17 marzo 2008

Le dimissioni dell'Ammiraglio Fallon provocheranno nuove battaglie in Iraq

di Thierry Meyssan,

analista politico, fondatore del Réseau Voltaire.

Articolo originale: "La démission de l’amiral Fallon relance les hostilités en Irak",

13 marzo 2008.

Traduzione di Pino Cabras


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Il generale William Fallon [Foto di Peter Yang, fonte: Esquire]


Contrariamente a quanto è stato scritto dai media più influenti, l’ammiraglio William Fallon non è stato mandato via perché si stava opponendo al presidente Bush in merito a un attacco all’Iran. Si è dimesso per sua iniziativa dopo che l’accordo che aveva negoziato e concluso con Teheran, Mosca e Pechino è stato sabotato dalla Casa Bianca. Questa decisione dell’amministrazione Bush rilancerà i combattimenti in Iraq ed esporrà fatalmente i soldati statunitensi a una nuova resistenza, stavolta sostenuta senza remore dall’esterno.

Erano ormai le ore 22 del meridiano di Greeniwich, martedì 11 marzo 2008, quando il comandante in capo del Central Command, l’ammiraglio William Fallon, annunciava dall’Iraq la presentazione delle sue dimissioni. Immediatamente a Washington, il segretario della Difesa, il suo amico Robert Gates, durante una conferenza stampa improvvisata faceva sapere che accettava questa decisione, seppure a malincuore. Nei minuti successivi, i rumori circa un possibile attacco statunitense all’Iran si sono sparsi in tutto il mondo. In effetti, le dimissioni dell’ammiraglio sarebbero state pretese dalla Casa Bianca in seguito alla pubblicazione di un reportage sul mensile Esquire che riportava i commenti «franchi» dell’ufficiale a proposito del presidente Bush. Nel medesimo articolo si poteva leggere che la rimozione dell’ammiraglio avrebbe contrassegnato l’ultimo segnale prima della guerra.

Nondimeno, questa interpretazione risulta sbagliata. Essa ignora l’evoluzione dei rapporti di forza a Washington. Per capire che cosa è in gioco, dobbiamo andare un attimo indietro. I nostri lettori, che sono stati regolarmente informati nelle nostre colonne sulle discussioni in corso a Washington, si ricorderanno delle minacce di dimissioni di Fallon, dell’ammutinamento degli ufficiali superiori, dei retroscena di Annapolis, e dell’infiltrazione della NATO in Libano che abbiamo riferito su queste pagine prima di tutti; delle rivelazioni dapprima contestate al momento della loro pubblicazione e oggi largamente confermate. Qui aggiungeremo informazioni inedite sui negoziati condotti da Fallon.

Il Piano Fallon

Dopo che l’establishment statunitense aveva approvato l’entrata in guerra contro l’Iraq nella speranza di ottenere sostanziosi profitti economici, progressivamente è giunto a più miti consigli. Questa operazione causa costi smisurati, sia diretti sia indiretti, ma non conviene se non a qualcuno. A partire dal 2006, la classe dirigente si è preoccupata di mettere fine a questa avventura. Ha contestato di volta in volta l’eccessivo spiegamento di truppe, il crescente isolamento diplomatico nonché l’emorragia finanziaria. Tutto ciò trovava la sua espressione attraverso il rapporto Baker-Hamilton, il quale condannava il progetto di rimodellare il Grande Medio Oriente e preconizzava un ritiro militare dall’Iraq, coordinato con un riavvicinamento diplomatico con Teheran e Damasco.

Sottoposto a questa amichevole pressione, il presidente Bush era costretto a far fuori Donald Rumsfeld e a sostituirlo con Robert Gates (membro egli stesso della Commissione Baker-Hamilton). Fu messo in campo un gruppo di lavoro bipartisan (la Commissione Armitage-Nye) per definire consensualmente una nuova politica. Ma si è verificato che il tandem Bush-Cheney non aveva rinunciato ai suoi progetti tanto che utilizzava questo gruppo di lavoro per sopire i suoi avversari, mentre continuava ad affilare le sue armi contro l’Iran. Per tagliar corto con queste manovre, Gates ha dato carta bianca a un gruppo di ufficiali superiori che aveva frequentato all’epoca di Bush padre. Questi hanno pubblicato, il 3 dicembre 2007, un rapporto delle agenzie d’intelligence che screditava il discorso falso della Casa Bianca sulla presunta minaccia iraniana. Inoltre essi hanno tentato d’imporre al presidente Bush un riequilibrio, a spese di Israele, della sua politica mediorientale.

