Nota
introduttiva di Pino Cabras:
Gabor Steingart, il direttore editoriale del più importante quotidiano economico tedesco, Handelsblatt, nonché autore di svariati bestseller e notevoli saggi di politica internazionale, in questo articolo offre forti argomenti in favore di un'Europa che faccia il contrario di quanto fatto finora in Ucraina.
Naturalmente nessun giornale italiano ha pubblicato sinora questo potente editoriale, rivelatore di quanto le forzature antirusse imposte dagli USA alle classi dirigenti tedesche ed europee tocchino i loro nervi scoperti e stiano portandole a un bivio drammatico.
Il
linguaggio di Steingart è a tratti felpato, molto attento al
pubblico cui si rivolge, che sicuramente ricomprende tutta l'élite.
Ma ha frequenti guizzi in cui richiama ironicamente la vera portata
mondiale della partita ucraina, come quando invita ad avere «la
capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri.
Dovremmo smetterla di accusare 143 milioni di russi di guardare al
mondo in modo diverso rispetto a John McCain».
Propongo
questo articolo (che Handelsblatt ha pubblicato in tedesco,
inglese e russo) all'attenzione dei lettori raccomandandone,
oltre alla lettura, la massima diffusione.
*********************
Alla
luce degli avvenimenti in Ucraina, il governo e molti media sono
passati dalla modalità “equilibrato” alla modalità “agitato”.
Lo spettro delle opinioni è stato ridotto alla visuale di un fucile
di precisione. La politica dell’escalation non ha un obiettivo
realistico e nuoce agli interessi tedeschi.
di
Gabor Steingart.
Düsseldorf
- Ogni guerra è accompagnata da una sorta di mobilitazione mentale:
la febbre di guerra. Nemmeno le persone intelligenti sono immuni da
attacchi controllati di questa febbre. «Questa guerra, in tutte le
sue atrocità, è tuttora una cosa grande e meravigliosa. Si tratta
di una esperienza che vale la pena vivere», esultava Max Weber nel
1914 mentre le luci si spegnevano in Europa. Thomas Mann sentiva un
senso di «pulizia, liberazione, e di una grandissima speranza».
Persino
quando erano già in migliaia a giacere senza vita sui campi di
battaglia belgi, la febbre di guerra non si placava. Esattamente 100
anni fa, 93 pittori, scrittori e scienziati composero l’«Appello
al mondo della cultura». Max Liebermann, Gerhart Hauptmann, Max
Planck, Wilhelm Röntgen, e altri ancora, incoraggiavano i loro
connazionali a impegnarsi in crudeltà da infliggere al prossimo:
«Senza il militarismo tedesco, la cultura tedesca sarebbe stata
spazzata via dalla faccia della terra già molto tempo fa. Le forze
armate tedesche e il popolo tedesco sono una cosa sola. Questa
consapevolezza rende 70 milioni di tedeschi fratelli senza
distinzioni di istruzione, di status, o di partito.»
Interrompiamo
il nostro stesso processo di pensiero: «La storia non si ripete!»
Ma
possiamo esserne così sicuri anche in questi giorni? Se si osservano
gli eventi della guerra in Crimea e nell’Ucraina orientale, i capi
di Stato e di governo dell’Occidente improvvisamente non hanno più
domande e hanno tutte le risposte. Il Congresso USA sta discutendo
apertamente di dare armamenti all’Ucraina. L’ex consigliere per
la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski raccomanda di armare i
cittadini laggiù per i combattimenti casa per casa e in strada. La
Cancelliera tedesca, come è sua abitudine, è molto meno esplicita
ma non meno inquietante: «Siamo pronti a prendere misure severe».
Il
giornalismo tedesco è passato dalla modalità “equilibrato” alla
modalità “agitato” nel giro di poche settimane. Lo spettro delle
opinioni è stato ridotto al campo visivo di un fucile di precisione.
I
quotidiani che credevamo fossero fatti in tutto e per tutto di
pensieri e idee, ora marciano allo stesso passo con i politici nei
loro appelli per sanzioni contro il presidente russo Putin. Anche i
titoli tradiscono una tensione aggressiva, la stessa che di solito
caratterizza gli ultrà quando fanno il tifo per le loro rispettive
squadre.
