27 giugno 2008

Trapelano i documenti del NIST: un evento insolito ha preceduto il crollo dell'Edificio 7

Non c’è spiegazione per il «getto di fiamme» proiettato fuori dalle finestre prima dell’implosione del grattacielo


L'edificio 7 del WTC all'inizio del crollo

Traduzione di Pino Cabras

Articolo originale:
Leaked NIST Docs: "Unusual" Event Before Collapse Of WTC 7
di Paul Joseph Watson e Aaron Dykes
«Prison Planet»
25 giugno 2008


Cominciano a trapelare i documenti riservati del NIST (National Institute of Standards and Technologies) che affrontano l’inchiesta sul crollo dell’Edificio 7 del World Trade Center, il grattacielo di 47 piani che non fu colpito da alcun aereo ma implose in meno di sette secondi l’11 settembre 2001. I nuovi documenti rivelano un «insolito» evento che precedette il crollo dell’edificio: un «getto di fiamme» si proiettò fuori da varie finestre dopo che gran parte dell’incendio si era già spenta.

I documenti – intitolati “Confidential and Predecisonal Document NIST Report on Building 7” (documenti riservati e pre-decisionali del Rapporto NIST sull’Edificio 7) – formano il preambolo del lungamente atteso verdetto finale su quanto causò che un edificio strutturalmente rinforzato cadesse come in una demolizione controllata nonostante avesse subito dei danni da incendio relativamente limitati.

Il Capitolo 1, a cura di William Pitts, un’indagine delle prove visive delle stime dei danni e della tempistica relativa al WTC 7, è un’analisi complessiva degli incendi alle finestre tramite prove video e fotografiche, la quale conclude che tutti i maggiori incendi prima dei piani 7 e 13 si estinsero prima del crollo.

Il rapporto stabilisce che «alle 16,38 tutte le finestre tra 13-44° e 13-47C erano aperte, e gli incendi responsabili dell’apertura delle finestre erano estinti a tal punto che non potevano più essere osservati».
«Appena prima del crollo dell’edificio alle 17,20 un getto di fiamme fu sospinto dalle finestre nella stessa area. L’evento che ha causato questo insolito comportamento non è stato identificato».

Il rapporto descrive la natura degli incendi ai piani dal 7 al 13 e afferma inoltre, «fatta eccezione per gli incendi ai piani 19, 22, 29 e 30 considerati all’inizio della presente sezione, non c’è fondamentalmente alcuna prova visiva diretta di incendi su altri piani del WTC 7».

Le fotografie presentate nel rapporto, molte delle quali non sono mai state viste prima, non mostrano altri danni all’edificio che non siano piccoli incendi ai piani dal 7 al 13 e il relativamente limitato “incavo” osservato nella parte più bassa della facciata ovest dell’edificio.

Cosa potrebbe aver causato che questo “getto di fiamme” si proiettasse fuori dalle finestre immediatamente prima del collasso dell’edificio? La forza di decompressione di una serie di esplosivi o un ordigno incendiario?
I documenti trapelati precedono un documentario della BBC che sarà trasmesso il 6 luglio 2008, il quale è stato predisposto per asserire che il WTC 7 è stato il primo edificio con struttura in acciaio nella storia a subire un collasso completo derivante dal solo danno da incendi, un fatto scientificamente impossibile.

[…]

Cliccare QUI per leggere dei file che riportano i documenti NIST.

24 giugno 2008

Un testimone chiave: prima che le due torri crollassero, l’Edificio 7 era già devastato

In un video in esclusiva, Barry Jennings parla delle esplosioni all’Edificio 7 prima del crollo delle Twin Towers

L'Edificio 7 del WTC, l'11 settembre 2001; fonte: Prison Planet

Versione in lingua italiana dell'articolo
Emergency Official Witnessed Dead Bodies In WTC 7
«Prison Planet», 23 giugno 2008
di Paul Joseph Watson

Traduzione di Pino Cabras


È stato divulgato per la prima volta un video in esclusiva che ha per protagonista il funzionario della gestione delle emergenze Barry Jennings, il quale parla di esplosioni all’interno dell’Edificio 7 del WTC prima del crollo di entrambe le torri gemelle e racconta inoltre di aver scavalcato i cadaveri delle vittime quando cercava di lasciare il palazzo.
Il filmato, che in origine era destinato ad essere incluso nel film Loose Change Final Cut - ma che dovette essere ritirato per volontà di Jennings dopo che questi aveva ricevuto delle minacce - è stato ora reso di pubblico dominio per prevenire un documentario della BBC sull’Edificio 7 che si suppone possa distorcere il racconto di Jennings nel tentativo di puntellare la versione ufficiale.

Di fatto, ciò di cui è stato testimone Jennings contraddice completamente la narrazione ufficiale su quanto è accaduto all’Edificio 7.

La mattina dell’11 settembre, in qualità di Vice Direttore del dipartimento dei servizi di emergenza dell’agenzia per l’edilizia abitativa di New York, Barry Jennings assieme a Michael Hess - che poi divenne socio fondatore e direttore della Giuliani Partners LLC (società fondata da Rudolph Giuliani, NdT) - visitò l’ufficio per la gestione delle emergenze (Office of Emergency Management, OEM) all’interno dell’Edificio 7, in tempo per scoprire che era stato appena abbandonato.

«Dopo essere giunti dentro il centro operativo dell’OEM, abbiamo constatato che se n’erano andati tutti», ha ricordato Jennings. «Vidi una tazza di caffè sul tavolo, ancora fumante, notai dei panini mangiati a metà», ha dichiarato, e ha aggiunto che fu detto a lui e a Hess di lasciare senza indugio l’edificio.
Jennings e Hess trovarono le scale e discesero i gradini.

«Quando raggiungemmo il sesto piano il pianerottolo su cui ci trovavamo cedette, ci fu un’esplosione e il ripiano si sfondò, rimasi appeso, dovetti issarmi e camminare di nuovo verso l’ottavo piano» ha raccontato Jennings.