L’ammiraglio William Fallon esercita un’autorità morale nei confronti di questo gruppo - che include l’ammiraglio Mike McConnell (direttore nazionale dell’intelligence), il generale Michael Hyden (direttore della CIA), il generale George Casey (capo di stato maggiore dell’esercito) e, di seguito, l’ammiraglio Mike Mullen (capo dei Joints chiefs of staff, gli stati maggiori riuniti delle varie armi). Uomo di sangue freddo, dotato di una brillante intelligenza, Fallon è uno degli ultimi grandi capi delle forze armate a poter vantare di aver prestato servizio in Vietnam. Preoccupato dalla moltiplicazione dei teatri operativi, dalla dispersione delle forze e dalla spossatezza delle truppe, ha apertamente contestato una leadership civile la cui politica non può che condurre gli Stati Uniti alla sconfitta.

Nel prolungarsi di tale ribellione, questo gruppo di ufficiali superiori è stato autorizzato a negoziare un’onorevole via di uscita dalla crisi con l’Iran e a preparare un ritiro dall’Iraq.

Secondo le nostre fonti, essi avevano immaginato un accordo in tre fasi:

  1. Gli Stati Uniti avrebbero fatto adottare dal Consiglio di Sicurezza un’ultima risoluzione contro l’Iran per non perdere la faccia. Ma tale risoluzione sarebbe stata senza reale sostanza e Teheran si sarebbe uniformata.
  2. Mahmud Ahmadinejād si sarebbe recato in Iraq dove avrebbe affermato gli interessi regionali dell’Iran. Ma il viaggio sarebbe stato puramente simbolico e Washington avrebbe lasciato fare tranquillamente.
  3. Teheran avrebbe fatto ricorso a tutta la sua influenza per normalizzare la situazione in Iraq e far passare i gruppi che sostiene dalla resistenza armata all’integrazione politica. Questa stabilizzazione avrebbe permesso al Pentagono di ritirare le sue truppe senza sconfitta. In contropartita, Washington avrebbe cessato il suo sostegno ai gruppi armati dell’opposizione iraniana, in particolare i Mujāhidīn del popolo.

Sempre secondo le nostre fonti, Robert Gates e questo gruppo di ufficiali, inquadrati dal generale Brent Scowcroft (ex consigliere nazionale della sicurezza), avrebbe sollecitato l’ausilio della Russia e della Cina affinché appoggiassero questo processo. Dapprima perplesse, Mosca e Pechino si sarebbero assicurate dell’assenso forzato della Casa Bianca prima di rispondere positivamente, sollevate dal fatto di poter evitare un conflitto incontrollabile.

Vladimir Putin aveva preso l’impegno di non approfittare militarmente del ritiro USA, ma aveva preteso che non se ne traessero le conseguenze politiche. Era stato dunque convenuto che la conferenza di Annapolis avrebbe partorito un topolino, mentre una conferenza globale sul Vicino Oriente sarebbe stata organizzata a Mosca per sbloccare i fascicoli che l’amministrazione Bush non aveva smesso di inasprire.

Putin accettava allo stesso tempo di facilitare il compromesso iraniano-statunitense, ma era impensierito da un Iran troppo forte lungo la frontiera meridionale della Russia. A titolo di garanzia, si convenne che l’Iran avrebbe accettato ciò che aveva sempre rifiutato : di non fabbricare da solo il suo combustibile nucleare.

I negoziati con Hu Jintao furono più complessi, giacché i dirigenti cinesi erano sconcertati nello scoprire fino a che punto l’amministrazione Bush avesse loro mentito in merito alla presunta minaccia iraniana. Occorreva innanzituttoristabilire la fiducia bilaterale. Per buona sorte, l’ammiraglio Fallon, che fino a poco tempo prima comandava la PacCom (zona Pacifico), intratteneva relazioni cordiali con i Cinesi.