Il
Tagesspiegel:
"Basta parole!" Il FAZ:
"Mostrare la forza". La Süddeutsche
Zeitung: "Ora o mai più"
Lo Spiegel
tuona: "Finiamola con la vigliaccheria": «Ecco l’intrico
di menzogne, propaganda e inganni di Putin. Il relitto del volo MH 17
è anche il frutto di una diplomazia sfracellata».
La
politica occidentale e i media tedeschi sono d'accordo.
Ogni
stringa riflessiva delle accuse finisce allo stesso modo: senza che
ci sia il tempo, le accuse e le contro-accuse si attorcigliano a tal
punto che i fatti risultano quasi completamente oscurati.
Chi
ha ingannato per primo?
È
iniziato tutto con l'invasione russa della Crimea oppure è stato
prima l'Occidente a promuovere la prima destabilizzazione
dell'Ucraina? La Russia vuole espandersi a Ovest o è la NATO che
intende allargarsi verso Est? O forse le due potenze mondiali si
incontrano alla stessa porta nel bel mezzo della notte, guidate da
intenzioni molto simili verso un terzo indifeso che adesso paga il
prezzo del risultante intralcio con le prime fasi di una guerra
civile?
Se
a questo punto state ancora aspettando una risposta che dica di chi è
la colpa, potreste anche semplicemente smettere di leggere. Non vi
mancherà nulla. Non stiamo mica cercando di portare alla luce questa
verità nascosta. Noi non sappiamo come è iniziata. Né sappiamo
come finirà. E siamo seduti proprio qui, in mezzo a tutto questo.
Almeno Peter Sloterdijk ha poche parole di consolazione per noi:
«Vivere nel mondo significa vivere in mezzo all’incertezza»
Il
nostro scopo è quello di spazzare via una parte della schiuma che si
è formata sulle bocche di chi discute, per togliere di bocca le
parole sia di chi stuzzica sia di chi è stuzzicato, e mettervi
invece nuove parole. Una parola entrata in disuso negli ultimi tempi
è questa: realismo.
Le
politiche di escalation dimostrano che all'Europa manca gravemente un
obiettivo realistico.
È
una cosa diversa negli USA. Minacce e posture bellicose sono
semplicemente parte dei preparativi elettorali. Quando Hillary
Clinton paragona Putin a Hitler, lo fa solo per attrarre il voto
repubblicano, cioè le persone che non possiedono un passaporto. Per
molti di loro, Hitler è l'unico straniero che conoscono, onde per
cui Adolf Putin risulta una figura immaginaria molto gradita per una
campagna elettorale. A questo proposito, la Clinton e Obama hanno un
obiettivo realistico: fare appello al popolo, per vincere le
elezioni, per conquistare un'altra presidenza democratica.
Angela
Merkel può difficilmente chiedere queste attenuanti per sé. La
geografia obbliga ogni Cancelliere tedesco ad essere un po’ più
serio. Come vicini di casa della Russia, in qualità di membri della
comunità europea cui siamo vincolati dal destino, come destinatari
di energia e fornitori di ogni ben di dio, noi tedeschi abbiamo un
evidente interesse vitale ad avere stabilità e a comunicare. Noi non
possiamo permetterci di guardare alla Russia attraverso gli occhi del
Tea Party americano.
Ogni
errore inizia con un errore nel pensiero. E stiamo facendo questo
errore, se crediamo che solo le altre parti si avvantaggino delle
nostre relazioni economiche e perciò solo loro debbano soffrire
quando queste relazioni si interrompono. Se i legami economici erano
stati mantenuti per una reciproca convenienza, il loro aggravamento
porterà a perdite reciproche. Punizione e auto-punizione sono la
stessa cosa, in questo caso.
Anche
l'idea che la pressione economica e l’isolamento politico mettano
la Russia in ginocchio non è stata davvero meditata fino in fondo.
Perfino nell’ipotesi che potessimo avere successo: cosa ci
porterebbe di buono il mettere la Russia in ginocchio? Come puoi
voler vivere insieme nella casa europea con un popolo umiliato la cui
leadership eletta viene trattata come un paria e i cui cittadini
potresti doverli sostenere nel prossimo inverno.