«L’esplosione fu sotto di me… così quando sopravvenne l’esplosione fummo sospinti all’indietro… entrambi gli edifici erano ancora in piedi», ha aggiunto.

«Sono rimasto intrappolato in quel luogo per diverse ore. Ero incastrato lì quando entrambi i palazzi son venuti giù: per tutto questo tempo ho sentito ogni tipo di esplosioni, per tutto il tempo», ha detto Jennings, aggiungendo che quando i pompieri li riportarono all’ingresso, questo era «del tutto in rovina».

«Per me vedere quel che ho visto è stato incredibile», ha affermato Jennings.

I pompieri continuavano a dire a Jennings di «non guardare giù» perché, con parole di Jennings, «stavamo camminando sopra delle persone e voi capite cosa sia camminare su dei corpi umani».

Un ufficiale della polizia a quel punto disse a Jennings: «dovrà mettersi a correre perché abbiamo notizia di ulteriori esplosioni».

«Sono perplesso solo per una cosa… perché l’Edificio 7 del World Trade Center andava giù in pezzi per primo. Sono davvero sbigottito su questo. Io so cosa ho sentito: ho sentito esplosioni», ha detto Jennings, il quale ha pure aggiunto che la spiegazione sul fatto le esplosioni fossero causate dai serbatoi di olio combustibile presenti nell’edificio non gli quadrava.

Barry Jennings. fonte: Prison Planet

«Sono un ex gasista, se fosse stato un serbatoio di olio combustibile la cosa avrebbe riguardato solo una facciata dell’edificio», ha spiegato.

Le riprese realizzate presso l’ingresso del Millennium Hilton, più vicino alle torri gemelle dell’Edificio 7, mostrano danni inferiori anche dopo che entrambe le torri erano crollate rispetto ai danni devastanti dell’atrio dell’Edificio 7 descritti da Jennings relativamente a un tempo collocato prima di quei crolli.

Il racconto del testimone oculare Jennings in merito alle esplosioni avvenute dentro il WTC 7 prima che le torri crollassero e riguardo alla presenza di cadaveri all’interno dell’edificio contraddice completamente il racconto ufficiale, ancora fermo sull'idea che non ci siano state vittime all’interno dell’Edificio 7.

Se il WTC 7 è crollato per effetto dei danni sopportati in seguito alla caduta delle torri gemelle, come dice la versione ufficiale, allora perché avvenivano delle esplosioni dentro l’edificio prima ancora che alcuna delle torri crollasse?

Il documentario della BBC, che sarà trasmesso il 6 luglio, include un’intervista a Jennings ma secondo Jason Bermas, di Loose Change, il programma distorcerà i commenti di Jennings in un tentativo di marginalizzare la natura scioccante di quanto visto dal testimone e il modo in cui le sue esperienze contraddicono patentemente la versione ufficiale.

La testimonianza di Barry Jennings su YouTube

20 giugno 2008

I deputati neo-democratici canadesi mettono in causa l'amministrazione Bush in relazione agli attentati dell’11 settembre

Articolo tratto dal sito di «Réseau Voltaire».
Traduzione di Pino Cabras

Articolo originale:
Les députés néo-démocrates canadiens mettent en cause l’administration Bush dans les attentats du 11 septembre




Il 10 giugno 2008, Libby Davies ha dato lettura alla Camera dei Comuni del Canada di una petizione di cittadini che si appella all’apertura di un’inchiesta canadese sugli attentati dell’11 settembre 2001.

Deputata di Vancouver, la Davies è stata la prima parlamentare canadese omosessuale ad aver fatto coming out, ed è nota per il suo impegno contro la guerra in Iraq. Presiede il gruppo parlamentare dei 30 deputati del Nuovo Partito Democratico (New Democratic Party, membro dell’Internazionale socialista).

Ecco il testo della petizione :

«Noi sottoscritti, cittadini del Canada, vogliamo attirare l’attenzione della Camera su quanto segue:
Che testimonianze e prove scientifiche dimostrano che il rapporto della commissione d’inchiesta ufficiale sugli avvenimenti dell’11 settembre 2001 è un documento ingannevole e che i suoi autori, siano essi consapevoli o meno, sono colpevoli di occultare gli avvenimenti reali dell’11 settembre 2001. Le prove accumulate dimostrano in modo evidente che le torri 1, 2 e 7 del World Trade Center sono state demolite con l’aiuto di apparati esplosivi e che la teoria ufficiale a sostegno della tesi che le tre torri siano crollate in seguito all’impatto degli aerei e del calore degli incendi susseguiti è innegabilmente falsa.
Noi siamo fermamente persuasi che degli elementi in seno al governo statunitense siano stati complici dell’assassinio di migliaia d’innocenti l’11 settembre 2001. Questo fatto ha portato il Canada a impegnarsi nella presunta “guerra al terrorismo” e a cambiare in peggio la nostra politica nazionale e internazionale. L’11 settembre 2001 continuerà ad avere conseguenze nefaste per tutti se ci rifiutiamo di esaminare i fatti attentamente e in modo obiettivo.

Per queste ragioni, i firmatari della presente petizione chiedono al Parlamento:

1. Di lanciare immediatamente la sua propria inchiesta sugli accadimenti dell’11 settembre 2001 in nome dei 24 cittadini canadesi uccisi quel giorno a New York City.
2. Agire per legge, alla luce della propria inchiesta, aiutando a perseguire i veri colpevoli davanti alle giurisdizioni internazionali.
Per la verità e la responsabilità.»

Ricordiamo che il Parlamento del Venezuela ha adottato una mozione che richiede al presidente Bush delle spiegazioni sulle incoerenze della sua versione degli attentati dell’11 settembre 2001 e che il Senato del Giappone ha rifiutato di inviare nuove truppe nipponiche in Afghanistan fintantoché le accuse dell’amministrazione Bush sulla responsabilità di quel paese negli attentati dell’11 settembre non saranno corroborate da prove.

