1 ottobre 2013

Seymour Hersh: la fine di Bin Laden e altre bugie


Il vincitore del premio Pulitzer spiega come risistemare il giornalismo: la stampa dovrebbe 'licenziare il 90% dei redattori e promuovere quelli che non si possono controllare'.
Nota preliminare di Pino Cabras.

A volte i mitografi che fanno la guardia alle “versioni ufficiali” sono proprio sfigati, va detto. Il 23 settembre 2013, sul blog di Paolo Attivissimo è apparso un articolo dal titolo “Abbottabad Report: anche il Pakistan smentisce i complottisti”, firmato da Hammer. Il caso ha voluto che, quasi contemporaneamente, uno dei più acclamati giornalisti investigativi del mondo, Seymour Hersh, che sta scrivendo un libro in parte dedicato ai fatti di Abbottabad, definisca quello stesso documento - che Attivissimo & C. prendono per oro colato - come un «rapporto fatto di stronzate».
Dunque, riepiloghiamo:
Da una parte abbiamo Hersh, il giornalista che ha messo con le spalle al muro interi governi scoperchiando il massacro di My Lai negli anni sessanta e le nefandezze di Abu Ghraib negli anni duemila, nonché profondo conoscitore dell'Asia e delle dinamiche interne delle forze armate USA.
Dall'altra abbiamo presunti sbufalatori implacabili che non hanno scritto un rigo su una delle bufale più clamorose del Millennio (la sepoltura in mare di Bin laden “secondo le usanze islamiche”) e che si affidano alla genuinità di un report ufficiale redatto in seno al mondo politico del “Paese più pericoloso del mondo”, il Pakistan, un sistema politico che non conoscono, segnato dalla commistione di servizi segreti, dossieraggi e attentati apocalittici, in perenne conflitto-collaborazione con la CIA.
Cosa prediligere?
Di fronte a questa scelta (tra giornalismo e mitografia che cade dal pero), ci ha fatto piacere tradurre il colloquio di Lisa O'Carroll del Guardian con Seymour Hersh, che risulta estremamente interessante nella sua durissima requisitoria contro il sistema dominante dei media.
Buona lettura.

Seymour Hersh su Obama, NSA e i 'patetici' media americani

di Lisa O'Carroll - The Guardian.

Seymour Hersh ha alcune idee estreme su come risistemare il giornalismo: chiudere le redazioni della NBC e della ABC, cacciare il 90% dei redattori editoriali e tornare al lavoro fondamentale dei giornalisti che, dice, è quello di essere un outsider.

Non ci vuole molto per far indignare Hersh, il giornalista investigativo che è stato la nemesi dei presidenti degliStati Uniti sin fagli anni sessanta e che una volta è stato descritto dal partito repubblicano come «la cosa più vicina a un terrorista che ha il giornalismo americano».

È arrabbiato per la timidezza dei giornalisti in America, la loro incapacità di sfidare la Casa Bianca ed essere un impopolare messaggero di verità.

Non lo fanno neanche incominciare sul New York Times che, dice, passa «molto più tempo a portare acqua al mulino di Obama di quanto avrei mai pensato che potessero fare» – o la morte di Osama bin Laden. «Nulla è stato fatto di quanto raccontato in quella storia, è una grande bugia, non una sola parola è vera», dice Hersh della drammatica incursione nel 2011 delle forze speciali d’élite della marina USA.

Hersh sta scrivendo un libro sulla sicurezza nazionale e ha dedicato un capitolo all’uccisione di bin Laden. Afferma che di un recente rapporto esibito da una commissione "indipendente" pakistana sulla vita nello stabilimento Abottabad presso cui Bin Laden era rintanato non rimarrebbe in piedi nulla se attentamente scrutinato. «I pakistani hanno diffuso un report, non farmene parlare. Mettiamola così, è stato redatto con un notevole input americano. Si tratta di un rapporto fatto di stronzate», dice anticipando le rivelazioni in arrivo sul suo libro.

L'amministrazione Obama mente sistematicamente, sostiene, ma nessuno dei leviatani dei media americani, né le reti televisive né le grandi testate della stampa, osa sfidarla.

«È una cosa patetica, sono più che ossequiosi, hanno proprio paura di prendersela con questo ragazzo [Obama]», dichiara nel corso di un'intervista con il Guardian.

«Era così quando ti trovavi in una situazione in cui era accaduto qualcosa di assai drammatico, il presidente e gli scagnozzi attorno a lui avevano il controllo della narrazione, sapevi abbastanza bene che avrebbero fatto del loro meglio per raccontare direttamente la storia. Ora questo non succede più. Adesso si avvantaggiano di qualcosa di simile e progettano il modo per rieleggere il presidente».
Non è nemmeno sicuro del fatto che le recenti rivelazioni sulla profondità e l'ampiezza della sorveglianza da parte della National Security Agency (NSA) possano avere un effetto duraturo.


