27 febbraio 2009

Altro che nucleare. La “prossima energia” darà un colpo alla crisi

di Pino Cabras – da «Megachip»


Ahmed Zaki Yamani, l’allora potente ministro del petrolio dell'Arabia Saudita, negli anni settanta diceva che come «l'età della pietra non finì per mancanza di pietre, così l'età del petrolio non finirà per mancanza di petrolio».

Possiamo far nostro il senso di questa battuta con un occhio rivolto alle dinamiche reali dell’economia e dei mercati dell’energia. In tempi di illusioni sull’economia atomica, potremmo dire che nemmeno l’età del nucleare finirà per mancanza di uranio, per quanto sia risorsa finitissima.


Quando una risorsa diventa più scarsa e risulta più costoso produrla, emergono forti segnali di prezzo che cambiano l’orientamento della domanda e fanno emergere prodotti e soluzioni nuove.


Non è solo una questione di materie prime, ma anche di grandi tendenze nell’orientamento di governi, imprese e popolazioni. In nome dell’ambiente è cambiata l’agenda dei governi e delle organizzazioni sovranazionali, con ricadute su ogni livello della vita pubblica e civile. Quando esistono obiettivi come quelli di Kyoto o quelli stabiliti a livello di Unione europea per la riduzione dei gas serra, quando i governi lanciano incentivi mai visti prima per le energie rinnovabili, quando infine i governi locali moltiplicano le iniziative nel settore, tutto ciò vuol dire che è in atto una tendenza robusta che crea nuovi mercati per nuove imprese energetiche.

Non sappiamo se si farà in tempo a salvare il pianeta dalla catastrofe, ma il segnale che viene dalla nuova amministrazione USA – se non altro - travolgerà chi si attarda in soccorso della boccheggiante industria nucleare francese.

Chi produce la prossima energia sta già anticipando il prossimo paradigma, il “change over” dal petrolio verso qualcos’altro. A questo punto, chi lavora sull’idrogeno parla di “economia dell’idrogeno”.

Chi punta sul metanolo – come il Nobel George Olah - divulga a sua volta l’“economia al metanolo”.

Chi è forte sul sole decanta un futuro fotovoltaico oppure solare-termodinamico.

Un brasiliano o un farmer del Midwest statunitense mi magnificheranno le biomasse e l’etanolo.

Un sudtirolese, dall’alto di una casa di nuovissima concezione, mi parlerà del paradigma del risparmio come via maestra del futuro.

Da osservatore del mercato del gas, potrei parlarvi di un “lungo” medio periodo in cui la versatilità del metano sarà la “cifra” del nostro sistema energetico, indispensabile per la transizione verso nuovi equilibri.

Il carbone, ancora stivato in immensi depositi ben distribuiti sui vari continenti, con gli attuali segnali di prezzo, e con le nuove tecnologie a emissioni zero, ispira a molti la visione di una nuova età del carbone.


In realtà l’aumento dei prezzi degli idrocarburi – oggi in pausa per la Grande Crisi, ma presto ci sarà una risalita - non porterà alla sostituzione del petrolio con un’unica nuova fonte universale.


Propriamente, alcune delle soluzioni elencate non sono nemmeno “fonti”, ma “vettori” ricavati da una molteplicità di fonti. Questo significa una sola cosa: che non esiste LA soluzione del problema petrolio, ma LE soluzioni, un portafoglio di soluzioni diverse, in corsa contro il tempo.

Ogni tecnologia di successo nel campo dell’energia sarà un tassello di un mosaico energetico completamente nuovo: la prossima energia.


La prossima energia è quindi caratterizzata da una pluralità di fonti e da una pluralità di vettori, con l’auspicata tendenza a divenire neutrali nell’emissione di gas serra. Non solo, ma è un’energia che viene prodotta tanto in grandi quantità quanto in piccole e diffuse quantità. Da un lato si apre lo spazio alla ricerca e all’avventura imprenditoriale di mille soluzioni tecnologiche diverse.


Dall’altro si pone la sfida di una convergenza di nuovi standard nelle reti di distribuzione, che diventeranno un po’ meno “grid” e un po’ più “web”.


Se le nostre classi dirigenti non fossero così deboli e chiuse, l’Italia sarebbe uno dei luoghi più interessanti al mondo per affermare un nuovo paradigma produttivo energetico. Ha significative risorse sottoutilizzate come il vento e il sole, che renderebbero più diretto il passaggio a un sistema energetico con più vettori (idrogeno, elettricità, metanolo, biomasse), ma ha anche infrastrutture di grande livello per trattare il petrolio e ha anche tra le più avanzate sperimentazioni sul carbone, mentre in prospettiva avrà una disponibilità nuova di gas naturale una volta completati i nuovi gasdotti in programma. Gli elementi per una transizione ben guidata ci sarebbero, senza il rinvio costosissimo a una tecnologia già obsoleta come il nucleare di terza generazione.


L’intero sistema economico – a partire dalle piccole e medie imprese – ha bisogno di acquisire una piena consapevolezza di tutte le implicazioni organizzative, economiche, industriali del nuovo regime energetico, anche in raccordo agli altri sistemi energetici (rete elettrica, trasporti, energie rinnovabili) e al sistema della ricerca. C’è molto fervore di iniziative imprenditoriali nuove e diverse.

Basta guardarsi in giro e si possono facilmente incontrare ogni giorno.

Ci pongono una sfida: farle radicare, crescere, farne dei campioni che abbiano qualcosa da proporre a livello locale, ma in taluni casi anche a livello globale.


L’apparente eterogeneità dei vari settori energetici che si stanno proponendo non deve far dimenticare la presenza di forti e innovative interrelazioni dal punto di vista tecnologico e organizzativo, oltre che da quello della creazione di reti energetiche di nuova concezione per la generazione distribuita, uno dei campi più promettenti a livello mondiale.

La sfida è paragonabile a quella dello sviluppo del World Wide Web.


Le carte sono da giocare ora per posizionarsi in testa a questo cambiamento, anziché sprecare tutto in un declino che sarebbe pagato caro per secoli.


Invece di buttare miliardi di euro in una vacua “azione parallela” alla Musil, quale sarebbe questo nucleare in salsa transalpina, molti progetti di nuove imprese energetiche potrebbero essere invece inseriti in un programma di investimenti industriali di tipo nuovo: un programma tutto incentrato sulle infinite applicazioni che producono e risparmiano energia con sistemi innovativi e puliti, realizzando appieno le tecnologie esistenti con acquisizioni e collaborazioni nazionali e internazionali. Ciò farebbe bene alla ricerca, la grande negletta del nostro paese, assieme all’istruzione tutta. E farebbe bene a quei settori che davvero innovano e hanno un qualche futuro.

Mentre il nucleare ora presentato è un trasferimento di denaro alla ricerca già fatta in Francia, le tecnologie energetiche alternative hanno alcune caratteristiche dinamiche in comune:


  • innovano il processo produttivo e il prodotto;

  • hanno un grande potenziale di attrazione di ricerca e fra i ricercatori danno vita a network creativi;

  • si legano fra di loro con un sistema di generazione distribuita dell’energia, che significa meno centrali-monstre da presidiare con i soldati e più capacità diffusa di raggiungere la sicurezza energetica.

Senza il grande equivoco nucleare, i “Grandi progetti” nel settore energetico possono integrarsi e radicarsi con i tanti bellissimi “piccoli progetti”.


Qualche anno fa l’allora Segretario statunitense all’Energia, Spencer Abraham, poteva permettersi di definire con una certa ironia le fonti rinnovabili come «the undiscovered energy sources». Ma poi perfino lui ha investito, e tanto, anche in queste fonti. Obama punta su di esse per evitare che il suo paese precipiti nella grande depressione.

Dove queste sfide sono state affrontate con più tempestività e lungimiranza, come in Germania e in una parte stessa degli Stati Uniti, ciò ha permesso di assumere una leadership mondiale di settore. Il vento e il sole sono cambiati anche qui, la prossima energia non è certo “undiscovered”.

Anche qui è il momento di incoraggiare innovatori con solide basi scientifiche a cui chiedere coraggio imprenditoriale e senso dell’occasione storica.


Purtroppo la classe dirigente è quella che è.

24 febbraio 2009

Tra 11/9 e Ruanda. L’incidente dei processi che non s’hanno da fare

di Pino Cabras - da «Megachip»

Eckert-BeverlyErano due donne coraggiose. Si trovavano entrambe coinvolte nel tentativo di far partire dei processi su due distinte vicende di stragi, due casi terribili e pieni di implicazioni politiche, molto scomode per certi poteri, ossia le stragi dell’11 settembre 2001 e le stragi in Africa centrale. Non hanno fatto in tempo a vedere un’ulteriore fase processuale con tanto di atti di citazione, deposizioni sotto giuramento, procedure rivelatrici. Non potranno vedere tutto questo perché sono morte lo stesso giorno, il 12 febbraio 2009, nello stesso incidente aereo, quello del volo 3407 Continental Connection, precipitato su un sobborgo di Buffalo, NY, USA.

Arriveremo a ricordare chi erano queste due signore. Finora ci si dice che il ghiaccio sulle ali è stato la causa della sciagura in cui hanno perso la vita, assieme ad altre 47 persone. Qualcuno, però, come il «Times», ha cominciato a riportare il “mistero” di alcune circostanze dell’incidente, avvenuto con inspiegabile - per ora - subitaneità.

Una volta saputo chi sono le vittime, il profilo delle due donne più note ci pone subito qualche domanda sui dettagli del disastro, essendoci ormai abituati a notare troppi casi di prematura scomparsa legati alle vicende della Guerra Infinita.

Una delle due figure chiave è quella di Beverly Eckert. Suo marito era morto nel mega-attentato alle Torri gemelle. Per i familiari di ciascuna delle vittime dell’11/9, l’amministrazione Bush-Cheney non aveva badato a spese, arrivando a stanziare quasi 1,8 milioni di dollari per ogni caduto. In tutto, la compensazione a beneficio dei familiari delle vittime superava i 4 miliardi di dollari. C’era però una condizione. Per ottenere la somma sull’unghia, le famiglie dovevano esplicitamente rinunciare a perseguire qualsiasi ente americano (dal governo sino alle compagnie aeree). Lo USA Patriot Act bloccò per legge anche le possibili cause intentate nei confronti di aziende di sicurezza estere. I familiari delle vittime in stragrande maggioranza accettarono. Questo ‘bailout del silenzio’ risparmiò molte rogne alla premiata ditta Bush-Cheney.
volo-3407
Beverly Eckert invece si rifiutò di rinunciare alla ricerca della verità. Unendosi alle «Voci dell’11 settembre», disse a chiare lettere che non barattava il suo mutismo con i dollari del governo: «Il mio silenzio non si compra». Con quel pervicace impegno che abbiamo conosciuto in tanti casi in cui le madri e le mogli delle vittime hanno impedito che il potere evitasse di fare i conti con le sue responsabilità (quel genere di implacabile insistenza che abbiamo apprezzato ad esempio nelle madri di Plaza de Mayo nell’Argentina dei desaparecidos), anche la signora Eckert era diventata un’attivista energica impegnata in una causa difficile: la riapertura delle indagini sull’11/9. Con altri componenti del “Family Steering Committee” a suo tempo aveva redatto una lista di 100 domande da presentare alla Commissione sull’11/9. Insabbiate.

Essendo ovviamente insoddisfatta di quanto era uscito da quel porto delle nebbie, per smuovere le acque puntava molto in alto, a Washington. Solo una settimana prima di morire aveva ricevuto udienza dal presidente Obama per proporgli l’istituzione di una commissione federale, con poteri più penetranti sui testimoni da coinvolgere, a partire da Bush e Cheney.

