2 settembre 2016

11/9 - QUINDICESIMO ANNIVERSARIO


di Giulietto Chiesa.
da Megachip.


Il prossimo 11 settembre coinciderà con il 15-esimo anniversario del più grande attentato terroristico della storia. Si sono spesi ettolitri d’inchiostro per argomentare sul tema: chi lo ha fatto? Quali erano gli obiettivi politici che i suoi organizzatori perseguivano?

È una disputa che non si può riproporre qui. Chi scrive ha sostenuto da sempre che i diciannove presunti “dirottatori”, guidati da Osama bin Laden, non avrebbero potuto, in ogni caso, realizzare un tale piano. Ci sono prove in abbondanza che nell’operazione intervennero forze potenti che avevano legami con diversi servizi segreti, a cominciare da settori della CIA e dell’FBI, per arrivare fino all’ISI pakistano, ai servizi segreti sauditi e a quelli, sicuramente coinvolti, del Mossad israeliano.

Il lavoro della “9/11 Commission” (cioè la “versione ufficiale”) non regge di fronte a una sterminata quantità di contestazioni, mosse da ricercatori e giornalisti indipendenti di tutto il mondo. Chi volesse sincerarsene può consultare il sito Consensus911.org, dove molte di queste contestazioni e incongruenze sono state esaminate in questi anni da un gruppo di specialisti di cui anch’io faccio parte. Quella Commissione — come adesso sappiamo ufficialmente dopo le rivelazioni dell’ex senatore democratico Bill Graham (che fu presidente della Commissione del Congresso che per prima indago sull’11/9) e di numerosi senatori e deputati americani — rifiutò di esaminare documenti e prove di quelle oscure manovre che precedettero l’attentato. Le 28 pagine del primo rapporto, recentemente desecretate, rivelano e documentano inequivocabilmente, che il governo saudita aiutò e finanziò i “capri espiatori” a installarsi negli Stati Uniti. E questo fatto, da solo (senza tenere conto che FBI e CIA erano — e tutto ciò è stato provato— al corrente della preparazione dell’attentato), dimostra che la 9/11 Commission fornì una versione falsa dell’intera vicenda, per coprire i veri responsabili.
A questa falsificazione — già provata — se ne possono aggiungere decine. Quanto basta per concludere che ci furono interessi potenti, all’interno dell’élite americana e dei circoli dirigenti occidentali, per coprire i veri protagonisti dell’attentato.  Basti pensare che il presidente onorario aggiunto della Suprema Corte di Cassazione, Ferdinando Imposimato, ha dichiarato, e scritto, in diverse interviste, che esistono ormai indizi più che sufficienti per incriminare, di concorso in strage, di fronte a un corte internazionale, l’Amministrazione americana di George W. Bush e Dick Cheney. Sfortunatamente una tale corte esiste, ma non è abilitata a processare l’Amministrazione americana.


Il fatto è che — altro indizio importante — tutto il mainstream mediatico occidentale ha coperto in tutti questi 15 anni una versione ufficiale totalmente falsa, fino al ridicolo, impedendo l’emergere della verità. Gli ideatori e organizzatori dell’attentato, i loro amici e sodali, avevano ed hanno il controllo quasi totale della comunicazione mondiale, e dunque hanno potuto giovarsi della completa ignoranza dei fatti in cui centinaia di milioni di persone sono state confinate.

Il problema è dunque, al tempo stesso politico e comunicativo. Ed è questione cruciale risolverlo prima che sia troppo tardi. Gli organizzatori dell’11/9 sono ancora non solo a “piede libero”, ma sono tuttora in grado di creare danni, irreparabili, alla pace mondiale. Si deve ricordare che essi sono dei vincitori: la potenza della loro azione ha modificato drammaticamente la storia del pianeta. Dopo l’11/9 ha preso inizio una serie di guerre sanguinose (Afghanistan, Iraq, Libia, Siria) e di mutamenti del sistema delle regole internazionali: tutti motivati con la necessità di combattere il “nuovo nemico” dell’Occidente, l’Islam fondamentalista.

La guerra al terrorismo internazionale, che prese inizio fin da quella data, è in corso da quindici anni. Ma, paradossalmente, non solo non sembra produrre risultati tangibili, ma sta estendendo il caos e il disordine in tutte le direzioni.  A prima vista la situazione attuale sembra dimostrare che l’Impero americano — il più potente e armato di tutto il mondo, coadiuvato dalle armate dell’Occidente inquadrate nella NATO — non sia in grado di fermare il nuovo nemico, artificialmente evocato mediante “il più grande spettacolo del mondo”, cui assistettero in diretta televisiva, live, circa 3 miliardi di persone. 

Non credo che questa impressione di sconfitta sia giusta. Piuttosto gli sviluppi cui stiamo assistendo sembrano delineare una situazione di caos globale, che corrisponde agl’interessi degli stessi inventori della “guerra al terrorismo internazionale”. Si tratta di un “caos organizzato”, il cui scopo principale è quello di nascondere ai popoli dell’Occidente, ormai terrorizzati, che l’origine della crisi mondiale è tutta interna all’Occidente. Essa deriva direttamente dal fatto che il sistema bancario mondiale, creato dalla globalizzazione e che, a sua volta, ha sorretto la globalizzazione, non è più in condizione di resistere a lungo senza esplodere in una crisi mondiale di proporzioni cento volte superiori a quelle che portarono alla crisi del 1929.

Il “terrorismo islamico”, che si sta trasformando, giorno dopo giorno, in una “guerra irregolare” diffusa (secondo la definizione datane da Vladimir Putin) equivale a una grande “distrazione di massa”, per disorientare l’opinione pubblica mondiale, ma consente anche agli Stati Uniti di sfruttare terroristi e gruppi radicali estremisti per i propri scopi di parte. Lo prova a dismisura la teoria — inventata per l’occasione proprio dalle fonti ufficiali occidentali per mascherare  il proprio sostegno al terrorismo nel corso della guerra contro la Siria — dei “terroristi moderati”, contrapposti ai “terroristi cattivi”. Teoria che si è spinta fino a far considerare come potenziali alleati, nel tentato abbattimento del regime di Bashar al-Assad, dei raggruppamenti affiliati ad Al-Qa’ida.  Guarda caso, proprio la stessa Al Qa’ida cui 15 anni fa venne attribuita la paternità del grande attentato contro il World Trade Center e il Pentagono.

Dopo la crisi del 2008, innescata dal crollo di Lehman Brothers, nessuna ricetta dei centri del potere finanziario globale è stata in grado di rimettere in moto la macchina finanziaria mondiale. Il denaro è stato moltiplicato in forme vertiginose, attraverso il quantitative easing praticato da tutte le banche centrali dell’Occidente.  Ma la macchina globale non riesce a ripartire. Al contrario, tutte le previsioni (che vengono tenute accuratamente nascoste al grande pubblico degl’investitori) dicono che, da qui al 2020-2025, la crescita del PIL globale si avvicinerà al punto zero, segnando la fine delle illusioni di crescita economica che sono state sparse a piene mani, contro l’evidenza dei fatti, negli ultimi dieci anni.

