La firma dello
storico accordo sul nucleare tra Iran e Comunità internazionale non è il
punto terminale ma il primo passo di un processo che può cambiare la
fisionomia del Medio Oriente e, dunque, le relazioni internazionali
globali.
Tutti
gli analisti più attenti della questione hanno rilevato, da tempo, che
il faticosissimo negoziato che ha impegnato per oltre un decennio le
diplomazie non era tanto centrato sulla possibilità che l'Iran
acquisisse il nucleare militare ma sul ruolo che il paese persiano
doveva assumere sullo scacchiere internazionale.
Perciò i termini più esatti della questione erano di ordine squisitamente politico (geopolitico) e non tecnico. Per parte americana, dalla visione di un Iran perno dell' "asse del male" si è passati ad una visione molto più pragmatica e realista. Tatticamente l'Iran diventa per Washington il partner ideale per il contenimento del pericolo jihadista, prima di Al-Qa'ida, ora di Daesh (Isis), in tutta l'area tra Iraq e Siria. Il mostro islamista che gli stessi americani hanno contribuito a destare non è un robot che risponde istantaneamente ai comandi e che si possa accendere o spegnere premendo un interruttore. Sono necessari "scarponi sul terreno" che possano contrastare in profondità la sua egemonia che può anche sfuggire di mano. Gli "scarponi" oggi, se non direttamente iraniani, appartengono ad Hezbollah in Siria ed alle milizie sciite in Iraq, dunque fazioni apertamente o tendenzialmente filo-iraniane.
Inoltre l'attuale Amministrazione di Washington sembra aver sposato un assetto per il Medio Oriente, tipicamente ricalcato sulle idee dello stratega di lungo corso Zbigniew Brzezinski, che punta alla creazione di un quadrilatero che formi un equilibrio di tensione tra le potenze regionali: Iran, Turchia, Israele, Arabia Saudita. In tal modo, le fragilità e i contrapposti o contigui interessi di ogni vertice del quadrilatero dovrebbero tendere a comporsi in un quadro stabile. Virtuosismo delle relazioni internazionali a parte, ciò potrebbe consentire agli USA di sganciarsi militarmente, come già stanno facendo, dal Medio Oriente per proiettarsi verso i teatri di crisi prossimi venturi, l'oriente europeo e l'estremo oriente del Pacifico.
Ma come per ogni assetto che tenta lo sforzo di instaurarsi, non mancano i contrasti che derivano dal vecchio ordinamento. Così Israele vede minacciato il suo ruolo di potenza senza avversari. L'Arabia Saudita wahabita vede con terrore imporsi lo storico nemico sciita. E ampi settori americani scorgono l'incertezza del nuovo corso. Ne hanno dato plastica dimostrazione altri due decani delle geostrategie americane, gli ex segretari di stato Henry Kissinger e George Shultz, in una sorta di appello congiunto pubblicato dal Wall Street Journal lo scorso aprile a pochi giorni dall'accordo quadro di Losanna che prefigurava l'accordo definitivo raggiunto ora a Vienna. Al termine di una accurata disamina scrivono: "Se il mondo deve essere risparmiato da inquietudini ancora peggiori, gli Stati Uniti devono sviluppare una dottrina strategica per la regione [il Medio Oriente]. La stabilità richiede un ruolo americano attivo. Se l'Iran intende essere un membro prezioso della comunità internazionale, il prerequisito è che accetti il controllo sulla sua capacità di destabilizzare il Medio Oriente e sfidare l'ordine internazionale più ampio". Insomma, è detto senza mezzi termini anche se con eleganza. È una questione di controllo. Gli Stati Uniti devono raggiungere la chiarezza su quale sia il loro ruolo strategico, e se l'Iran non è sotto controllo, l'accordo nucleare andrà a "rafforzare, non a risolvere, le sfide al mondo in quella regione".
Perciò i termini più esatti della questione erano di ordine squisitamente politico (geopolitico) e non tecnico. Per parte americana, dalla visione di un Iran perno dell' "asse del male" si è passati ad una visione molto più pragmatica e realista. Tatticamente l'Iran diventa per Washington il partner ideale per il contenimento del pericolo jihadista, prima di Al-Qa'ida, ora di Daesh (Isis), in tutta l'area tra Iraq e Siria. Il mostro islamista che gli stessi americani hanno contribuito a destare non è un robot che risponde istantaneamente ai comandi e che si possa accendere o spegnere premendo un interruttore. Sono necessari "scarponi sul terreno" che possano contrastare in profondità la sua egemonia che può anche sfuggire di mano. Gli "scarponi" oggi, se non direttamente iraniani, appartengono ad Hezbollah in Siria ed alle milizie sciite in Iraq, dunque fazioni apertamente o tendenzialmente filo-iraniane.
