di Pino Cabras
Un dibattito sull’11 settembre 2001, sette anni dopo?
Il giornalismo di oggi non lo può tollerare.
Disobbedisci al tabù?
E io ti licenzio in tronco, parbleu!
Hai solo il tempo di portarti via lo scatolone con le tue robettine, come i mesti neo-disoccupati della Lehman Brothers. Non importa se la tua TV è decapitata.
È successo a un paio di giornalisti di «France 24», la “CNN francese”. Non due giornalisti qualsiasi, come vedremo.
I due sono Grégoire Deniau, direttore dell’informazione di «France 24», e Bertrand Coq, redattore capo della stessa rete. In Italia i loro nomi non dicono molto, ma oltralpe sono noti come autori di grandi inchieste, eccellenti inviati di guerra, cronisti capaci di indipendenza. Entrambi hanno vinto il premio Albert Londres, una sorta di “Pulitzer francese”.
La loro credibilità ha contribuito al lancio di «France 24», l’emittente internazionale tanto voluta dall’allora presidente Jacques Chirac, finché, nel febbraio 2008, Christine Ockrent, un’altra vecchia volpe del giornalismo transalpino, non è diventata amministratrice delegata di «France Monde», la holding che controlla «France 24» e altri canali.
Si dà il caso però che Christine Ockrent sia anche moglie del ministro degli esteri francese Bernard Kouchner, con il quale condivide un forte slancio mirante a riportare Parigi nell’ovile della Washington neoconservatrice.
Lo scorso giugno Ockrent era anche presente all’annuale riunione del gruppo Bilderberg, la riservatissima conferenza che riunisce la ‘crème de la crème’ delle classi dirigenti che dominano le due sponde dell’Atlantico.
Il nuovo corso dell’Eliseo riconverte totalmente le autonomie praticate per decenni da De Gaulle, Mitterrand e Chirac. Gli intellettuali organici dell’era Sarkozy, come la Ockrent, si adeguano alla nuova missione: riallineare l’informazione su onde più affini alla “rivoluzione neocon” d’oltreoceano.
La posizione di Deniau e Coq traballava già prima del dibattito televisivo incriminato. Non tanto perché sulla redazione incombesse ormai una vera primadonna (per anni mezzobusto del tg serale), quanto perché da parte loro, anni fa, erano giunti grossi dispiaceri a carico del dottor Kouchner. Molto grossi.
Coq in particolare nel 2000 aveva scritto “Les tribulations de Bernard K. en Yougoslavie ou l’imposture humanitaire”, un libro durissimo che smascherava l’attuale inquilino del Quai d’Orsay, visto come consapevole strumento di un progetto di dominio statunitense sui Balcani, dentro un disegno ad ampio spettro: lui, Kouchner, a coprire il campo della cosiddetta “ingerenza umanitaria”; l’UCK e gli altri tagliagole jihadisti a fare invece il lavoro sporco (erano gli stessi anni in cui Osāma bin Lāden esibiva un passaporto bosniaco con i timbri a posto).
Il pretesto per mandare via i due giornalisti di punta è stato il dibattito sull’11 settembre. Inutile cercare le immagini della tavola rotonda nell’archivio del sito di «France 24». A differenza di altre trasmissioni, non se ne conserva traccia. Si può però trovare su altri siti. Tra l’altro, non è stato nemmeno un dibattito alla pari. I difensori delle versioni ufficiali dell’11/9 erano quattro, il critico solo uno, continuamente interrotto dagli altri quattro e anche da Sylvain Attal, conduttore del programma. Il titolo della trasmissione era a sua volta molto sbilanciato, e non certo a sfavore della versione ufficiale: “11/9, il mito del complotto”. Attal aveva perfino esordito così: «Qui non si tratta di equiparare le ‘teorie del complotto’ al rapporto della Commissione d’inchiesta».
Eppure, niente. Non poteva bastare. I tabù non si profanano, e basta.
L’editore ha lamentato che il dibattito era stato inserito a sua insaputa. Non si può. «Colpa professionale» è la sommaria giustificazione ufficiale con cui è scattato il licenziamento in tronco di Deniau e Coq. I passi di "Bernard K." saranno ora più rilassati. E anche le corsettine di Sarkozy fuori dell’Eliseo saranno più distese, lungo un panorama mediatico sempre più ‘normalizzato’.