Il movimento della Eckert premeva affinché non ci fosse nessuna remora per citare in una corte l’ex presidente, il suo potente vicepresidente, nonché tutti i massimi responsabili degli apparati d’intelligence e della sicurezza nazionale. La sua battaglia non si limitava a questo. Era sua anche la richiesta di declassificare quei documenti che sarebbero stati in grado di fornire alcuni definitivi chiarimenti sui fatti. L’impegno legale di Beverly Eckert spaziava fino alla contestazione dell’irregolarità che inficiava i tribunali speciali di matrice militare, quelle commissioni che portavano avanti l’abominio dei processi senza ‘habeas corpus’ a carico dei presunti terroristi, non solo quelli di Guantanamo. Sebbene il potere avesse sinora opposto resistenze legali efficaci rispetto alla sua azione, l’impegno di Beverly riusciva ad avere ancora un certo rilievo mediatico.

AlisonDesForgesInteressante anche il profilo dell’altra vittima eccellente dell’incidente aereo. Si tratta di Alison Des Forges. Era un’eminente consulente del Tribunale Internazionale dell’ONU che ha in carico i processi contro le autorità imputate dei genocidi dell’Africa centromeridionale, in Ruanda, Burundi e Congo. Profonda conoscitrice della storia dell’area dei Grandi Laghi africani, fin da subito fu capace di attirare i media e le istituzioni a livello internazionale affinché considerassero l’immane strage africana. Le sue deposizioni giurate furono molto rilevanti in occasione di decine di processi per genocidio presso alcune corti nazionali. Ma per lei il bersaglio grosso da raggiungere era un’affermazione internazionale del diritto umanitario.
Il suo libro sulla vicenda del Ruanda – il volume di riferimento su quel genocidio - aveva un titolo che, a questo punto, non può far altro che inquietarci ancora di più: “No witness must survive”. Nessun testimone deve sopravvivere. È stato anche il suo epitaffio.

Due donne coraggiose, impegnate contro poteri e complicità molto altolocate, hanno dunque perso la vita per straordinaria coincidenza nella stessa occasione, ossia il primo incidente aereo letale da oltre due anni negli Stati Uniti. Uno scherzo del destino che si è divertito a rallentare o accelerare l’agenda delle due signore, fino a trovare l’occasione giusta.
La causa dichiarata dell’incidente occorso al Dash 8Q-400 della Bombardier, ossia il ghiaccio sulle ali, si sarebbe determinata nonostante i piloti assicurassero – come risulta dalle registrazioni – di aver messo in funzione tutti i dispositivi, che evidentemente non hanno però funzionato.

20 febbraio 2009

Une coalition internationale d’hommes politiques veut la vérité sur le 11 Septembre

Publié le 19 février 2009 par GeantVert - ReOpenNews [ici]




Après la mobilisation purement new-yorkaise née l’été dernier et connue sous le nom de New York City 9/11 Ballot Initiative, dont le but est de se donner les moyens référendaires de demander une nouvelle enquête sur le 11-Septembre, voilà que des hommes politiques de plusieurs pays différents montent au créneau et rassemblent leurs efforts avec cet objectif nouveau : alerter des hommes politiques de tous horizons pour qu’ils les rejoignent en signant la pétition demandant une véritable enquête indépendante sur les événements du 11/9. Verrons-nous y apparaître des noms français ?

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par Pino Cabras pour Megachip le 15 février 2009

Peu de parlementaires dans le monde ont critiqué de façon ferme la version officielle sur les événements du 11 Septembre. Pourtant, ces quelques personnalités politiques, venant de partis et de nations différentes, ont trouvé le moyen de se coordonner pour renforcer leur action et rouvrir l’enquête sur les méga-attentats du 11/9, pierre angulaire de ce nouveau siècle et de ses guerres.

Les assemblées électives – dans leur approche des campagnes de violence des années 2000 – n’ont pas mis en place des enquêtes comparables à celles que l’Italie a connues voici quelques décennies. On comprenait alors la complexité des phénomènes et on cherchait par conséquent à fouiller dans les complicités de l’État conditionnées par la « Stratégie de la tension » (A ce sujet, lire l’ouvrage de Daniele Ganser : Les armées secrètes de l’OTAN, NdT).

Les commissions parlementaires italiennes, même si elles ne constituaient pas un tribunal capable d’apporter une vérité juridique et de « rendre la justice », étaient malgré tout en mesure de barrer la route aux velléités du pouvoir de faire porter la faute à quelque bouc émissaire. Des mouvements importants, de nombreux journaux et hommes politiques de premier plan créaient ainsi une conscience collective extrêmement forte. La recherche de la vérité sur le terrorisme se faisait sur un terrain éthique et politique de première importance, et était ressentie comme telle par une large portion de l’opinion publique, des médias et des forces politiques.

Ces dernières années, au contraire, c’est la ligne «Rumsfeld» qui l’a emporté. Les députés se sont réfugiés derrière les mots d’ordre imposés par la version officielle sur le 11/9, qui n’est autre que celle de l’Administration Bush-Cheney et de ses officines de propagande.Et pourtant, dans bien des assemblées et articles de presse, des voix importantes se sont élevées obstinément pour défendre avec force la nécessité d’une nouvelle enquête. Le réseau à travers lequel ces voix se coordonnent désormais s’appelle «Political Leaders for 9/11 Truth», autrement dit «Les leaders politiques pour la vérité sur le 11-Septembre.» Le premier noyau de parlementaires ou ex-parlementaires de cette coalition comprend, parmi ses fondateurs, les personnalités suivantes:
Berit Ås, ex-parlementaire, Norvège
Andreas von Bülow, ex-ministre de la Défense, Allemagne
Giulietto Chiesa, euro-député, Italie
Yukihisa Fujita, membre de la Chambre des Conseillers du Parlement national, Japon
Dan Hamburg, ex-membre du Congrès, État de Californie, USA
Tadashi Inuzuka, membre de la Chambre des Conseillers du
Parlement national, Japon
Karen S. Johnson, ex-sénatrice, État de l’Arizona, USA
Paul Lannoye, ex-euro-député, Belgique
Cynthia McKinney, ex-membre du Congrès, État de Géorgie, USA
Michael Meacher, ex-ministre de l’Environnement, Grande-Bretagne
Jesse Ventura, ex-gouverneur de l’État du Minnesota, USA

L’ouverture d’un site Web qui présentera les objectifs de ce groupe est imminente. En attendant, vous pouvez lire ci-dessous, sa «carte d’identité» et la pétition qu’il a lancée pour une nouvelle enquête.

Political Leaders for 9/11 TruthE-mail : pl911truth@frontiernet.net
Des chercheurs et des professionnels de différentes catégories - parmi lesquelles des architectes, des chimistes, des ingénieurs, des pompiers, des agents du Renseignement, des avocats, des militaires de carrière, des philosophes, des physiciens et des pilotes d’avion – ont fait part ouvertement des différences criantes entre la version officielle des attentats du 11/9 et leur compréhension des faits en tant que chercheurs indépendants. Ils ont établi au-delà de tout doute raisonnable, que la version officielle sur le 11/9 est un mensonge, et que par conséquent, les « enquêtes » officielles ont été de réelles opérations de camouflage.

Pourtant, à ce jour, aucune réponse n’est venue des leaders politiques de Washington, ni d’ailleurs d’aucune capitale dans le monde. Notre organisation «Political Leaders for 9/11 Truth» (les leaders politiques pour la vérité sur le 11-Septembre) a été créée dans le but d’exiger une telle réponse.
Nous sommes convaincus que la vérité sur le 11/9 doit être révélée maintenant – pas dans 50 ans, dans une note de bas de page d’un livre d’histoire – de manière à pouvoir changer les politiques fondées sur l’interprétation des attaques du 11/9 de la part de l’Administration Bush-Cheney.Nous appelons donc à une nouvelle enquête indépendante sur le 11/9, qui prenne en compte les éléments de preuve documentés par des chercheurs indépendants, jusqu’ici ignorés par les gouvernements et les mass-médias.

Par «enquête indépendante», nous entendons en particulier, indépendante des administrations américaines au pouvoir avant et pendant les attentats du 11/9, et qui pourraient avoir quelque chose à cacher.
Comme démontré par Philip Shenon du New York Times dans son livre «The Commission», la Commission sur le 11/9 avait pour directeur exécutif Philip Zelikow, lequel était un proche de l’Administration Bush. Le National Institute of Standards and Technology (NIST), qui a rendu son rapport officiel sur la destruction du World Trade Center, est en fait une agence du Ministère du Commerce américain, ce qui signifie que la rédaction de ce rapport a été faite par une agence de l’Administration Bush-Cheney.
Si vous exercez actuellement - ou avez exercé – des fonctions politiques aux États-Unis ou dans tout autre pays, nous vous invitons à signer la pétition mentionnée ci-dessous (notez bien que le fait de participer à Political Leaders for 9/11 Truth signifie simplement, signer cette pétition, rien d’autre ne vous sera demandé, même si par la suite, des actions pour diffuser la vérité sur le 11/9 seront naturellement encouragées)
Vous pouvez indiquer votre disponibilité à signer la pétition en envoyant un email à l’adresse pl911truth@frontiernet.net ou bien par lettre postale à Political Leaders for 9/11 Truth, P.O. Box 2289, Show Low, AZ 85902 U.S.A.

Nous vous demandons d’indiquer précisément votre nom, vos fonctions politiques, ou toute autre information que vous voudriez voir mentionnée).


PÉTITION


CONSIDÉRANT que l’interprétation officielle des attentats du 11-Septembre de la part de l’Administration Bush-Cheney a eu des conséquences radicales, en grande partie négatives, pour les États-Unis et dans le monde entier;

CONSIDÉRANT que les enquêtes officielles sur ces attaques effectuées jusqu’à maintenant ont été dirigées par des personnes étroitement liées à l’Administration Bush-Cheney, ou de surcroit employées par elle;
CONSIDÉRANT que les conclusions des dites enquêtes diffèrent radicalement de celles auxquelles sont parvenus des chercheurs indépendants, ayant des expériences professionnelles diverses;

CONSIDÉRANT que les organisations de chercheurs comme «Firefighters for 9/11 Truth, Lawyers for 9/11 Truth, Pilots for 9/11 Truth, Scholars for 9/11 Truth and Justice, and Veterans for 9/11 Truth » ont demandé une nouvelle enquête, véritablement indépendante;

CONSIDÉRANT que nous pensons que suffisamment de temps ait été laissé aux leaders politiques pour qu’ils prêtent attention à ces appels;
POUR TOUTES CES RAISONS, les soussignés membres de « Political Leaders for 9/11 Truth », demandent que le gouvernement des États-Unis d’Amérique autorise une nouvelle enquête, véritablement indépendante, pour déterminer ce qui s’est réellement passé le 11 septembre 2001.

Traduction de Christophe.T pour ReOpenNews

Notes de ReOpenNews: Lire aussi les témoignages de "Plus de 750 personnalités internationales remettent en cause le rapport de la Commission d’enquête sur le 11 septembre", (traduction française par Vigli.org)

19 febbraio 2009

La Corte di Strasburgo ha già detto no alla carcerazione per intercettazioni

di Pino Cabras - da «Megachip»



L’Europa dei diritti dell’Uomo dice no al carcere per i giornalisti. Il governo italiano vorrebbe punire con la detenzione i cronisti che pubblicano le intercettazioni soggette a segreto. Ma un simile provvedimento sfiderebbe una sentenza della Corte di Strasburgo che ha già condannato analoghe sanzioni. Ne parla l’associazione internazionale per la libertà di stampa, Information Safety and Freedom (Isf). «La sentenza emessa a carico della Francia dalla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo il 7 giugno del 2007 sul caso Dupuis - precisa Isf - ha già chiarito che la pubblicazione di intercettazioni e atti secretati non viola l’articolo 10 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali».

La vicenda richiamata è quella di due giornalisti francesi. Isf ricorda che nel loro paese furono condannati anche in secondo grado per aver divulgato in un libro alcune intercettazioni effettuate in modo illegale dal presidente François Mitterrand e soggette al segreto istruttorio.

«La Corte osserva che quel libro riguardava una questione di rilevante interesse politico per l’opinione pubblica e che si trattava di un affare di stato e osservava che l’articolo 10 della Convenzione “non lascia spazi a restrizioni della libertà di stampa nell’ambito di questioni politiche e di interesse generale”».