Naturalmente,
l’attuale situazione richiede una forte presa di posizione, ma
soprattutto una forte presa di posizione contro noi stessi. I
tedeschi non hanno né voluto né causato questa realtà, ma
nondimeno ora questa è la nostra realtà. Considerate solo quel che
Willy Brandt dovette ascoltare quando il suo destino di sindaco di
Berlino lo pose all'ombra del Muro. Quali sanzioni e quali punizioni
gli furono suggerite. Ma decise di saltare a pie’ pari questa sagra
degli indignati. Non ha mai dato un solo giro di vite alla volontà
di rappresaglia.
Quando
gli è stato conferito il Premio Nobel per la Pace ha messo in luce
quel che gli capitava intorno nei giorni frenetici in cui il muro fu
costruito: «C'è ancora un altro aspetto, quello dell’impotenza
mascherata da verbosità: nell’assumere posizioni giuridiche che
non possono diventare una realtà e nel pianificare contromisure per
situazioni contingenti che sono sempre diverse da quelle a portata di
mano. Nei momenti critici fummo lasciati soli con i nostri mezzi; i
parolai non avevano nulla da offrire».
I
parolai sono tornati e il loro quartier generale si trova a
Washington DC. Ma nessuno ci costringe a piegarci ai loro ordini. Il
seguire questa guida - sebbene in un modo furbesco e in qualche modo
riluttante come nel caso di Merkel - non protegge il popolo tedesco,
ma semmai lo mette in pericolo. Questo fatto resta un fatto, anche se
non fossero stati gli americani ma i russi ad essere responsabili del
danno originale in Crimea e in Ucraina orientale.
Willy
Brandt decise in modo chiaramente differente da quello scelto dalla
Merkel al giorno d’oggi, e ciò avvenne durante una situazione
indubbiamente più acuta. Come ricorda, si era svegliato la mattina
del 13 Agosto 1961 «ben desto e insensibile al tempo stesso». Era
fermo ad Hannover per una sosta durante un viaggio quando ricevette
segnalazioni da Berlino sul fatto che si stavano realizzando dei
lavori di costruzione di un vasto muro che separava la città. Era
una domenica mattina e l'umiliazione difficilmente avrebbe potuto
essere più grande per un sindaco in carica.
I
sovietici glielo presentarono come un fatto compiuto. Gli americani
non lo avevano informato, anche se probabilmente avevano ricevuto
alcune informazioni da Mosca. Brandt ricorda che una "rabbia
impotente" si era impadronita di lui. Ma cosa fece? Trattenne i
suoi sentimenti di impotenza e palesò il suo grande talento di uomo
politico ancorato alla realtà, che più tardi lo avrebbe portato a
essere per un certo tempo Cancelliere e infine anche Premio Nobel per
la Pace.
Con
la consulenza di Egon Bahr, accettò la nuova situazione, sapendo che
nessuna dose di indignazione proveniente dal resto del mondo avrebbe
abbattuto di nuovo quel muro ancora per un bel po’. Addirittura
ordinò alla Polizia di Berlino Ovest di utilizzare manganelli e
idranti contro i manifestanti vicino al muro in modo che non si
scivolasse dalla catastrofe della divisione verso la catastrofe
ancora più grande della guerra. Si adoperò per il paradosso che
Bahr espresse più tardi come segue: «Abbiamo riconosciuto lo Status
Quo al fine di cambiarlo».
E
sono riusciti a compiere questo cambiamento. Brandt e Bahr fecero gli
interessi specifici della popolazione di Berlino Ovest per la quale
erano al momento responsabili (da giugno 1962 in poi questa
comprendeva chi scrive) nella misura della loro politica.
A
Bonn negoziarono le agevolazioni per Berlino, una sovvenzione
esentasse dell'otto per cento sui salari e sull'imposta sul reddito.
In gergo fu chiamato il "premio per la paura". Negoziarono
inoltre un trattato sui permessi di viaggio con Berlino Est che rese
il muro nuovamente permeabile appena due anni dopo la sua
edificazione. Tra il Natale 1963 e il Capodanno 1964, 700mila
abitanti di Berlino visitarono i loro parenti nella parte orientale
della città. Ogni lacrima di gioia si trasformò in un voto per
Brandt poco tempo dopo.