Fu convenuto che Pechino avrebbe lasciato passare una risoluzione anti-iraniana del tutto formale al Consiglio di Sicurezza, ma che la formulazione di tale testo non avrebbe affatto ostacolato il commercio sino-iraniano.

Il sabotaggio

Di primo acchito, tutto sembrava funzionare. Mosca e Pechino accettarono di fare le comparse ad Annapolis e di votare la risoluzione 1803 contro l’Iran. Nel mentre il presidente Ahmadinejād si godeva la sua visita ufficiale a Baghdad, dove incontrò in segreto il capo dei Joint chiefs of staff, Mike Mullen, per pianificare la riduzione della tensione in Iraq. Ma il tandem Bush-Cheney non si dava per vinto e, no appena poteva, sabotava questo ben oliato meccanismo.

In primo luogo, la conferenza di Mosca spariva fra le sabbie mobile dei miraggi orientali ancor prima di esistere. In secondo luogo, Israele si lanciava all’assalto di Gaza e la NATO schierava la sua flotta al largo del Libano in modo da riattizzare l’incendio generale del Grande Medio Oriente, proprio mentre Fallon si sforzava di spegnerne i focolai uno ad uno. In terzo luogo, la Casa Bianca, di norma così pronta a sacrificare i suoi dipendenti, si rifiutava di abbandonare i Mujāhidīn del popolo.

Esasperati, i russi ammassavano la loro flotta a sud di Cipro per sorvegliare le navi della NATO e inviavano Sergei Lavrov a farsi un giro del Medio Oriente con la missione di armare la Siria, Hamas e Hezbollah al fine di riequilibrare il Levante. Nel frattempo gli iraniani, furiosi per essere stati ingannati, incoraggiavano la Resistenza irachena alla caccia dei soldati statunitensi.

Vedendo annichiliti i propri sforzi, l’ammiraglio Fallon dava le dimissioni, unico mezzo per lui di conservare alla lunga il proprio onore e la propria credibilità di fronte ai suoi interlocutori. L’intervista di Esquire, pubblicata due settimane prima, non è altro che un pretesto.

L’ora della verità

Nelle prossime tre settimane, il tandem Bush-Cheney si giocherà il tutto per tutto in Iraq facendo parlare le armi. Il generale David Petraeus, spingerà all’estremo il suo programma di contro-insurrezione, in modo da presentarsi vittorioso davanti al Congresso ai primi di aprile. Frattanto, la resistenza irachena, ormai sostenuta sia da Teheran sia da Mosca e Pechino, andrà a moltiplicare le imboscate e cercherà di uccidere il massimo di occupanti.

Spetterà allora all’amministrazione statunitense trarre le conclusioni dal campo di battaglia. O riterrà accettabili i risultati di Petraeus sul terreno e il tandem Bush-Cheney terminerà senza intoppi il suo mandato. O, per evitare lo spettro della sconfitta, dovrà sanzionare la Casa Bianca e riprendere, in un modo o nell’altro, i negoziati che l’ammiraglio Fallon aveva portato avanti.

Nello stesso tempo, Ehud Olmert interromperà le trattative iniziate con Hamas tramite l’Egitto. Egli surriscalderà la regione fino alla visita, in maggio, del presidente Bush.

Questa febbre regionale dovrebbe galvanizzare daccapo il dispositivo Bush, tanto negli investimenti nel settore militare-industriale del fondo Carlyle, la cui branca immobiliare è sull’orlo del fallimento, quanto nella campagna elettorale di John McCain.

Dal punto di vista di Washington, occorre continuare a sacrificare la vita dei GI’s per una guerra che è già costata 3 triliardi di dollari e far odiare gli Stati Uniti anche dai loro partner più fedeli, mentre essa non ha reso che solo ad alcune società possedute dal clan Bush e dai suoi amici?

1 commento:

Anonimo ha detto...

Grazie Pino x la traduzione. Bello e interessante l'articolo, nonché inedito e sommerso, come capita di norma per questi temi...
Paolo