Sabato 14 giugno 2008.

Aggiornamento del 23 giugno 2008
Il presente post è stato ripreso dal sito del film ZERO: [QUI];

Il post è altresì ripreso sul sito di Megachip: [QUI]

19 giugno 2008

Dalle torri gemelle alla torre rotante



di Pino Cabras

Esiste la possibilità di costruire un grattacielo che funzioni a un passo naturale, che non consumi più di quanto sia in grado di rigenerare, che non sia un mostro energivoro?
Pare di sì, secondo alcuni visionari progettisti che abitano nella città che pure aveva già ridisegnato l’urbanistica moderna, Firenze.
L’opera è stata progettata dagli architetti David Fisher, Fabio Bettazzi e Marco Sala, il tutto con l’ausilio dell’ingegnere statunitense Leslie Robertson (co-progettista del World Trade Center di New York demolito l’11 settembre 2001, ma questa è un’altra storia).
Il nuovo edificio non cambierà però la skyline fiorentina, giustamente conservatrice, ma quella della città meno vincolata e più sperimentatrice che ci sia, Dubai, negli Emirati Arabi. Il 24 giugno 2008 il lavoro comincia sul serio.



I 59 piani dell’edificio saranno staccati l’uno dall'altro e ruoteranno ciascuno per suo conto. La nuova costruzione è già stata battezzata Rotating Tower. L’energia eolica e quella solare garantiranno l’autosufficienza energetica, in una misura che riesce davvero a stupire: meno del 20% dell’energia prodotta sarà consumata dalla torre pluri-rotante. Il voluminoso eccesso di energia (pulita e a costo tendente a zero) sarà immesso nella rete elettrica di Dubai.

Ogni piano si affaccerà su un panorama cangiante. Il profilo dell’edificio muterà di continuo, a una velocità abbastanza bassa da non provocare mal di mare, ma tale da porgere il senso di una trasformazione naturale. Vedremo tradotto in tecnologia e con poche mediazioni lo spirito giocoso di un bimbo alle prese con le costruzioni.

L'energia elettrica scaturirà dalle ventole low cost poste negli spazi fra i piani, che cattureranno l’energia eolica anche a bassi regimi (basta un vento a 12 km/h). Anche il movimento dei singoli piani, per effetto del vento, genererà energia. I pannelli fotovoltaici, collocati in corrispondenza di ogni piano, sfrutteranno molte ore di luce. In media ogni anno l’opera di Fisher e soci fornirà circa 190 milioni di kilowatt, qualcosa che vale a prezzi di oggi più di 7 milioni di euro. Realizzare la Rotating Tower costerà 350 milioni di dollari.

La vendita di appartamenti e ville realizzati all’interno del palazzo avrà un costo base di 5 mila dollari a metro quadrato. In certe nostre città vediamo prezzi ben più assurdi per palazzi infinitamente più banali.

Non che il lusso venga bandito. È pur sempre Dubai. Ci saranno un albergo a sei stelle, uffici e appartamenti di ogni misura, e fin qui tutto normale. Ma negli ultimi piani svetteranno anche cinque ville, ciascuna da 1.500 mq. La villa “Penthouse” avrà sul tetto una piscina e giardini che neanche a Babilonia.

Per i meno ecologici la Rotating Tower avrà anche un eliporto a scomparsa: una piattaforma che, all’occorrenza, farà capolino dal ‘guscio’ dell’edificio per far posare l’elicottero, senza irrigidire lo stile dinamico che dà senso a questa torre.

Nel progetto ci sarà sì uno spirito infantile, ma si tratta di un bambino taylorista: la Rotating Tower risulterà il primo grattacielo costruito in gran parte con sistemi industriali. La struttura sarà al 90% composta da moduli prodotti in uno stabilimento industriale da assemblare sul nucleo centrale.

Ciascun piano sarà fatto di 48 moduli che si adageranno già finiti sul cantiere. Anche gli impianti elettrico, idraulico e di condizionamento saranno chiavi in mano. L’assemblaggio meccanizzato dei moduli creerà un piano alla settimana. Saranno pertanto applicabili tecniche di sicurezza sul lavoro e del controllo qualità proprie di un’industria. Occorreranno meno tempo, meno energia e meno costi aggiuntivi. Al cantiere basteranno appena 90 tra tecnici e operai. Un grattacielo tradizionale di altrettanta mole avrebbe richiesto oltre 2000 persone.

Non so se questa torre ci parli di un futuro sostenibile. Le vie per una “decrescita felice” della nostra economia sviluppista ossessionata dal PIL possono essere tantissime, fatte di tante scelte meno legate alle città verticali. La dimensione ciclopica della nuova torre, per giunta collocata in una città che il PIL lo adora parecchio, come Dubai, qualche dubbio ecologico ce lo lascia ancora.
Non sappiamo i confini della sostenibilità in tutto il percorso che porta a un manufatto: i materiali, le fabbriche che li forgiano, le miniere che li estraggono, le case dei minatori, l’ambiente sociale che li accoglie e via a ritroso. Così come dobbiamo conoscere il percorso successivo di quel manufatto. Ogni invenzione è anche l’invenzione del suo cattivo funzionamento e crea problemi nuovi e complessi.

Eppure – nella sua monumentalità così leggera e volatile - questa strana trasposizione arabo-fiorentina del gioco di Rubik sembra proporre un salto di paradigma alle nostre certezze.
Sembra dirci che l’industria, l’urbanistica, il lavoro, l’energia possono fare in un istante un cambio di decenni.
Viene interrogata la nostra capacità di lasciar perdere senza rimpianti le tecnologie inutili ancorché grandiose come quella della vecchia energia nucleare.



