La
crisi di governo
si incrocia da subito con una profonda
crisi istituzionale.
Beppe Grillo
sta già chiedendo perfino le dimissioni
di Giorgio
Napolitano.
Quando il PD e il PDL rielessero il Peggiorista del Quirinale,
parlammo di «Vilipendio
al Popolo Italiano».
Ci risultava ben chiaro che Napolitano
Due avrebbe dato vita a
un governo peggiore di quello – già disastroso – di Rigor
Montis (il minor
economista della nostra epoca,
che Napolitano Uno aveva fatto senatore a vita per poi indirizzarlo a
Palazzo Chigi). Peccavamo però di ottimismo. Nemmeno certi governi
balneari di Giovanni Leone o di Amintore Fanfani al suo crepuscolo
avevano congelato in modo tanto miserabile la funzione di governo
quanto il governo di Enrico
Letta, ora al capolinea.
Perciò
la crisi rivela bene quanto siano cadute in basso le cupole delle
“larghe intese”. Al minimo di azione di governo (un minimo sotto
zero), è corrisposto il massimo di fuga
in avanti per stravolgere
l'assetto della Repubblica. Nonostante la paralisi lettiana, gli
“strateghi” del PD e del PDL, rifugiati sotto le vecchie ali del
Peggiorista, pensavano infatti di cambiare
metà della Costituzione, cioè distruggerla, proprio come
piace a JP Morgan.
Hanno preso il piede di porco (anzi, un piede di porcellum) e hanno
iniziato a scardinare l'articolo
138, cioè la saracinesca
che protegge la Carta dalle manomissioni improvvisate. Tra le cose
buone della crisi c'è questa: forse
il processo
di revisione che insidia la Costituzione si interrompe.
Magari l'assalto alla saracinesca muore lì, e quei “saggi” che
fanno da palo potranno allegramente trovarsi una diversa collocazione
per il piede di porco. Qualche suggerimento in proposito glielo
possiamo comunque dare, il 12
ottobre.
Il PD
ha già messo in fuga due terzi dei suoi iscritti, eppure i suoi
dirigenti non se ne curano. Anche se sapevano che il Caimandrillo era
vicino a subire inevitabili condanne nei suoi processi, lo hanno
abbracciato, con una pulsione conservatrice che si è rivelata una
pulsione suicida. Me lo ricordo bene il
TG3 del 20 aprile 2013, quando Giorgio Napolitano era stato appena
rieletto. Si vedeva il
Caimandrillo felice. Più che rettile, era erettile. Ma non era
l'unico. Enrico Letta parlava con un'insolita spavalderia, e
dichiarava che per il PD era il «momento di ricostruire», mentre
commentava sui dissensi con un «faremo pulizia», cioè epurazioni.
Letta era ormai il premier in
pectore, e pensava di
durare, di poter sopportare qualsiasi prezzo. Calcolo infondato.
Molti
critici insistono dicendo: “hanno sbagliato tutto”. Ma questi non
sono soltanto sbagli di calcolo e di prospettiva. Il fatto è che PD
e PDL sono i prodotti finali della cosiddetta Seconda
Repubblica, un composto
bipartitico instabile e degenerato, che ammette una competizione per
contendere le cariche, ma che in realtà non affronta mai l'ingombro
delinquenziale dei ricatti e degli scambi. La Seconda Repubblica è
nata infatti ammazzando Falcone e Borsellino, e ha vegetato
nascondendone con ogni mezzo il perché. Sotto la copertura della
trattativa tra lo “Stato profondo” e la mafia, tante altre
negoziazioni hanno trasformato le classi dirigenti italiane in un
ceto affaristico-politico criminale
fra i più avidi e parassitari del pianeta: un sistema senza
progetto, se non quello di arraffare, e durare fra le zuffe. Il
garante costituzionale di tutta questa poltiglia non può più
tenerla insieme. Ci vorrebbe un progetto, ma Napolitano non ha altro
progetto che conservarla. Solo che ormai questa poltiglia è polvere
da sparo.
C'era
un'altra cosa che teneva insieme gli ingredienti dell'ultimo
esperimento del dott.
