17 novembre 2008

La Rivoluzione Colorata di Obama: nuovo pupo, stessi pupari?

di Pino Cabras - da «Megachip»

Ma allora, la fine dell’Amministrazione Bush e l’ascesa di Obama segnano una fine delle guerre, un ritorno della ragionevolezza sul ponte di comando del pianeta dopo anni di follia ideologica? Obama significa forse pace, speranza, cambiamento, nuovo corso?
A sentire certe parole pacate di Zbignew Brzezinski, sembrerebbe di sì. Brzezinski, eminente politologo, profondo conoscitore di strategia e analisi internazionale, membro di lungo corso del Council on Foreign Relations (CFR) e della Commissione Trilaterale, è uno dei padri della politica del nuovo espansionismo imperiale nordamericano, con ruoli di primo piano ricoperti nell’Amministrazione Carter.


Oggi Brzezinski è un omaggiato consigliere di Barack Obama, il quale pende dalle sue labbra per riconfigurare la leadership mondiale degli USA post-Bush. All’ascoltare Brzezinski, molti si sentono rassicurati per via della sua radicale critica delle politiche neocon, quando rimprovera l’assurdità della Guerra al Terrorismo. E sebbene nessuno colga accenti gandhiani nelle parole di Brzezinski, non sia mai!, quando dice che con la Russia bisogna tornare alla "negotiation" le lancette sembrano di colpo allontanarsi dalla mezzanotte nucleare. Dopo un sonno di otto anni, la ragione sembra risvegliarsi allontanando i mostri. Ma è davvero così? Ascoltiamo l’intervista rilasciata dal vecchio Zbig a David Frost, conduttore di “Frost On The World” su Al Jazeera International, e ci rassicuriamo un po’.

Segnalato anche in un precedente articolo: [QUI]

A sentire un altro politologo statunitense, Webster Griffin Tarpley, sembrerebbe invece di no, che Obama proprio non significa pace, ma guerre più grandi e catastrofiche, e proprio perché subirebbe in toto l’influenza di Brzezinski. Uno scenario terribile che qui cercheremo di comprendere e criticare.
Webster Griffin Tarpley è un giornalista investigativo statunitense. Si occupa da sempre di terrorismo internazionale, dei lati terribili e poco noti della dinastia Bush, del narcotraffico gestito ai piani alti dallo spionaggio statunitense. Ha scritto dei fatti dell’11 settembre 2001 puntando la sua attenzione sulle decine di esercitazioni militari e di sicurezza a ridosso degli attentati. Tarpley a suo tempo aveva seguito da vicino il caso di Aldo Moro, quando nel 1978 coordinò una commissione indipendente d'inchiesta sostenuta dal parlamentare democristiano Giuseppe Zamberletti, con risultati molto diversi dalle inchieste ufficiali.
Tarpley osserva dunque il fenomeno Obama, e lo guarda attraverso la lente di Brzezinski, definito come il puparo della “marionetta” Barack. «Dietro Obama e peggio dei Neocon: il Clan Brzezinski» era il titolo di una conferenza tenuta da Tarpley all’inizio del 2008: tanto per non fare giri di parole, e giusto per puntare senza dubbi su un cavallo vincente. Nelle tecniche elettorali adottate da Obama in USA, Tarpley riconosceva gli stessi metodi spregiudicati, raffinati e “sovversivi” delle “rivoluzioni colorate” attuate in vari paesi post-sovietici. Non che in Hillary Clinton scorgesse chissà che metodi cristallini: in lei vedeva una fazione perdente dell’oligarchia che tentava di vincere le primarie con frodi e voti elettronici taroccati.
In cosa si riscontrava l’impronta delle rivoluzioni colorate? Retorica alata, ideali generici e nebulosi, industrie culturali mobilitate in una gigantesca opera egemonica di “soft power”. Il tutto per occultare lo stesso obiettivo di fondo delle altre rivoluzioni colorate, ossia colpire duramente qualsiasi grande potenza che dovesse emergere nella scacchiera eurasiatica. La Russia prima di tutto. Dietro le tranquillizzanti e piatte utopie di Obama – per Tarpley - c’è la catastrofe di un confronto militare con la Russia. Altro che le “negotiation” prospettate da Brzezinski.
Tarpley osservava che la prima vittoria del senatore Obama nei caucus dello Iowa si era incentrata su quella stessa esasperazione organizzativa delle tecniche di persuasione usate nelle rivoluzioni colorate di marca CIA. Gli ingredienti c’erano tutti: figuranti e truppe cammellate, uso massiccio e integrato dei media, attivisti dotati di mezzi immensi, simboli, slogan, falsi sondaggi, e un oratore sufficientemente demagogo. In Iowa la tempesta di falsi sondaggi portò a un torpore mentale dei media su Obama e a una proclamazione prematura della sua conquista della nomination del partito democratico.
A dispetto dell’enfasi di Obama sulle donazioni popolari alla sua campagna presidenziale, i super-ricchi non gli hanno lesinato finanziamenti. Il «Wall Street Journal» notava che l’altro candidato democratico John Edwards era il più temuto dalla superclasse dei miliardari. A Obama arrivavano viceversa milioni di dollari dalla superbanca Goldman Sachs, dice Tarpley.
Tarpley prova a spiegare la freddezza di Obama sulle questioni dell’Iraq e dell’Iran, che invece appassionavano i guerrafondai neoconservatori e la lobby filoisraeliana fino a Hillary Clinton. Come mai il senatore afroamericano, che pure voleva il ritiro dall’Iraq e non dichiarava indisponibilità a un tavolo negoziale con l’Iran, si dichiarava invece a favore del bombardamento di vaste zone del Pakistan, un alleato di lunga data degli USA, fra lo sconcerto di Hillary e altri candidati? Così come si dichiarava favorevole a un massiccio aumento dell’intervento in Afghanistan.
Tarpley nota che uno dei progetti eurasiatici più importanti studiati dall’intelligence anglo-americana è una sorta di soluzione jugoslava per il Pakistan, da smembrare lungo le molte linee etniche. Un Pakistan spezzettato finirebbe molto più difficilmente in blocco nell’orbita di Pechino, l’avversario strategico di medio periodo di Washington. Un piano alla Brzezinski insomma, affine al metodo da lui usato trent’anni prima per destabilizzare l’Afghanistan e attrarre l’URSS in una trappola fatale.

