22 agosto 2014

L'Occidente sulla strada sbagliata


Nota introduttiva di Pino Cabras:

Gabor Steingart, il direttore editoriale del più importante quotidiano economico tedesco, Handelsblatt, nonché autore di svariati bestseller e notevoli saggi di politica internazionale, in questo articolo offre forti argomenti in favore di un'Europa che faccia il contrario di quanto fatto finora in Ucraina. 
Naturalmente nessun giornale italiano ha pubblicato sinora questo potente editoriale, rivelatore di quanto le forzature antirusse imposte dagli USA alle classi dirigenti tedesche ed europee tocchino i loro nervi scoperti e stiano portandole a un bivio drammatico.
Il linguaggio di Steingart è a tratti felpato, molto attento al pubblico cui si rivolge, che sicuramente ricomprende tutta l'élite. Ma ha frequenti guizzi in cui richiama ironicamente la vera portata mondiale della partita ucraina, come quando invita ad avere «la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri. Dovremmo smetterla di accusare 143 milioni di russi di guardare al mondo in modo diverso rispetto a John McCain».
Propongo questo articolo (che Handelsblatt ha pubblicato in tedesco, inglese e russo) all'attenzione dei lettori raccomandandone, oltre alla lettura, la massima diffusione.

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Alla luce degli avvenimenti in Ucraina, il governo e molti media sono passati dalla modalità “equilibrato” alla modalità “agitato”. Lo spettro delle opinioni è stato ridotto alla visuale di un fucile di precisione. La politica dell’escalation non ha un obiettivo realistico e nuoce agli interessi tedeschi.

di Gabor Steingart.

Düsseldorf - Ogni guerra è accompagnata da una sorta di mobilitazione mentale: la febbre di guerra. Nemmeno le persone intelligenti sono immuni da attacchi controllati di questa febbre. «Questa guerra, in tutte le sue atrocità, è tuttora una cosa grande e meravigliosa. Si tratta di una esperienza che vale la pena vivere», esultava Max Weber nel 1914 mentre le luci si spegnevano in Europa. Thomas Mann sentiva un senso di «pulizia, liberazione, e di una grandissima speranza».

Persino quando erano già in migliaia a giacere senza vita sui campi di battaglia belgi, la febbre di guerra non si placava. Esattamente 100 anni fa, 93 pittori, scrittori e scienziati composero l’«Appello al mondo della cultura». Max Liebermann, Gerhart Hauptmann, Max Planck, Wilhelm Röntgen, e altri ancora, incoraggiavano i loro connazionali a impegnarsi in crudeltà da infliggere al prossimo: «Senza il militarismo tedesco, la cultura tedesca sarebbe stata spazzata via dalla faccia della terra già molto tempo fa. Le forze armate tedesche e il popolo tedesco sono una cosa sola. Questa consapevolezza rende 70 milioni di tedeschi fratelli senza distinzioni di istruzione, di status, o di partito.»