Le sentenze di questa Corte, pur non avendo lo stesso significato imperativo delle sentenze emesse dalla Corte di giustizia delle Comunità europee (quella di Lussemburgo), sono tuttavia il più autorevole presidio dei diritti umani in Europa. Uno dei 47 stati membri del Consiglio d’Europa – putacaso l’Italia - che dovesse fronteggiare una valanga di denunce a Strasburgo - per esempio di giornalisti ed editori - si troverebbe in una situazione politicamente e alla fine giuridicamente difficile da sostenere. È bene che le organizzazioni categoriali si attivino subito in sede di giudizio per prevenire le violazioni della legalità europea poste a tutela della libertà di espressione.

18 febbraio 2009

Sardegna espugnata e prospettive europee

di Pino Cabras - da «Megachip»



CAGLIARI - Le elezioni sarde sono state vinte dalla coalizione raccolta intorno al simbolo che urlava “Berlusconi Presidente”. Quello sardo è un altro scudetto per lo specialista in campagne elettorali, affrontate ogni volta con risorse virtualmente illimitate in grado di saturare la sfera del dibattito pubblico con la forza soverchiante del suo apparato. Il centrosinistra ha perso, il Pd è sprofondato, e la china è quella che lo porterà giù fino alle europee, forse un capolinea.

soru-sardegnaIn questo contesto Renato Soru ha intercettato molti più voti del sistema dei partiti a lui legato. Mentre la somma dei partiti di centrosinistra veniva surclassata di 14 punti percentuali, il candidato alla presidenza ha portato in dote abbastanza voti da ridurre il distacco a 9 punti dall’avversario Ugo Cappellacci, troppi comunque.
Segno che - per questo centrosinistra in rotta - una personalità che indica temi forti riesce a migliorarne le sorti, ma certo non abbastanza da rovesciarle. Non basta, perché questo sistema di partiti rimasto a sinistra di Berlusconi ha consumato fino in fondo i suoi insediamenti sociali tradizionali, e perché il terreno della comunicazione è presidiato ferramente dal sistema di potere legato al Cavaliere insaziabile, che intanto ha sistemato un altro tassello per il passaggio alla sua Terza Repubblica.
L’emergenza democratica si acuisce.

Di fronte a sconfitte così nette le riflessioni sulle cause devono andare in più direzioni. Alcune portano lontano. Hanno pesato i limiti specifici dell’esperienza di governo di Soru. L’ex presidente della Regione Sardegna stava riorganizzando il sistema di comando secondo lo schema della “verticale del potere” che ha premiato Putin in Russia, Nazarbaev in Kazakhstan e Chavez in Venezuela. È un sistema che aumenta l’efficienza delle decisioni, ma funziona se c’è un ampio consenso di dimensioni plebiscitarie.
A Mosca, Astana e Caracas il lubrificante del consenso è dato dagli idrocarburi. In Sardegna non c’è petrolio.
L’unzione dei meccanismi plebiscitari è invece saldamente in mano a Silvio Berlusconi, con i suoi enormi giacimenti di comunicazione. Non è nemmeno una questione di una campagna elettorale alterata dalla sua schiacciante presenza informativa. La sua presa sulle menti non si riduce certo al minutaggio dei telegiornali.
Faccio l’esempio di una cosa a cui ho assistito personalmente. Quando lo sconosciuto cantante cagliaritano Marco Carta ha vinto l’edizione 2008 del talent show Amici di Maria De Filippi - ‘casualmente’ in prospettiva delle elezioni sarde - si scatenò un’isteria collettiva. L’arrivo di Carta all’aeroporto di Elmas fu accolto da migliaia di ragazzine e dalle loro mamme sgomitanti, che bivaccavano da ore per accaparrarsi il posto migliore, con accenni di rissa per qualche prevaricazione nella fila.
Pochi giorni dopo Mediaset organizzò in tutta fretta da Cagliari la trasmissione speciale in prima serata di un concerto di Carta, accompagnato da vari big della musica leggera italiana che consacravano l’iniziazione alla mediocrità di massa del ragazzo-che-emerge-in-tv. A parte i telespettatori, nella piazza del concerto c’erano oltre 70mila persone, molte delle quali piantonavano il loro cantuccio dalla notte prima. Non ho visto bivacchi altrettanto estesi per difendere la scuola sotto attacco. Per molti era il primo evento collettivo cui partecipavano. Una grande porzione delle nuove generazioni sarde veniva battezzata a un rito sociale Mediaset. In altri momenti e in altre forme accadeva lo stesso presso altre porzioni della società italiana. Bertinotti proprio in quei giorni consumava le sue ultime cartucce a Porta a Porta.

In Sardegna il centrodestra trionfante promette sviluppo e crescita. Parte di questa promessa si tradurrà in un tentativo di rilanciare in grande stile l’industria edile. Le rigide norme paesaggistiche imposte dal comando di Soru saranno sacrificate. Dato il contesto della Grande Crisi mondiale, il sacrificio non varrà la pena. Ammesso che la crescita sia ancora un obiettivo desiderabile, non c’è spazio per essa.
Lo sboom immobiliare della Spagna oggi ci racconta quanto siano illusori certi exploit.
E questo è ancora più evidente guardando al contesto italiano, in vista della “tempesta perfetta” che presto addenserà tutti gli effetti della depressione economica globale sulle debolezze strutturali del Bel Paese. Non c’è ormai dubbio che sarà questa destra a farsi carico del declino dell’Italia. Il paesaggio istituzionale, il sistema dei valori, il racconto che questo Paese farà di se stesso nei prossimi anni, tutto scaturirà dalle pulsioni contrastanti e contraddittorie tenute insieme dal titanismo berlusconiano, proprio nel momento in cui la dimensione della tempesta minaccerà la tenuta dell’insieme. Sarà una società più cattiva, direbbe Maroni.

Chi proporrà un’alternativa a tutto questo, in un momento così difficile? Ora che si avvicinano a grandi passi le elezioni europee, la domanda è un dito nella piaga.

floresHo letto l’appello di Paolo Flores d’Arcais per una “lista civica nazionale” da proporre alle europee. Il fondatore di «MicroMega» coglie nel segno quando denuncia l’enorme – praticamente irreversibile - crisi di rappresentatività del Pd e quando postula l’esistenza di un elettorato che invece sta cercando qualcos’altro. Potremmo dire lo stesso dal punto di vista dell’elettorato ancora spaesato dalla disfatta delle liste dell’Arcobaleno.
Un elettorato di opposizione che percepisca la concreta possibilità di consistere in sé e per sé e difenda la Costituzione sotto scacco: questa sarebbe la sfida, sostenuta da ampie e ragionevoli basi, per chi volesse far quagliare un movimento nuovo.
Solo che questa sfida ha bisogno di tempi e gradazioni che hanno gittate non facili da prevedere. Sicuramente il tempo che ci separa dalle elezioni europee è così poco da dover spingere a non sprecare energie nell’inane tentativo di ricomporre tutto il domino, ancora a soqquadro.
A mio modesto avviso c’è appena il tempo per scegliere pochissimi temi, purché ci sia un soprassalto di apertura e lealtà fra gli spezzoni di movimenti che vogliano intraprendere un progetto di respiro nazionale da portare avanti con una certa fermezza condivisa.

Le tessere fuori posto del domino sono davvero tante, troppe: spezzoni orgogliosi d’identità incapaci d’espandersi, intransigenze non portate a conciliarsi, priorità diverse dei vari gruppi, immaturità istituzionale (che in zona Grillo dilaga), sospetti sostenuti da un pluridecennale know-how del gioco in solitario.
Flores apre una generosa linea di credito ad Antonio Di Pietro, buttandosi in uno dei terreni più accidentati che si possano immaginare nella politica italiana.

Chiunque si cimenterà con una lista di nuovo tipo dovrà tenere conto di alcune questioni di fondo. Un elemento d’identità forte e unificante dovrebbe essere una consapevolezza che oggi non ha il Pd, non hanno i rottami istituzionali dell’Arcobaleno, ma ha certamente Tremonti (scusate la mostruosa semplificazione): oggi c’è una crisi globale, un diluvio che cambia tutti i giochi e richiede alla politica di costruire ripari e mezzi di trasporto adatti. Nella rapida distruzione, i Cofferati scappano, i Veltroni urlano degli sterili “inaudito!” fino a scappare anche loro, i Fini s’inabissano; i Tremonti sono invece lì a dire: ci proviamo noi a costruire il riparo.
Chi vorrà sfidare questo stato di cose dovrà svelare la natura del riparo offerto dai timonieri della Grande Crisi, e proporre alcune novità – una diversa idea di riparo e transizione – a difesa della società. Ad esempio sul terreno dell’economia. Su questo fronte la consapevolezza, oltre al riparo, dovrebbe alludere all’àncora: ancorare la finanza alla realtà, alla materialità insopprimibile della vera economia-ecologia.

La consapevolezza dei tempi eccezionali dovrebbe essere molto netta in tema di pace e di funzione delle organizzazioni internazionali. Un no deciso all’espansione della Nato, un no a ogni copertura della guerra afghana, un no alla costruzione di nuove infrastrutture militari offensive (a Vicenza come in Polonia), un sì alla ricerca negoziata di nuovi accordi di sicurezza collettiva che aumentino la fiducia nel teatro europeo e non solo, un sì a nuovi accordi strategici su finanza, trasferimento tecnologico, energia, trasporti, ambiente (con effetti equilibranti positivi “anticiclici” per l’economia reale in caduta e per la transizione verso un sistema produttivo meno dissipativo).

È significativo, da questo punto di vista, che il Partito democratico in Italia arranchi, mentre l’omologo giapponese ha il vento in poppa, perché ha preso di petto tutte queste faccende.

La questione è talmente importante da avere implicazioni unificanti “multidisciplinari” per varie sensibilità dei movimenti che potrebbero accostarsi alla lista. Purché se ne discuta con vera apertura.

Il precipitare della crisi mette in discussione le conquiste sociali del Novecento e gli assi culturali e politici che le sostenevano. Il “sogno europeo” è ancora vivo, ma dovrà riaversi dalle sue grandi ferite e dai suoi difetti.

Le ferite, quelle ideologiche inflitte dalla schiacciante egemonia del neoliberismo ora vedono scomparire il feritore, che però nel frattempo ha cambiato/tagliato la testa e la struttura degli smarriti partiti di matrice riformista. I difetti, quelli di un modello comunque affidato a una crescita indefinita che oggi non si sostiene più, pesano sulla prospettiva delle conquiste sociali. La difesa non basta. Occorre ripensare il modello economico verso un paradigma ambientale stazionario, in cui l’impatto ambientale sia autenticamente sostenibile, ispirato a uno stile di vita che si richiama a scelte di “semplicità volontaria”, sobrietà, decrescita mirata, società dei “2000 watt a testa”. È un campo di riforme che crea molto lavoro e mette ancora al centro l’homo faber, non è una resa al pauperismo.

Oggi c’è in giro un richiamo nostalgico al Piano Delors. È molto probabile che si cercherà di lanciare qualcosa di simile in chiave keynesiana per dare una qualche risposta alla Grande Crisi, mentre incombono anche la crisi ambientale e quella energetica. I venditori di soluzioni nucleari e di alte velocità saranno della partita. Bisogna essere pronti a rivendicare un progetto europeo alternativo, altrettanto vasto e altrettanto ambizioso tecnologicamente, ma più legato al paradigma Negawatt che a quello Megawatt.

Gli elementi programmatici forti sono dunque ben rinvenibili nei movimenti che aspirano a ricostruire una politica non subalterna al sistema di potere berlusconiano. Alcune cose le ho citate. La questione ambientale legata al tema della pace è un tema essenziale per le riforme, ed è ormai uno dei punti più deboli degli pseudo riformisti del Pd, tanto che si aprono spazi enormi per chi saprà riproporla.