Proporrei visite guidate al cantiere a Scajola e ad Ahmadinejād (che vogliono dissanguare i propri paesi nell’inutile inseguimento della tecnologia nucleare). Ma potremmo proporre una gita premio anche ai candidati alla presidenza USA, per ricordare loro che non è necessario dissanguare gli USA nell’inutile presidio dei pozzi di petrolio. Ci sono soluzioni più intelligenti.

18 giugno 2008

Travi e pagliuzze atomiche: come si smarrisce una bomba

di Pino Cabras


Generale Turgidson: Signor Presidente, circa, ehm, 35 minuti fa, il generale Jack Ripper, comandante della, ehm, base aerea di Burpelson, ha dato un ordine ai suoi 34 B-52 del suo settore, che erano in volo in quel momento come parte di un’esercitazione speciale chiamata Dropkick. Ora, pare che l’ordine dato agli aerei sia di, ehm, attaccare i loro obiettivi in Russia. Gli, ehm, aerei trasportano armi nucleari con un carico medio di, ehm, 40 megatoni ciascuna. […].
Presidente Merkin Muffley: Generale Turgidson, trovo tutto questo molto difficile da capire. Avevo come l’impressione che io fossi l’unico a poter ordinare l’uso di armi nucleari.
Stanley Kubrik, Il Dottor Stranamore. Ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, 1964



Allarme rosso. Armamenti nucleari che sfuggono alle procedure, e spariscono sotto il naso dei controllori.
No, non sto abboccando anch'io all'ennesima isterica manipolazione anti-iraniana. A quella hanno abboccato i grandi giornali, con tanto di titoloni in prima pagina totalmente incuranti dei solidi fatti che li avrebbero smentiti in un amen.
No, parlo invece di alcuni preoccupanti buchi procedurali accaduti di recente in un paese che di armi nucleari ne ha eccome, più di tutti gli altri messi insieme. Parlo di alcune falle nel trasporto di armamenti nel Sancta Sanctorum del potere nucleare, la US Air Force.
Mentre nel caso dei presunti progetti di bombe iraniane via Pakistan le notizie manipolate si reggevano su allusioni vaghe, irradiate da agenti disinformatori, accolte acriticamente e tenute insieme da titoli perentori, nel caso dei gravi blackout della logistica militare nucleare statunitense le notizie si reggono su conferme al più alto livello da parte del Pentagono, benché ignorate dalle prime pagine.
Alcuni importanti funzionari della Difesa e dell'Aeronautica USA hanno appreso solo a metà marzo 2008 del trasporto avvenuto nell'autunno 2006 di quattro testate (non nucleari, ma comunque segrete) riservate ai missili balistici intercontinentali (gli ICBM) da parte della più grande agenzia interna del Dipartimento della Difesa, la Defense Logistics Agency (DLA), con un tragitto che partiva dalla base dell'Air Force di Hill, nello Utah, e giungeva a Taiwan. Cosa c'era di strano in questo trasporto, uno dei tanti curati dai 22mila dipendenti della DLA sparsi in tante basi per il mondo? Il fatto è che il piano di quella spedizione prevedeva il trasporto di batterie per elicotteri, non testate per missili. Non appena emerse il fatto, al Pentagono si tenne una conferenza stampa, durante la quale il segretario dell'Aeronautica, Michael Wynne, spendeva molte parole tranquillizanti sul fatto che gli ordigni fossero già tornati in mani sicure negli USA. Sebbene «questo non dovrebbe essere considerato materiale nucleare», premetté Wynne, il solo fatto che si trattasse di componenti di un sistema nucleare rendeva « molto preoccupato in merito» il governo USA.
Secondo lo stesso Wynne e Ryan Henry, un alto funzionario politico del Dipartimento della Difesa, il governo di Taiwan notificò agli USA il fatto era stato effettuato un trasporto sbagliato. Henry citò una disfunzione nelle “prime comunicazioni”, qualcosa come «pensavamo di sentire una cosa, ma in realtà ci stavano dicendo qualcos'altro». Henry aggiunse che era in corso «un'inchiesta approfondita» per determinare l'esatta sequenza degli eventi.
Insomma, mentre i neoconservatori e i loro alleati spingono al massimo i motori mediatici mondiali per forzare ogni dettaglio che conquisti le menti per la prossima guerra all'Iran di concerto con il governo israeliano, in altri ambienti della Difesa statunitense si è costretti ad ammettere che ci sono serissimi problemi di tenuta della logistica nucleare USA, da rifondare in profondità.
Non più tardi dell'autunno 2007 Wynne aveva dovuto sostenere un'altra conferenza stampa in merito a un trasferimento “accidentale” di sei missili nucleari su un B-52 in volo dalla base di Minot, in North Dakota, a quella di Barksdale, in Louisiana, un incidente che diede causa all'Aeronautica USA per destituire immediatamente diversi alti ufficiali e intraprendere altre drastiche azioni disciplinari. Il servizio emanò nuove direttive sulle armi nucleari, ma una riesame più ampio da parte del Dipartimento della Difesa in merito all'incidente del B-52 riscontrò dei problemi in lungo e in largo nel Dipartimento della Difesa, non solo nelle operazioni della USAF. Il segretario della Difesa Robert Gates ha ordinato alla US Air Force e alla US Navy di dar corso a revisioni di scelte politiche e procedurali nonché a un inventario fisico completo di tutte le dotazioni nucleari. Gates ha altresì nominato l'ammiraglio Kirkland Donald, direttore della Navy Nuclear Propulsion, alla guida dell'inchiesta sull'ultimo incidente. Conclusioni rapide e serie. Talmente serie che il 5 giugno Wynne è stato costretto a dimettersi. Stessa sorte è toccata al capo di stato maggiore della US Air Force, il generale T. Michael Moseley.
Cos'era successo nel caso del volo Minot-Barksdale?
La vicenda si presenta come un altro inquietante e gravissimo sintomo degli arcana imperii in seno alle istituzioni militari americane segnate in profondità dal clima dell’11 settembre.
Molti fatti, proprio a partire dai mega-attentati dell'11 settembre, sono da leggere alla luce dei contrasti fra diverse idee e politiche di egemonia imperiale. I neocon forzano l’agenda della guerra, ultimamente con un’ossessione per l’Iran. A loro si oppongono, nell’intelligence e nelle forze armate, coloro che temono un cataclisma in grado di affondare la potenza americana. La contesa, pur essendo massima, non è trasparente. Si svolge per colpi di mano e pressioni. Nell’Italia degli anni sessanta si sarebbe detto che queste pressioni avvengono con “rumore di sciabole”. Nel mondo degli anni duemila però le pressioni producono “rumore di armi atomiche”.