Interrompiamo il nostro stesso processo di pensiero: «La storia non si ripete!»
Ma possiamo esserne così sicuri anche in questi giorni? Se si osservano gli eventi della guerra in Crimea e nell’Ucraina orientale, i capi di Stato e di governo dell’Occidente improvvisamente non hanno più domande e hanno tutte le risposte. Il Congresso USA sta discutendo apertamente di dare armamenti all’Ucraina. L’ex consigliere per la sicurezza nazionale Zbigniew Brzezinski raccomanda di armare i cittadini laggiù per i combattimenti casa per casa e in strada. La Cancelliera tedesca, come è sua abitudine, è molto meno esplicita ma non meno inquietante: «Siamo pronti a prendere misure severe».
Il giornalismo tedesco è passato dalla modalità “equilibrato” alla modalità “agitato” nel giro di poche settimane. Lo spettro delle opinioni è stato ridotto al campo visivo di un fucile di precisione.
I quotidiani che credevamo fossero fatti in tutto e per tutto di pensieri e idee, ora marciano allo stesso passo con i politici nei loro appelli per sanzioni contro il presidente russo Putin. Anche i titoli tradiscono una tensione aggressiva, la stessa che di solito caratterizza gli ultrà quando fanno il tifo per le loro rispettive squadre.
Il Tagesspiegel: "Basta parole!" Il FAZ: "Mostrare la forza". La Süddeutsche Zeitung: "Ora o mai più" Lo Spiegel tuona: "Finiamola con la vigliaccheria": «Ecco l’intrico di menzogne, propaganda e inganni di Putin. Il relitto del volo MH 17 è anche il frutto di una diplomazia sfracellata».
La politica occidentale e i media tedeschi sono d'accordo.
Ogni stringa riflessiva delle accuse finisce allo stesso modo: senza che ci sia il tempo, le accuse e le contro-accuse si attorcigliano a tal punto che i fatti risultano quasi completamente oscurati.
Chi ha ingannato per primo?
È iniziato tutto con l'invasione russa della Crimea oppure è stato prima l'Occidente a promuovere la prima destabilizzazione dell'Ucraina? La Russia vuole espandersi a Ovest o è la NATO che intende allargarsi verso Est? O forse le due potenze mondiali si incontrano alla stessa porta nel bel mezzo della notte, guidate da intenzioni molto simili verso un terzo indifeso che adesso paga il prezzo del risultante intralcio con le prime fasi di una guerra civile?
Se a questo punto state ancora aspettando una risposta che dica di chi è la colpa, potreste anche semplicemente smettere di leggere. Non vi mancherà nulla. Non stiamo mica cercando di portare alla luce questa verità nascosta. Noi non sappiamo come è iniziata. Né sappiamo come finirà. E siamo seduti proprio qui, in mezzo a tutto questo. Almeno Peter Sloterdijk ha poche parole di consolazione per noi: «Vivere nel mondo significa vivere in mezzo all’incertezza»
Il nostro scopo è quello di spazzare via una parte della schiuma che si è formata sulle bocche di chi discute, per togliere di bocca le parole sia di chi stuzzica sia di chi è stuzzicato, e mettervi invece nuove parole. Una parola entrata in disuso negli ultimi tempi è questa: realismo.
Le politiche di escalation dimostrano che all'Europa manca gravemente un obiettivo realistico.
È una cosa diversa negli USA. Minacce e posture bellicose sono semplicemente parte dei preparativi elettorali. Quando Hillary Clinton paragona Putin a Hitler, lo fa solo per attrarre il voto repubblicano, cioè le persone che non possiedono un passaporto. Per molti di loro, Hitler è l'unico straniero che conoscono, onde per cui Adolf Putin risulta una figura immaginaria molto gradita per una campagna elettorale. A questo proposito, la Clinton e Obama hanno un obiettivo realistico: fare appello al popolo, per vincere le elezioni, per conquistare un'altra presidenza democratica.
Angela Merkel può difficilmente chiedere queste attenuanti per sé. La geografia obbliga ogni Cancelliere tedesco ad essere un po’ più serio. Come vicini di casa della Russia, in qualità di membri della comunità europea cui siamo vincolati dal destino, come destinatari di energia e fornitori di ogni ben di dio, noi tedeschi abbiamo un evidente interesse vitale ad avere stabilità e a comunicare. Noi non possiamo permetterci di guardare alla Russia attraverso gli occhi del Tea Party americano.
