Il prossimo 11 settembre
coinciderà con il 15-esimo anniversario del più grande attentato terroristico
della storia. Si sono spesi ettolitri d’inchiostro per argomentare sul tema:
chi lo ha fatto? Quali erano gli obiettivi politici che i suoi organizzatori
perseguivano?
È una disputa che non si può riproporre qui. Chi scrive ha sostenuto da
sempre che i diciannove presunti “dirottatori”, guidati da Osama bin Laden, non
avrebbero potuto, in ogni caso, realizzare un tale piano. Ci sono prove in
abbondanza che nell’operazione intervennero forze potenti che avevano legami
con diversi servizi segreti, a cominciare da settori della CIA e dell’FBI, per arrivare fino all’ISI pakistano, ai servizi segreti sauditi e a quelli, sicuramente coinvolti, del Mossad israeliano.
Il lavoro della “9/11 Commission” (cioè la “versione
ufficiale”) non regge di fronte a una sterminata quantità di contestazioni,
mosse da ricercatori e giornalisti indipendenti di tutto il mondo. Chi volesse
sincerarsene può consultare il sito Consensus911.org,
dove molte di queste contestazioni e incongruenze sono state esaminate in questi
anni da un gruppo di specialisti di cui anch’io faccio parte. Quella
Commissione — come adesso sappiamo ufficialmente dopo le rivelazioni dell’ex
senatore democratico Bill Graham
(che fu presidente della Commissione del Congresso che per prima indago
sull’11/9) e di numerosi senatori e deputati americani — rifiutò di esaminare
documenti e prove di quelle oscure manovre che precedettero l’attentato. Le 28
pagine del primo rapporto, recentemente desecretate, rivelano e documentano
inequivocabilmente, che il governo saudita aiutò e finanziò i “capri espiatori”
a installarsi negli Stati Uniti. E questo fatto, da solo (senza tenere conto
che FBI e CIA erano — e tutto ciò è stato provato— al corrente della
preparazione dell’attentato), dimostra che la 9/11 Commission fornì una versione
falsa dell’intera vicenda, per coprire i veri responsabili.
A questa
falsificazione — già provata — se ne possono aggiungere decine. Quanto basta
per concludere che ci furono interessi potenti, all’interno dell’élite
americana e dei circoli dirigenti occidentali, per coprire i veri protagonisti
dell’attentato. Basti pensare che il presidente
onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, Ferdinando Imposimato, ha dichiarato, e scritto, in diverse
interviste, che esistono ormai indizi più che sufficienti per incriminare, di concorso in strage, di fronte a un corte internazionale,
l’Amministrazione americana di George W.
Bush e Dick Cheney. Sfortunatamente
una tale corte esiste, ma non è abilitata a processare l’Amministrazione
americana.
Il fatto è che — altro indizio importante — tutto il mainstream mediatico occidentale
ha coperto in tutti questi 15 anni una versione ufficiale totalmente falsa,
fino al ridicolo, impedendo l’emergere della verità. Gli ideatori e
organizzatori dell’attentato, i loro amici e sodali, avevano ed hanno il
controllo quasi totale della comunicazione mondiale, e dunque hanno potuto
giovarsi della completa ignoranza dei
fatti in cui centinaia di milioni di persone sono state confinate.
Il problema è
dunque, al tempo stesso politico e comunicativo. Ed è questione
cruciale risolverlo prima che sia troppo tardi. Gli organizzatori dell’11/9
sono ancora non solo a “piede libero”, ma sono tuttora in grado di creare danni,
irreparabili, alla pace mondiale. Si deve ricordare che essi sono dei
vincitori: la potenza della loro azione ha modificato drammaticamente la storia
del pianeta. Dopo l’11/9 ha preso inizio una serie di guerre sanguinose (Afghanistan, Iraq, Libia, Siria) e di mutamenti del sistema delle regole
internazionali: tutti motivati con la necessità di combattere il “nuovo
nemico” dell’Occidente, l’Islam fondamentalista.
