perché centinaia di migliaia di pagine web l'hanno analizzata in questi anni sotto ogni profilo possibile, mentre il mainstream , fedele alla versione ufficiale, non l'ha mai menzionata. Ora si dà il caso che la Torre N.7 – un edificio interamente in acciaio alto duecento metri, 47 piani - sia crollata il pomeriggio dell'11 settembre alle ore 17,21, senza essere mai stata colpita da nessun aereo.

E si dà il caso che le risultanze della Commissione d'inchiesta ufficiale del governo americano, il “9/11 Commission Report”, non ne contengano il minimo cenno nelle loro oltre 500 pagine. Forse perché in quell'edificio c'erano gli uffici del Secret Service, il servizio segreto più importante di tutti, quello che sorveglia la sicurezza del Presidente degli Stati Uniti, della CIA, e quelli del Pentagono, e della Direzione per l'Emergenza, proprio quella che avrebbe dovuto proteggere New York da un attacco terroristico.

Vedremo dunque cosa dirà il NIST, non senza rilevare che le risultanze dello stesso istituto per quanto riguarda le Twin Towers e i loro crolli sono state duramente contestate da centinaia di architetti, americani e stranieri, che rilevano con stupore pari a sbalordimento il fatto che mai nella storia dell'architettura mondiale torri in acciaio sono crollate dopo un incendio. E, fatto ancora più incredibile, che siano crollate su se stesse, verticalmente, alla velocità di caduta libera, “come se sotto non ci fosse stato niente”. Mentre in realtà, al di sotto dei due luoghi d'impatto degli aerei, le strutture erano intatte, solidissime.

Del resto lo stesso NIST venne messo in difficoltà dalla testimonianza di uno dei suoi funzionari Kevin Ryan, (subito licenziato, per altro), che affermò come gli esperimenti su modelli, effettuati per spiegare l'inspiegabile, fossero stati condotto inserendo parametri errati, cioè raddoppiando il tempo degli incendi (che in realtà durarono solo una quarantina di minuti) e la quantità di carburante a bordo degli aerei. E nemmeno in quei casi i modellini crollarono.

Adesso i responsabili del NIST ribadiscono che la Torre n.7 crollò per effetto degl'incendi e per null'altro. Ma questa spiegazione non “spiega” affatto tutto il resto: la velocità di caduta, la caduta perfettamente verticale. Richard Gage, fondatore del gruppo “Architetti e Ingegneri per la verità dell'11/9” dice che tutti gli elementi disponibili conducono a una versione assai più probabile: demolizione controllata.
Ma allora si aprono molte altre domande, tutte senza risposta. L'11 settembre, stando alla versione ufficiale, passerà alla storia non solo come il più grande attentato mai realizzato, ma anche come un evento senza precedenti nella storia dell'architettura, in cui tre edifici in acciaio crollano per effetto del fuoco, in perfetta verticale, e alla velocità di caduta libera. Tutto nello stesso giorno. Tre record assoluti.

Gli inesperti assi dell'aria dell'11/9. La sicurezza nucleare civile non li teme



fonte dell'immagine: SPFPA (con adattamenti)

di Pino Cabras


Un Boeing 767 scagliato su una centrale nucleare può trasformare un nuovo 11 settembre in una nuova Černobyl? Gli esperti dicono di no.
Le centrali sono meglio mimetizzate rispetto a ingombranti e vistosi edifici come le Torri Gemelle o il Pentagono, e troppo solide per poter subire i danni più temuti. Ma anche ammettendo che un qualche asso dell'aria riesca a indirizzare verso coordinate precise il proprio volo suicida, l'azione terroristica non avrebbe successo.
Se pensiamo ai fatti dell'11 settembre 2001, queste valutazioni assumono un interesse particolare, che ci riserverà qualche grossa sorpresa.

L'interesse è nato innanzitutto in seno alla Nuclear Regulatory Commission (NRC), l'agenzia per la sicurezza nucleare statunitense, trovatasi negli ultimi anni sotto pressione da due direzioni: la spinta a costruire nuovi reattori nucleari per via della crisi energetica, le sollecitazioni per nuovi canoni di sicurezza antiterroristica.
Il problema posto era trovare standard più elevati rispetto alle centrali nucleari esistenti. La soluzione, sorprendente, è quella di non prevedere requisiti più rigidi. Vanno ancora bene i criteri delle centrali progettate prima degli attentati aerei del 2001 o perfino prima che venissero sviluppati aerei così grandi.