Ogni errore inizia con un errore nel pensiero. E stiamo facendo questo errore, se crediamo che solo le altre parti si avvantaggino delle nostre relazioni economiche e perciò solo loro debbano soffrire quando queste relazioni si interrompono. Se i legami economici erano stati mantenuti per una reciproca convenienza, il loro aggravamento porterà a perdite reciproche. Punizione e auto-punizione sono la stessa cosa, in questo caso.
Anche l'idea che la pressione economica e l’isolamento politico mettano la Russia in ginocchio non è stata davvero meditata fino in fondo. Perfino nell’ipotesi che potessimo avere successo: cosa ci porterebbe di buono il mettere la Russia in ginocchio? Come puoi voler vivere insieme nella casa europea con un popolo umiliato la cui leadership eletta viene trattata come un paria e i cui cittadini potresti doverli sostenere nel prossimo inverno.
Naturalmente, l’attuale situazione richiede una forte presa di posizione, ma soprattutto una forte presa di posizione contro noi stessi. I tedeschi non hanno né voluto né causato questa realtà, ma nondimeno ora questa è la nostra realtà. Considerate solo quel che Willy Brandt dovette ascoltare quando il suo destino di sindaco di Berlino lo pose all'ombra del Muro. Quali sanzioni e quali punizioni gli furono suggerite. Ma decise di saltare a pie’ pari questa sagra degli indignati. Non ha mai dato un solo giro di vite alla volontà di rappresaglia.
Quando gli è stato conferito il Premio Nobel per la Pace ha messo in luce quel che gli capitava intorno nei giorni frenetici in cui il muro fu costruito: «C'è ancora un altro aspetto, quello dell’impotenza mascherata da verbosità: nell’assumere posizioni giuridiche che non possono diventare una realtà e nel pianificare contromisure per situazioni contingenti che sono sempre diverse da quelle a portata di mano. Nei momenti critici fummo lasciati soli con i nostri mezzi; i parolai non avevano nulla da offrire».
I parolai sono tornati e il loro quartier generale si trova a Washington DC. Ma nessuno ci costringe a piegarci ai loro ordini. Il seguire questa guida - sebbene in un modo furbesco e in qualche modo riluttante come nel caso di Merkel - non protegge il popolo tedesco, ma semmai lo mette in pericolo. Questo fatto resta un fatto, anche se non fossero stati gli americani ma i russi ad essere responsabili del danno originale in Crimea e in Ucraina orientale.
Willy Brandt decise in modo chiaramente differente da quello scelto dalla Merkel al giorno d’oggi, e ciò avvenne durante una situazione indubbiamente più acuta. Come ricorda, si era svegliato la mattina del 13 Agosto 1961 «ben desto e insensibile al tempo stesso». Era fermo ad Hannover per una sosta durante un viaggio quando ricevette segnalazioni da Berlino sul fatto che si stavano realizzando dei lavori di costruzione di un vasto muro che separava la città. Era una domenica mattina e l'umiliazione difficilmente avrebbe potuto essere più grande per un sindaco in carica.
I sovietici glielo presentarono come un fatto compiuto. Gli americani non lo avevano informato, anche se probabilmente avevano ricevuto alcune informazioni da Mosca. Brandt ricorda che una "rabbia impotente" si era impadronita di lui. Ma cosa fece? Trattenne i suoi sentimenti di impotenza e palesò il suo grande talento di uomo politico ancorato alla realtà, che più tardi lo avrebbe portato a essere per un certo tempo Cancelliere e infine anche Premio Nobel per la Pace.
Con la consulenza di Egon Bahr, accettò la nuova situazione, sapendo che nessuna dose di indignazione proveniente dal resto del mondo avrebbe abbattuto di nuovo quel muro ancora per un bel po’. Addirittura ordinò alla Polizia di Berlino Ovest di utilizzare manganelli e idranti contro i manifestanti vicino al muro in modo che non si scivolasse dalla catastrofe della divisione verso la catastrofe ancora più grande della guerra. Si adoperò per il paradosso che Bahr espresse più tardi come segue: «Abbiamo riconosciuto lo Status Quo al fine di cambiarlo».
E sono riusciti a compiere questo cambiamento. Brandt e Bahr fecero gli interessi specifici della popolazione di Berlino Ovest per la quale erano al momento responsabili (da giugno 1962 in poi questa comprendeva chi scrive) nella misura della loro politica.
A Bonn negoziarono le agevolazioni per Berlino, una sovvenzione esentasse dell'otto per cento sui salari e sull'imposta sul reddito. In gergo fu chiamato il "premio per la paura". Negoziarono inoltre un trattato sui permessi di viaggio con Berlino Est che rese il muro nuovamente permeabile appena due anni dopo la sua edificazione. Tra il Natale 1963 e il Capodanno 1964, 700mila abitanti di Berlino visitarono i loro parenti nella parte orientale della città. Ogni lacrima di gioia si trasformò in un voto per Brandt poco tempo dopo.
Gli elettori si resero conto che qui c'era qualcuno che voleva influire sul modo in cui vivevano ogni giorno, non solo generare un titolo di giornale per la mattina dopo. In una situazione quasi del tutto senza speranza, quest'uomo della SPD combatté per i valori occidentali - in questo caso i valori della libertà di movimento - senza megafoni, senza sanzioni, senza la minaccia della violenza. L'élite di Washington cominciò a sentire parole che non erano mai state sentite prima in politica: Compassione. Cambiamento attraverso il riavvicinamento. Dialogo. Riconciliazione di interessi. E questo nel bel mezzo della Guerra Fredda, quando si pensava che le potenze mondiali si sarebbero attaccate reciprocamente con il veleno, quando il testo della trama conteneva solo minacce e proteste; impostare ultimatum, applicare blocchi navali, condurre delle guerre per procura, questo è il modo in cui si pensava che la guerra fredda dovesse essere messa in atto.
Una politica estera tedesca che si impegnava per la riconciliazione - all'inizio solo la politica estera di Berlino - non solo appariva coraggiosa ma anche assai strana.
Gli americani - Kennedy, Johnson, e poi Nixon – andarono dietro ai tedeschi; questo diede il via a un processo che è senza precedenti nella storia di nazioni nemiche. Infine, ci fu un incontro a Helsinki, finalizzato a fissare le regole. All'Unione Sovietica era garantita la «non ingerenza nei suoi affari interni» che riempì di soddisfazione il capo del partito Leonid Brezhnev e fece ribollire invece il sangue di Franz Josef Strauss. In cambio, la direzione del partito comunista di Mosca doveva garantire all'Occidente (e quindi alle sue società civili) «il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, compresa quella di pensiero, coscienza, religione o credo».
In questo modo la "non interferenza" fu acquistata attraverso il "coinvolgimento". Il comunismo aveva ricevuto una garanzia eterna per il suo territorio, ma all'interno dei suoi confini i diritti umani universali improvvisamente cominciarono a fermentare. Joachim Gauck ricorda: «La parola che ha consentito alla mia generazione di andare avanti era Helsinki».
Non è troppo tardi per il duo Merkel/Steinmeier usare i concetti e le idee di quel tempo. È senza senso limitarsi ad assecondare un Obama del tutto privo di idee strategiche. Tutti possono notare come lui e Putin stiano guidando come in un sogno direttamente verso un cartello con scritto: Vicolo Cieco.
«Il test per la politica non è il modo in cui qualcosa comincia, ma come va a finire», così ha sentenziato Henry Kissinger, anch'egli un vincitore del premio Nobel per la pace. Dopo l'occupazione della Crimea da parte della Russia ha dichiarato: dovremmo volere la riconciliazione, non il dominio. Demonizzare Putin non è una politica. E un alibi per la sua mancanza. Da qui il consiglio di condensare i conflitti, vale a dire rimpicciolirli, ridurli, e poi distillarli in una soluzione.
Al momento (e ormai da lungo tempo) l'America sta facendo il contrario. Tutti i conflitti sono sistematicamente intensificati. L'attacco di un gruppo terroristico chiamato Al-Qa'ida è trasformato in una campagna globale contro l'Islam. L'Iraq viene bombardato con motivazioni dubbie. Poi l'aeronautica militare USA vola in Afghanistan e Pakistan. Le relazioni con il mondo islamico possono tranquillamente essere considerate compromesse.
Se l'Occidente avesse giudicato l'allora governo USA che marciò sull'Iraq senza una risoluzione dell'ONU e senza uno straccio di prova sull'esistenza di "Armi di Distruzione di Massa" con gli stessi criteri oggi usati contro Putin, in tal caso George W. Bush sarebbe stato bandito all'istante dal metter piede nell'Unione Europea. Gli investimenti esteri di Warren Buffett avrebbero dovuto essere congelati, l'esportazione di veicoli con marchi GM, Ford e Chrysler vietata.
