Le
guerre che circondano l’Europa alimentano una parte importante del flusso
migratorio, e ora quel flusso si abbatte sui contrasti interni dell’Unione
europea, disunita e fiaccata da troppi anni di austerity.
La
Turchia, soggetto attivo e passivo della guerra siriana, ha in mano il
rubinetto che regola l’intensità del flusso migratorio verso l’Europa, mentre
l’Europa ha il rubinetto delle risorse finanziarie da dare alla Turchia: solo
che sul rubinetto dei soldi le mani in lotta per controllarlo sono più d'una.
Si ricorderà che a novembre 2015 fu firmato un accordo da 3 miliardi di euro fra la UE e la Turchia, a
sostegno di un pacchetto di interventi pluriennali per i rifugiati, da spendere
soprattutto sul suolo turco. Il problema è che quei 3 miliardi bastano a
malapena per un anno (mentre Ankara chiede 3,5 miliardi l’anno per due anni), e
nessuno sa chi metterà - e in che modo – già da ora, i due terzi della cifra.
Si
presume che paghino in gran misura gli Stati membri, ciascuno in base al suo
peso economico. Per Stati già sottoposti a vincoli di spesa sempre più
penetranti rimane il dilemma: tagliare ancora le spese o chiedere all’Europa
più libertà di spesa?
L’Italia,
ad esempio, aveva già chiesto qualche flessibilità alla Commissione europea,
sforando in modo concordato i rigidi parametri del deficit. Questo è bastato al
presidente della Commissione, Jean-Claude Juncker, per dire "abbiamo già
dato". Ovverosia: niente ulteriore flessibilità per Roma. Il contributo
dell'Italia alla crisi dei migranti ricadrebbe nei soliti vincoli, con
prevedibili conseguenze sul bilancio e sull'economia.
Ecco
perché il governo italiano non ci sta e dichiara di non volersi sottomettere
alla Commissione europea (né alla Germania): esige che quanto sarà speso in più
per i rifugiati non faccia scattare la tagliola di Bruxelles. L'attacco di
Matteo Renzi ha avuto una risposta durissima da parte di Juncker: «Il
presidente del Consiglio italiano sbaglia ad offendere la Commissione in ogni
occasione. La mia irritazione è in tasca, sono pronto a tirarla fuori.» Quando
i pezzi grossi della troika usano questo linguaggio, la battaglia sarà
durissima. È la fine di una sorta di "periodo di grazia" accordato a
Renzi. Infatti, sebbene l'Italia sia stata fra i paesi membri più solerti nell'aderire
al famigerato "Fiscal Compact", ossia il Patto di bilancio europeo,
non ha dovuto applicare da subito il suo pesantissimo obiettivo: ridurre entro
vent'anni il debito pubblico dal 130% al 60% del PIL (cioè mazzate pazzesche
ogni anno), l'impegno ad avere un deficit pubblico strutturale che non deve
superare lo 0,5% del PIL (cioè impossibilità di fare politica economica),
l'obbligo del perseguimento del pareggio di bilancio (che unicamente l'Italia
ha introdotto in Costituzione), nonché altre vessazioni che formano l'ossatura
della dittatura europea, quella forma di tirannia che pensa di curare l'anemia
con i salassi. Per tutto questo meccanismo infernale, in grado di distruggere
definitivamente l'economia italiana (e di tutto il Sud Europa), al "premier-mai-eletto"
è stato concessa una sorta di sospensione del Fiscal Compact, per non far
cadere subito il suo governo e non creare perciò un'altra Grecia, molto più
grande e incontrollabile.
È
grazie al poter stare in questo limbo che Renzi ha potuto presentare come una
svolta epocale un PIL che non calava più, anche se cresceva di pochi spiccioli,
così come ha potuto maneggiare qualche risorsa per giochi di prestigio fiscali,
senza però intaccare nessuna delle ragioni del declino italiano.
Ora
Renzi non sarà più graziato, mentre rimane il nodo di fondo della dittatura
fiscale europea: un nodo scorsoio che tornerà a stringersi, non lasciando più
margini di manovra. Con regole simili e con interlocutori così rigidi ai piani
alti dell'eurocrazia, la strada dell'austerity è già segnata.
Per
questo motivo il caso turco anticipa il problema.
Il
presidente turco Erdoğan, uno dei grandi perturbatori del Levante, dopo aver
fornito il retroterra militare ai combattenti jihadisti che hanno generato una
catena di catastrofi umanitarie in Siria e dintorni, è la diga che oggi
trattiene due milioni di rifugiati, ma che domani può anche non trattenere più.
Sa bene che l'Europa è un continente ripiegato sui suoi problemi. Sa che i suoi
Stati reggono male l'arrivo devastante di una fiumana di disperati, perché su
questo sono culturalmente e politicamente impreparati. Sa che quasi tutti
questi Stati sono anche vincolati dalla NATO e che la Turchia può coinvolgerli
in guerra, dentro quel disastro che essi stessi hanno contribuito a creare
destabilizzando il Medio Oriente e il Nord Africa. Insomma, Erdoğan ha potenti
strumenti di ricatto per pretendere il pizzo all'Europa, che però non ha ancora
deciso chi paga.
È
quella stessa Europa che finge che l'Ucraina non sia in bancarotta mentre
continua ad appoggiarla diplomaticamente e militarmente, intanto che contro la
Russia intraprende la battaglia autolesionista delle sanzioni.
Gli
alibi e i rinvii non funzionano più, e le contraddizioni si presentano tutte
insieme, in forma di crisi migratorie, finanziarie, sociali, militari e
diplomatiche. Se si solleva lo sguardo è un'unica crisi politica europea, nel
momento in cui non esiste alcun "sogno europeo" che possa funzionare.
Nessun sogno funzionerà finché resterà nella doppia morsa della NATO e delle
istituzioni deviate del costrutto comunitario. Rimangono solo i ricatti e i
rapporti di forza, oltre a leggi europee che acuiscono i contrasti e creano le
basi per ulteriori sconvolgimenti. La battaglia su "quanto deficit si può
sforare" è ancora poca cosa rispetto alla vera portata della crisi.
Fonte: http://it.sputniknews.com/mondo/20160118/1908434/italia-ue-crisi-nella-crisi-guerre-europa.html.
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