Altro tema forte è quello di una legalità e una giustizia da ricostruire contro l’assalto di cosche, affaristi irresponsabili e un ceto politico degradato. È un campo in cui un bacino elettorale pulito continua ad esistere. Questo bacino elettorale guarda con sgomento ai partiti d’abituale riferimento, osserva con attenzione le proposte politiche alternative (da Di Pietro a Grillo all’agitazione laica post-girotondi, così come le proposte nient’affatto sprovvedute che vengono da destra), ma non trova una vera proposta unificante con un aggancio istituzionale rappresentativo. I referendum spesso sono un vicolo cieco.
Rimane sullo sfondo il tema di una lista che dia una sponda sicura a tutto questo.

di_pietroComunque la giriamo, il peso del partito di Di Pietro risulta determinante e condizionante.
Istituzionalmente è sulla cresta dell’onda, grazie alla nullità del Pd. Mentre sui contenuti – impiegati con distacco a volte cinico - agisce usando la rapidità degli imprenditori: fa “affari politici“ velocemente, in modo sostanziale e spregiudicato. Così il partito stabilisce significative relazioni con intellettuali e gruppi. Lo sappiamo bene.
Come porsi nei confronti di quest’agile “azienda del consenso”?
Una soluzione sarebbe non allearsi. Rimarrebbe una forte capacità concorrenziale autonoma del partito di Di Pietro. Il peso elettorale alternativo al Pd risultante non sarebbe enorme, ma comunque avrebbe un qualche consolidamento intorno alla macchina politica dipietrista.

Una seconda soluzione sarebbe un’alleanza fra potenze catafratte, con i simboli elettorali affiancati, ma il timoniere dell’Italia dei Valori ha sperimentate capacità di cavillare il modo per capitalizzare la sua separatezza, come ha fatto dopo altri patti.
Flores D’Arcais propone un’alleanza meno notarile e più capace di mescolare società civile e partito, ma il tempo di cottura a disposizione per questa pietanza sembra poco.

Infine ci sarebbe la soluzione di una lista in cui si investe un po’ di più sulla prospettiva e si mescolano meglio i colori. Questo, dopo aver ben chiaritola parte degli accordi legali: in questi tempi così è, se ci pare. Niente nomi di leader nelle liste. Punti politici? Un punto politico per l’Italia (“le buone leggi ci difendono dalla Casta”, perciò offriamo un’alternativa al farsi cooptare nel sistema di potere del longevo Re Sole). Punti politici per l’Italia in Europa: “un’economia più semplice, stabile e sicura, ancorata alla realtà”, “l’Europa delle reti pulite e del lavoro nuovo”, “dopo la politica della paura, nessuna paura della politica” (un po’ legnoso, potrebbe essere anche: “è il tempo di guadagnare dalla pace”).
Di Pietro potrebbe esercitare la sua influenza sulla scala dei suoi mezzi in merito al primo punto, altri potrebbero legare i temi degli altri punti.
È una cosa possibile? Servirebbero alcuni passi in avanti e alcuni passi indietro, atti di generosità politica da pronunciare in modo trasparente. Che so.. un Di Pietro che faccia un qualche atto di riparazione rispetto alle precedenti elezioni europee. Difficile. Oppure un Grillo che proclami una tregua rispetto a certe sue insofferenze istituzionali. Molto difficile. Ovvero i movimenti locali che s’impegnano con forza in una prospettiva nazionale. Arduo.

In ogni caso ci vorrebbe un gruppo di personalità indipendenti (ma chi lo promuove, Paolo Flores, tu?) capace di farsi garante di ogni operazione di convergenza di fronte a tutti i settori di elettorato che potrebbero guardare con favore a questa ipotesi.

Di Pietro, da solo, non solo non è in grado di catalizzarli tutti, ma non può nemmeno offrire garanzie. Dovrebbe far sapere al mondo se vuole gettare il dado per diventare parte magna di una nuova opposizione, oppure se aspetta il prossimo turno, quando il PD sarà scomparso dalla scena e ci sarà un generale rimescolamento delle carte. La prima variante ha probabilità di realizzazione minime. La seconda servirebbe solo a lui, a Di Pietro, per navigare a vista prima di essere, a sua volta, speronato dal Padrone. O comprato dallo stesso.

Però varrebbe la pena esplorare subito la possibilità dell’operazione lista, per decidere a breve se serve spenderci del tempo, oppure se quel tempo vada adoperato meglio per attrezzarsi a un durevole viaggio, lungo un deserto vagamente fascista.
Che ne pensate?

16 febbraio 2009

Una coalizione internazionale di politici vuole la verità sull’11/9

di Pino Cabras - da «Megachip»



Nel mondo pochi parlamentari hanno tenuto ferma una visione critica nei confronti delle versioni ufficiali sui fatti dell’11 settembre 2001. Queste personalità politiche, di diverse provenienze partitiche e nazionali, hanno trovato però il modo di coordinarsi per rafforzare la loro azione e riaprire le inchieste sui mega-attentati dell’11/9, la pietra angolare del nuovo secolo e delle sue guerre.

Le assemblee elettive – misurandosi con lo stragismo degli anni duemila - non hanno tentato indagini paragonabili a quelle sperimentate in Italia per lo stragismo di qualche decennio fa. Allora si comprendeva la complessità dei fenomeni e perciò si cercava di scavare nelle complicità di Stato condizionate dalla “strategia della tensione”.

Le commissioni parlamentari italiane, per quanto non fossero tribunali in grado di portare a una verità giudiziaria sufficiente a rendere giustizia, erano tuttavia capaci di frustrare il tentativo del potere di dar la colpa a un qualche capro espiatorio. Grandi movimenti, molti giornali e autorevoli politici creavano una consapevolezza collettiva molto forte. La ricerca della verità sul terrorismo era un terreno etico e politico di fondamentale importanza, sentito come tale da larghe porzioni dell’opinione pubblica, dei media e della politica.

In questi anni invece ha vinto la linea Rumsfeld. I parlamenti si sono rifugiati nelle parole d’ordine che imponevano l’interpretazione corrente dell’11/9, che poi era quella dell’Amministrazione Bush-Cheney e delle sue officine della propaganda.
Eppure, in molte aule e in molte tribune, diverse importanti voci ostinate hanno difeso con forza la necessità di una nuova inchiesta. Il network in cui ora queste voci si coordinano si chiama “Political Leaders for 9/11 Truth”, ossia “Leader politici per la Verità sull’11/9”.

Il primo nucleo di parlamentari ed ex parlamentari della coalizione comprende fra i fondatori le seguenti personalità:

Berit Ås, ex parlamentare, Norvegia
Andreas von Bülow, ex ministro della difesa, Germania
Giulietto Chiesa, europarlamentare, Italia
Yukihisa Fujita, membro della Camera dei Consiglieri in seno alla Dieta nazionale, Giappone
Dan Hamburg, ex deputato californiano della Camera dei Rappresentanti in seno al Congresso (USA)
Tadashi Inuzuka, membro della Camera dei Consiglieri in seno alla Dieta nazionale, Giappone.
Karen S. Johnson, ex senatrice, Stato dell’Arizona, USA
Paul Lannoye, ex europarlamentare, Belgio
Cynthia McKinney, ex deputata georgiana della Camera dei Rappresentanti in seno al Congresso (USA)
Michael Meacher, ex ministro dell’ambiente, Regno Unito
Jesse Ventura, ex governatore dello Stato del Minnesota, USA
È imminente l’apertura di un sito che esporrà gli obiettivi del network. Intanto potete leggere di seguito la sua carta d’intenti e la petizione per una nuova inchiesta.


Political Leaders for 9/11 Truth
indirizzo e-mail: pl911truth@frontiernet.net

Studiosi e professionisti con vari tipi di competenze - tra cui architetti, chimici, ingegneri, vigili del fuoco, agenti di intelligence, avvocati, ufficiali militari, filosofi, fisici, e piloti - hanno parlato apertamente in merito alle radicali differenze tra la versione ufficiale degli attentati dell’11/9 e quel hanno invece imparato in qualità di ricercatori indipendenti.
Hanno stabilito al di là di ogni ragionevole dubbio che la versione ufficiale dell’11/9 è falsa e che, pertanto, le “inchieste” ufficiali sono davvero state operazioni di insabbiamento.
Finora, tuttavia, non vi è stata alcuna risposta da parte dei leader politici a Washington né, se è per questo, in altre capitali in tutto il mondo. La nostra organizzazione, Political Leaders for 9/11 Truth (Leader politici per la Verità sull’11/9, ndt), è stata costituita per contribuire a far scaturire una tale risposta.
Noi crediamo che la verità sul sull’11/9 abbia bisogno di essere svelata adesso - non fra 50 anni come una nota a piè di pagina nei libri di storia – in modo che possano essere cambiate le politiche fondatesi sull’interpretazione degli attacchi dell’11/9 da parte dell’amministrazione Bush-Cheney.
Pertanto, facciamo appello a una nuova inchiesta indipendente sull’11/9, che tenga conto degli elementi di prova che sono stati documentati da ricercatori indipendenti, ma finora ignorati dai governi e dai media mainstream.
Un’inchiesta "indipendente" significa, in particolare, indipendente dalle amministrazioni statunitensi che erano al potere, prima e al momento degli attentati dell’11/9, che potrebbero avere cose da nascondere.
Come dimostrato dallo scrittore del New York Times Philip Shenon nel suo libro del 2008, The Commission, la Commissione sull’11/9 era guidata dal suo direttore esecutivo, Philip Zelikow, il quale era associato molto strettamente all'amministrazione Bush. Il National Institute of Standards and Technology (NIST), che ha rilasciato i rapporti ufficiali sulla distruzione del World Trade Center, è un’agenzia del Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti, il che significa che, durante la scrittura di queste relazioni, era una agenzia dell’amministrazione Bush-Cheney.
Se ricoprite o avete ricoperto una carica politica negli Stati Uniti o in qualsiasi altro paese, siete invitati a firmare la petizione sotto riportata. (Partecipare a Political Leaders for 9/11 Truth non richiede in qualsiasi momento nient’altro che firmare la petizione, anche se ulteriori attività volte a diffondere la verità sull’11/9 saranno naturalmente incoraggiate.)
Potete indicare la vostra disponibilità a firmare la petizione sia scrivendo un’email all’indirizzo pl911truth@frontiernet.net sia per iscritto inviando una lettera a Political Leaders for 9/11 Truth, P.O. Box 2289, Show Low, AZ 85902 U.S.A.
Si prega di indicare esattamente come si desidera che il nome sia scritto, quali incarichi politici avete ricoperto, e qualsiasi altra cosa che eventualmente desideriate dire).

PETIZIONE:
CONSIDERANDO che la pubblica interpretazione degli attentati dell’11/9 da parte dell'amministrazione Bush-Cheney ha avuto conseguenze radicali, in gran parte negative, per gli Stati Uniti d'America e il mondo intero;

CONSIDERANDO che le indagini ufficiali su questi attacchi effettuate finora sono state guidate da persone strettamente allineate all’amministrazione Bush-Cheney, o perfino da essa assunte;

CONSIDERANDO che le conclusioni di tali indagini differiscono radicalmente da quelle raggiunte da ricercatori indipendenti con vari tipi di esperienza professionale;

CONSIDERANDO che le organizzazioni dei ricercatori - Firefighters for 9/11 Truth, Lawyers for 9/11 Truth, Pilots for 9/11 Truth, Scholars for 9/11 Truth and Justice, and Veterans for 9/11 Truth - hanno fatto appello a un’indagine nuova, veramente indipendente;

CONSIDERATO che riteniamo che sia passato molto tempo per i leader politici affinché prestassero attenzione a questi appelli;

PER TUTTE QUESTE RAGIONI, i sottoscritti membri di Political Leaders for 9/11 Truth, chiedono che il governo degli Stati Uniti d'America autorizzi un’indagine nuova, veramente indipendente, volta a determinare quel che è accaduto l’11/9.