Il problema richiede una soluzione politica rapida, essendo quella economico-finanziaria al momento impossibile. L’esplosione sistemica avverrà in un periodo di tempo indeterminato, relativamente procrastinabile, ma non superiore al decennio. Questo spiega la fretta (e anche i segnali di panico) con cui l’Occidente sta cercando di mescolare le carte e di destabilizzare il mondo cancellando tutto il sistema di regole che aveva resistito durante la guerra fredda.
Si ripete così lo scenario che precedette l’11 Settembre del 2001. Qualche anno prima, nel 1998, il gruppo di neo-con guidato da Paul Wolfowitz, aveva predisposto il “Progetto per il Nuovo Secolo Americano” (PNAC, Project for the New American Century). Il titolo era già indicativo della follia dei suoi creatori: proporsi di imporre un altro secolo dominato dall’America, in un pianeta che si avviava a contare oltre 7 miliardi di esseri umani, nel quale esistono ormai giganti come la Cina e l’India, era equivalente a una dichiarazione di guerra contro il resto del mondo. Gli autori neo-con erano perfettamente consapevoli della violenza che un tale progetto avrebbe richiesto per essere realizzato. Sapevano — e lo scrissero — che la Cina, al 2017, sarebbe divenuta un concorrente oggettivo e non controllabile con il quale fare i conti. Rovesciando le parti, la definirono una “minaccia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti”. E si prepararono a rafforzare un differenziale militare strategico che sarebbe dovuto essere incolmabile, per sempre, per ogni Stato o gruppo di Stati che avesse tentato anche soltanto di avvicinarsi alla potenza dell’Impero.

Essi, già allora, erano consapevoli della fragilità dell’immenso inganno finanziario su cui si reggeva il dollaro. E, infatti, i primi segni di recessione apparvero proprio nel 2001. Nello stesso tempo si trattava di imporre un cambio psicologico nella popolazione americana (e in quella di tutto l’Occidente, Europa inclusa) che, ignara di tutto e all’inseguimento della carota consumistica, mantenuta dal mainstream a poca distanza dal suo naso, non era disposta a farsi trascinare in nessuna avventura. Bisognava dunque creare qualche cosa di straordinario, di tremendo; qualcosa di “simile a una Nuova Pearl Harbor”, affinché le masse percepissero un pericolo smisurato e incombente, potenzialmente distruttore della loro sicurezza e del loro benessere. 
Un tale pericolo esterno non esisteva alla fine del secolo XX. La Russia — così pensavano, e questo fu il loro errore più grande — era già stata tolta dal gioco, conquistata, colonizzata culturalmente e politicamente. Non c’era più il “nemico rosso” che aveva angosciato l’élite americana nel corso della guerra fredda. Dunque la Russia non poteva essere inclusa nel novero dei concorrenti. Il Muro di Berlino era caduto. Come scrisse sarcasticamente Gore Vidal, «quando i russi ci hanno colpiti alle spalle abbandonando il loro impero nel 1991, siamo rimasti con molte idee errate su di noi e, quel ch’è peggio, sul resto del mondo»[1] .

Il pericolo bisognava dunque crearlo artificialmente. E così fecero. Potrà sembrare strano, ma lo dissero e lo scrissero apertamente. Basti ricordare cosa pensava, nel 1997, Zbignew Brzezinski: «Bisogna considerare che l’America sta diventando sempre di più una società multiculturale e, in quanto tale, può essere più difficile creare il consenso su questioni di politica estera, tranne che in presenza di una minaccia nemica enorme, direttamente percepita a livello di massa».[2]
La previsione di una Cina al di fuori del loro controllo era giusta. Ma occorreva subito un “nuovo nemico”. L’Islam venne cucinato per le mense di tutto il mondo come “quel” nemico. George W. Bush e il suo ministro della Difesa, Donald Rumsfeld gridarono ai microfoni e alle telecamere del mainstream che «stava cominciando una guerra che sarebbe durata un’intera generazione» (Rumsfeld disse “cinquant’anni”).