Gli aerei non sono nemmeno nella lista delle armi cui i reattori sono tenuti a sopravvivere indenni. Uno dei cinque commissari della NRC, Gregory Jaczko, ha insistito con i colleghi affinché cambiassero i criteri di progettazione per rendere le centrali nucleari meno vulnerabili. Ma gli altri quattro commissari non ne erano affatto convinti. Non c'era bisogno di cambiare quasi nulla.

Nel 2002 la lobby statunitense delle centrali nucleari aveva commissionato una ricerca in merito a un istituto indipendente, l'EPRI (Electric Power Research Institute).

Lo studio dell'EPRI sull'integrità di edifici colpiti da aeroplani fece uso di modellizzazioni al computer e simulazioni secondo velocità e angolazioni disparate. Come aereo fu scelto il più grande, il Boeing 767. Come punti d'impatto furono scelti proprio quelli in cui l'aereo avrebbe inflitto il danno più grave. Le velocità furono tarate in una misura compatibile con un'effettiva controllabilità del volo.

Il documento degli esperti rassicurò tutti: le strutture critiche di una centrale nucleare non sarebbero state penetrate dall'impatto dell'aereo. E ciò in ragione delle particolarità materiali di questo tipo di centrali. Ma soprattutto lo studio faceva notare che gli edifici e le strutture di una centrale nucleare sono così bassi rispetto al suolo, che soltanto piloti davvero esperti potrebbero affrontare le «difficoltà estreme» di una manovra a elevata velocità, comunque non superiore ai 560 km/h.

«Un pilota con meno esperienza avrebbe grandi difficoltà a controllare l'aeroplano», secondo l'EPRI.
Per quanto un edificio di contenimento di una centrale sia meno largo di una delle torri gemelle, e certo molto meno largo del Pentagono, è comunque alto il doppio di quest'ultimo. Considerando che l'angolo d'impatto del velivolo che si abbatté sulla facciata del Pentagono è molto più difficile di quelli ipotizzati nello studio dell'EPRI, possiamo trarre una conclusione: la manovra attribuita ad Hani Hanjour – il pilota inesperto che conduceva per la prima volta un grosso aereo e cui si è imputato il colpo del Pentagono - non viene sì smentita. Ma tuttavia è ritenuto sufficientemente improbabile che qualcosa di simile possa mai avvenire a danno di una centrale nucleare.

Proprio i custodi della sicurezza nucleare civile dormono insomma sonni tranquilli: un racconto come quello della versione ufficiale dell'11 settembre è un unicum irripetibile. Piloti inesperti – e quelli dell'11 settembre lo erano - non saprebbero controllare un aereo al punto di portarlo a bersaglio a bassa quota mentre sarebbero sopraffatti dalle leggi della fisica.

Gli stessi rapporti dell'FBI ci ricordano che Hani Hanjour, secondo i suoi istruttori, ancora nel 2001 era una schiappa totale nel controllare piccoli aerei a elica o nel farli atterrare a 135 km/h, come fanno notare gli esperti piloti dell'associazione “Pilots for 9/11 truth”.

La versione ufficiale, una volta di più, non regge.

2 luglio 2008

Gli auspici di Rumsfeld per un altro 11/9

di Pino Cabras



Donald Rumsfeld. Fonte: Xinhua/Reuters

Era il 2006. Nello stanco mondo post 11 settembre c’era in giro poco entusiasmo per come l'Amministrazione USA si spendeva per la guerra. Un problema serio, per i fuochisti che volevano far carburare ancora i conflitti. Donald Rumsfeld, l’allora segretario della Difesa, una risposta ce l’aveva. Cosa si poteva fare? «La correzione per questo, suppongo, è un altro attacco.» Un bell’11 settembre nuovo di zecca.

Sappiamo con certezza che Rumsfeld pronunciò quella frase. Quando e dove la pronunciò?

Abbiamo già visto un’impressionante inchiesta di David Barstow sulle pagine di «The New York Times» del 20 aprile 2008 (Behind TV Analysts, Pentagon’s Hidden Hand). Barstow raccontava con centinaia di riscontri la manipolazione dei mass-media organizzata dal Pentagono lungo il primo lustro di guerra in Iraq.


Decine di analisti militari che anelavano a sontuosi appalti per conto delle industrie belliche venivano catechizzati sulle cose da dire in TV: un’infinita sequela di bugie.