14 febbraio 2009

22 giorni a Gaza

La versione ufficiale fornita dai media su Gaza non ci ha convinto. Per questo abbiamo provato a ricostruire giorno per giorno, in una sorta di diario, quello che è accaduto dal 27 dicembre 2008 al 18 gennaio 2009, giorno della proclamazione della tregua. Lo abbiamo fatto utilizzando le immagini fornite da Al Jazeera comparandole con quelle messe in rete dall'Idf, le Forze di Difesa Israeliane. Conclusioni di Giulietto Chiesa.

12 febbraio 2009

Un incendio consuma un grattacielo grande come il WTC7, ma l’edificio non crolla

di Paul Joseph Watson - Prison Planet.com

Le gigantesche fiamme saturano ciascun piano di un edificio di 34 piani, ma questo resta in piedi, laddove degli incendi limitati su 8 piani del WTC7 hanno buttato giù il grattacielo in soli 7 secondi, in occasione dell’11/9. Come farà il «nuovo fenomeno» del NIST a spiegarsi questo caso?

Un violento incendio ha consumato oggi, a Pechino, tutti i 34 piani di un grattacielo, scagliando nell’aria fiamme da dieci metri, ma contrariamente al WTC7, di dimensioni paragonabili, e che subì piccoli incendi limitati ad appena otto piani, l’edificio cinese non è crollato.

«Il fuoco bruciava dal piano terra fino all’ultimo piano del grande palazzo, e le fiamme si riflettevano nei vetri della facciata della torre principale del canale CCTV, vicino all’hotel e al centro culturale,» riferisce il «New York Times».

«L’apertura del complesso da 241 stanze del Mandarin Hotel ricompreso nell’edificio era attesa per quest’anno. Le fiamme sono scoppiate intorno alle 7,45 del mattino ed entro 20 minuti il fuoco si era diffuso su tutto l’edificio, che domina quella parte della città.»

«Centinaia di mezzi dei vigili del fuoco e della polizia hanno bloccato tutti gli accessi all’edificio […] nel mentre che fiammate lunghe fino a 10 metri si proiettavano nell’aria,» aggiunge «The London Times».
Paragonate le immagini del WTC7 a quelle dell’incendio del grattacielo di Pechino. Osservate che il grattacielo di Pechino sembra inclinarsi, ma questo si deve all’ inconsueta forma dell’edificio, che non ha grattacielosopportato alcun tipo di collasso.

Quale di questi due edifici apparirebbe, a qualsiasi osservatore razionale, come quello con maggiore probabilità di crollare? Eppure è stato il WTC7 a crollare sulle proprie fondamenta, in 7 secondi, in occasione dell’11/9. Il grattacielo di Pechino, per quanto devastato dall’incendio, è rimasto in piedi. E questo, i debunker come lo spiegano? Com’è accaduto che l’"espansione termica", il "fenomeno" escogitato dal NIST, non si sia applicata al grattacielo di Pechino? Per caso gli incendi hanno proprietà diverse in Cina rispetto agli USA? Possono comportarsi in modi che dipendono a seconda della nazione nella quale si trovano?

Si ricordi che il WTC7 era stato strutturalmente rinforzato e aveva subito incendi limitati a soli otto piani.

Il nucleo della spiegazione del NIST - ossia che a un "evento straordinario" definito "espansione termica" fosse riconducibile l’improvviso crollo totale del WTC7, appare in tutta evidenza come un imbroglio quando si considera l’innumerevole quantità di edifici che hanno subito dei terrificanti incendi nella maggior parte dei loro piani eppure sono rimasti in piedi, mentre il WTC7 ha subito solo piccoli danni da incendi in una manciata di piani.

wtc7L’incendio del grattacielo di Pechino fornisce un’ulteriore prova confrontabile per palesare il monolitico inganno secondo cui il danno da incendi da solo possa determinare il crollo degli edifici come in un’implosione, e fornisce ancora più solidità alle argomentazioni in base a cui sia il WTC7 sia le Torri gemelle furono distrutte con esplosivi visti e sentiti da decine di testimoni presenti sul luogo del disastro.

Ma si prenda in considerazione un altro esempio, il palazzo Windsor di Madrid , un grattacielo di 32 piani diventato un inferno per non meno di 24 ore prima che le squadre antincendio riuscissero a spegnere le fiamme. Sebbene l’edificio fosse stato costruito con pilastri assai meno spessi di quelli usati nelle Torri gemelle, e nonostante mancasse del tutto di protezioni antincendio, solo la cima dell’edificio crollò in parte, mentre l’integrità della struttura nel suo complesso rimase decisamente intatta.

Si confrontino le immagini dell’incendio al palazzo Windsor con quelle del WTC7 e delle Torri gemelle.

L’incendio al grattacielo di Pechino offre un promemoria nudo e crudo sul fatto che se si sgombra il campo da quell’illusione deviata, predeterminata e incomprensibile del NIST, allora un solo fatto rimane sufficientemente chiaro: gli incendi negli uffici - anche quelli nella variante sputafiamme da "inferno di cristallo" - non fanno implodere su se stessi né crollare i moderni edifici. Un simile risultato può essere ottenuto solo con esplosivi piazzati allo scopo.

L’incendio al Windsor, l’incendio del grattacielo pechinese e molti altri a venire, sottolineano dolorosamente la terribile verità che l’unico modo col quale il WTC7 e le Torri gemelle potessero crollare nel modo in cui fecero era solo per mezzo di demolizioni controllate.

Fonte: PrisonPlanet ; 9 febbraio 2009.
Traduzione di Pino Cabras per Megachip [QUI].

Francia: il prof con le stellette non crede alla versione ufficiale dell’11/9. Destituito

A cura di Spotless Mind – reopen911.info

Aymeric Chauprade, esperto di geopolitica e docente del CID (Collège interarmées de défense), destituito giovedì dal suo incarico dal ministro della Difesa dopo la pubblicazione di un testo che contesta ciò che egli definisce "la versione ufficiale" degli attentati dell’11 settembre, intende ricorrere legalmente contro il ministro francese della Difesa Hervé Morin. Il suo avvocato dovrebbe precisare questa settimana la natura della denuncia. «Abbiamo presentato una risposta di carattere giuridico» afferma il legale. Questo sabato, Chauprade assicura di non aver avuto alcun contatto con il gabinetto del ministro al fine di poter chiarire la sua posizione.

«A questo punto sono libero di esprimermi. Il piccolo clan che, nel cuore della Difesa difende degli interessi stranieri, essenzialmente americani, dovrebbe preoccuparsi», minaccia Chauprade.

Aymeric Chauprade, 40 anni, è stato ricevuto venerdì mattina dal generale Vincent Desportes, comandante del Collège interarmées de Défense. Nel corso di un colloquio “molto cortese” durato un quarto d’ora, il generale gli ha comunicato la conclusione immediata della sua collaborazione. Chauprade ha chiesto che il suo licenziamento venisse notificato per scritto. Le altre attività di Chauprade in seno a diversi organismi della Difesa, quali l’IHEDN, l’Emsom (Marina) ed il Cesa (Aeronautica) dovranno egualmente essere annullate. Per esempio, il 20 febbraio avrebbe dovuto imbarcarsi sulla nave-scuola Jeanne d’Arc per una serie di conferenze presso gli allievi ufficiali della Marina, tra Giacarta e l’isola di Réunion. La Marina l’ha avvertito di un “brusco cambiamento di programma”.

Interpellato da Secret Défense [libération.fr] in merito alla questione, ossia gli attentati dell’11 settembre, Aymeric Chauprade sostiene le sue affermazioni che concordano con quelle dei complottisti, tese a sdoganare l’islamismo radicale per attribuirne la responsabilità agli americani o agli israeliani: «Abbiamo il diritto di non sapere (chi è all’origine degli attentati). La versione ufficiale non mi convince. Di fatto ho presentato in modo plausibile le tesi alternative. Tuttavia fornisco la versione ufficiale – che peraltro tutti conoscono – secondo una cronologia. Nutro seri dubbi al riguardo ma ciò non significa che io creda che i responsabili siano elementi dei servizi americani o israeliani. Non traggo delle conclusioni, mi pongo delle domande».

Apparso sul Blog "Secret Défense" (libération.fr); Link e parti in grassetto a cura di ReOpenNews

Nota di ReOpenNews :
Intervistato il giorno prima dal blog Secret Défense, in prima battuta Aymeric Chauprade si è detto “stupito”: «Mi stanno tagliando la testa. Non ho avuto alcun contatto con il gabinetto del ministro, il quale non ha cercato di consultarmi prima di assumere questa decisione in seguito alla pubblicazione di un solo articolo [quello di Le Point, NdR]». Quanto alle accuse a lui rivolte, Chauprade ha risposto: «Presento questa tesi, certamente in modo accattivante, senza peraltro farla mia. La mia intenzione è di mettere a confronto due diverse visioni de mondo». Già da giovedì, gli allievi del CID hanno assicurato al loro professore la loro solidarietà contro ciò che definiscono una “caccia alle streghe” intrapresa in nome del “pensiero unico” (fonte : Le Post).

Traduzione di Milena Finazzi per Megachip [QUI]

10 febbraio 2009

Il corpo insaziabile della Terza Repubblica

di Pino Cabras - da Megachip


Il corpo insaziabile di Silvio Berlusconi si muove tanto, in questi giorni. Si sposta fra i palazzi romani, dove ha usato un altro corpo, quello estenuato della povera Eluana Englaro, per scassinare l’equilibrio dei poteri. E fa spola fra Roma e la Sardegna, dove affronta una delle più strane campagne elettorali mai viste in Italia. La navetta di Arcore ha come strascico tutto il governo, in mobilitazione permanente sul caso Englaro e sul caso Sardegna. Ovunque si muove anche una dispendiosa nuvola di aerei di stato e di auto blu.

Mentre Obama, a ragione, dice di non dormire la notte pensando all’economia, ora che la Grande Crisi lievita, laddove Sarkozy presta una parte della sua leadership alla guida dell’Europa, qua invece il capo del governo invade tutto, sia lo spazio del dolore privato sia l’isola lontana. Sembrano temi distanti fra di loro, e sicuramente diversi dalle cose di cui si occupano gli altri governi nazionali. Eppure ingombrano quasi tutta l’agenda del dominus della politica italiana. Perché lo fa?

Nessuna redenzione istituzionale si posa sull’azione di Silvio Berlusconi. Lo potevamo sapere sin dall’inizio della sua presa sul sistema politico, decenni fa. Dovranno saperlo definitivamente anche gli autorevoli illusi che speravano che Berlusconi, dopo la sonante vittoria alle elezioni politiche del 2008, avrebbe infine vestito i panni dello statista, normalizzandosi. Impossibile.

Si è sempre comportato così, nel solco del vecchio “sovversivismo dall’alto” che ha condizionato senza sosta la vita italiana. Ma in questi giorni si affaccia alla soglia di un salto di regime più impellente. Gli interlocutori di Berlusconi sottovalutano regolarmente la sua totale spregiudicatezza. Ora è il momento in cui una sottovalutazione ulteriore ci precipiterebbe in una nuova era politica. Non certo piacevole, non certo democratica.


Il «golpe Eluana» e la Costituzione in bilico

Un tema eticamente controverso – una donna in stato vegetativo persistente da 17 anni, alla cui famiglia la Corte di Cassazione ha consentito di interrompere l'alimentazione e le cure forzate fino all’epilogo che conosciamo – è stato trasformato da Berlusconi in un grimaldello istituzionale per forzare gli esiti di una partita decisiva, quella della sovranità.
È la stessa partita su cui si gioca la sorte di qualsiasi Costituzione.

Carl Schmitt, il più eminente teorico del diritto del Terzo Reich, affermava che «la sovranità significa capacità di dichiarare uno stato d’eccezione». L’organo in grado di emanarlo è l’organo sovrano per eccellenza. La demarcazione della sovranità è tutelata dalla rigidità delle norme che presiedono alla revisione della carta costituzionale. Se un potere dello Stato conquista la legittimazione a decidere come normare l’eccezione che esso stesso proclama, la forza di quel potere può dilagare snaturando tutte le altre norme e schiacciando tutti i bilanciamenti. Il regime hitleriano fu il cuculo che crebbe nel nido della vigente Costituzione di Weimar, resa flessibile dall’articolo 48 sullo stato di emergenza. Nemmeno il regime mussoliniano ebbe necessità di abolire lo Statuto Albertino né emanò leggi che esplicitamente avessero come scopo di emendarlo, ma lo compromise infrangendolo senza modificarlo o abrogarlo. Se una Costituzione è flessibile, oppure se è rigida come una diga ma si crea lo stesso il buco da dove passa tutto il fiume, allora si apre uno spazio pericolosissimo per far dilagare chi domina il dispositivo dello “stato d’eccezione”.

