8 gennaio 2015

#CharlieHebdo - È l'Impero del Caos che bussa, non l'Islam


di Pino Cabras.
da Megachip
 
La prima pagina del quotidiano Libero urla: “Questo è l’Islam!”, e anche il Giornale strilla “Strage islamica” con titolo cubitale. Una comunità variegata di un miliardo di esseri umani viene così ridotta al formato dell’orrenda strage dello Charlie Hebdo. È come se in occasione della strage compiuta il 22 luglio 2011 a Oslo da Anders Behring Breivik, che si proclamava difensore dell’Occidente giudaico-cristiano, si fosse titolato “Questo è il Cristianesimo!”, o “Strage cristiana”. Eppure, persino allora, gli stessi giornali, e anche il Corriere della Sera, osarono esordire con una fantomatica “pista islamica”. Prepariamoci dunque a un’ondata di isteria che non vorrà sentire ragioni.
La Francia è stata uno dei principali perturbatori del Mediterraneo e del Medio Oriente negli ultimi quattro anni, e per i suoi scopi bellici ha usato ogni tipo di commistione con lo jihadismo. Ricopio qui una frase usata nel 2013 da uno dei bersagli principali di Parigi, il presidentesiriano Bashar Al-Assad: «Hanno forse capito che quelle guerre non hanno provocato altro che il caos e l'instabilità in Medio Oriente e in altre regioni? A quei politici vorrei spiegare che il terrorismo non è una carta vincente che si possa estrarre e utilizzare in qualsiasi momento si voglia, per poi riporla in tasca come se niente fosse. Il terrorismo, come uno scorpione, può pungerti inaspettatamente in qualsiasi momento.»
Esiste ormai una sorta di legione di avventurieri addestrati in modo moderno, proiettata su vari fronti geopolitici, in grado di essere utilizzata per scardinare interi Stati, ma con coperture e finanziamenti statali, e la prontezza per ogni tipo di ricatto sulla sicurezza nazionale di interi paesi. Gli jihadisti europei arruolati sono migliaia, una manovalanza multiuso. Lo scorpione pungerà ancora in Europa. I governanti europei, fra i più ricattabili e ricattati in ogni campo, subiranno pressioni enormi contro gli interessi dei propri paesi. È l'Impero del Caos che bussa, non l'Islam.

La quasi totalità dei soggetti implicati in gravi atti di terrorismo di rilevanza internazionale negli ultimi 20 anni avevano da tempo il fiato sul collo degli apparati di sicurezza, delle forze speciali e dei servizi segreti, che in molti casi li foraggiavano e ne indirizzavano le traiettorie criminali. Le principali stragi, dall'11 settembre 2001 statunitense al 7 luglio 2005 londinese, fino alla strage norvegese del 2011, sono avvenute in coincidenza con esercitazioni militari e ‘securitarie’ che ricalcavano esattamente gli eventi terroristici in corso. In altri casi, i sospetti sono morti in tempestivi conflitti a fuoco che li eliminavano dalla scena nei loro presunti covi.
Hanno sempre abbondato sui luoghi dei delitti le carte d'identità e infinite altre tracce ridondanti, utili per sbattere subito qualche mostro in prima pagina.
Non mi aspetto una situazione troppo diversa nemmeno stavolta. Queste sono le prime tracce da seguire.