I primi quindici di questi “cinquant’anni” li abbiamo già visti e vissuti. È evidente anche ai ciechi che la situazione mondiale sta degenerando. Ma l’Occidente si rifiuta di prendere atto del mutamento dei rapporti di forza planetari.
Soprattutto insopportabile, per i circoli dirigenti americani, è la constatazione che la Russia è riapparsa sulla scena come protagonista. Nella previsione dei neo-con sbagliata era l’idea che la Russia fosse stata messa definitivamente fuori gioco. E questo errore di calcolo rendeva problematico tutto il resto del loro piano. Pensavano che, tolta di mezzo la Russia, ci sarebbe stato abbastanza tempo per reinventarsi la Cina come nuovo impero del Male, al posto della Russia. Ma si rivelò sbagliata anche la previsione che, una volta inventata la “nuova Pearl Harbor”, i sette miliardi di abitanti della Terra si sarebbero messi in fila per comprare tutto il comprabile nei supermercati predisposti per loro.  Sbagliata anche l’idea che sarebbe bastato creare denaro dal nulla per sistemare ogni cosa.

La sommatoria di questi errori e di questi successi consentì all’Impero di reggere — tra una nuova guerra e l’altra — per sei anni. Il settimo fu il 2008, e ci vollero dieci trilioni di dollari, inventati in tutta fretta dalla Federal Reserve di Alan Greenspan, per salvare dalla bancarotta tutte le banche dell’Occidente. E — come abbiamo già ricordato — gli ultimi otto anni sono stati il regno del caos.
Ecco perché l’Impero si trova di nuovo nella necessità di compattare il proprio sistema di alleanze, esattamente come fece attraverso l’attentato terroristico dell’11/9.  Nel 2008 lo stratagemma fu la destabilizzazione dei “piccoli nemici”. Affidato a Barack Obama, che lo realizzò mediante una moltiplicazione di rivoluzioni colorate e, soprattutto con l’uso delle “primavere arabe” per fare piazza pulita di regimi ormai scomodi, o inutili, nel Medio Oriente. E si deve riconoscere che questa operazione strategica ha funzionato, ma solo nel senso di incrementare la destabilizzazione globale.

Ma la presenza della Russia, tornata ad essere potenza mondiale, ha costretto i neo-con a cambiare strategia, e a tornare sul luogo del delitto. Di nuovo la fretta ha fatto capolino.
La crisi incombe e, a est, ci sono ora due “nemici”, Russia e Cina. Non solo il grande, ma unico, “Paese del Centro”. Solo così si spiega il colpo di Stato in Ucraina, l’abbattimento di Janukovic con le squadre naziste e ultranazionaliste russofobe da lungo tempo preparate e istruite con l’aiuto della Polonia e delle Repubbliche baltiche. 
La trappola, ben preparata, doveva costringere la Russia a un intervento diretto a sostegno dei russi di Ucraina, sottoposti a una vera e propria pulizia etnica di nuovo tipo. Vladimir Putin non è cascato nella trappola e i russi di Ucraina — non tutti ma una parte decisiva — hanno trovato la forza di difendersi. La Crimea ha scelto di “tornare in patria”. 

Ma il risultato è stato in gran parte raggiunto dall’Impero. L’Europa si è schierata a fianco agli Stati Uniti, sono scattate le sanzioni, l’ondata russofobica ha investito tutto l’Occidente e lo ha compattato attorno a Washington. La Russia e Putin sono il vero “nemico da battere”.
Come? Hillary Clinton dovrà risolvere il problema.
Lo scontro diretto è in preparazione. Ma non tutti a Washington sono così suicidi da pensare di attuarlo. Si preparano alla guerra, ma pensano che anche la Russia di Putin potranno metterla in ginocchio, come fecero con l’URSS di Mikhail Gorbaciov. È una scommessa che potrebbero perdere.  E l’Europa è in pieno subbuglio. Potrebbe rompersi prima l’Europa.
E anche l’Impero è diviso al suo interno. Donald Trump difficilmente vincerà le elezioni, ma è un segnale che la fiducia dello stesso popolo americano nelle sue élites è ormai logorata. Si può applicare all’America il detto latino: “omne regnum in se ipse divisum desolabitur” (ogni regno, quando è diviso al suo interno, finisce per crollare).



NOTE


[2] Il corsivo è dell’autore di queste righe.

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