Gustavo Zagrebelsky ha sottolineato qualche mese fa che l’Italia vive «un’esperienza costituzionale in divenire e dall’esito non scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l’ha preceduta.»

E ha aggiunto: «La Costituzione del ‘48 non è abolita e, perciò, accredita l’impressione di una certa continuità. Ma è sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può conoscere l’esito. Forze potenti sono all’opera per il suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua difesa. La Costituzione è in bilico.» Le implicazioni sono enormi. Non si percepisce una legittimità costituzionale accettata da tutti, mentre si confrontano interpretazioni opposte. Quando lo spirito pubblico si divarica, e non c’è un principio di vita pubblica che sia un patrimonio comune, è il momento della “costituzione in bilico”, Non si può stare per sempre in questa incertezza. Sarà una concezione o l’altra a prevalere.

Zagrebelsky osserva: «È il momento del conflitto latente, che non viene dichiarato perché i fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono allontanare il chiarimento. I primi aspettano il tempo più favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò che temono. Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi per ignavia.» Significa anche che si moltiplicano i pretesti utilizzabili per dare spallate istituzionali sempre più energiche, e il conflitto non sarà più latente.

Il dramma è che c’è una larga fetta dei facitori di opinioni, degli intellettuali e delle personalità politiche che non vuole vedere, e scambia« per accidentali deviazioni» quei segni «di un mutamento di rotta». La costante e stupida sottovalutazione del sovversivismo dall’alto porta a considerare sopportabili certe piccole modificazioni credute come illegalità provvisorie, mentre quelle precorrono e preparano una diversa e sempre più compatta legittimità. «Così, si resta inerti», avverte Zagrebelsky, e prevede che l’accumulo progressivo «di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi.»

Nel 2006 Berlusconi perse il referendum confermativo sulle modifiche alla Costituzione. Nonostante l’ignavia di buona parte del centrosinistra e un certo silenzio mediatico, la maggioranza dei cittadini votò lo stesso, e respinse gli stravolgimenti con una valanga di voti. C’era una coscienza costituzionale ancora forte in sé. Si deve ripartire da lì.

Le pulsioni piduiste però passano ancora per il corpo di Berlusconi, che ha abbastanza meno anni di Napolitano per voler proiettare un qualche suo futuro sul Quirinale e incarnare da lì il corpo della Terza Repubblica eversiva.


Soffocare Soru.

Anche il presidente uscente della Regione Sardegna, Renato Soru, 51 anni, fondatore di Tiscali, di nuovo candidato in vista delle elezioni di metà febbraio, proprio non si capacita del corpo indelicato del vecchio Silvio: «ho un senso di pena per quest’uomo di 73 anni, ormai alle soglie della vecchiaia. Ci si aspetta che una persona a quell’età migliori, che diventi più matura e più saggia. E magari si spera nella 'grazia di Stato', che la renda più adeguata al ruolo che ricopre. Purtroppo con Berlusconi tutto questo non è successo. Nemmeno in vecchiaia, nemmeno come presidente del Consiglio, quest’uomo riesce a essere serio. Lui vuole prevaricare su tutto e su tutti. Perciò mi ricorda Caligola.»

È talmente presente nella campagna elettorale sarda, il novello Caligola, che nei simboli elettorali c’è il suo nome e non quello del candidato ufficiale Ugo Cappellacci, il suo aggraziato cavallo di razza da lui pescato in seno alla “borghesia compradora” cagliaritana.

Sotto i tabelloni dei palchi dominati dalla scritta Berlusconi Presidente, al presunto front-runner Cappellacci sono concessi discorsi di pochi minuti, mentre il Cavaliere comizia dovunque in modo fluviale, di solito con postura da patronaggio: braccio sulla spalla del bravo ragazzo, discorsi interminabili e barzellette grossier.

A suo modo anche Cappellacci fa conto sul corpo. Lo slogan guida della sua campagna è infatti «la Sardegna torna a sorridere». Sembrerebbe uno slogan come tanti. E invece no. È anche un riferimento alla corporeità di Soru, che viceversa sorride di rado, non ammicca mai, non fa il simpatico, e ha una complessione lunga e scostante, che certo lo sottrae a qualche affetto popolare, ma gli conferisce anche un ascendente particolare.

Arrigo Levi nel 1976 quando spiegava ai lettori di «Newsweek» perché il PCI stava per avere un notevole risultato elettorale coniò un riferimento allo stile della leadership di Enrico Berlinguer: «Sardinian uncharismatic charisma». Un carisma non carismatico che attinge a certi tratti caratteriali scabri e sobri di molti sardi.
Credo che il concetto sia risultato incomprensibile agli americani già allora.
Berlusconi vuole prendersi il sicuro con ogni mezzo affinché nulla di quel tipo di carisma si salvi agli occhi del popolo sardo di oggi.
E domani, a quelli del popolo italiano tutto.

Perché Soru, in questi anni, ha dimostrato la scorza del leader che può impensierire su una scala molto maggiore di quella su cui si è misurato finora. Uno di quei leader che raggiungono gli obiettivi anche con una forte dose di autoritarismo, con cocciutaggine, diffidenza, solitudine, forzature. Leader perché riorganizza interessi vasti e ne sacrifica altri a muso duro, con inevitabili errori, ma anche con una capacità di creare fatti nuovi. Ha risanato i conti di una Regione indebitata e pletorica riducendo del 40% i suoi costi, e nel farlo non ha usato nessun gradualismo. Ha segato carriere, rendite, organizzazioni, ha inciso su interessi concreti e personali di migliaia di persone. Nel contempo ha liberato risorse ingenti per investimenti infrastrutturali e per far studiare all’estero migliaia di giovani. Ha contrastato il saccheggio delle coste frustrando anche lì forti interessi. Ha affrontato di petto l’abnorme presenza militare nell’isola ed è riuscito a concordare la chiusura della base USA di La Maddalena, dove quest’anno si svolgerà il G8.

Il modo in cui tutto questo è avvenuto – con lacerazioni reali, strappi repentini, carenza di mediazioni - è al centro delle dispute politiche, tanto forti da aver spaccato anche il Partito democratico. Ma il punto su cui voglio attirare l’attenzione è che al di là delle dispute e delle opposizioni forti che ha suscitato, nessuno può dire che Soru sia uno che galleggi o tiri a campare.

Rispetto ai tempi delle società opulente, la Grande Crisi che incombe seleziona con meno indulgenza i leader. Emergeranno quelli che di fronte a un ostacolo hanno l’approccio dello tsunami. Non è affatto detto che uno come Soru risolva problemi di una tale portata “strutturale”, ma di certo nella sua durezza ha uno dei profili più adatti per la selezione darwiniana della leadership. Come nella boxe, mi sembra di sentire la fatidica frase “fuori i secondi!”.

Allora si capisce la missione berlusconiana. Con la Costituzione in bilico pronta a pencolare da una parte o dall’altra, il fronte della leadership diventa decisivo. L’attempato piduista percepisce Soru come un chiaro pericolo per il passaggio di fase. Non è organico ai vecchi schemi di Gelli. Non è il solito cacicco locale del centrosinistra che intermedia le risorse con una classe dirigente nazionale e aspira alla promozione nella serie A della politica, pronto a stare in posizione subalterna rispetto al padrone del campionato, anche se in apparente opposizione.
No, questo personaggio è di un’altra pasta.
È un politico che gioca già su scala europea, ha rapporti solidi con la prima cerchia del capitalismo mondiale, è ambiziosissimo e ha sempre guidato come se la macchina non avesse la retromarcia.

Soffocare il leader nella culla, questo il disegno che sembra sottostare all’impressionante dispiego di mezzi. Per capirci: sulle elezioni che riguardano l’amministrazione di un milione e mezzo di persone il governo sta mobilitando uno sforzo normalmente usato per le elezioni politiche nazionali di un paese di sessanta milioni di abitanti. Non si era mai visto. Le televisioni locali sono invase da interviste e discorsi di Berlusconi. Videolina e «L’Unione Sarda», rispettivamente tv e quotidiano posseduti dall’immobiliarista Sergio Zuncheddu (azionista de «Il Foglio» assieme alla moglie del presidente del Consiglio) per tutta la legislatura non hanno intervistato Soru una volta che fosse una. L’Unione Sarda evitava di pubblicare le sue foto, anche quando c’erano notizie importanti. Ma oggi c’è una novità. Per queste elezioni regionali Berlusconi ha straripato nei tg e nelle trasmissioni di infontainment delle sue reti nazionali. Intere edizioni assorbite da invettive contro Soru. Quasi un quarto d’ora a Studio Aperto, solo per fare un esempio. E decine e decine di comizi, incontri, gag, promesse mirabolanti, ministri in gran spolvero ripresi come prima notizia su scala nazionale, una sera dopo l’altra. Ha perfino disertato Palazzo Chigi per precipitarsi alla prefettura di Cagliari in una riunione con i sindacati di un’industria sarda in crisi, l’Eurallumina del magnate russo Deripaska. Il corpo insaziabile di Silvio era tutto offerto alle apprensioni dei lavoratori, mentre ostentava le sue telefonate trafelate all’«amicoputin». Risultato: mezza giornata lontano da Roma per riferire ai lavoratori un «vi faremo sapere» di Putin. Generico, ma spendibile in mancanza di meglio nella scompostezza di questa campagna elettorale. Anche Soru ha parlato di «emergenza informazione».

Accade quindi che ogni passaggio critico della crisi della Repubblica, ora collocata nella Grande Crisi mondiale, diventi un “Caso Berlusconi”. La monnezza campana, il caso Englaro, le convulsioni di una classe dirigente predatrice che si vuole sottrarre al vaglio dei magistrati, la voragine di Alitalia, le elezioni sarde. Tutto passa per il suo corpo fisico e per i trucchi del moltiplicatore mediatico del suo corpo insaziabile.

Saranno settimane decisive per le sorti della democrazia italiana. Per una volta, il risultato elettorale sardo darà una prima misura degli anticorpi disponibili contro la Terza Repubblica. E le misure successive seguiranno in una successione rapidissima. Guai a distrarsi.



VIDEO DI PANDORA DAL TERRITORIO:

L'oligopolio mediatico in Sardegna
di Eleonora Cipollina, dur. 42' 33'
Fonte: PANDORA TV

Questo video racconta la diseguale distribuzione delle risorse nel mercato dei media in Sardegna e la conseguente difficoltà per i cittadini dell'isola di esercitare il proprio diritto al pluralismo informativo. In periodo pre-elettorale la disinformazione diventa manipolazione.






LETTERA APERTA A RENATO SORU
di Byoblu




Leggere anche:
Philippe Ridet, Renato Soru, l'anti-Silvio Berlusconi, «Le Monde», 12 febbraio 2009.
Traduzione di Alessandro Mongili [QUI].
Articolo originale: [QUI]

6 febbraio 2009

Scegliere bene il PIÙ e il MENO



Scegliere bene il PIÙ e il MENO
PIÙ dignità per le belle bandiere, PIÙ idee libere, PIÙ difese per il lavoro
MENO gatto e la volpe, MENO Wall Street, MENO inquinatori,
PIÙ Sardegna, MENO Arcore

DOMENICA 8 FEBBRAIO 2009 ORE 11.30
presso il Lazzaretto in V.le Borgo Sant’Elia
CANDIDATA PER LA LISTA DEI ROSSOMORI, sardisti progressisti,
ALLE PROSSIME ELEZIONI DEL CONSIGLIO DELLA REGIONE SARDEGNA
INCONTRA GLI ELETTORI IN UN’ASSEMBLEA PUBBLICA

Ospiti
Giulietto CHIESA - Parlamentare Europeo
Pino CABRAS - Direttore del sito Megachip.info

La pace è irraggiungibile?

di Pino Cabras - da Megachip

Vi presentiamo un documento filmato sulle questioni irrisolte della Terrasanta, un lavoro giornalistico televisivo di esemplare chiarezza. È andato in onda il 25 gennaio 2009 su una delle ammiraglie del giornalismo televisivo americano, la trasmissione “60 minutes” della CBS. La rete di traduttori Tlaxcala ha aggiunto i sottotitoli in italiano. Il taglio è finalmente oggettivo, il tema dei territori palestinesi occupati assume una sua concreta corporeità, la troupe è andata dove doveva andare, non si sente quel maledetto veleno della propaganda che ci inquina ovunque l’informazione mainstream metta mano a questa vicenda.