Si racconta che Winston Churchill, da Ministro delle Colonie, si era vantato di aver inventato la Giordania durante una cena di plenipotenziari. Oggi si potrebbe pianificare la distruzione di uno Stato più popoloso dell’intera Russia, il Pakistan, con altrettanta scioltezza, e con effetti presumibilmente devastanti. Obama ha un’idea di questo tipo? Le sue dichiarazioni non autorizzano questo tipo di speculazione, che si appoggia solo su congetture suggestive ma non documentate.
In ogni caso le riflessioni di Tarpley si sono concentrate su Barack Obama, tanto che nel 2008 ha scritto ben due libri critici sul nuovo presidente degli Stati Uniti: il pamphlet “Obama: The Postmodern Coup” (“Obama: il golpe postmoderno”, NdT) e la prima sua ‘biografia non autorizzata’: “Obama: The Unauthorized Biography”.
Secondo Tarpley, c’è molto fumo e poca investigazione sulle origini di Obama e sul suo ambiente di riferimento. A rinvangare gli anni della formazione di Barack Obama, Tarpley scopre una cosa importante. Obama si è laureato con Zbigniew Brzezinski. La sua tesi di laurea verteva sullo smantellamento dell'arsenale atomico sovietico. Nemmeno nei giorni dell’Obamamania i media più influenti hanno trovato il modo di scavare su questo fatto.
Quel che sappiamo è che Obama aveva speso parole di sentita gratitudine e fiducia verso Brzezinski, con solennità pubblica.




Tarpley prova a scavare sull’argomento, tanto da analizzare le biografie di altre figure vicine a Obama. Da questa rassegna ricava la certezza che Obama sia vincolato alla Commissione Trilaterale (fondata dallo stesso Brzezinski) e a circoli politici ed economici molto elitari. Nel frattempo il "culto" di Obama fa conto su discorsi estremamente generici, caratterizzati da formule vaghe ripetute a oltranza (da “Yes We Can” a “Change”), saturabili da qualsiasi camaleontismo. Intanto che masse di giovani sono confluite nel gregge di questo ispirato pastore, perdureranno le infrastrutture del potere costituzionale deviato predisposte negli anni di Bush, come il Patriot Act. Quanto di quel sistema è disposto a smantellare Obama, a parte la vetrina della vergogna di Guantanamo? Tarpley dà per scontato che Obama non si priverà degli strumenti anticostituzionali e li userà in combinazione con il “soft power” per una sorta di fascismo soffice. Per ora, tuttavia, tutto questo è solo una “soffice congettura” di Tarpley.
La base carismatica del consenso a Obama, insieme alla sua genericità multiuso, nel contesto di una crisi economica di massima portata e di un sistema ormai sempre più portato allo “stato d’eccezione”, può condurre secondo Tarpley a una catastrofe mondiale sotto la guida dei soliti poteri forti.
La funzione della presidenza Obama per Tarpley è stata programmata per dare piena copertura politica a un vasto piano strategico di gittata planetaria:

1) restaurare il “soft power” statunitense, con un’immagine di paese pacifico, di faro democratico, di luogo di accoglienza e tolleranza capace di far dimenticare il disastro Bush;
2) disgregare le potenze emerse (e riemerse) della Cina e della Russia.