Il 30 agosto 2007 i cieli degli Stati Uniti sono stati attraversati dal misterioso volo di un bombardiere B-52H partito dalla base di Minot (Nord Dakota) per la lontana base di Barksdale (Louisiana) con sei missili da crociera AGM-129. Barksdale, l’11 settembre 2001, fu tra l’altro la prima tappa dello strano tour del presidente Bush, prima della base di Offutt (Nebraska).
Quello del 30 agosto 2007 non era un volo come un altro: sui missili erano innescate delle ogive termonucleari W80-1. Non era mai accaduto prima.
La mia ricostruzione punta a considerare non solo incompetenza e distrazioni, ma una qualche pianificazione alternativa che meglio spiegherebbe certi fatti.
Per far saltare in tal modo i protocolli devono essere intervenute mani molto potenti, che hanno aggirato la catena del controllo d’uso e del comando, la sorveglianza elettronica, le procedure aggiuntive dell’Agenzia per la Riduzione dei Rischi della Difesa, i codici segreti, le autorizzazioni. La ridondanza dei sistemi di controllo quel giorno è stata totalmente azzerata.
Ebbene, un’operazione di questa portata non sarebbe possibile senza che partecipasse attivamente più di una persona inquadrata nei più alti gradi gerarchici della US Air Force e del Dipartimento della Difesa.
Robert Stormer, ex capitano di corvetta della marina statunitense spiega:
Gli Stati Uniti non trasportano più le armi nucleari destinate ad essere smantellate sotto le ali di un aereo da combattimento. La procedura consiste nel separare la testata dal missile, chiudere la testata in una cassa e trasportarla con un aereo cargo militare verso un deposito e non verso una base di bombardieri operativi che si trova esattamente in una zona di transito per le operazioni in Medio Oriente.
L’unica maniera per tagliar corto rispetto a catene di comando separate e compartimentate è “porsi al di sopra”, ossia collocarsi al vertice, in una posizione sovraordinata che armonizza l’esecuzione degli ordini.
Gli ordini in un simile scenario sarebbero stati trasmessi ai livelli gerarchici inferiori della US Air Force in diverse località, ostentando tutta la legittimità di una “supervisione”, di cui ogni sottoposto non avrebbe colto le connessioni né tanto meno l’ampiezza. Un altro plausibile scenario è che sia esistita una “catena di comando alternativa”, anch’essa comunque funzionalmente dipendente dalle alte sfere per poter adempiere a tutta l’architettura dell’operazione.
Un indizio di ciò lo ritroviamo nel fatto che molti ufficiali superiori della base di Minot erano stati nominati pochissimo tempo prima, a giugno 2007. È certo impossibile distinguere queste nomine dalle procedure ordinarie. Tuttavia, la coincidenza dei tempi è strepitosa.
Ma comincia ad affiorare un flusso di eventi ancora più inquietante, che si colora di tragedia.
Diversi militari dell’US Air Force sono morti in circostanze anomale nei tempi immediatamente precedenti e successivi ai fatti del 30 agosto 2007. Allo stato attuale, non possiamo avere alcuna prova che metta in rapporto questi decessi con il misterioso volo da Minot a Barksdale. Tuttavia, nel leggere questa vicenda abbiamo l’occhio allenato dagli interrogativi su altre lunghe catene di morti premature (suicidi, incidenti aerei e stradali, infarti di trentenni) che hanno scandito altre vicende misteriose, come avvenne ad esempio per molti testimoni del caso Ustica o per quelli del caso Kennedy.
Le persone morte nei mesi che si addensano intorno allo strano volo Minot-Barksdale erano in grado di coprire molti livelli di una catena di comando alternativa per un’operazione nucleare coperta che avesse avuto sufficiente competenza strategica e accesso diretto a bombardieri e armamenti.

Non va dimenticato che noi sappiamo di questo episodio già dal 2007 perché certi ufficiali della US Air Force avevano fatto filtrare notizia dell’incidente. E questo è un fatto abbastanza eccezionale, che sfida procedure, regolamenti e leggi. Siccome poi abbiamo visto tutta la comunità dell’intelligence scrivere un rapporto categorico sulla 'non attualità' del pericolo atomico iraniano, allora capiamo qualcosa di più. La parte dei poteri forti spaventata dall’avventurismo delle operazioni deviate combatte come può, e con messaggi forti. Quella del 30 agosto 2007 forse era un’operazione speciale deviata finalizzata a una qualche gigantesca provocazione nucleare, non si sa se da attribuire a qualche “stato canaglia”. In qualche modo forse è stata sventata.

I continui annunci del vice-presidente Cheney su di un secondo attacco terroristico di grande portata contro gli Stati Uniti, possibile, anzi certo, in preparazione con il sostegno dell’Iran, restano sullo sfondo. Vista la contiguità con la Casa Bianca dei meccanismi di comando sull’uso delle armi nucleari, il volo delle testate perdute, come ogni altra defaillance della logistica atomica appare giustamente in una luce molto inquietante. Il posizionamento in vista della guerra è dunque in corso. Nessun episodio va tralasciato, né letto superficialmente.

Aggiornamento del 23 giugno 2008
Il presente post è stato ripreso sul sito di «comedonchisciotte»: [QUI];
nonché sul sito di «Megachip»: [QUI]

11 giugno 2008

Nuovi record nella corsa agli armamenti

Il testo ripropone l'articolo US leads soaring military spending: report, apparso il 9 giugno 2008 su «Geopolitical Monitor».

