18 gennaio 2016

Italia-UE, una crisi dentro una crisi più grande


di Pino Cabras.
da Sputnik e Megachip.


Le guerre che circondano l’Europa alimentano una parte importante del flusso migratorio, e ora quel flusso si abbatte sui contrasti interni dell’Unione europea, disunita e fiaccata da troppi anni di austerity.
La Turchia, soggetto attivo e passivo della guerra siriana, ha in mano il rubinetto che regola l’intensità del flusso migratorio verso l’Europa, mentre l’Europa ha il rubinetto delle risorse finanziarie da dare alla Turchia: solo che sul rubinetto dei soldi le mani in lotta per controllarlo sono più d'una. Si ricorderà che a novembre 2015 fu firmato un accordo da 3 miliardi di euro fra la UE e la Turchia, a sostegno di un pacchetto di interventi pluriennali per i rifugiati, da spendere soprattutto sul suolo turco. Il problema è che quei 3 miliardi bastano a malapena per un anno (mentre Ankara chiede 3,5 miliardi l’anno per due anni), e nessuno sa chi metterà - e in che modo – già da ora, i due terzi della cifra.
Si presume che paghino in gran misura gli Stati membri, ciascuno in base al suo peso economico. Per Stati già sottoposti a vincoli di spesa sempre più penetranti rimane il dilemma: tagliare ancora le spese o chiedere all’Europa più libertà di spesa?
L’Italia, ad esempio, aveva già chiesto qualche flessibilità alla Commissione europea, sforando in modo concordato i rigidi parametri del deficit. Questo è bastato al presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, per dire "abbiamo già dato". Ovverosia: niente ulteriore flessibilità per Roma. Il contributo dell'Italia alla crisi dei migranti ricadrebbe nei soliti vincoli, con prevedibili conseguenze sul bilancio e sull'economia.
Ecco perché il governo italiano non ci sta e dichiara di non volersi sottomettere alla Commissione europea (né alla Germania): esige che quanto sarà speso in più per i rifugiati non faccia scattare la tagliola di Bruxelles. L'attacco di Matteo Renzi ha avuto una risposta durissima da parte di Juncker: «Il presidente del Consiglio italiano sbaglia ad offendere la Commissione in ogni occasione. La mia irritazione è in tasca, sono pronto a tirarla fuori.» Quando i pezzi grossi della troika usano questo linguaggio, la battaglia sarà durissima. È la fine di una sorta di "periodo di grazia" accordato a Renzi. Infatti, sebbene l'Italia sia stata fra i paesi membri più solerti nell'aderire al famigerato "Fiscal Compact", ossia il Patto di bilancio europeo, non ha dovuto applicare da subito il suo pesantissimo obiettivo: ridurre entro vent'anni il debito pubblico dal 130% al 60% del PIL (cioè mazzate pazzesche ogni anno), l'impegno ad avere un deficit pubblico strutturale che non deve superare lo 0,5% del PIL (cioè impossibilità di fare politica economica), l'obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio (che unicamente l'Italia ha introdotto in Costituzione), nonché altre vessazioni che formano l'ossatura della dittatura europea, quella forma di tirannia che pensa di curare l'anemia con i salassi. Per tutto questo meccanismo infernale, in grado di distruggere definitivamente l'economia italiana (e di tutto il Sud Europa), al "premier-mai-eletto" è stato concessa una sorta di sospensione del Fiscal Compact, per non far cadere subito il suo governo e non creare perciò un'altra Grecia, molto più grande e incontrollabile.
È grazie al poter stare in questo limbo che Renzi ha potuto presentare come una svolta epocale un PIL che non calava più, anche se cresceva di pochi spiccioli, così come ha potuto maneggiare qualche risorsa per giochi di prestigio fiscali, senza però intaccare nessuna delle ragioni del declino italiano.
Ora Renzi non sarà più graziato, mentre rimane il nodo di fondo della dittatura fiscale europea: un nodo scorsoio che tornerà a stringersi, non lasciando più margini di manovra. Con regole simili e con interlocutori così rigidi ai piani alti dell'eurocrazia, la strada dell'austerity è già segnata.
Per questo motivo il caso turco anticipa il problema.
Il presidente turco Erdoğan, uno dei grandi perturbatori del Levante, dopo aver fornito il retroterra militare ai combattenti jihadisti che hanno generato una catena di catastrofi umanitarie in Siria e dintorni, è la diga che oggi trattiene due milioni di rifugiati, ma che domani può anche non trattenere più. Sa bene che l'Europa è un continente ripiegato sui suoi problemi. Sa che i suoi Stati reggono male l'arrivo devastante di una fiumana di disperati, perché su questo sono culturalmente e politicamente impreparati. Sa che quasi tutti questi Stati sono anche vincolati dalla NATO e che la Turchia può coinvolgerli in guerra, dentro quel disastro che essi stessi hanno contribuito a creare destabilizzando il Medio Oriente e il Nord Africa. Insomma, Erdoğan ha potenti strumenti di ricatto per pretendere il pizzo all'Europa, che però non ha ancora deciso chi paga.
È quella stessa Europa che finge che l'Ucraina non sia in bancarotta mentre continua ad appoggiarla diplomaticamente e militarmente, intanto che contro la Russia intraprende la battaglia autolesionista delle sanzioni.
Gli alibi e i rinvii non funzionano più, e le contraddizioni si presentano tutte insieme, in forma di crisi migratorie, finanziarie, sociali, militari e diplomatiche. Se si solleva lo sguardo è un'unica crisi politica europea, nel momento in cui non esiste alcun "sogno europeo" che possa funzionare. Nessun sogno funzionerà finché resterà nella doppia morsa della NATO e delle istituzioni deviate del costrutto comunitario. Rimangono solo i ricatti e i rapporti di forza, oltre a leggi europee che acuiscono i contrasti e creano le basi per ulteriori sconvolgimenti. La battaglia su "quanto deficit si può sforare" è ancora poca cosa rispetto alla vera portata della crisi.




Nessun commento: