di Pino Cabras - da Megachip.
Il decollo della candidatura di Stefano Rodotà alla Presidenza della Repubblica rivela gli aspetti più profondi del risultato elettorale di fine febbraio e scopre l’inettitudine di gran parte delle classi dirigenti italiane,
che continuano a sottovalutare la portata storica di queste elezioni
perché non sanno più leggere nulla, perché pensano che siano una
parentesi, tanto poi si farà come e più di prima. Gli dei accecano
coloro che vogliono portare alla rovina. Stavolta gli dei si sono
accaniti oltre ogni misura con gli occhi politici di quel povero
cocciuto di Pierluigi Bersani, che si è presentato ai
grandi elettori quirinalizi del suo partito annunciando, dopo i suoi
incontri con il Caimandrillo, la sua carta segreta meravigliosa: niente meno che Franco Marini, presentato come «un uomo che conosce le sofferenze dei lavoratori e in questi tempi di crisi rappresenterebbe un segnale di apertura della politica».
E noi, con un groppo in gola, sognamo la scena in milioni di case
italiane. Ansiosi per il lavoro? Animo! C’è Marini! Ah, sollievo!
Questo è il mondo di Bersani. La cosa tragica è che il suo non è stato il classico ballon d’essai,
né una machiavellica manovra per bruciare Marini e preparare il terreno
ad altri. No, Bersani si è proprio giocato tutta la sua faccia, senza
affatto intuire la forza del putiferio che avrebbe fatalmente scatenato,
non solo fra la gran massa dei suoi elettori, ma fin dentro i suoi
gruppi parlamentari.
Nichi Vendola non ha atteso un minuto per sganciare i voti di SEL da quelli di Berlusconi. Matteo Renzi, che un’idea di dove giri il fumo ce l’ha, non ha aspettato nemmeno lui.
E aggiungiamo che la rete
- leggi milioni di elettori del PD e non solo - travolgerà questo
assurdo tentativo in poche ore: per noi è una facile profezia, per i
fautori del «segnale di apertura della politica» è una cosa
incomprensibile, come sempre. Eppure, per capire che la cosa non poteva
funzionare, a questi strateghi bastava ricordarsi due fatti: che il 40%
degli operai ha votato le liste di Beppe Grillo, e che Marini è stato allegramente trombato dagli elettori abruzzesi. Le «sofferenze dei lavoratori» avevano trovato le aperture.
Bersani ascolta ancora quel volpone di Massimo D’Alema,
un re Mida all’incontrario che da anni in politica sbaglia sempre
tutto, mosse, previsioni, alleanze: un perdente di razza, ancora
miracolosamente sorretto da una pertica di spocchia che dal calcagno lo
innalza fino al Palazzo.
È presto per capire se e come avremo un governo,
ora che dobbiamo aspettare anche l’assestarsi della battaglia per il
Quirinale. Ma è già certo che non ci sono margini di consenso né di
sufficiente legittimazione per un “governissimo”.
L’effetto
dirompente della candidatura di Rodotà dovrebbe far prendere coscienza
ai Cinquestelle dei loro mezzi reali, quando si accorgono che tattica non è affatto sinonimo di tatticismo.
Se i parlamentari del M5S prendono l’iniziativa e si ricordano di avere
un peso, come hanno fatto adesso, allora cambia tutto lo scenario. E
questo può accadere persino per un governo. I saggi che
piacciono agli elettori, quegli elettori che vogliono rinnovare la
nostra Repubblica, vanno indicati con nomi e cognomi. E intanto, ora, ci
vuole un Rodotà.
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