Snowden ha cambiato il dibattito sulla sorveglianza

È certo che la talpa della NSA Edward Snowden «ha cambiato l'intera natura del dibattito» sulla sorveglianza. Hersh afferma che lui e altri giornalisti avevano scritto sulla sorveglianza ma Snowden è stato fondamentale perché ha fornito prove documentali – sebbene Hersh sia scettico sul fatto che le rivelazioni possano cambiare la politica del governo USA.

«Duncan Campbell [il giornalista investigativo britannico che ha fatto uscire allo scoperto la storia dell’insabbiamento del caso Zircon], James Bamford [giornalista USA] e Julian Assange, nonché il sottoscritto e il New Yorker, tutti noi abbiamo scritto il concetto secondo cui esiste una sorveglianza costante, ma lui [Snowden] ha esibito un documento, e questo ha cambiato l'intera natura del dibattito: è una cosa reale, adesso», dichiara Hersh.

«I redattori amano i documenti. I redattori da due soldi che non avrebbero toccato storie del genere, amano i documenti, così lui ha cambiato l’intero movimento della palla», aggiunge, prima di specificare ulteriormente le sue osservazioni.

«Ma non so se tutto questo andrà a significare qualcosa a lungo [termine], a causa dei sondaggi che vedo in America: il presidente può ancora dire agli elettori ‘al- Qaida, al-Qaida’ e scommetto due a uno che il pubblico voterà per questo tipo di sorveglianza, il che suona così idiota», commenta Hersh.

Tenendo banco davanti a una platea gremita presso la scuola estiva della City University di Londra sul giornalismo investigativo, il 76enne Hersh va a tutto gas, un vortice d’incredibili storie su com’era il giornalismo di una volta, su come ha esposto il massacro di My Lai in Vietnam, su come ha ottenuto le immagini di Abu Ghraib dei soldati americani che brutalizzavano i prigionieri iracheni, e su cosa pensa di Edward Snowden.


Speranza di redenzione

Nonostante la sua preoccupazione per la timidezza del giornalismo, ritiene che il mercato offra ancora speranze di redenzione.

«Io ho questa sorta di visione euristica sul giornalismo, forse possiamo offrire speranza, perché il mondo è chiaramente gestito più che mai da completi mentecatti... il giornalismo non è sempre meraviglioso, non lo è, ma almeno offriamo una via d'uscita, un po’ d’integrità».

Il suo racconto su come ha scoperto le atrocità di My Lai è un esempio del giornalismo vecchio stile, tutto scarpe di cuoio e tenacia. Tornando indietro al 1969, egli ebbe una dritta su un 26enne a capo di un plotone, William Calley, che era stato imputato dall'esercito per un presunto omicidio di massa.

Invece di alzare la cornetta per chiamare un addetto stampa, salì in macchina e cominciò a cercarlo nel campo militare di Fort Benning in Georgia, dove aveva sentito che si trovava in stato di detenzione. Girò porta a porta cercando in tutto il vasto complesso, a volte estorcendo le informazioni lungo la sua strada, in marcia fino alla reception, sbattendo il pugno sul tavolo e gridando: «Sergente, voglio che Calley spunti fuori adesso».

Alla fine i suoi sforzi furono ripagati con la pubblicazione della sua prima storia sul St.Louis Post-Despatch, che fu poi ripubblicata in contemporanea in tutta l'America e, infine, gli valse il premio Pulitzer. «Ho fatto cinque storie. Mi feci pagare cento dollari per la prima, alla fine il [New York] Times pagava 5mila dollari».

Fu assunto dal New York Times per seguire lo scandalo Watergate e la finì braccando Nixon fino in Cambogia. Quasi trenta anni dopo, Hersh ha riconquistato i titoli di apertura a livello mondiale ancora una volta facendo notizia con la sua rivelazione sugli abusi a danno dei prigionieri iracheni ad Abu Ghraib.


Dedicare più tempo

Il suo messaggio per gli studenti di giornalismo è quello di dedicarvi spazio e tempo. Sapeva di Abu Ghraib cinque mesi prima di riuscire a scriverne, dopo aver ricevuto una soffiata da un alto ufficiale dell'esercito iracheno che ha rischiato la propria vita uscendo da Baghdad verso Damasco, per raccontargli di come i prigionieri avevano scritto alle loro famiglie chiedendo loro di venire a ucciderli perché erano stati "violati".

«Ci ho messo cinque mesi a cercare un qualche documento, perché senza un documento non c’è niente, non si va da nessuna parte».

Hersh volge nuovamente il suo sguardo sul presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Aveva già detto in precedenza che la fiducia sul fatto che la stampa americana sfidasse il governo USA sia crollata dopo l’11 settembre, ma è fermamente convinto che Obama sia peggiore di Bush.