Traduzione di Pino Cabras




La spesa militare mondiale è cresciuta del 45% negli ultimi dieci anni, con gli Stati Uniti a concentrare quasi la metà di tutta la spesa, ha rivelato il 9 giugno 2008 il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute). Secondo il rapporto annuale dell'istituto svedese, solo lo scorso anno le spese militari sono cresciute del 6%.

Nel corso del 2007, ben 1339 miliardi di dollari (851 miliardi di euro) sono stati impiegati in armi e altre spese militari. La somma corrisponde al 2,5% del Prodotto Interno Lordo (PIL) mondiale ovvero a 202 dollari (128 euro, NdT) per ciascuna delle 6,6 miliardi di persone del pianeta.

Gli Stati Uniti totalizzano grandissima parte delle spese verso scopi militari: hanno messo sul piatto 547 miliardi di dollari nel solo 2007, ossia il 45% della spesa totale.

Gran Bretagna, Cina, Francia e Giappone, che si piazzano dopo nella lista dei grandi spenditori, seppure molto dopo, assommano appena al quattro o al cinque per cento ciascuno.
«I fattori che guidano gli aumenti nella spesa militare mondiale comprendono gli obiettivi di politica estera delle nazioni, le minacce reali o supposte, i conflitti armati e le politiche di contribuzione alle operazioni multilaterali di peacekeeping, combinati con la disponibilità di risorse economiche», sostiene il rapporto del SIPRI.

L'aumento è tanto «eccessivo quanto osceno», ha detto ai giornalisti durante la presentazione del rapporto annuale a Stoccolma un importante esponente del SIPRI, Jayantha Dhanapala, che in passato si è occupato di questioni di disarmo all'ONU.

A registrare la maggiore crescita regionale è stata l'Europa dell'Est, che ha visto le sue spese militari raggiungere un tasso di crescita siderale del 162% tra il 1998 e il 2007 e del 15% tra il 2006 e il 2007.

La Russia, le cui spese hanno avuto un balzo del 13% lo scorso anno, sono state responsabili dell'86% della crescita nella regione, secondo il SIPRI.

Il Nord America nel mentre ha visto le sue spese militari gonfiarsi del 65%, spinte in larga misura dagli Stati Uniti, che hanno visto i propri costi crescere del 59% a partire dagli attentati dell'11 settembre 2001 a New York e Washington.

«Nel 2007 le spese statunitensi sono le più alte dai tempi della Seconda Guerra Mondiale», sostiene il rapporto del SIPRI.

Negli ultimi dieci anni il Medio Oriente ha incrementato le spese militari del 62%, l'Asia Meridionale del 57%, mentre l'Africa e l'Asia Orientale del 51% ciascuna.
L'Europa Occidentale è stata la regione con la minima crescita delle spese militari (+6%), seguita dall'America Centrale (+14%).

A livello di singole nazioni, «la Cina ha aumentato le sue spese militari di tre volte in termini reali nel corso dell'ultimo decennio», ha rimarcato il SIPRI, aggiungendo tuttavia che «a causa della sua rapida crescita economica, il peso economico delle spese militari è ancora moderato, intorno al 2,1% del PIL».

Come diretta conseguenza degli accresciuti esborsi militari, le vendite delle 100 più importanti società che producono armamenti (tranne in Cina) son balzate di circa il 9% nel 2006 rispetto all'anno prima fino a un volume di 315 miliardi di dollari, ha ricordato il SIPRI.

63 su 100 delle massime aziende a produzione militare fanno hanno la sede principale in USA e in Europa Occidentale, assommando da sole un volume d'affari di 292,3 miliardi di dollari nel 2006, l'ultimo hanno per il quale il SIPRI abbia questi dettagli.

Nel suo rapporto, l'istituto svedese ha anche descritto il fatto che durante lo scorso anno si sono scatenati 14 grandi conflitti armati: lo stesso numero del 2006. Nel 2001erano 20, ricorda il SIPRI.
«Sta emergendo un nuovo tipo di conflitto e assistiamo a una frammentazione della violenza» in luoghi come l'Iraq e la provincia sudanese del Darfur, ha detto nella conferenza stampa di Stoccolma la ricercatrice Ekaterina Stepanova.

Questa violenza non-statale «può avere conseguenze devastanti per i civili. Tutti gli attori tendono ad essere opportunisti e possono cambiare parte in conflitto», ha aggiunto la Stepanova.
Nell'azzardare una nota di ottimismo, il capo del SIPRI Bates Gill ha detto nel frattempo che entrambi i candidati alle elezioni presidenziali statunitensi di quest'anno potrebbero aprire la strada «alle più promettenti opportunità di vedere un progresso reale nel controllo delle armi nucleari mai viste negli ultimi dieci anni».

