La prima pagina del quotidiano Libero urla: “Questo è l’Islam!”, e
anche il Giornale strilla “Strage
islamica” con titolo cubitale. Una comunità variegata di un miliardo di esseri
umani viene così ridotta al formato dell’orrenda strage dello Charlie Hebdo. È come se in occasione
della strage compiuta il 22 luglio 2011 a Oslo da Anders Behring Breivik, che
si proclamava difensore dell’Occidente giudaico-cristiano, si fosse titolato
“Questo è il Cristianesimo!”, o “Strage cristiana”. Eppure, persino allora, gli
stessi giornali, e anche il Corriere della Sera, osarono
esordire con una fantomatica “pista islamica”. Prepariamoci dunque a un’ondata
di isteria che non vorrà sentire ragioni.
La Francia è stata uno dei principali
perturbatori del Mediterraneo e del Medio Oriente negli ultimi quattro anni, e
per i suoi scopi bellici ha usato ogni tipo di commistione con lo jihadismo.
Ricopio qui una frase usata nel 2013 da uno dei bersagli principali di Parigi, il presidentesiriano Bashar Al-Assad: «Hanno
forse capito che quelle guerre non hanno provocato altro che il caos e
l'instabilità in Medio Oriente e in altre regioni? A quei politici vorrei
spiegare che il terrorismo non è una carta vincente che si possa estrarre e
utilizzare in qualsiasi momento si voglia, per poi riporla in tasca come se
niente fosse. Il terrorismo, come uno scorpione, può pungerti inaspettatamente
in qualsiasi momento.»
Esiste ormai una sorta di legione di
avventurieri addestrati in modo moderno, proiettata su vari fronti geopolitici,
in grado di essere utilizzata per scardinare interi Stati, ma con coperture e
finanziamenti statali, e la prontezza per ogni tipo di ricatto sulla sicurezza
nazionale di interi paesi. Gli jihadisti europei arruolati sono migliaia, una manovalanza multiuso. Lo
scorpione pungerà ancora in Europa. I governanti europei, fra i più ricattabili
e ricattati in ogni campo, subiranno pressioni enormi contro gli interessi dei
propri paesi. È l'Impero del Caos che bussa, non l'Islam.
La quasi totalità dei soggetti implicati in
gravi atti di terrorismo di rilevanza internazionale negli ultimi 20 anni
avevano da tempo il fiato sul collo degli apparati di sicurezza, delle forze
speciali e dei servizi segreti, che in molti casi li foraggiavano e ne indirizzavano le traiettorie
criminali. Le principali stragi, dall'11 settembre 2001 statunitense al 7 luglio 2005
londinese, fino alla strage norvegese del 2011, sono avvenute in coincidenza con esercitazioni militari e ‘securitarie’ che
ricalcavano esattamente gli eventi terroristici in corso. In altri casi, i
sospetti sono morti in tempestivi conflitti a fuoco che li eliminavano dalla
scena nei loro presunti covi.
Hanno sempre abbondato sui luoghi dei
delitti le carte d'identità e infinite altre tracce ridondanti, utili per
sbattere subito qualche mostro in prima pagina.
Non mi aspetto una situazione troppo
diversa nemmeno stavolta. Queste sono le prime tracce da seguire.
Provo una pena infinita per le povere
vittime di ieri, mi sembra una tragedia atroce. Ma non del tutto inspiegabile.
Sappiamo che la satira trova una misura solo in sé stessa ed è capace di
tendere fino alla rottura ogni filo che regga una contraddizione. Non si fa
carico del resto, ma solo della propria libertà. Dopo la strage di via Fani nel
1978, una foto del prigioniero Aldo Moro diffusa dai brigatisti – quasi una Sindone di umana dignità – venne comunque
dissacrata da una famosa copertina del settimanale satirico Il Male, che fece dire a Moro: «Scusate,
abitualmente vesto Marzotto». Se la dissacrazione si estende a interi mondi
religiosi, mette in tensione fili ed equilibri ancora più delicati, scoperchia
contraddizioni ancora più laceranti, alza il prezzo della libertà.
Nel difendere la libertà, i satiri di Charlie Hebdo, loro malgrado, hanno
inseguito fantasmi e specchi deformanti, molto più cinici e spietati dei loro
specchi colorati e scurrili. Da anni sono stati usati per alimentare una islamofobia di sinistra, e a uno come Bernard-Henry Lévi (un’intellettuale
organico dello “Scontro di Civiltà”) non pareva vero di incoraggiarli lanciando
petizioni a loro favore, in realtà arruolandoli come bersagli nella sua guerra,
coincidente con la guerra dell’Impero.