Gli
elettori si resero conto che qui c'era qualcuno che voleva influire
sul modo in cui vivevano ogni giorno, non solo generare un titolo di
giornale per la mattina dopo. In una situazione quasi del tutto senza
speranza, quest'uomo della SPD combatté per i valori occidentali -
in questo caso i valori della libertà di movimento - senza megafoni,
senza sanzioni, senza la minaccia della violenza. L'élite di
Washington cominciò a sentire parole che non erano mai state sentite
prima in politica: Compassione. Cambiamento attraverso il
riavvicinamento. Dialogo.
Riconciliazione di interessi. E questo nel bel mezzo della Guerra
Fredda, quando si pensava che le potenze mondiali si sarebbero
attaccate reciprocamente con il veleno, quando il testo della trama
conteneva solo minacce e proteste;
impostare ultimatum, applicare blocchi navali, condurre delle guerre
per procura, questo è il modo in cui si pensava che la guerra fredda
dovesse essere messa in atto.
Una
politica estera tedesca che si impegnava per la riconciliazione -
all'inizio solo la politica estera di Berlino - non solo appariva
coraggiosa ma anche assai strana.
Gli
americani - Kennedy, Johnson, e poi Nixon – andarono dietro ai
tedeschi; questo diede il via a un processo che è senza precedenti
nella storia di nazioni nemiche. Infine, ci fu un incontro a
Helsinki, finalizzato a fissare le regole. All'Unione Sovietica era
garantita la «non ingerenza
nei suoi affari interni» che
riempì di soddisfazione il capo del partito Leonid Brezhnev e fece
ribollire invece il sangue di Franz Josef Strauss. In cambio, la
direzione del partito comunista di Mosca doveva garantire
all'Occidente (e quindi alle sue società civili) «il
rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, compresa
quella di pensiero, coscienza, religione o credo».
In
questo modo la "non interferenza" fu acquistata attraverso
il "coinvolgimento". Il comunismo aveva ricevuto una
garanzia eterna per il suo territorio, ma all'interno dei suoi
confini i diritti umani universali improvvisamente cominciarono a
fermentare. Joachim Gauck ricorda: «La
parola che ha consentito alla mia generazione di andare avanti era
Helsinki».
Non
è troppo tardi per il duo Merkel/Steinmeier usare i concetti e le
idee di quel tempo. È senza senso limitarsi ad assecondare un Obama
del tutto privo di idee strategiche. Tutti possono notare come lui e
Putin stiano guidando come in un sogno direttamente verso un cartello
con scritto: Vicolo Cieco.
«Il
test per la politica non è il modo in cui qualcosa comincia, ma come
va a finire»,
così ha sentenziato Henry Kissinger, anch'egli un vincitore del
premio Nobel per la pace. Dopo l'occupazione della Crimea da parte
della Russia ha dichiarato: dovremmo
volere la riconciliazione, non il
dominio. Demonizzare Putin non è una politica. E un alibi per la sua
mancanza. Da qui il consiglio di condensare i conflitti, vale a dire
rimpicciolirli, ridurli, e poi distillarli in una soluzione.
Al
momento (e ormai da lungo tempo) l'America sta facendo il contrario.
Tutti i conflitti sono sistematicamente intensificati. L'attacco di
un gruppo terroristico chiamato Al-Qa'ida è trasformato in una
campagna globale contro l'Islam. L'Iraq viene bombardato con
motivazioni dubbie. Poi l'aeronautica militare USA vola in
Afghanistan e Pakistan. Le relazioni con il mondo islamico possono
tranquillamente essere considerate compromesse.
Se
l'Occidente avesse giudicato l'allora governo USA che marciò
sull'Iraq senza una risoluzione dell'ONU e senza uno straccio di
prova sull'esistenza di "Armi di Distruzione di Massa" con
gli stessi criteri oggi usati contro Putin, in tal caso George W.
Bush sarebbe stato bandito all'istante dal metter piede nell'Unione
Europea. Gli investimenti esteri di Warren Buffett avrebbero dovuto
essere congelati, l'esportazione di veicoli con marchi GM, Ford e
Chrysler vietata.
La
tendenza americana a imprimere un'escalation dapprima verbale e poi
anche militare, l'isolamento, la demonizzazione, e l'attacco ai
nemici non si è dimostrata efficace. L'ultima grande azione militare
di successo condotta dagli Stati Uniti è stata lo sbarco in
Normandia. Tutto il resto - Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan –
sono stati un evidente fallimento. Lo spostamento di unità NATO
verso il confine polacco e l'idea di armare l'Ucraina è la
continuazione di una mancanza di diplomazia con i mezzi militari.