La prima grande voce francese critica sul racconto dell’11/9, Thierry Meyssan, vive ormai esule in Libano.
Negli anni di Chirac, pur bersagliato da critiche e inchieste feroci di Meyssan, il presidente in persona aveva nondimeno assicurato un’alta protezione al giornalista, già soggetto a minacce molto concrete. La ‘liberté’, se è vera, tutela i dissidenti. Chirac ha mostrato di credere a un principio fondante della ‘République’. Meyssan non ha mancato di esprimergli gratitudine.
Con Sarkozy cambia tutto. Nessuna protezione per il fondatore della «Rete Voltaire», anzi. I messaggi che riceve sono di segno opposto. Meyssan non è al sicuro in nessun paese NATO. Il termine ‘dissidente’, con tutto il suo sapore da Cecoslovacchia anni settanta, è da rispolverare qui ed ora, in Occidente. I porti sicuri diminuiscono.
Esagero, forse? Può darsi. Ma i segnali, solo per rimanere al caso francese, sono pesanti e congruenti. Prendete per esempio l’attore e autore satirico Jean-Marie Bigard. Il 7 settembre 2008, durante una trasmissione radio a «Europe 1», ha argomentato contro la versione ufficiale dell’11/9, citando film, documentari, libri, tesi di specialisti. Dichiarazioni insomma non “pour parler”, ma legate a un prolungato ed evidente percorso di apprendimento.
Apriti cielo!
La fustigazione dei media è stata così univoca e spietata, a partire dal “progressista” «Libération» (proprietà Rotschild), che appena il 9 settembre Bigard dichiarava contrito alle agenzie: «chiedo scusa a tutti per quanto ho detto venerdì durante la trasmissione di Laurent Ruquier a “Europe 1”, non parlerò mai più degli eventi dell’11 settembre; non esprimerò mai più dei dubbi, sono stato trattato da revisionista, cosa che evidentemente io non sono». Un tipico cerimoniale di autocritica sotto pressione.
Poi Bigard è stato capace di venir meno alla promessa, per fortuna della libertà di parola, ma i cannoni sono sempre puntati contro chi manifesta il Grande Dubbio dell’11/9.
Qualche mese fa anche l’attrice francese Marion Cotillard, premio Oscar 2008, aveva dovuto faticare oltremisura per contestualizzare le sue frasi scettiche sull’11/9 “ufficiale”.
Il brutale licenziamento di Coq e Deniau non è stato però l’unico caso eclatante della resa dei conti mediatica in corso a Parigi. Il 12 agosto 2008 il benservito è toccato al giornalista Richard Labévière, uno specialista di Medio Oriente per la rete RFI, un’altra emittente del polo televisivo spadroneggiato da Christine Ockrent. Anche qui il licenziamento in tronco ha trovato una giustificazione occasionale superbamente pretestuosa: l’accusa a Labévière è di non aver avvisato la direzione della radio dell’intervista al presidente siriano Bashar al-Assad registrata a Damasco e trasmessa il 9 luglio da TV5 e il 10 luglio da RFI, pochi giorni prima della visita ufficiale di al-Assad in Francia su invito di Sarkozy.
Labévière a suo tempo era stato anche autore di uno scoop clamoroso, assieme alla giornalista Alexandra Richard di «Le Figaro». Rivelò infatti che appena due mesi prima dei mega-attentati sul suolo USA, dal 4 al 14 luglio 2001, Osāma bin Lāden, gravemente ammalato, sarebbe stato curato in un reparto VIP dell’ospedale americano di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti. Durante il soggiorno in ospedale, oltre alle visite di molti maggiorenti sauditi, Osāma avrebbe ricevuto anche quella del rappresentante locale della CIA. Una notizia bomba, in totale controtendenza rispetto alla lettura del ruolo di al-Qā‘ida nell’11/9. Una notizia cui la Francia di Chirac dava segno di credere. Altri tempi.
Richard Labévière era uno di quegli ostinati cronisti che quando parlavano della capitale di Israele dicevano ancora Tel Aviv e non Gerusalemme, ricevendo in cambio pubbliche reprimende dell’ambasciatore israeliano, di solito efficaci per farlo spostare da un programma visibile a uno meno visibile. Fino al licenziamento vero e proprio, stavolta per l’intervista al presidente siriano. «Colpa professionale», anche in questo caso.