L’ex segretario della Difesa e i suoi collaboratori programmavano con frequenza martellante decine e decine di riunioni, briefing, pranzi di lavoro, lettere dettagliate, blandizie, consigli amichevoli, offerte che non si potevano rifiutare. Gli analisti davano una lustratina alle loro ex stellette e soprattutto alle monete che grondavano dai nuovi sfavillanti contratti, ben nascosti al pubblico ignaro, e poi ripetevano pappagallescamente le “magnifiche sorti e progressive” della Guerra al Terrorismo imbeccate dagli uffici di Rumsfeld.

Il loro ottimismo ballista inquinava gli schermi dei principali network statunitensi, a dispetto degli enormi problemi incontrati sul terreno dalle forze armate angloamericane.

Il grande quotidiano newyorchese ha avuto successo nel far causa al Dipartimento della Difesa per riuscire ad accedere a migliaia di pagine e registrazioni che rivelano la simbiosi che ha spazzato via ogni confine tra governo e giornalismo.

È in questo contesto che – pur non potendo arrivare ancora al nucleo di certi segreti né alle “pistole fumanti” delle falsificazioni più atroci, quelle dell'11 settembre 2001 – siamo in grado però di conoscere alcune categorie fondamentali del potere di questi anni, e vedere da vicino gli “strumenti di lavoro” della Guerra al Terrorismo, in primo luogo la docile utilità strumentale del terrorismo stesso per gli scopi di Rumsfeld e i suoi sodali.

La frase rivelatrice dell'uomo che guidava il Pentagono sulla forza “correttiva” di un attacco terroristico fu il clou di una colazione di lavoro, in risposta alle dolenti considerazioni di uno degli scodinzolanti ex ufficiali che partecipavano alla sua mensa, il quale deplorava la scarsa partecipazione politica dell’opinione pubblica alle scelte dell’Amministrazione in tema di guerra.
La registrazione ci fa sentire un Rumsfeld, al solito, molto assertivo:



«Il Presidente è piuttosto la vittima di un successo. Non abbiamo avuto un attacco per cinque anni. La percezione della minaccia è cosi flebile nella società che non è sorprendente che il quadro dei comportamenti rifletta una bassa valutazione della minaccia. Accade lo stesso in Europa, dove c'è una debole percezione del pericolo. La correzione per questo, suppongo, è un attacco. E quando questo accade, ognuno risulta infervorato per un altro [parte inudibile] ed è una vergogna che non abbiamo la maturità di riconoscere la serietà delle minacce... la letalità, i massacri che possono essere inflitti alla nostra società sono così reali e presenti, e così seri, che sapete come noi lo si abbia compreso, ma la società, quanto più ci si allontana dall'11 settembre, meno... sempre meno...»




L'11 settembre non è dunque un'ossessione mia. È invece l'ossessione dei poteri che hanno egemonizzato l'Amministrazione Bush e i principali mass media, è il tema cardinale dello “stato d'eccezione” da loro voluto con tempi e ritmi di una vera rivoluzione.


Gli auspici del vecchio falco di Washington non sono da leggere come il lapsus sfuggito al cospiratore. Non è tipo da farsi mettere in castagna così, nel caso. Era invece la dottrina che delimitava il campo d'azione degli eminenti propagandisti che pendevano dalle sue labbra. Ai commensali si garantivano i migliori piatti del ristorante-mangiatoia Pentagono. A tutta la galassia di contractor che privatizzava e rendeva meno trasparente la spesa militare si assicuravano ancora lauti pasti, ma attenzione, le cucine stavano esaurendo le provviste, dovevano sapere che la loro sazietà sarebbe dipesa dall'attualità del terrorismo, dalla condivisione di azioni e reazioni che si sarebbero rette ancora sul dogma dell'11 settembre. Non è ambientino da “gole profonde”, sono voci di un coro ben guidato, che deve cantare le stesse note e non ammette dissonanze.


Poco tempo dopo queste frasi, Rumsfeld non era già più segretario della Difesa. Ma il blocco d'interessi di cui è espressione rimane ancora, e continua a prefiggersi un casus belli all'altezza dei tempi.


Le altre registrazioni:
[QUI]

Aggiornamento del 4 luglio 2008

Il presente post è stato ripreso dal sito del film ZERO
e dal sito di Megachip