La guerra al terrorismo internazionale,
che prese inizio fin da quella data, è in corso da quindici anni. Ma,
paradossalmente, non solo non sembra produrre risultati tangibili, ma sta estendendo il caos e il disordine in
tutte le direzioni. A prima vista la
situazione attuale sembra dimostrare che l’Impero americano — il più potente e
armato di tutto il mondo, coadiuvato dalle armate dell’Occidente inquadrate
nella NATO — non sia in grado di fermare il nuovo nemico, artificialmente
evocato mediante “il più grande spettacolo del mondo”, cui assistettero in
diretta televisiva, live, circa 3
miliardi di persone.
Non credo che questa impressione di sconfitta sia giusta. Piuttosto gli
sviluppi cui stiamo assistendo sembrano delineare una situazione di caos globale, che corrisponde agl’interessi
degli stessi inventori della “guerra al terrorismo internazionale”. Si tratta
di un “caos organizzato”, il cui
scopo principale è quello di nascondere
ai popoli dell’Occidente, ormai terrorizzati, che l’origine della crisi
mondiale è tutta interna all’Occidente. Essa deriva direttamente dal fatto
che il sistema bancario mondiale, creato dalla globalizzazione e che, a sua
volta, ha sorretto la globalizzazione, non è più in condizione di resistere a lungo
senza esplodere in una crisi mondiale di proporzioni cento volte superiori a
quelle che portarono alla crisi del 1929.
Il “terrorismo islamico”, che si sta trasformando, giorno dopo giorno, in
una “guerra irregolare” diffusa (secondo
la definizione datane da Vladimir Putin)
equivale a una grande “distrazione di
massa”, per disorientare l’opinione pubblica mondiale, ma consente anche
agli Stati Uniti di sfruttare terroristi e gruppi radicali estremisti per i
propri scopi di parte. Lo prova a dismisura la teoria — inventata per
l’occasione proprio dalle fonti ufficiali occidentali per mascherare il proprio sostegno al terrorismo nel corso
della guerra contro la Siria — dei “terroristi
moderati”, contrapposti ai “terroristi cattivi”. Teoria che si è spinta
fino a far considerare come potenziali alleati, nel tentato abbattimento del
regime di Bashar al-Assad, dei raggruppamenti affiliati ad Al-Qa’ida. Guarda caso,
proprio la stessa Al Qa’ida cui 15 anni fa venne attribuita la paternità del
grande attentato contro il World Trade Center e il Pentagono.
Dopo la crisi del 2008, innescata dal crollo di Lehman Brothers, nessuna
ricetta dei centri del potere finanziario globale è stata in grado di rimettere
in moto la macchina finanziaria mondiale. Il denaro è stato moltiplicato in
forme vertiginose, attraverso il quantitative
easing praticato da tutte le banche centrali dell’Occidente. Ma la macchina globale non riesce a
ripartire. Al contrario, tutte le previsioni (che vengono tenute accuratamente nascoste
al grande pubblico degl’investitori) dicono che, da qui al 2020-2025, la crescita del PIL globale si avvicinerà
al punto zero, segnando la fine delle illusioni di crescita economica che
sono state sparse a piene mani, contro l’evidenza dei fatti, negli ultimi dieci
anni.
Il problema richiede una soluzione politica rapida, essendo quella
economico-finanziaria al momento impossibile. L’esplosione sistemica avverrà in un periodo di tempo indeterminato,
relativamente procrastinabile, ma non superiore al decennio. Questo spiega la
fretta (e anche i segnali di panico) con cui l’Occidente sta cercando di
mescolare le carte e di destabilizzare il mondo cancellando tutto il sistema di
regole che aveva resistito durante la guerra fredda.