7 giugno 2008

Il caso Ahmadinejad: le frasi sognate da Forbice

di Pino Cabras



Mahmūd Ahmadinejād



L'indescrivibile Aldo Forbice, buon ultimo, ha anche lui detto la sua su Mahmūd Ahmadinejād. Non lo ha fatto nella sua solita trasmissione radiofonica Zapping, quella dove sforbicia rudemente le telefonate sgradite degli ascoltatori.
Il Forbice-pensiero sulle frasi del presidente iraniano fa invece capolino nella sua rubrica – intitolata anch'essa Zapping, con uno slancio di originalità di quelli che fanno rischiare l'ernia – sulle pagine della catena di quotidiani «Epolis». Sotto il titolo del 6 giugno 2008 (Ahmadinejad e il potere del dio denaro), la rubrica di Forbice lamenta che l'uomo di Teheran al Tg1 «ha trovato lo spazio di ripetere, senza contraddittorio, i suoi deliranti monologhi sulla “necessità” di portare avanti il programma nucleare, sulla negazione della Shoah e su Israele che “deve essere cancellata dalle carte geografiche” (anche perché “l'ho promesso a Khomeini sul letto di morte”).»
Alt.
Analizziamo le affermazioni di Forbice.
Tralasciamo anche le doglianze per il mancato contraddittorio. Il contraddittorio lo fa il giornalista, se fa bene il suo mestiere. Altrimenti per ogni esternazione di una persona pubblica dobbiamo pensare di allestire lì per lì un dibattito con un omologo. Ahmadinejād un dibattito TV con Bush lo ha anche richiesto, ma non aspettatevi di vederlo nei prossimi cento anni. In realtà nella “lingua di legno” dei giornalisti-propagandisti, l'«assenza di contraddittorio» è uno marchio riservato solo alle posizioni eccentriche rispetto al loro sistema di propaganda.
Poi, perché definire «deliranti» le posizioni in tema di nucleare? Si può anche dubitare che quel programma abbia una destinazione unicamente civile, ma non si può certo definire un delirio il modo in cui la cosa è stata argomentata dal presidente dell'Iran. Se tanto mi da tanto, anche Scajola ha fatto «i suoi deliranti monologhi sulla “necessità” di portare avanti il programma nucleare». Ma Forbice questo non lo dice.
Di sicuro il discorso ambiguo del presidente iraniano sulla Shoah urta le nostre consapevolezze acquisite sulla storia europea, e giustifica le reazioni più aspre. Ma non è diverso da quanto hanno detto per decenni i vertici iraniani. Dove sarebbe la novità, l'allarme rosso?
Ma poi torniamo sempre lì. Torniamo alle frasi raccolte con tanto di virgolette da citazione autentica. Finiamo sempre su Israele che “deve essere cancellata dalle carte geografiche”. Forbice ci dice che Ahmadinejād ha detto quelle esatte parole, durante un Tg1 che milioni di noi hanno seguito, solo che lui ci deve ristrutturare il ricordo, magari accostando questa ferrea citazione al tocco impressionistico della promessa in limine mortis all'Imam.
Per grande sfortuna di Aldo Forbice esiste una trascrizione completa dell'intervista di Tiziana Ferrario a Mahmūd Ahmadinejād. La si può leggere QUI. Nessun accenno a carte geografiche: «quello che ho detto sul regime sionista era più che altro un annuncio. Cioè annunciavo che questo regime presto si disintegrerà e crollerà. Ci sono decine di motivi.» Ahmadinejād fa una lunga tiritera sul ruolo di Israele. Non la condivido affatto, ma la considero con attenzione, per capire, per vedere se ci sono pericoli in quel ragionamento. Ne vedo molti, ma non vedo minacce concrete che possano giustificare un allarme militare straordinario. Tanto più che c'è una frase che spiega ancora: «Qualunque missione che abbia avuto questo regime, è arrivata alla fine. Ci sarà una implosione. Noi sappiamo. Anche loro sanno bene, che il regime esploderà da dentro.» Da dentro. Non sono le dichiarazioni di un pianificatore militare. Sono gli auspici di un discutibile politico populista che non ha nemmeno poteri sulle forze armate né può dichiarare guerra. Ma tutto questo Forbice non lo dice. Cosa dice invece? «L'ho promesso a Khomeini sul letto di morte». E sì, questa è una frase sua, di Forbice, non del politico persiano, che al Tg1 non ha detto nulla di simile. Forse è Forbice che promette incubi sul letto dei sogni. Forse dormiva.

3 giugno 2008

Il caso Ahmadinejad : zuppa, pan bagnato e veleni propagandistici

di Pino Cabras



Mahmūd Ahmadinejād lo vedo proprio male.
I fucili dei media sono tutti puntati su di lui, e lui che fa? Se ne esce con brutte frasi su Israele, ancora una volta.
È già da tempo nel mirino, quello di chi lo disegna come un onnipotente dittatore che indirizza tutte le sue risorse militari verso un sogno di egemonia bellica. L’ennesimo “nuovo Hitler” da strapazzare come i precedenti “nuovi Hitler”, si chiamassero Saddām, Gheddafi, Noriega, Milošević.
E lui niente. Si tuffa ancora una volta incurante, a capofitto, nel tritacarne dei media.

In questo inizio di giugno 2008 non c’è giornale, da destra a sinistra, da est a ovest, che non scriva in prima pagina che il presidente iraniano, di nuovo, ha tuonato che Israele «è alla fine e verrà presto eliminato dalle carte geografiche».

Lo scrivono tutti, sempre, senza eccezioni, non può essere che così. L’ha detto.

E invece no, non l’ha proprio detto.

Il signor Ahmadinejād non ha mai parlato di carte geografiche, di mappe. Mai.

Tu leggi “carte geografiche” e ti immagini un dittatore che scruta una cartina militare distesa su un tavolo, dove individua un territorio con un popolo-bersaglio da incenerire. Chi batte su quella immagine e su quelle parole – carte geografiche - conosce bene la psicologia collettiva, l’immaginario, l’icona dei cattivi che pianificano freddamente le pulizie etniche per puro odio fanatico e integralista.
Eppure, anche se la frase viene martellata in ogni dove, con l’inflessione di una verità lampante, come a dire oggi è sorto il sole, i cani abbaiano, l’acqua disseta, quella frase è nondimeno un’invenzione totale, una citazione fraudolenta, un luogo comune ripetuto all’infinito dai mass media senza alcun filtro, nessun controllo, una qualsivoglia verifica. E lo posso dimostrare.
Voglio capire cosa ha detto esattamente il presidente iraniano, e mi muovo in questa ricerca sapendo che sarò molto infastidito dalle sue espressioni ostili. Ahmadinejād ha detto che il regime israeliano «has reached its end and will disappear from the scene» (“ha raggiunto la sua fine e scomparirà della scena”). La frase e il contesto sono riportati dall’agenzia iraniana IRNA (QUI)

Possiamo anche leggere in un’altra agenzia che «the president added that sooner or later the Israeli regime would disappear, stressing that its ally, the United States, was already on its way to losing power.» Ossia “il presidente ha aggiunto che presto o tardi il regime israeliano scomparirà, e ha posto l’accento sul fatto che il suo alleato, gli Stati Uniti, sono anch’essi già sulla via di perdere il potere”.

