«L’uomo
è u-topico, non ha luogo: è proprio così, non ha un ambiente, fa
di tutti gli ambienti il suo mondo. L’utopia è l’unica realtà
umana. La realtà è una parte dell’utopia. Il problema non è
questo, ma quest’altro: l’umanità può diventare eutopica, può
raggiungere una buona dimora?»
(R. Màdera, L’animale
visionario, pagg. 148-9, Il Saggiatore, 1999). Così
scrive lo psicoanalista e filosofo Romano Màdera nel libro
che mi ha permesso di conoscerlo e, da allora, di seguirne con
passione l’itinerario intellettuale e spirituale. Ho scelto queste
frasi per cominciare una riflessione, in realtà più volte
accennata e ripresa su queste stesse pagine virtuali, una riflessione
che riguarda la questione più trascurata dagli intellettuali e dai
militanti del cosiddetto antagonismo politico: la soggettività
rivoluzionaria.
Come ha ricordato
recentemente lo stesso Màdera in un suo articolo su L’Unità,
è questa carenza di interrogazione profonda sulla natura
dell’individualità post-moderna a rendere distopiche e inefficaci
le attuali visioni di trasformazione dell’esistente.
In altre parole e in
forma perentoria: non può bastare, al compito immane di superamento
della mentalità economicista del dio capitale, una prassi
collettiva che ambisca a rivoluzionare politica, economia e controllo
della moneta.
Difatti in mancanza di un
uomo nuovo, non più oeconomicus bensì consapevole
dell’inter-essere che lo costituisce a livello materiale, sociale e
ontologico, non si darà alcuna alternativa duratura ed efficace allo
strapotere del sistema.
La presunzione, a
dispetto di molte prove contrarie, che ciò possa comunque accadere,
mi sembra eredità dei vecchi massimalismi novecenteschi, per i quali
solo il taglio netto dei nodi tecnici, politici ed economici può
spianare la strada alla nascita di una società giusta composta da
individui e comunità solidali. Tutto questo viene puntualmente
immaginato, e non a caso, come un passaggio rapido e traumatico,
indispensabile per sovvertire i precedenti equilibri e rapporti di
forza.
Mentre ci ha pensato
la Storia a smentire impietosamente i facili sillogismi delle
avanguardie rivoluzionarie (che tanto mi ricordano oggi gli
argomenti “razionali” di coloro che vorrebbero uscire
dall’eurozona e dall’Unione Europea, senza però saper indicare
uno straccio di classe politica capace di assumersi la responsabilità
di gestire la transizione), oggi rimane ancora percorribile la via
stretta di una rivoluzione culturale all’altezza dei tempi.
Qui si accenna, in
definitiva, ad un profondo mutamento psicologico e spirituale
che accompagni ed orienti le modifiche strutturali sopra accennate,
al fine di rendere ogni istante di questa battaglia pieno di senso,
al di là dei risultati immediati. A questo mutamento, e alla
comprensione delle sue coordinate emergenti, dà un contributo di
notevole spessore il filosofo Massimo Diana nel suo ultimo
libro “Credere.
Percorsi di umanizzazione III”
(Moretti e Vitali, 2013). Questo non è lo spazio per una recensione
approfondita del volume, ma l’occasione per soffermarmi brevemente
su una frase del grande teologo e mistico Raimon Panikkar che
Diana ha inserito nel suo lavoro dedicato al senso del credere nella
nostra epoca del disincanto.
Le parole di Panikkar
sono le seguenti: “Vorrei insistere sul fatto che, nel mondo
moderno, solo i mistici sopravviveranno. Gli altri saranno soffocati
dal sistema, se vi si ribellano, o affogheranno nel sistema, se vi si
rifugiano”.
A scanso di equivoci
voglio anticipare a chi legge che le considerazioni sviluppate da
Diana nel libro toccano con coraggio anche temi spinosi e decisivi
come la decrescita e il cambiamento degli stili di vita per una
convivenza pacifica nell’ecumene planetaria. In tal senso possiamo
subito affermare che, parlando di “mistici”, Panikkar e Diana non
evocano affatto il disimpegno e la fuga dal mondo, ma, al contrario,
indicano un cammino prima intentato che può condurci ad un modo di
stare al mondo, e di liberarci dai dogmi del capitalismo
neoliberista, capace di mantenersi equidistante dalla passiva
accettazione dello stato di cose e da un ribellismo disperato e fine
a se stesso. Essere mistici, allora, vuol dire riconoscersi in un
Senso che trascende il nostro autointeresse, in una comunione vivente
con gli altri, con la natura e con la Vita di cui siamo espressione
originale e irripetibile.
Questo Senso è fede,
fiducia, apertura alla libertà dello Spirito e sensazione immediata
di co-appartenenza all’Intero. Solo in presenza di una
autentica ricerca filosofica e spirituale le azioni concrete volte a
trasformare il presente, dunque le iniziative etiche e politiche,
possono sperare di raggiungere l’obiettivo sognato e di dar frutti
che non siano avvelenati.
D’altronde appare
sempre più chiaro che sono energie di questo tipo, ben diverse dalla
cieca fede nel dio denaro e nei pilastri concettuali del mito
competitivo che lo sostiene, a dover essere oggi messe in moto e
coltivate, senza odio verso i propri avversari. Perché – ed è
questa la novità più interessante messa in luce dal libro di
Massimo Diana – il nostro tempo è infine maturo per una
spiritualità terrena aperta all’infinito, fatta di illuminazione e
di trasformazione, di misericordia e di giustizia sociale e
ambientale.
L’antidoto alla furia
nichilista del capitalismo globale è forse custodito dove meno ce lo
saremmo aspettato: nel cuore e nei gesti di chi “crede” ancora ma
non cerca la salvezza “altrove”.
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