Si ripete così lo scenario che precedette l’11 Settembre del 2001. Qualche
anno prima, nel 1998, il gruppo di neo-con
guidato da Paul Wolfowitz, aveva
predisposto il “Progetto per il Nuovo Secolo Americano” (PNAC, Project for the New American Century). Il titolo era già
indicativo della follia dei suoi creatori: proporsi di imporre un altro secolo
dominato dall’America, in un pianeta che si avviava a contare oltre 7 miliardi
di esseri umani, nel quale esistono ormai giganti come la Cina e l’India, era
equivalente a una dichiarazione di
guerra contro il resto del mondo. Gli autori neo-con erano perfettamente consapevoli della violenza che un tale
progetto avrebbe richiesto per essere realizzato. Sapevano — e lo scrissero —
che la Cina, al 2017, sarebbe
divenuta un concorrente oggettivo e non controllabile con il quale fare i
conti. Rovesciando le parti, la definirono una “minaccia per la sicurezza
nazionale degli Stati Uniti”. E si prepararono a rafforzare un differenziale militare strategico che
sarebbe dovuto essere incolmabile, per sempre, per ogni Stato o gruppo di Stati
che avesse tentato anche soltanto di avvicinarsi alla potenza dell’Impero.
Essi, già allora, erano consapevoli della fragilità dell’immenso inganno finanziario su cui si reggeva
il dollaro. E, infatti, i primi
segni di recessione apparvero proprio nel 2001. Nello stesso tempo si trattava
di imporre un cambio psicologico nella
popolazione americana (e in
quella di tutto l’Occidente, Europa inclusa) che, ignara di tutto e
all’inseguimento della carota consumistica, mantenuta dal mainstream a poca distanza dal suo naso, non era disposta a farsi
trascinare in nessuna avventura. Bisognava dunque creare qualche cosa di
straordinario, di tremendo; qualcosa di “simile a una Nuova Pearl Harbor”, affinché le masse percepissero un pericolo
smisurato e incombente, potenzialmente distruttore della loro sicurezza e del
loro benessere.
Un tale pericolo esterno non esisteva alla fine del secolo XX. La Russia — così pensavano, e questo fu il
loro errore più grande — era già stata tolta
dal gioco, conquistata, colonizzata culturalmente e politicamente. Non
c’era più il “nemico rosso” che aveva angosciato l’élite americana nel corso
della guerra fredda. Dunque la Russia non poteva essere inclusa nel novero dei
concorrenti. Il Muro di Berlino era caduto. Come scrisse sarcasticamente Gore Vidal, «quando i russi ci hanno
colpiti alle spalle abbandonando il loro impero nel 1991, siamo rimasti con
molte idee errate su di noi e, quel ch’è peggio, sul resto del mondo»[1] .
Il pericolo bisognava
dunque crearlo artificialmente. E così fecero. Potrà sembrare strano, ma lo
dissero e lo scrissero apertamente. Basti ricordare cosa pensava, nel 1997, Zbignew Brzezinski: «Bisogna
considerare che l’America sta diventando sempre di più una società
multiculturale e, in quanto tale, può essere più difficile creare il consenso
su questioni di politica estera, tranne
che in presenza di una minaccia nemica enorme, direttamente percepita a livello
di massa».[2]
La previsione di una Cina al di fuori del loro controllo era giusta. Ma
occorreva subito un “nuovo nemico”. L’Islam venne cucinato per le mense di
tutto il mondo come “quel” nemico. George W. Bush e il suo ministro della
Difesa, Donald Rumsfeld gridarono ai
microfoni e alle telecamere del mainstream
che «stava cominciando una guerra che sarebbe durata un’intera generazione»
(Rumsfeld disse “cinquant’anni”).
I primi quindici di questi “cinquant’anni” li abbiamo già visti e vissuti. È
evidente anche ai ciechi che la situazione mondiale sta degenerando. Ma l’Occidente si rifiuta di prendere atto del
mutamento dei rapporti di forza planetari.
