di Barbara Spinelli.
Raggruppati in un’Unione che non ha niente da dire in politica estera
– né sulle proprie marche di confine a Est o nel Mediterraneo, né
sull’alleanza con gli Stati Uniti, né sulla democrazia che intendono
rappresentare – i governi europei s’aggirano sul palcoscenico del mondo
come inebetiti, lo sguardo svogliato, le idee sparpagliate e soprattutto
incostanti. Si atteggiano a sovrani, ma hanno dimenticato cosa sia una
corona, e cosa uno scettro.
L’ossessione è fare affari, e dei mercati continuano a ignorare le
incapacità, pur avendole toccate con mano.
S’aggrappano a un’Alleanza
atlantica per nulla paritaria, dominata da una superpotenza che è in
declino e che proprio per questo tende a riprodurre in Europa il vecchio
ordine bipolare, russo-americano, lascito della guerra fredda.
Sono anni che gli Europei dormono, ignari di un mondo che attorno a
loro muta.
Non c’è evento, non c’è trattativa internazionale che li veda
protagonisti, pronti a unirsi per dire quello che vogliono fare. A
volte alzano la voce per difendere posizioni autonome, ma la voce presto
scema, s’insabbia.
Lo si vede in Ucraina: marca di confine
incandescente sia per l’Unione, sia per la Russia.
Lo si vede nel
negoziato euro-americano che darà vita a un patto economico destinato ad
affiancare quello militare: il Partenariato transatlantico per il
commercio e gli investimenti (Ttip).
Lo si vede nella battaglia
indolente, e infruttuosa, contro i piani di sorveglianza dell’Agenzia
Usa per la sicurezza nazionale (Nsa), disvelati da Edward Snowden nel
2013. Sono tre prove essenziali, e l’Unione le sta fallendo tutte.
Le sta fallendo in Ucraina, perché l’Europa non ha ancora ripensato i
rapporti con la Russia. Non sa nulla di quel che si muove e bolle in
quel mondo enorme e opaco. Non sa valutare le paure e gli interessi
moscoviti, né i pericoli della riaccesa volontà di potenza che Putin
incarna. Non capisce come mai Putin sia popolare in patria, e anche in
tante regioni ex sovietiche che appartengono ormai a altri Stati e
includono vaste e declassate comunità russe. Non sapendo parlare con
Mosca, gli Europei lasciano che siano gli Stati Uniti, ancora una volta,
a fronteggiare il caos inasprendolo. È Washington a promettere garanzie
al governo ucraino, a diffidare Mosca da annessioni, ad allarmarla
minacciando di spostare il perimetro Nato a est.
L’Europa sta a guardare, persuasa che bastino i piani di austerità
proposti da Fondo Monetario e Commissione europea, se Kiev entrerà nella
sua orbita. Questo è infatti lo scettro, l’unico che l’Unione sappia
oggi impugnare: non una politica estera, ma un ricettario economico
liberista misto a formule moraleggianti sul debito, scrive lo storico
russo Dmitri Trenin che dirige a Mosca il Carnegie Endowment for
International Peace. Quasi che il dramma degli Stati fallimentari, nel
mondo, fosse soltanto finanziario.
La risposta politica a tali fallimenti è affidata a Obama, e per
forza gli sbagli commessi dagli Europei si ripetono (basti ricordare
l’errore madornale di Kohl, quando disse negli anni ‘90 che la Slovenia
"meritava l’indipendenza", essendo "etnicamente omogenea").
Depoliticizzata, l’Europa subisce il ritorno anacronistico del duopolio
russo-americano. È Washington a decidere se Kiev debba essere il nuovo
scudo orientale della Nato, nonostante il popolo ucraino preferisca
evidentemente la neutralità. Per quasi mezzo secolo l’avamposto fu la
Germania Ovest, poi sostituita dalla Polonia: ora Varsavia spera che al
proprio posto s’erga un’Ucraina occidentalizzata d’imperio, frantumabile
come lo fu la Jugoslavia. Mosca chiede che il paese diventi una
Federazione, anziché un agglomerato babelico di risentimenti
nazionalisti. Strano che non sia l’Europa, con le sue esperienze, a
domandarlo.
La seconda prova è il patto commerciale con gli Usa: una trattativa
colma di agguati, perché molte conquiste normative dell’Europa rischiano
d’esser spazzate via. Non a caso le multinazionali negoziano in
segreto, lontano da controlli democratici.