A parere di Tarpley, il metodo Brzezinski, in questo caso, porterebbe a ricacciare indietro i cinesi dalla presa che si sono conquistati ultimamente sulle risorse africane, petrolifere e non. Mentre già in Congo, in Sudan e in Zimbabwe, ma non solo, una parte delle gravi tensioni e delle guerre si collega già alla dialettica USA-Cina, la presidenza di Obama l’Africano potrebbe spostare l’ago della bilancia. Una sconfitta della Cina in Africa porterebbe costringere Pechino a cercarsi le risorse in Russia. Ne conseguirebbero tensioni molto forti fra le due potenze eurasiatiche e l’affondamento della Shanghai Cooperation Organization.
Lungi dall’attaccare l’Iran, come avrebbero fatto i neocon e come potrebbe fare ancora Israele, la 'marionetta di Brzezinski', nell’ottica di Tarpley, cercherebbe un accordo con Teheran – magari concedendogli un aumento della sua influenza in una parte dell’Iraq (come già in parte avviene) – fino a ricomprendere l’Iran in un’alleanza antirussa e anticinese.
Sono conclusioni troppo precise per poter essere estrapolate dal rapporto fra Obama e Brzezinski. E le possibili ipotesi si perdono nella complessità imprevedibile degli intrecci geopolitici. Questo è un campo per doppi e tripli giochi. Pensate che il programma nucleare civile iraniano – l’oggetto della disputa più controversa degli ultimi anni – è finanziato per quattro milioni di dollari anche dal Dipartimento dell’energia statunitense, come ha scoperto con raccapriccio la CNN.



La preoccupazione di Tarpley è che un confronto militare con due potenze che il nucleare militare ce l’hanno davvero, la Cina e la Russia (per non parlare dei rischi legati al nucleare del Pakistan), porterebbe a una vera catastrofe. Se Tarpley avesse ragione, tutte le recenti dichiarazioni di quelli che considera i pupari di Obama, i maggiorenti del CFR e della Commissione Trilaterale (da Brzezinski alla Albright, dal vicepresidente eletto Biden a Colin Powell), vanno letti in una luce ancora più minacciosa. Il crescendo di allarmi giornalistici sull’imminenza di grossi eventi terroristici che testerebbero subito l’azione di Obama prefigura uno scenario di guerra.
In realtà non si possono fare processi alle intenzioni. E la realtà - che nel frattempo ha galoppato come non mai, in questo 2008 accelerato - non fa sconti ai grandi progetti imperiali, erosi come sono da problemi materiali ed economici senza precedenti. Possiamo dire ad esempio che il G8 è morto, e che ormai si ragiona in termini di G20. Così come possiamo dire che Cina e Russia hanno basi materiali e sponde diplomatiche abbastanza solide da rafforzare la loro capacità dissuasiva verso nuove avventure imperiali, nel momento in cui si è innescata una crisi colossale degli Stati Uniti. Persino Berlusconi ha fiutato l’aria di una forte preoccupazione europea che vuole impedire la deriva di una nuova corsa al riarmo in una fase così delicata, e ha anticipato un no ai sistemi antimissile americani nell’Est Europa.
Lo Studio Ovale della Casa Bianca è al centro di spinte e intrecci complessi. Molte mani tireranno la giacchetta di Barack Obama per forzarlo a compiere certi atti anziché altri, ad anticipare certi tempi sul calendario dei grandi progetti imperiali. Tuttavia la clessidra si è rotta, è scesa molta sabbia che ormai modella le dune di un nuovo paesaggio cangiante. Quella di Obama sarà un’attraversata nel deserto, fra miraggi, oasi, predoni e terre promesse. Si scriverà la Storia, ma non ha senso scriverla prima che accada, tantomeno sulla base di presentimenti.


Il presente articolo è stato pubblicato anche su «ComeDonChisciotte» [QUI] e su «AriannaEditrice» [QUI].

1 commento:

Anonimo ha detto...

Bravo Pino un po' di luce nel buio dell'insulsaggine omologata dei media