Napolitanstein: era la
situazione internazionale,
cioè quel che i giornaloni italiani trascurano sempre di
considerare. Fino alle
elezioni tedesche del 22
settembre occorreva un po' di formaldeide
che imbalsamasse l'Italia e lo spread senza far scatenare prima di
allora una crisi incontrollabile. E fino a pochi giorni fa la i
comandanti atlantici della Portaerei Italia non gradivano scazzi fra
i suoi ufficiali perché c'era una guerra da fare subito, quella alla
Siria.
Prima della guerra del Kossovo, intorno al governo erano riusciti a
mettere insieme perfino Cossiga e Cossutta, e prima dell'aggressione
alla Libia
avevano beneficiato dell'improvviso rientro di quasi tutti i
fuoriusciti dalla maggioranza di Berlusconi. Quel minimo di stabilità
atlantista serviva anche stavolta, ma poi l'attacco
aereo USA alla Siria ha avuto lo stop che
sappiamo. Sono cambiati gli equilibri, dopo che son cambiati i papi,
e i BRICS. Nella Portaerei Italia si può riprendere a disfare i
governi.
Grillo
chiede le dimissioni
del Peggiorista, ma chiede anche le elezioni
politiche subito.
Istituzionalmente, però, non può funzionare così. Se le dimissioni
ci fossero, il collegio dei grandi elettori richiederebbe i suoi
tempi per ricostituirsi, e poi per eleggere – con altri tempi
imprevedibili - il nuovo Presidente della Repubblica. E anche se il
nuovo inquilino del Quirinale decidesse di sciogliere le Camere, il
processo appena descritto non sarebbe da “elezioni subito”.
I
padroni dello spread nel frattempo ci tratterebero da puntaspilli.
Il
fondatore del Movimento Cinque Stelle coglie tuttavia il fatto che
quella di adesso non è una crisi di governo come le tante altre fin
qui conosciute. La crisi politica si salda con la crisi economica e
sociale più vasta, e segna un punto di non ritorno per la Seconda
Repubblica. «Rien ne va plus», avverte Grillo.
Il
blocco raccolto da Napolitano per salvare il ceto
politico-affaristico è dunque crollato. Potrebbe ricostruirsi solo
snaturando più a fondo i riferimenti costituzionali e i valori delle
sue componenti. È un'opera superiore alle forze dell'anziano
protettore, ma non a quelle di esponenti più giovani e spregiudicati
di quel ceto. Renzi è il punto di convergenza naturale, ma non gli
sarà facile fare il Tony Blair di un paese in bancarotta.
Beppe
Grillo ora non può ripetere la stessa identica campagna che pure ha
portato grandi numeri al M5S. A
suo tempo chiese consigli e da qui ne partì uno:
Diventa
cruciale, nel brevissimo tempo che rimane da qui alle elezioni,
presentare liste migliori di quelle varate con la consultazione
infra-partitica delle «parlamentarie». Non c'è tempo per fare una
grande selezione di massa. C'è tempo invece per guardarsi intorno
fra «rappresentanti
di tante liste civiche, movimenti di gente perbene. Ragazzi,
professori, esperti»
(riuso le parole di Beppe). I Cinquestelle li conoscono già: «I
No-Tav, quelli dell'acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri
referendari.»
Scelga
Grillo alcune decine di «saggi» indipendenti da presentare in vista
delle elezioni in aggiunta al quadro delle liste attuali:
alcuni da candidare come parlamentari, altri come possibili ministri,
altri come autorevoli garanti. L'esposizione di Grillo sarebbe
calibrata e cesserebbe di essere una sovraesposizione. La presenza di
parlamentari indipendenti e non trasformisti sarebbe il seme di una
nuova democrazia. Diventerebbe il punto di confluenza di una forza
popolare in grado di dirigere e riformare profondamente la
Repubblica. Troverebbe un'Italia disposta a una reale alternativa.
Darebbe una prospettiva a milioni di elettori altrimenti portati ad
astenersi.
Grillo
scelse diversamente. Il M5S ottenne un risultato impressionante, ma
certo non lo proiettava in una dimensione pronta al governo.
Ultimamente invece il problema del governo possibile Grillo se lo
pone, eccome. Dopo il governo fantasma di Letta, Beppe Grillo può
delineare un
governo ombra: troverebbe poi la luce alle elezioni.
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