«Pensate che Obama sia stato giudicato in base ad un qualsiasi standard razionale? Ha forse chiuso Guantánamo? È per caso finita una delle guerre? C'è qualcuno che stia prestando attenzione all’Iraq? Sta seriamente parlando di andare in Siria?
Non stiamo mica andando tanto bene nelle 80 guerre in cui ci troviamo implicati proprio adesso, perché diavolo vuole invischiarsi in un’altra? Che cosa sta succedendo [ai giornalisti]?» si domanda.

Afferma che il giornalismo investigativo negli USA viene ucciso dalla crisi di fiducia, dalla mancanza di risorse e da un concetto sbagliato di ciò che il lavoro comporti.

«A me sembra che ci sia troppa ricerca di premi. Si tratta di giornalismo alla ricerca del Premio Pulitzer», aggiunge. «È un giornalismo confezionato, in modo da scegliere un bersaglio – non intendo sminuire, perché chi lo fa lavora duro – ma sono percorsi che si attraversano indenni e via dicendo, questo è un problema serio, ma ci sono anche altre questioni.
Ad esempio nell’ammazzare gente: come fa [Obama] a farla franca con il programma dei droni, e perché noi non stiamo facendo di più? Come lo giustifica? Dove sta l’intelligenza? Perché non scopriamo se questa politica è buona o cattiva? Perché i giornali citano costantemente i due o tre gruppi che monitorano gli omicidi tramite droni? Perché non facciamo il nostro lavoro?
Il nostro compito è scoprire noi stessi, il nostro lavoro non consiste solo nel dire ‘qui c'è un dibattito’. Il nostro compito è quello di andare al di là del dibattito e scoprire chi ha ragione e chi ha torto sulle questioni. Questo non avviene abbastanza, costa soldi, costa tempo, mette in pericolo, solleva dei rischi. Ci sono alcune persone – il New York Times ha ancora giornalisti investigativi ma lo fanno molto di più per portare acqua al mulino del presidente di quanto avrei mai pensato che fosse ... è come se non si osasse più essere fuori dal coro».

Ha aggiunto che in qualche misura era più facile scrivere sull'amministrazione del presidente George Bush. «Nell'era di Bush, ho sentito che era molto più facile essere critici rispetto a quella [di] Obama.
È molto più difficile nell'era Obama», ha dichiarato.

Alla domanda “qual è la soluzione” Hersh si accalora nel difendere la sua tesi, ossia che la maggior parte dei redattori sono pusillanimi e dovrebbero essere licenziati.

«Ti dirò la soluzione: sbarazzati del 90% dei redattori che esistono ora e inizia a promuovere redattori che non puoi controllare», dichiara. L'ho visto al New York Times. Vedo che ad essere promosse sono quelle persone che alla scrivania sono più accondiscendenti con l’editore e con quel che vogliono i redattori anziani, mentre quelli che creano problemi non vengono promossi. Inizia a promuovere le persone migliori che ti guardano negli occhi e dicono 'non mi importa quel che dici'.
Né si capisce perché il Washington Post abbia trattenuto i materiali di Snowden fino a quando non ha appreso che il Guardian stava per pubblicarli».

Se Hersh fosse a capo della US Media Inc., la sua politica di terra bruciata non si fermerebbe ai giornali.

«Chiuderei le redazioni dei network, e via, ricominciare tutto, tabula rasa. Alle major, NBC, ABC, non piacerà questo: fare solo qualcosa di diverso, fare qualcosa che faccia arrabbiare delle perrsone con te, questo è ciò che noi dovremmo fare», afferma.

In questo periodo Hersh è in pausa dal suo lavoro di reporter, lavora a un libro che sicuramente risulterà una lettura spiacevole sia per Bush che per Obama.
«La repubblica è nei guai, mentiamo su tutto, mentire è diventato il punto fermo». E implora i giornalisti affinché facciano qualcosa al riguardo.

• Questo articolo è stato modificato il 1 ° ottobre 2013. Il testo originale dichiarava che Hersh ha venduto una storia sul massacro di My Lai al New York Times per 5.000 dollari, quando in realtà si trattava del Times di Londra. Hersh ha sottolineato che non intendeva in alcun modo suggerire che Osama bin Laden non sia stato ucciso in Pakistan, così come riferito sulla scorta all'autorità del presidente: stava affermando che è stato in seguito che la menzogna è cominciata. Infine, l'intervista ha avuto luogo nel mese di luglio 2013.



Traduzione per Megachip a cura di Alex Sfera e Pino Cabras.

Seymour Hersh ha mostrato al mondo il massacro di My Lai durante la guerra del Vietnam, e per quella inchiesta ha vinto il Premio Pulitzer. Fotografia: Wally McNamee / Corbis



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