Sono sotto attacco leggi
sedimentate, diritti per cui l’Unione s’è battuta per decenni: tra
questi il diritto alla salute, la cura dell’ambiente, le multe a imprese
inquinanti. I sistemi sanitari saranno aperti al libero mercato, che
sulle esigenze sociali farà prevalere il profitto. Emblematico:
l’assalto delle grandi case farmaceutiche ai medicinali generici low
cost.
Sono in pericolo anche tasse cui l’Europa pare tenere, sia per
aumentare il magro bilancio comune sia per frenare operazioni
speculative e degrado climatico: la tassa sulle transazioni finanziarie,
e sulle emissioni di anidride carbonica. Una controffensiva UE contro
il trattato commerciale ancora non c’è. Nell’incontro a Roma con Obama,
Renzi ha auspicato l’accelerazione del negoziato senza chiedere
alcunché, né per noi né per l’Europa.
Numerose mezze verità circolano sul patto. Alcuni assicurano che
quando sarà pienamente in funzione, nel 2027, il reddito degli europei
crescerà sensibilmente (545 euro all’anno per una famiglia di quattro
persone), con un beneficio di 120 miliardi annui per l’Unione e di 95
per gli Usa. Altri calcoli sono meno ottimisti. L’istituto Prometeia,
pur favorevole all’accordo, sostiene che i guadagni non supererebbero lo
0,5% di Pil in caso di liberalizzazione totale. L’istituto austriaco
Öfse (Ricerca per lo sviluppo internazionale) prevede addirittura un
aumento dei disoccupati nel periodo di transizione, a causa della
riorganizzazione dei mercati di lavoro imposta dal Partenariato. Non
meno grave: le controversie commerciali si risolverebbero non attraverso
giudizi in tribunali ordinari, ma in speciali corti extraterritoriali.
Saranno le multinazionali a trascinare in giudizio governi, aziende,
servizi pubblici ritenuti non competitivi, e a esigere compensazioni per
i mancati guadagni dovuti a diritti del lavoro troppo vincolanti, a
leggi ambientali o costituzionali troppo severe.
Tutto questo in nome della "semplificazione burocratica": parola
d’ordine che Renzi predilige, virtuosa e al tempo stesso insidiosa. Nel
contesto del Partenariato transatlantico, semplificare vuol dire
abbattere le cosiddette "barriere non tariffarie", un termine criptico
che indica parametri europei faticosamente elaborati: regole sanitarie a
tutela della salute, canoni di sicurezza delle automobili, procedure di
approvazione dei farmaci, e molto altro ancora.
Non per ultimo, la terza prova: il caso Snowden, l’informatico dei
servizi Usa che portò alla luce un sistema di sorveglianza tentacolare,
predisposto dai servizi americani con la scusa di prevenire attentati
terroristici. Grazie a Snowden si è saputo che erano intercettati
perfino i cellulari di leader europei (tra cui Angela Merkel), non si sa
per quali ragioni di sicurezza. I governi dell’Unione hanno protestato,
ma ciascuno per conto suo e sempre più flebilmente. In un messaggio al
Parlamento europeo, il 7 marzo, Snowden ha ironizzato sulle sovranità
presunte dei singoli Stati, spiegando come sia assurdo il compiacimento
di governi che immaginano di poter fermare il Datagate senza mobilitare
l’Unione intera.
La vicenda Snowden è anche questione di civiltà democratica.
L’esistenza di smascheratori di misfatti - non spie ma whistleblower,
denunziatori di reati commessi dalla propria organizzazione - potenzia
la democrazia. È un bruttissimo segno e paradossale che i giornalisti
implicati nel Datagate a fianco di Snowden abbiano ricevuto il Premio
Pulitzer (uno schiaffo per Obama), e che lui stesso, il soffiatore di
fischietto, abbia trovato riparo non in un’Europa che promette nella sua
Carta la "libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza
che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza
limiti di frontiera", ma nella Russia di Putin.
Fonte: la Repubblica, 23 aprile 2014.
Tratto da: http://temi.repubblica.it/micromega-online/i-re-dormienti-deuropa/?printpage=undefined.
Ripreso da: http://megachip.globalist.it/Secure/Detail_News_Display?ID=102248&typeb=0.
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