I neocon sono andati in letargo, e comincia a emergere l’impensabile: qualche sprazzo di verità, qualche risveglio in tv. La fase letargica continua tuttavia nel mainstream nostrano.

I costi di un reportage come questo, seppure con una squadra attrezzata di tutto punto, i viaggi, i documenti di repertorio, sarebbero stati alla portata della Rai. Ovviamente la Rai non ha prodotto nulla di simile, pur avendone i mezzi. Non l’ha fatto nemmeno Pandora, ma questa i mezzi non ce li ha, per ora. Perciò è importante averli. Per chi crede nella forza dell’informazione.

Quindi cosa succede? Per la gran gioia di chi ama il web, si moltiplicano i siti che meritoriamente riprendono il video. Come Luogocomune, Mirumir e tanti altri. Alla fine, centinaia di migliaia di italiani vedranno il filmato. Saranno però milioni, tante volte di più, a non vederlo mai. Non potranno essere raggiunti in modo diretto.

Nel frattempo, sia come sia, invitiamo a vedere e a diffondere questo programma. È un buon punto di partenza per capire che la questione israeliana e palestinese terrà ancora banco. Abbiamo detto che l’inchiesta è «sulle questioni irrisolte della Terrasanta». In realtà emerge una cosa più preoccupante: che forse si tratta di «questioni “irrisolvibili”», di fronte alle quali si pongono vari tentativi di soluzione, ognuno a suo modo capace di distruggere perfino i pessimi equilibri esistenti, con costi umani su scala più vasta e tragedie storiche. Pulizia etnica, apartheid, democrazia da “una testa un voto” sono altrettante "soluzioni distruttive". I filosofi avrebbero un esempio concreto per spiegare il concetto di “aporia”. Di certo 12 minuti di buon giornalismo ci spronano a non abbruttirci al punto di accontentarci delle spiegazioni correnti.

Buona visione.

La politica italiana ed europea in Medio Oriente

Intervento di Giulietto Chiesa, europarlamentare, all'assemblea organizzata a Roma da ISM-Italia e Forum Palestina - da Megachip


L’intervento di Ilan Pappé sgombra il terreno da molte delle questioni che io volevo proporvi. La mia posizione, la nostra posizione, è quella di persone che vivono lontano dalla Palestina, in altri contesti. Noi non siamo là e dobbiamo chiederci cosa possiamo fare qui.
E prima di tutto capire ciò che è accaduto, e se esso ha o no cambiato il nostro modo di valutare la situazione. Concordo intanto, pienamente, con l'analisi di Pappé.
Gli eventi di Gaza hanno messo di fronte a tutti noi la verità, e cioè che Israele è guidata da un gruppo criminale che non intende rinunciare a un centimetro quadrato di quella che loro chiamano la Galilea. Un gruppo di criminali che hanno l’appoggio – anche qui concordo pienamente con Pappé – della grande maggioranza della popolazione israeliana. Questi sono i punti da cui dobbiamo partire anche noi.

Il massacro di Gaza ha un solo significato: se costoro vincono non ci sarà alcuno stato palestinese, né oggi né domani né mai.
A meno che Israele non sia costretta ad accettarlo sotto una forte pressione internazionale esterna.
Questa ipotesi, tuttavia, è altamente improbabile, per non dire inesistente. Queste, in estrema sintesi, sono le coordinate realistiche del problema. Le élites europee sono state corresponsabili e complici della strategia americana e israeliana (sostanzialmente coincidenti) e non si sposteranno da questa posizione in un periodo di tempo prevedibile.
Lo dico da osservatore ravvicinato dei comportamenti europei a Bruxelles. Israele continuerà dunque a martoriare il popolo palestinese occupandone il territorio, aumentando gli insediamenti, trasformando le zone occupate - come è stato qui descritto crudamente - in una prigione a cielo aperto. E dove la popolazione palestinese sarà costretta a misurare sulla sua pelle il livello di repressione cui sarà sottoposta, in proporzione diretta con la quantità di resistenza che sarà in grado di opporre alla violenza e al sopruso degli occupanti.

E' il ritratto di una pulizia etnica esercitata in modo sistematico.
Qui Ilan Pappé ci ha detto cose dalle quali è impossibile prescindere e senza le quali non si potrà definire un programma politico di sostegno al popolo palestinese.
Tra queste una mi pare cruciale: non riusciremo ad aprire una breccia nella coscienza collettiva europea se non riusciremo a separare l'idea dell'olocausto dal problema palestinese. Cioè se non riusciremo a smontare la più mostruosa delle manipolazioni sioniste, secondo la quale, per riparare alle colpe dell'olocausto, l'Europa deve consentire a Israele di realizzare la pulizia etnica definitiva della Palestina. E' questo il nocciolo dell'ideologia sionista dei tempi moderno. Un segno genocidario che concede alle vittime di allora di diventare carnefici con la benedizione del mondo occidentale.

Possiamo accettare una tale mostruosa equazione, che getta su un popolo intero le conseguenze di una responsabilità alla quale è stato comunque estraneo, ma che scarica su noi europei la responsabilità di accettare un secondo olocausto, questa volta contemporaneo, di dimensioni minori solo perché i palestinesi sono meno degli ebrei di allora.
Io ricordo spesso l'aforisma di Hans Magnum Enzensberger, uno scrittore tedesco: «ai tempi del fascismo noi non sapevamo di vivere ai tempi del fascismo».
Temo proprio che stia accadendo esattamente la stessa cosa. Ai tempi di Gaza, dello sterminio di un popolo, che avviene sotto i nostri occhi, noi non sapevamo di stare ai tempi del fascismo.
O meglio noi che siamo qui lo sappiamo. Fuori da qui sono in pochi a saperlo, soverchiati da messaggi mediatici falsificati. Ma forse anche noi abbiamo capito solo alcune cose, mentre altre, più profonde e più inquietanti, ancora ci sfuggono.

Ecco io credo che molti di noi non abbiamo ancora ben compreso che anche noi, qui, siamo in pericolo. E che la nostra solidarietà con il popolo palestinese è in realtà anche una forma di autodifesa. Ecco il punto fondamentale, per giungere al quale si richiede un salto intellettuale.
Noi parliamo di solidarietà e di giustizia con e per il popolo di Palestina, ma in realtà dovremmo renderci conto che stiamo cercando di salvare noi stessi. Perché quello che sta accadendo in Palestina - e non è retorica, è l’analisi politica, cruda e fredda - è la guerra contro di noi.

I dirigenti sionisti israeliani non sono così stupidi da pensare di poter cancellare in tempi brevi il popolo della Palestina. Non sono così stupidi, non lo sono mai stati. Dal 1948 in avanti hanno dimostrato di avere una precisa strategia. Una strategia che, con lievi variazioni, non hanno mai sostanzialmente abbandonato. Sanno, i dirigenti israeliani, che godono dell'appoggio della gran parte della loro popolazione, che c’è un limite oltre il quale nemmeno la schiera degli amici occidentali, nemmeno l’Europa, è in grado di seguirli in "condizioni normali". In "condizioni normali" - cioè le attuali condizioni, gli attuali rapporti di forza politici - hanno dovuto fermarsi a Gaza, perché andare oltre avrebbe significato mettere a repentaglio le loro relazioni privilegiate con il resto del mondo occidentale, perdere il contatto. Sottolineo l'espressione : in condizioni normali.

Non è possibile realizzare la pulizia etnica totale della Palestina, in condizioni normali. In condizioni normali si può procedere solo per tappe, infliggendo colpi sempre più duri, ma senza mai poter risolvere il problema degli "scarafaggi da schiacciare", del "formicaio da incendiare", per usare espressioni rivelatrici dei militari israeliani. Per questo hanno fermato il massacro a un certo punto. In condizioni normali significa poter agitare in continuazione, assecondati dal mainstream mondiale, l'idea che sia Israele e la sua esistenza ad essere minacciata. Anche quando apparirebbe evidente, a chiunque non fosse accecato, che non vi è alcuna possibilità di mettere in discussione, realmente , l'esistenza di Israele. Che nessuno è in condizione di minacciare realmente, neanche lo volesse, per quanto lo proclamasse, l'esistenza di Israele.
Anche quando non vi è dubbio alcuno che Israele ha tutto ciò che le occorre per vincere ogni battaglia e ogni guerra. Non solo la superiorità bellica, ma anche quella politico-diplomatica, ma anche quella informativa.

Il trucco consiste dunque nel continuare a gridare di essere le vittime, anche quando si è ormai da tempo diventati carnefici. E lo si può fare in condizioni normali, come quelle che abbiamo vissuto e viviamo. in condizioni in cui l'opinione pubblica mondiale pensa che con Israele si possa parlare di negoziati e di una soluzione pacifica. Ma poiché l'obiettivo sionista è la conquista totale del territorio della Palestina, e poiché questo significa la pulizia etnica finale di quel territorio, e poiché questa è impossibile senza un genocidio, è evidente che i dirigenti israeliani hanno in mente un'ipotesi non "normale".

Se essi pensano - lo pensano anche se non lo dicono pubblicamente, almeno non negli ultimi tempi - che "nemmeno un centimetro di terra sarà lasciato ai palestinesi", al "formicaio palestinese", agli "scarafaggi palestinesi", allora restano due ipotesi materialmente percorribili: pulizia etnica totale, oppure sottomissione totale dei rimanenti, umiliazione, rinuncia, bantustanizzazione del popolo palestinese.

Ma il genocidio è inaccettabile per l'opinione pubblica occidentale, dunque resta l'ipotesi transitoria "dell'apartheid in versione araba". L’esempio sudafricano citato da Pappé è perfettamente attinente. Esso non prevede alcuno stato palestinese realmente indipendente. Prevede l'umiliazione finale del popolo palestinese; in primo luogo la sua divisione (cosa già ottenuta); la estensione degl'insediamenti; il proseguimento sine die dell'occupazione, con l'acquiescenza in primo luogo dei leader palestinesi che hanno già accettato la sconfitta e si sono fatti comprare, in secondo luogo dei regimi arabi reazionari, e, in terzo luogo dell'Europa. Degli Stati Uniti non parlo perché essi sono i principali alleati di questa politica. Con Obama non ci saranno qui cambiamenti: la nomina della signora Hillary Clinton a segretario di stato dice già tutto ciò che occorre per prevedere quale sarà la politica di Obama nel Medio Oriente e in Palestina. È una linea che mette nel conto, per un certo periodo di tempo, anche lungo, una situazione di occupazione sempre più feroce, con assassinii mirati, risposte terroristiche, liquidazioni settoriali dei capi di Hamas, con l’uso di azioni e risposte terroristiche disperate o organizzate, o provocate, o stimolate. Tutte le varianti sono buone e, del resto, sono già state sperimentate se è vero, com'è vero che Hamas è nate da una costola del Mossad, costruita con soldi del Mossad per creare divisione e per impedire ad Arafat di proseguire una politica di raccolta dei consensi attorno all'ipotesi di pace in cambio di territori.