Soprattutto insopportabile, per i circoli dirigenti americani, è la
constatazione che la Russia è riapparsa
sulla scena come protagonista. Nella previsione dei neo-con sbagliata era l’idea che la Russia fosse stata messa
definitivamente fuori gioco. E questo errore
di calcolo rendeva problematico tutto il resto del loro piano. Pensavano
che, tolta di mezzo la Russia, ci sarebbe stato abbastanza tempo per
reinventarsi la Cina come nuovo impero del Male, al posto della Russia. Ma si
rivelò sbagliata anche la previsione che, una volta inventata la “nuova Pearl
Harbor”, i sette miliardi di abitanti della Terra si sarebbero messi in fila
per comprare tutto il comprabile nei supermercati predisposti per loro. Sbagliata anche l’idea che sarebbe bastato
creare denaro dal nulla per sistemare ogni cosa.
La sommatoria di questi errori e di questi successi consentì all’Impero di
reggere — tra una nuova guerra e l’altra — per sei anni. Il settimo fu il 2008,
e ci vollero dieci trilioni di dollari, inventati in tutta fretta dalla Federal
Reserve di Alan Greenspan, per
salvare dalla bancarotta tutte le banche dell’Occidente. E — come abbiamo già
ricordato — gli ultimi otto anni sono
stati il regno del caos.
Ecco perché l’Impero si trova di nuovo nella necessità di compattare il proprio sistema di alleanze, esattamente
come fece attraverso l’attentato terroristico dell’11/9. Nel 2008 lo stratagemma fu la destabilizzazione dei “piccoli nemici”.
Affidato a Barack Obama, che lo realizzò
mediante una moltiplicazione di rivoluzioni
colorate e, soprattutto con l’uso delle “primavere arabe” per fare piazza pulita di regimi ormai scomodi, o
inutili, nel Medio Oriente. E si deve riconoscere che questa operazione
strategica ha funzionato, ma solo nel senso di incrementare la
destabilizzazione globale.
Ma la presenza della Russia, tornata ad essere potenza mondiale, ha
costretto i neo-con a cambiare strategia, e a tornare sul
luogo del delitto. Di nuovo la fretta ha
fatto capolino.
La crisi incombe e, a est, ci sono ora due
“nemici”, Russia e Cina. Non solo il grande, ma unico, “Paese del Centro”.
Solo così si spiega il colpo di Stato in
Ucraina, l’abbattimento di Janukovic con le squadre naziste e
ultranazionaliste russofobe da lungo tempo preparate e istruite con l’aiuto
della Polonia e delle Repubbliche baltiche.
La trappola, ben
preparata, doveva costringere la Russia a un intervento diretto a sostegno dei
russi di Ucraina, sottoposti a una vera e propria pulizia etnica di nuovo tipo.
Vladimir Putin non è cascato nella
trappola e i russi di Ucraina — non tutti ma una parte decisiva — hanno trovato
la forza di difendersi. La Crimea ha
scelto di “tornare in patria”.
Ma il risultato è stato in gran parte raggiunto dall’Impero. L’Europa si è
schierata a fianco agli Stati Uniti, sono scattate le sanzioni, l’ondata russofobica ha investito tutto
l’Occidente e lo ha compattato attorno a Washington. La Russia e Putin sono il
vero “nemico da battere”.
Come? Hillary Clinton dovrà
risolvere il problema.
Lo scontro
diretto è in preparazione. Ma non tutti a Washington sono così suicidi da pensare
di attuarlo. Si preparano alla guerra, ma pensano che anche la Russia di Putin potranno metterla in ginocchio, come fecero con
l’URSS di Mikhail Gorbaciov. È una scommessa che potrebbero perdere. E l’Europa è in pieno subbuglio. Potrebbe rompersi prima l’Europa.
E anche l’Impero è diviso al suo interno. Donald Trump difficilmente vincerà le elezioni, ma è un segnale che
la fiducia dello stesso popolo americano
nelle sue élites è ormai logorata. Si può applicare all’America il detto
latino: “omne regnum in se ipse divisum
desolabitur” (ogni regno, quando è diviso al suo interno, finisce per
crollare).
NOTE
[1] Gore Vidal, Le menzogne dell’Impero e altre tristi verità. Perché la «junta» petroliera Cheney-Bush vuole la guerra con l'Iraq e altri saggi, Fazi, 2002, Pag. 17.
[2] Il corsivo è dell’autore di queste righe.
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