Questa
politica basata sul lanciare la vostra testa contro il muro – per
giunta esattamente verso il punto più spesso della parete – vi
regala solo un mal di testa e poco altro. E questo avviene
considerando che il muro ha in realtà un'enorme porta nella
relazione dell'fra Europa e Russia. E la chiave di questa porta ha
un'etichetta con scritto "riconciliazione degli interessi".
Il
primo passo è quello che Brandt chiamava "compassione",
cioè la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli
altri. Dovremmo smetterla di accusare 143 milioni di russi di
guardare al mondo in modo diverso rispetto a John McCain.
Ciò
che è necessario è un aiuto per modernizzare il paese, nessuna
sanzione che diminuisca ulteriormente la ricchezza de danneggi i
legami delle relazioni. Anche le relazioni economiche sono relazioni.
La cooperazione internazionale è simile a una tenerezza tra nazioni
perché tutti si sentono meglio dopo.
È
ben noto che la Russia sia una super-potenza energetica e al tempo
stesso una nazione in via di sviluppo industriale. La politica di
riconciliazione e di reciproci interessi dovrebbe cominciare da qui.
L'aiuto allo sviluppo in cambio di garanzie territoriali; il ministro
degli Esteri Frank-Walter Steinmeier disponeva perfino delle parole
giuste per descrivere tutto ciò: partenariato di modernizzazione.
Deve solo rispolverarle e usarle come parole di buon auspicio. La
Russia dovrebbe essere integrata, non isolata. Piccoli passi verso
questa direzione sono meglio della grande assurdità rappresentata
dalla politica di esclusione.
Brandt
e Bahr non sono mai giunti allo strumento delle sanzioni economiche.
Sapevano perché: non ci sono casi registrati in cui i paesi
sottoposti a sanzioni si siano scusati per il loro comportamento e
abbiano poi obbedito in seguito. Al contrario: i movimenti collettivi
iniziano a sostenere chi subisce le sanzioni, come avviene oggi in
Russia. Il paese non è quasi mai stato unificato intorno al proprio
presidente quanto adesso. Questo potrebbe quasi portarvi a pensare
che i sobillatori occidentali sono sul libro paga dei servizi segreti
russi.
Un
ulteriore commento lo merita il tono del dibattito. L'annessione
della Crimea era in violazione del diritto internazionale. E nemmeno
il sostegno ai separatisti in Ucraina orientale riesce a conciliarsi
con le nostre idee sulla sovranità statale. I confini degli stati
sono inviolabili.
Ma
ogni atto richiede un contesto. E il contesto tedesco è che siamo
una società in libertà vigilata che potrebbe non agire come se le
violazioni del diritto internazionale fossero iniziate con gli eventi
in Crimea.
La
Germania ha mosso guerra contro i suoi vicino orientali due volte
negli ultimi 100 anni. L'anima tedesca, che in genere pretendiamo
stia sul lato romantico, ha mostrato il suo lato crudele.
Naturalmente,
noi che siamo venuti dopo possiamo continuare a proclamare la nostra
indignazione contro lo spietato Putin e appellarci al diritto
internazionale contro di lui, ma per il modo in cui sono le cose,
questa indignazione arriverebbe con un leggero rossore di imbarazzo.
O, per usare le parole di Willy Brandt: «le
pretese assolute minacciano l'uomo».
Alla
fine, anche gli uomini che avevano ceduto alla febbre della guerra
nel 1914 se ne resero conto. Dopo la fine della guerra, i penitenti
stilarono un nuovo appello, questa volta mirante alla comprensione
tra nazioni: «il
mondo civilizzato è diventato un terreno di guerra e un campo di
battaglia. È tempo che una grande marea di amore sostituisca l'onda
devastante dell'odio.»
Dovremmo
cercare di evitare la deviazione attraverso i campi di battaglia del
XXI secolo. La storia non deve ripetersi. Forse possiamo trovare una
scorciatoia....
Traduzione
per Megachip a cura di Pino Cabras.
Link su Megachip: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=108392&typeb=0&L-Occidente-sulla-strada-sbagliata.
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