Inoltre l'attuale Amministrazione di Washington sembra aver sposato un assetto per il Medio Oriente, tipicamente ricalcato sulle idee dello stratega di lungo corso Zbigniew Brzezinski, che punta alla creazione di un quadrilatero che formi un equilibrio di tensione tra le potenze regionali: Iran, Turchia, Israele, Arabia Saudita. In tal modo, le fragilità e i contrapposti o contigui interessi di ogni vertice del quadrilatero dovrebbero tendere a comporsi in un quadro stabile. Virtuosismo delle relazioni internazionali a parte, ciò potrebbe consentire agli USA di sganciarsi militarmente, come già stanno facendo, dal Medio Oriente per proiettarsi verso i teatri di crisi prossimi venturi, l'oriente europeo e l'estremo oriente del Pacifico.
Ma come per ogni assetto che tenta lo sforzo di instaurarsi, non mancano i contrasti che derivano dal vecchio ordinamento. Così Israele vede minacciato il suo ruolo di potenza senza avversari. L'Arabia Saudita wahabita vede con terrore imporsi lo storico nemico sciita. E ampi settori americani scorgono l'incertezza del nuovo corso. Ne hanno dato plastica dimostrazione altri due decani delle geostrategie americane, gli ex segretari di stato Henry Kissinger e George Shultz, in una sorta di appello congiunto pubblicato dal Wall Street Journal lo scorso aprile a pochi giorni dall'accordo quadro di Losanna che prefigurava l'accordo definitivo raggiunto ora a Vienna. Al termine di una accurata disamina scrivono: "Se il mondo deve essere risparmiato da inquietudini ancora peggiori, gli Stati Uniti devono sviluppare una dottrina strategica per la regione [il Medio Oriente]. La stabilità richiede un ruolo americano attivo. Se l'Iran intende essere un membro prezioso della comunità internazionale, il prerequisito è che accetti il controllo sulla sua capacità di destabilizzare il Medio Oriente e sfidare l'ordine internazionale più ampio". Insomma, è detto senza mezzi termini anche se con eleganza. È una questione di controllo. Gli Stati Uniti devono raggiungere la chiarezza su quale sia il loro ruolo strategico, e se l'Iran non è sotto controllo, l'accordo nucleare andrà a "rafforzare, non a risolvere, le sfide al mondo in quella regione".
Tali divergenti visioni prenderanno forma durante il dibattito che avverrà al Congresso americano sull'approvazione del nuclear deal.
Sarà di straordinaria importanza valutare il comporsi dei vari
schieramenti non tanto per l'effettiva tenuta dell'accordo (Obama ha già
dichiarato che userà il potere di veto se il Congresso provasse a
snaturare o semplicemente bocciare l'intesa) quanto piuttosto verificare
se la natura politica dell'accordo può avere sufficiente
vitalità per imporsi o nasce già morta. Se Obama riuscisse ad avere un
voto addirittura favorevole, con la maggioranza repubblicana, sarebbe un
trionfo. Se un voto negativo arrivasse solo dalla parte repubblicana (o
comunque con defezioni tra repubblicani e democratici che andassero a
compensarsi) lo spirito di Losanna e Vienna sarebbe vivo e vegeto,
benché fragile, fino alle prossime presidenziali. Se, invece,
l'atteggiamento negativo arrivasse anche da una consistente parte
democratica, oltre che repubblicana, allora Obama sarebbe, almeno per le
questioni internazionali, già esautorato de facto dalle sue prerogative presidenziali con un anno e mezzo di anticipo.
Un ruolo essenziale sarà giocato in questo contesto da Hillary Rodham Clinton, candidata quasi sicura a correre per la Casa Bianca per i democratici e possibile (probabile?) futuro presidente. È da escludersi una sua manifesta ed esplicita opposizione all'accordo ma come si muoveranno le lobbies democratiche, alcune molto legate agli ambienti sionisti americani, che la sosterranno nella sua costosissima campagna elettorale?
Da parte iraniana non resta che osservare guardinghi lo svolgersi degli eventi e godersi intanto questa fantastica vittoria. L'Iran come nazione nel suo complesso, e la sua leadership attuale e passata, ha dimostrato una straordinaria lungimiranza, determinazione, capacità di sacrificio lungo tutti questi anni di negoziato. Possono con fierezza e speranza guardare al futuro. Hanno attraversato la loro parte di deserto, ora tocca al resto del mondo accoglierli.
Un ruolo essenziale sarà giocato in questo contesto da Hillary Rodham Clinton, candidata quasi sicura a correre per la Casa Bianca per i democratici e possibile (probabile?) futuro presidente. È da escludersi una sua manifesta ed esplicita opposizione all'accordo ma come si muoveranno le lobbies democratiche, alcune molto legate agli ambienti sionisti americani, che la sosterranno nella sua costosissima campagna elettorale?
Da parte iraniana non resta che osservare guardinghi lo svolgersi degli eventi e godersi intanto questa fantastica vittoria. L'Iran come nazione nel suo complesso, e la sua leadership attuale e passata, ha dimostrato una straordinaria lungimiranza, determinazione, capacità di sacrificio lungo tutti questi anni di negoziato. Possono con fierezza e speranza guardare al futuro. Hanno attraversato la loro parte di deserto, ora tocca al resto del mondo accoglierli.
Ripubblicato anche da Megachip: http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=121966&typeb=0&il-nodo-iraniano-e-ora-
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