Su queste pagine, già nel 2012, pubblicammo
una riflessione di Paolo Bartolini proprio su Charlie Hebdo, che descriveva con precisione ed equilibrio la posta
in gioco nella partita fra Satira
e Potere.
Aggiungo che libertà di espressione, come
tutte le libertà, funziona quando ci sono regole. Sono le regole che rendono
possibile la libertà. Anche quella, fondamentale, del rispetto per gli altri.
Il fatto è che noi, in Occidente, possiamo
coprirci di infamia, tra di noi. Possiamo sbertucciarci oltraggiosamente senza
freni, e mettere il nostro deretano bene in vista. Ma non possiamo pretendere
che la nostra sfrontatezza diventi norma per altri. Non possiamo piallare il
pianeta, pretendere che tutto si misuri e si scomponga con la stessa velocità del
grande acido solvente rappresentato dal nostro modello di vita. Era Rousseau,
se non sbaglio, a criticare i filosofi del suo tempo: «Pensano di parlare dell'Uomo,
in realtà parlano di un parigino». Cos’è cambiato nella coscienza occidentale,
nel frattempo, anche a Parigi?
Nemmeno i martiri di Charlie Hebdo sono stati immuni – in vita – dall’impatto con le
regole. Licenziarono in tronco una loro vecchia firma, il caricaturista Siné,
per via di una sua blanda vignetta che alludeva a una conversione all'ebraismo
per convenienza da parte del figlio di Sarkozy: violava il codice deontologico
della rivista sul razzismo. Raffigurare invece profeti e divinità a culo nudo o
mentre subivano trattamenti sessuali estremi, per tutti gli altri casi, non era
razzismo. La libertà sceglieva dunque le sue strade nello Scontro di Civiltà. E
in certi casi si costringeva a regole e ragionamenti di opportunità.
Occorre un passo indietro per capire
meglio. Il giornale che per primo pubblicò le vignette anti-islamiche, come
molti sanno, nel 2005, fu il danese Jylladen
Posten, diretto dal giornalista Flemming Rose. Quel che pochi ricordano è
che Rose è molto legato all’ala più islamofoba dei falchi neoconservatori
americani. Sua l’intervista al superfalco Daniel Pipes nel 2004, e suo poi un libro intero
di interviste alla crème della crème
dei neocon, tra cui Francis Fukuyama, Bill Kristol, Richard Perle, e Bernard
Lewis, intitolato Amerikanske stemmer (“Voci
Americane”, NdT), nel 2006.
Charlie
Hebdo, nel 2006, ripubblicò tutte le caricature e ospitò
l’appello contro l’islamismo di Bernard-Henry Lévy.
Nel 2008 l’allora ministro italiano Roberto
Calderoli esibì orgogliosamente in TV una maglietta con le vignette. In
risposta, a Bengasi, in Libia, assaltarono il consolato italiano. Ci furono 11
morti fra i manifestanti, piccola avanguardia sfortunata del jihadismo più
vincente che anni dopo rovesciò Gheddafi con l’aiuto della Francia e della
NATO.
Anche chi non crede al diavolo sa che la
parola deriva dal greco diabolos, "colui
che divide", "calunniatore". A suo modo è stato un lavorio
diabolico a tenere acceso tutte queste volte il casus belli, fino a rendere ogni volta più incomunicabili idee
politiche e sentimenti di diverse comunità umane.
L’11 settembre 2012, ancora una volta a
Bengasi, nuovi disordini hanno portato all’uccisione dell’ambasciatore
americano, con il pretesto di una manifestazione contro altre immagini
blasfeme. Ulteriore strage. Le torsioni della libertà di espressione si sono insomma
intrecciate sanguinosamente per un decennio con le convulsioni della Guerra
Infinita.
Infatti, era ed è una guerra. Con tutti gli
inganni, i tradimenti, i sacrifici spietati delle guerre, capaci di
vampirizzare le ingenuità di chi spendeva pezzi di battaglia giusta dentro una
battaglia più grande e assassina di cui non intuiva tutti i contorni.
Daniele Luttazzi ha più volte spiegato che «la
satira è un punto di vista e un po' di memoria». Per ricordo delle tante
vittime, avremo bisogno di non impoverire i punti di vista, e di avere molta
memoria.
Fonte dell'illustrazione: blog.ehrmann.org
Fonte dell'illustrazione: blog.ehrmann.org
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