Sapete che vi dico? A me il presidente iraniano sembra un grave elemento di sfortuna per il popolo iraniano, e non mi sta per nulla simpatico.
Non mi faccio nemmeno intenerire dai suoi abiti di scarto di grande magazzino degli anni ottanta.
Le sue parole contro Israele sono spesso ostili e odiose, non accettabili nella dialettica fra le nazioni, parole irresponsabili e alla fine dannose per gli stessi iraniani (come ha sottolineato l’ex presidente Khātami).
Eppure dobbiamo stare attenti a non farci trascinare in un nuovo clima di guerra. Perché proprio la guerra all’Iran è uno dei prossimi punti dell’agenda della rivoluzione neoconservatrice.
Sull’odio, costruito con perseveranza, si gioca la conquista delle menti a favore della guerra.
Vedo con sospetto l’insistenza implacabile dei media su una falsa traduzione come questa, che si è già verificata in altre occasioni. Ogni volta che leggete di Ahmadinejād, meglio andate alle fonti, e leggetevi le traduzioni esatte, non quelle diffuse dai disinformatori tipo il MEMRI ai quali si abbeverano acriticamente tutti i media più importanti. Ho fatto così anche la prima volta che al presidente dell’Iran venne attribuita la frase mai proferita di voler «cancellare Israele dalla carta geografica», con il seguito di esecrazioni di tutti i leader del mondo occidentale. La traduzione corretta è QUI .

Perché dico che gli āyatollāh e il loro regime saranno brutti, ma non come li dipinge il gregge mediatico? Anzitutto, dobbiamo restituire le frasi scellerate di Ahmadinejād al proprio contesto, per capire se c’è davvero un nuovo Olocausto alle porte.
«A quanti dubitano, a quanti non credono, dico che un mondo senza l’America e il Sionismo è un obiettivo possibile»: parole di Ahmadinejād davanti a una folla fanatizzata, già nel 2005. In quella occasione gli occhi dell’ex sindaco di Teheran divennero ancora più piccoli, mentre ricordava che un giorno l’Imam Khomeynī (il leader della rivoluzione islamista del 1979) aveva dichiarato che il regime illegale dei Pahlavi doveva essere rimosso, e la cosa poi avvenne davvero nonostante lo scetticismo di chi sembrava capirne di politica. Che altro disse di memorabile Khomeynī? Disse che l’impero sovietico sarebbe scomparso, e così fu. Disse anche che Saddām doveva essere punito, e lo abbiamo visto in manette nel suo Paese. Ahmadinejād ricordava che Khomeynī disse anche che il regime di occupazione di Gerusalemme doveva «sparire dalla pagina del tempo», e con l’aiuto dell’Onnipotente, si vedrà un mondo senza America e senza sionismo, nonostante ci sia chi ne dubita (Safa Haeri, Iran on course for a showdown, «Asia Times», 28 ottobre 2005).

Non è un programma politico-militare: è un richiamo alla fede.
In sostanza dice: tutte le profezie di Khomeynī si sono adempiute, si adempierà anche questa.
Certo, il suono è fastidiosamente fondamentalista e fanaticamente messianico. Ma questa fede si riferisce a eventi promessi e adempiuti senza l’intervento dell’odierna repubblica islamica: la caduta dello Scià, la fine dell’URSS, la capitolazione di Saddām. Come dire: è stata la provvidenza, sarà ancora così.
Gli iraniani devoti non sono chiamati all’iniziativa bellica, bensì all’attesa.
Non è vero, insomma, che Ahmadinejād abbia detto: «distruggeremo Israele». Ha fatto conto su una futura ondata di lotte popolari che con l’aiuto di Dio avrebbe portato alla fine dell’attuale regime che occupa Israele (rezhim-e ishghalgar-e Qods, in lingua farsi). Non è la stessa cosa, attenzione. Devo distinguere, perché c’è in giro chi mi vuole già arruolare nella preparazione della prossima catastrofe bellica.

Sento già la classica obiezione in forma di proverbio contadino: “se non è zuppa è pan bagnato”. Ma non stiamo commentando piccole vicende rurali. Dobbiamo capire le sfumature e sapere se ci sono oppure no dei pericoli concreti.

La parola “scena” e l’espressione “pagina del tempo” non si possono tradurre con “carte geografiche”. Punto.
Né si può tradurre “il regime israeliano scomparirà” con “noi spazzeremo via Israele”. Punto.

Devo capire a chi parlava il presidente iraniano. Si rivolgeva a «quanti dubitano», molti in Iran. Il discorso di Ahmadinejād – pure infausto in questo clima di tensioni internazionali crescenti – era dunque a uso interno.
Il suo discorso tradisce la sua debolezza nel complicatissimo bilanciamento di poteri di Teheran, dove le autorità laiche e religiose si paralizzano reciprocamente in un macchinoso sistema di organi costituzionali. Non c’è un sistema totalitario votato a concrete iniziative espansioniste né a programmi distruttivi. Non c’è una vera ‘minaccia iraniana’ in atto, mentre la pericolosità militare del programma nucleare iraniano è gonfiata, come ha ammesso con forza e al massimo livello istituzionale tutta l’intelligence statunitense.
Non è zuppa, non è pan bagnato. La cattiva traduzione diventata senso comune è una pozione di veleno propagandistico che ci viene fatta bere ogni giorno.

Aggiornamento del 4 giugno 2008:
Il presente post è stato ripreso anche da
Megachip (QUI)
e da
comedonchisciotte (QUI)
nonché da
Arianna Editrice (QUI)