La tendenza americana a imprimere un'escalation dapprima verbale e poi anche militare, l'isolamento, la demonizzazione, e l'attacco ai nemici non si è dimostrata efficace. L'ultima grande azione militare di successo condotta dagli Stati Uniti è stata lo sbarco in Normandia. Tutto il resto - Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan – sono stati un evidente fallimento. Lo spostamento di unità NATO verso il confine polacco e l'idea di armare l'Ucraina è la continuazione di una mancanza di diplomazia con i mezzi militari.
Questa politica basata sul lanciare la vostra testa contro il muro – per giunta esattamente verso il punto più spesso della parete – vi regala solo un mal di testa e poco altro. E questo avviene considerando che il muro ha in realtà un'enorme porta nella relazione dell'fra Europa e Russia. E la chiave di questa porta ha un'etichetta con scritto "riconciliazione degli interessi".
Il primo passo è quello che Brandt chiamava "compassione", cioè la capacità di vedere il mondo attraverso gli occhi degli altri. Dovremmo smetterla di accusare 143 milioni di russi di guardare al mondo in modo diverso rispetto a John McCain.
Ciò che è necessario è un aiuto per modernizzare il paese, nessuna sanzione che diminuisca ulteriormente la ricchezza de danneggi i legami delle relazioni. Anche le relazioni economiche sono relazioni. La cooperazione internazionale è simile a una tenerezza tra nazioni perché tutti si sentono meglio dopo.
È ben noto che la Russia sia una super-potenza energetica e al tempo stesso una nazione in via di sviluppo industriale. La politica di riconciliazione e di reciproci interessi dovrebbe cominciare da qui. L'aiuto allo sviluppo in cambio di garanzie territoriali; il ministro degli Esteri Frank-Walter Steinmeier disponeva perfino delle parole giuste per descrivere tutto ciò: partenariato di modernizzazione. Deve solo rispolverarle e usarle come parole di buon auspicio. La Russia dovrebbe essere integrata, non isolata. Piccoli passi verso questa direzione sono meglio della grande assurdità rappresentata dalla politica di esclusione.
Brandt e Bahr non sono mai giunti allo strumento delle sanzioni economiche. Sapevano perché: non ci sono casi registrati in cui i paesi sottoposti a sanzioni si siano scusati per il loro comportamento e abbiano poi obbedito in seguito. Al contrario: i movimenti collettivi iniziano a sostenere chi subisce le sanzioni, come avviene oggi in Russia. Il paese non è quasi mai stato unificato intorno al proprio presidente quanto adesso. Questo potrebbe quasi portarvi a pensare che i sobillatori occidentali sono sul libro paga dei servizi segreti russi.
Un ulteriore commento lo merita il tono del dibattito. L'annessione della Crimea era in violazione del diritto internazionale. E nemmeno il sostegno ai separatisti in Ucraina orientale riesce a conciliarsi con le nostre idee sulla sovranità statale. I confini degli stati sono inviolabili.
Ma ogni atto richiede un contesto. E il contesto tedesco è che siamo una società in libertà vigilata che potrebbe non agire come se le violazioni del diritto internazionale fossero iniziate con gli eventi in Crimea.
La Germania ha mosso guerra contro i suoi vicino orientali due volte negli ultimi 100 anni. L'anima tedesca, che in genere pretendiamo stia sul lato romantico, ha mostrato il suo lato crudele.
Naturalmente, noi che siamo venuti dopo possiamo continuare a proclamare la nostra indignazione contro lo spietato Putin e appellarci al diritto internazionale contro di lui, ma per il modo in cui sono le cose, questa indignazione arriverebbe con un leggero rossore di imbarazzo. O, per usare le parole di Willy Brandt: «le pretese assolute minacciano l'uomo».
Alla fine, anche gli uomini che avevano ceduto alla febbre della guerra nel 1914 se ne resero conto. Dopo la fine della guerra, i penitenti stilarono un nuovo appello, questa volta mirante alla comprensione tra nazioni: «il mondo civilizzato è diventato un terreno di guerra e un campo di battaglia. È tempo che una grande marea di amore sostituisca l'onda devastante dell'odio.»
Dovremmo cercare di evitare la deviazione attraverso i campi di battaglia del XXI secolo. La storia non deve ripetersi. Forse possiamo trovare una scorciatoia....



Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.
Link su Megachip: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=108392&typeb=0&L-Occidente-sulla-strada-sbagliata.

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