Ogni tipo di provocazioni sarà tentato, come è avvenuto con successo in passato, per scompaginare la resistenza palestinese. Si potrà fare anche perché il mainstream mediatico, composto in gran parte di servi imbecilli del potere, cadrà in tutte le trappole, le amplificherà, le giustificherà. Basti l'esempio, assai significativo, della notizia diffusa da Hezbollah proprio nei giorni dell'attacco contro Gaza. Notizia che rivelava il ritrovamento - appunto da parte dei servizi di Hezbollah - di una postazione di missili telecomandati a distanza, che avrebbero dovuto partire dal Libano del Sud e andare a schiantarsi su case israeliane. Non era stato certamente hezbollah a piazzarli, visto che li ha scoperti. E allora chi ce li aveva messi? E come avrebbe reagito, per esempio il Corriere della Sera alla notizia di questo attacco? Avrebbe parlato di un'azione terroristica, proditoria, organizzata da Hezbollah per creare un secondo fronte in Libano, destinato a indebolire l'offensiva israeliana contro Hamas, eccetera eccetera. E l'aviazione israeliana, che non ha problemi di carburante, e di bombe, sarebbe quindi partita immediatamente per bombardare i villaggi del Libano. Ecco come si organizza la guerra e, prima della guerra, la disinformazione.

Ci saranno provocazioni di ogni genere, questo dobbiamo saperlo. Anche per una questione di consenso dell’opinione pubblica interna, che deve essere mantenuta in uno stato di paura permanente. Tutto questo è ovvio ormai anche se disumano e mostruoso. Ma tutto questo, vorrei sottolinearlo, e spero di essere ben capito, tutto questo è ancora politically correct, cioè comprensibile ai politici occidentali, all’opinione pubblica occidentale che, tutto compreso, lo considerano accettabile, come hanno considerato accettabile per tutti questi anni, l’occupazione della Palestina. Hillary Clinton, ripeto, ha già dichiarato che è pronta ad accettare questa logica. Questa è l’unica pace che Israele riesce a concepire e che può spiegare a tutto il resto del mondo.

Ma attenzione a non fermarsi a questo punto. Perché c’è un risvolto che non è affatto politicamente corretto, la cui mostruosità ancora sfugge persino a molti di noi, sicuramente a una parte della sinistra in Italia e a una larga parte, purtroppo devo dirlo, della sinistra europea, avendo partecipato ai dibattiti del gruppo socialista al parlamento europeo, avendo riscontrato che una metà del gruppo socialista è più o meno apertamente filo-israeliano. Del resto non aderiscono forse all'Internazionale Socialista Shimon Peres e Ehud Barak, quest'ultimo ministro della difesa del governo Olmert? Allora dobbiamo fare un altro passaggio concettuale, che ci aiuti a penetrare all'interno dell’ideologia sionista più estrema.

Ho parlato fino ad ora di una strategia israeliana "limitata", strategia di conquista in "condizioni normali", cioè psicologicamente accettabili da parte dell’opinione pubblica occidentale. Ma che cosa accadrebbe se improvvisamente le condizioni diventassero "anormali"? E che cosa significano condizioni internazionali anormali? Pongo la questione in altra forma. Chi pensa che i dirigenti israeliani possano accettare, un giorno qualsiasi, di perdere il monopolio assoluto della forza di cui dispongono, monopolio che hanno ottenuto in dono da Washington da molti anni? Qualcuno di noi pensa realisticamente che questa ipotesi sia possibile? Chi lo pensasse commetterebbe un errore fatale. Israele non accetterà mai di perdere il monopolio della forza militare atomica. Perché perdere quest'arma di ricatto potrebbe mettere Israele nella necessità di trattare. Perché loro hanno già calcolato anche l'eventualità di perdere l'appoggio incondizionato degli Stati Uniti. Perché hanno perfino previsto che l'Europa potrebbe "tradirli". Quella stessa Europa che essi disprezzano e odiano perché è in Europa che l'olocausto si è realizzato. Ecco perché il Libano del 2006, Gaza del 2008 non sono episodi chiusi in sé, per quanto mostruosi. Sono stati descritti come rappresaglie, ma sono mosse di una strategia ben precisa di carattere internazionale che avrà il suo apice con l’attacco all’Iran.

In tutti i casi sopra citati i sionisti hanno messo nel conto che si difenderanno da soli. Mai sentita la storia di "muoia sansone con tutti i filistei" ? Chi ha messo in cima ai suoi pensieri, ad ogni costo, la "terra promessa", chi la ritiene un dono divino, anzi un ordine divino. Chi interpreta questo ordine come proveniente dal dio degli eserciti, potrebbe essere pronto ad affrontare Armageddon. Noi siamo di fronte a un gruppo di persone che, lasciato a se stesso, andrà fino in fondo, mosso da una ideologia fanatica, razzista, genocidaria. Ecco cosa intendo per "situazione anormale": quando dal ragionamento politico si viene scaraventati fuori e si entra nell'invettiva religiosa, qualcuno si colloca "dalla parte di dio". Avverrà quando Israele scatenerà l’attacco contro l’Iran.

Affermo questo perché non penso che l'Israele prigioniera del sionismo, cioè del fanatismo, rinuncerà al monopolio della forza. Ora anche qui i casi principali sono due: o Barack Obama avvia una politica di dialogo reale con Teheran, per esempio abbandonando esplicitamente e chiaramente l'opzione militare, offrendo all'Iran una sviluppo controllato dell'energia atomica a usi pacifici, proponendo un Medio Oriente libero dalle atomiche (probabilità molto bassa, per non dire inesistente), oppure Tel Aviv metterà in atto (da sola o con Washington, anche tirandola per i capelli con un'azione di sorpresa) un'offensiva per liquidare il potenziale armamento atomico e missilistico iraniano.

E questo momento avverrà presto, perché secondo i calcoli dei servizi segreti israeliani, l’Iran si doterà della bomba, come loro dicono, in uno spazio di tempo abbastanza veloce, due o tre anni. Cioè nel corso del primo mandato del presidente Obama.
Questo è quello che intendo per "situazione anormale". Pochi in occidente se ne rendono conto, e, per questo, saranno colti di sorpresa. Eppure è a questo che si sta andando. Perché fermare l’Iran si può fare in uno dei due modi sopra descritto. Obama può prendere l’aereo e andare a Teheran a dire ai dirigenti iraniani che l’America ha rinunciato all’uso della forza nei loro confronti e propone una intesa per la gestione comune internazionale del programma nucleare iraniano? Se non può farlo, resterebbe solo l’opzione del bombardamento. Ma il pericolo per la pace mondiale ci sarebbe anche se lo facesse perché vorrebbe dire che Israele ha perduto l'appoggio incondizionato di Washington e deve prepararsi a trattare con i palestinesi. Cioè a rinunciare al dono del Dio di tutti gli eserciti.

Ricordo a voi che nei giorni che hanno preceduto immediatamente l’attacco di Gaza, il governo israeliano ha chiesto il permesso agli Stati Uniti di bombardare l’Iran, e lo ha chiesto con tre domande molto precise. La risposta del presidente Bush, che ha avuto paura, è stata “no”. Le richieste erano tre: dateci bombe ad alta penetrazione; dateci la possibilità di rifornire i nostri aerei in volo perché tornino alle basi di partenza senza toccare terra; dateci il permesso di passaggio dei nostri aerei sul territorio iracheno Il portavoce di Bush ha risposto in modo singolare: «abbiamo risposto no alla prima domanda, no alla seconda domanda, e alla terza abbiamo risposto no no no». Ma le domande sono state fatte, il che vuol dire che sono pronti. Anzi vuol dire che sono pronti loro, ma che sanno perfettamente che è pronta anche l'America, perché in caso di attacco all’Iran incomincerà la guerra di vaste proporzioni.

È in quella fase che la situazione sarà anormale, e sarà in quel momento che il popolo palestinese subirà il colpo decisivo senza che nessuno possa reagire. Perché saremo tutti in guerra e avremo altro cui pensare, e l'opinione pubblica europea penserà al petrolio che balzerà in alto, al riscaldamento in pericolo, agli ospedali al buio e ai negozi vuoti. Tutto questo sfugge a quasi tutti, ma fa parte del disegno. Saremmo veramente degli ingenui pensassimo che chi ha mandato gli aerei a bombardare la gente di Gaza, con quella smisurata ferocia, pensi in altri termini. A questo scenario sono preparati. Anche perché c'è del genio in questa follia. E loro hanno sempre ragionato con grande acume e freddezza. Oggi con più freddezza di ieri.
L’America è in crisi, il loro principale protettore è in crisi. E che ne sarebbe di Israele, della sua potenza militare, del suo monopolio della potenza se i suoi protettori si trovassero improvvisamente non a cambiare idea, ma in difficoltà. Che accadrebbe se Israele si trovasse a non avere più gli alleati solidi che ha avuto in questi anni? Ecco perché gridano alla minaccia all'esistenza di Israele: sanno benissimo di non essere minacciati, ma pensano di perdere la protezione e di dover trattare. Quindi si preparano (è da decenni che si sono preparati) a giocare d’anticipo, a organizzare una guerra più grande. Ecco perché affermo che lo Stato d'Israele è diventato il pericolo principale per la pace del mondo, non solo per la sorte del popolo palestinese.

Ritorno dunque al punto di partenza. Bisogna che incominciamo a ragionare in termini di una battaglia politica per modificare non le posizioni di Israele (che può cambiarle solo se costretto dalla comunità internazionale) ma le opinioni della gente europea, italiana in primo luogo. Per fare questo consentitemi una notazione: noi abbiamo le nostre assemblee, le nostre manifestazioni, quando ci riusciamo. Ma guardate che l’intera narrazione di ciò che è avvenuto in questa guerra l’hanno fatta loro. Noi abbiamo denunciato, ma le nostre voci sono piccole e flebili. Paradossalmente sono state più efficaci le immagini mostruose della gente innocente ammazzata che, in un modo o nell'altro, sono giunte nelle case italiane e che hanno parzialmente disinnescato la versione bugiarda che le accompagnava. Amici diamoci una svegliata, tutti insieme! O noi ci dotiamo di una televisione e di una radio nazionale che parli a un milione di persone al giorno, oppure dobbiamo sapere che non potremo difendere i palestinesi né difendere noi stessi. Né oggi, né mai. Quando dico tutti noi, dico tutta l'area della pace, quella che esisteva e che non esiste più, ma che potrebbe esistere di nuovo, se capissimo dove siamo.

Il che, lo ripeto, equivale a prendere atto che il racconto della storia contemporanea lo stanno facendo loro; che noi siamo stati espulsi dalla narrazione, noi non abbiamo modo di parlare a milioni di persone, non abbiamo voce. Quindi la questione dell’informazione deve diventare il punto principale della nostra attenzione. Possiamo farlo? Certo che possiamo farlo. Ma questi strumenti dobbiamo pagarceli di tasca nostra. Non ce li regalerà nessuno. Io, con parecchi altri giornalisti, ho messo insieme un progetto. Andate a vedere su PandoraTV (www.pandoratv.it). Ci consentirebbe di parlare, con pochissimo denaro, a centinaia di migliaia di persone ogni giorno. Cosa aspettiamo!? Ho chiesto: tirate fuori 100 euro a testa. Facciamo questa televisione per due anni Che è il momento cruciale in cui si deciderà tutto. Volete darci una mano? Perché, se non facciamo questo, noi possiamo anche salvarci la coscienza e dire che abbiamo fatto molto, ma non avremo fatto quello che poteva farci vincere, o almeno non faci perdere ancora una volta.

Ricevo decine di mail ogni giorno, di giovani che mi chiedono spiegazioni, chiarimenti, che fanno domande. Quante migliaia ci sono, che pongono le stesse domande e che non mi scrivono? E a queste domande chi risponde?. Siamo noi che dobbiamo andare da loro. Siamo noi che gli dobbiamo proporre la nostra spiegazione. Siamo noi che dobbiamo capire che non c’è più battaglia in questo momento, in questa fase della storia, se noi non capiremo che è sul terreno dell'informazione, della comunicazione, che i gioca la partita. La grande partita per evitare che altri bambini palestinesi siano bruciati, insieme ai nostri, insieme a noi.