Sui media francesi, per settimane, silenzio assoluto sulla notizia.
Tornando ancora indietro, ma non di molto, a luglio 2008 era stato licenziato su due piedi Maurice Sinet, in arte Siné, un disegnatore e autore di satira. Siné ha 80 anni, e ha una ben nota e lunghissima carriera di vignette satiriche. Le sanzioni però arrivano oggi, guarda un po’. Sul settimanale satirico «Charlie Hebdo» (lo stesso che aveva ristampato in nome della libertà di espressione le vignette su Maometto del danese «Jylladen Posten») Siné aveva pubblicato una vignetta su Jean Sarkozy, figlio del Presidente francese. La caricatura satireggiava su una presunta conversione del giovane rampollo all’ebraismo. Il direttore, travolto dalla canea dei media che parlavano di “antisemitismo”, lo ha cacciato ‘ad nutum’.
Oggi l’ottuagenario vignettista ha ancora la mirabolante energia per lanciare a tamburo battente una nuova rivista satirica, «Siné Hebdo».
Ma il messaggio è arrivato forte e chiaro a chi ottantenne non è, e deve tenersi caro il posto in redazione.
Nei media della stagione sarkozyana il cerchio si chiude con forza.
L’azionista di riferimento di TF1 è Martin Bouygues, un intimo di Sarkozy (è anche padrino del figlio). Il patron della catena M6 è Nicolas de Tavernost, meno intimo, ma comunque schierato. Sul digitale terrestre investono i miliardari vicinissimi a Sarko: il finanziere Vincent Bolloré e Arnaud Lagardère. Quale sia il concetto di indipendenza giornalistica per il signor Lagardère, si è pregiato di comunicarlo egli stesso: «Che cos’è l’indipendenza in materia di stampa? È aria fritta. Prima di sapere se sono indipendenti, i giornalisti farebbero meglio a sapere se il loro giornale è perenne». [«Le Monde Diplomatique»]
Queste sono le tendenze in atto sui media in Francia, un paese che pure ha prodotto straordinari anticorpi contro l’omologazione informativa angloamericana.
La portata delle crisi internazionali in corso, nel secolo inaugurato dall’Evento dell’11 settembre, ammette sempre meno letture dissonanti agli occhi delle classi dirigenti e del loro specchio mediatico.
Se la stagione delle censure e degli ostracismi si accelera impetuosamente persino in Francia, l’allarme deve essere massimo per tutti gli altri luoghi che hanno generato meno anticorpi, come l’Italia.
Il crudo monito di Lagardère, al di là del suo uso intimidatorio, contiene una verità: la garanzia dell’indipendenza informativa è l’esistenza di una solida base organizzativa del medium di massa utilizzato.
Aggiornamento del 2 ottobre 2008:
Il presente articolo è stato ripreso anche da «ZeroFilm» [QUI], da «Megachip» [QUI], da «Luococomune» [QUI], da «Altra Informazione» [QUI] e da «Nexus» [QUI].
2 commenti:
Grande Pino Cabras. A che serve ormai leggere la fuffa dei quotidiani quando ci sono in rete degli osservatori come lei molto più attenti dei giornalisti professionisti? Quasi tutti seguaci del monito di Lagardere che lei riporta, ormai non hanno più niente da dirci.
Solo che loro guadagnano e lei, immagino, no. "Professionista" in questo caso diventa sinonimo di mercenario. Continui così, a farci vedere il lato buio della luna! Saluti, Damaso
Non l'ho letto tutto ma credo che sia evidente come le informazioni siano modificate, non approfondiscono, non ci sono confronti seri.
Inoltre molti vip o vippetti fanno i giornalai..ehm giornalisti!
Dai, la gente lo capisce!!!
La tv la gente alla fine la usa per non sentirsi sola, per sentire parlare qualcuno...certo il cervello s'addormenta ma nessuno ti obbliga ad accendere quel cubo cessico!
Un giornalista serio non può che farlo gratis per passione. Se vuole diventare famoso sa a cosa andrà incontro!!!
Posta un commento