Provo una pena infinita per le povere vittime di ieri, mi sembra una tragedia atroce. Ma non del tutto inspiegabile. Sappiamo che la satira trova una misura solo in sé stessa ed è capace di tendere fino alla rottura ogni filo che regga una contraddizione. Non si fa carico del resto, ma solo della propria libertà. Dopo la strage di via Fani nel 1978, una foto del prigioniero Aldo Moro diffusa dai brigatisti – quasi una Sindone di umana dignità – venne comunque dissacrata da una famosa copertina del settimanale satirico Il Male, che fece dire a Moro: «Scusate, abitualmente vesto Marzotto». Se la dissacrazione si estende a interi mondi religiosi, mette in tensione fili ed equilibri ancora più delicati, scoperchia contraddizioni ancora più laceranti, alza il prezzo della libertà.
Nel difendere la libertà, i satiri di Charlie Hebdo, loro malgrado, hanno inseguito fantasmi e specchi deformanti, molto più cinici e spietati dei loro specchi colorati e scurrili. Da anni sono stati usati per alimentare una islamofobia di sinistra, e a uno come Bernard-Henry Lévi (un’intellettuale organico dello “Scontro di Civiltà”) non pareva vero di incoraggiarli lanciando petizioni a loro favore, in realtà arruolandoli come bersagli nella sua guerra, coincidente con la guerra dell’Impero.
Su queste pagine, già nel 2012, pubblicammo una riflessione di Paolo Bartolini proprio su Charlie Hebdo, che descriveva con precisione ed equilibrio la posta in gioco nella partita fra Satira e Potere.
Aggiungo che libertà di espressione, come tutte le libertà, funziona quando ci sono regole. Sono le regole che rendono possibile la libertà. Anche quella, fondamentale, del rispetto per gli altri.
Il fatto è che noi, in Occidente, possiamo coprirci di infamia, tra di noi. Possiamo sbertucciarci oltraggiosamente senza freni, e mettere il nostro deretano bene in vista. Ma non possiamo pretendere che la nostra sfrontatezza diventi norma per altri. Non possiamo piallare il pianeta, pretendere che tutto si misuri e si scomponga con la stessa velocità del grande acido solvente rappresentato dal nostro modello di vita. Era Rousseau, se non sbaglio, a criticare i filosofi del suo tempo: «Pensano di parlare dell'Uomo, in realtà parlano di un parigino». Cos’è cambiato nella coscienza occidentale, nel frattempo, anche a Parigi?
Nemmeno i martiri di Charlie Hebdo sono stati immuni – in vita – dall’impatto con le regole. Licenziarono in tronco una loro vecchia firma, il caricaturista Siné, per via di una sua blanda vignetta che alludeva a una conversione all'ebraismo per convenienza da parte del figlio di Sarkozy: violava il codice deontologico della rivista sul razzismo. Raffigurare invece profeti e divinità a culo nudo o mentre subivano trattamenti sessuali estremi, per tutti gli altri casi, non era razzismo. La libertà sceglieva dunque le sue strade nello Scontro di Civiltà. E in certi casi si costringeva a regole e ragionamenti di opportunità.
Occorre un passo indietro per capire meglio. Il giornale che per primo pubblicò le vignette anti-islamiche, come molti sanno, nel 2005, fu il danese Jylladen Posten, diretto dal giornalista Flemming Rose. Quel che pochi ricordano è che Rose è molto legato all’ala più islamofoba dei falchi neoconservatori americani. Sua l’intervista al superfalco Daniel Pipes nel 2004, e suo poi un libro intero di interviste alla crème della crème dei neocon, tra cui Francis Fukuyama, Bill Kristol, Richard Perle, e Bernard Lewis, intitolato Amerikanske stemmer (“Voci Americane”, NdT), nel 2006.
Charlie Hebdo, nel 2006, ripubblicò tutte le caricature e ospitò l’appello contro l’islamismo di Bernard-Henry Lévy.
Nel 2008 l’allora ministro italiano Roberto Calderoli esibì orgogliosamente in TV una maglietta con le vignette. In risposta, a Bengasi, in Libia, assaltarono il consolato italiano. Ci furono 11 morti fra i manifestanti, piccola avanguardia sfortunata del jihadismo più vincente che anni dopo rovesciò Gheddafi con l’aiuto della Francia e della NATO.
Anche chi non crede al diavolo sa che la parola deriva dal greco diabolos, "colui che divide", "calunniatore". A suo modo è stato un lavorio diabolico a tenere acceso tutte queste volte il casus belli, fino a rendere ogni volta più incomunicabili idee politiche e sentimenti di diverse comunità umane.
L’11 settembre 2012, ancora una volta a Bengasi, nuovi disordini hanno portato all’uccisione dell’ambasciatore americano, con il pretesto di una manifestazione contro altre immagini blasfeme. Ulteriore strage. Le torsioni della libertà di espressione si sono insomma intrecciate sanguinosamente per un decennio con le convulsioni della Guerra Infinita.
Infatti, era ed è una guerra. Con tutti gli inganni, i tradimenti, i sacrifici spietati delle guerre, capaci di vampirizzare le ingenuità di chi spendeva pezzi di battaglia giusta dentro una battaglia più grande e assassina di cui non intuiva tutti i contorni.
Daniele Luttazzi ha più volte spiegato che «la satira è un punto di vista e un po' di memoria». Per ricordo delle tante vittime, avremo bisogno di non impoverire i punti di vista, e di avere molta memoria.


Fonte dell'illustrazione: blog.ehrmann.org  



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