La crisi economica è giunta al suo sesto
anno e, soprattutto in Europa, ancora pochi sono i segni di un suo
arretramento. La ricerca di una via di uscita s’impone con sempre più
urgenza, ma le contraddizioni che hanno scatenato la crisi continuano a
mettere in discussione l’intero periodo che ha segnato lo sviluppo
economico del secondo dopoguerra.
L’irruzione sulla scena dei debiti
pubblici ha mascherato le fragilità del sistema finanziario privato –
vero responsabile della crisi – che per troppo e lungo tempo ha drogato
il mercato, incapace di autosostenersi.
Così, senza esitazione, il dito è
stato puntato contro lo “Stato spendaccione”. E l’“austerità espansiva”
è sciaguratamente diventata la chiave di volta delle politiche per la
ripresa, riaffermando la posizione di thatcheriana e reaganiana memoria.
Quella secondo cui “lo Stato è il problema”. Con i risultati che sono
sotto gli occhi di tutti: una nuova e più profonda depressione,
l’azzeramento delle prospettive di ripresa e lo spettro di dover fare un
balzo all’indietro, cancellando di colpo decenni di storia in cui il
progresso economico è stato reso inscindibile dalla conquista dei
diritti sociali e dal radicamento della democrazia.
La verità è che lo Stato è diventato una
stampella del mercato, senza però assolvere a un ruolo costruttivo per
lo sviluppo dell’economia e della società. I bilanci pubblici sono
esplosi per salvare le banche, senza per questo riuscire a recuperare le
sorti dell’economia reale, visto che il credito rimane “congelato”:
malgrado ciò si continua ad affermare che la zavorra dell’economia è
rappresentata dal welfare, e che bisognerà rinunciarvi, pena
l’impossibilità di dare spazio alla ripresa.
Per capire la crisi bisogna andare
oltre. Oltre il quadro teorico del neoliberismo – trasmessoci dall’alto e
acriticamente accettato. Andare oltre il neoliberismo, significa
innanzitutto riconoscere le ragioni culturali della crisi. Un po’ meno
austerità forse ci sarà concessa, ma se non si dà una lettura corretta
delle vere cause che hanno portato alla crisi, essa sarà destinata a
riprodursi in forme sempre più drammatiche e sempre più tendenti a
compromettere lo sviluppo dei Paesi e la loro coesione sociale.
Il modo con cui la riflessione economica
prevalente si è rapportata alla crisi fin dal suo nascere è tipico
della visione mainstream, che affonda le sue radici nei riferimenti
principali della cosiddetta teoria neoclassica:
l’economia è concepita
come una scienza (economics) che studia le scelte alternative tra
risorse scarse;
il mercato è il luogo di allocazione ottima delle
risorse, garantita da soggetti razionali in grado di utilizzare tutta
l’informazione disponibile. Nel mercato si determina “naturalmente” un
equilibrio che è il punto d’incontro tra domanda e offerta, stabilito
nel prezzo, inteso come misura della scarsità, capace di assicurare
l’allocazione ottimale delle risorse.
Un processo che è di tipo
esclusivamente logico, che prescinde totalmente dalle diversità nel
tempo e nello spazio delle diverse economie.
Secondo questa lettura
eventuali scostamenti dall’equilibrio del mercato hanno solo natura
temporanea perché il sistema economico è destinato a convergere verso
l’equilibrio.
In tale contesto la crisi non può essere prevista,
semplicemente perché non è neppure concepita.
Ed anche di fronte al suo
manifestarsi è possibile attribuirle un carattere di momentanea
accidentalità, oppure individuare imperfezioni del mercato che non
consentono il raggiungimento dell’equilibrio. Le crisi possono essere
innescate solo da grandi perturbazioni esogene come gli uragani, i
terremoti o sconvolgimenti politici, ma certo non causate dal mercato
stesso.
Molti economisti hanno, infatti,
interpretato la crisi del 2008 attraverso il pregiudizio ideologico
secondo cui essa è stata innescata da cause del tutto imprevedibili –
come il fallimento della Lehman Brothers – ma giacché i mercati liberi
tendono alla stabilità, non ci sarebbero dovute essere ripercussioni
sull’economia reale. È questo paradigma che deve essere messo
profondamente in discussione, perché la crisi del 2008 ha mostrato in
maniera spettacolare che sono le fluttuazioni stesse dei mercati a
generare instabilità: i mercati liberi non tendono all’equilibrio ma
generano squilibri selvaggi e pericolosi.
Dunque, l’economics si traveste dietro
una veste pseudo-scientifica, si presenta come una disciplina tecnica e
apolitica. Ma non è stato sempre così. Anzi, secondo la visione che ha
segnato lo stesso nascere della disciplina economica e che si afferma
all’indomani della prima Rivoluzione industriale con il pensiero di Adam
Smith, l’economia è invece una riflessione scientifica sulla società,
tesa a studiarne le caratteristiche che ne assicurano le condizioni di
riproducibilità e di sviluppo, in un contesto sociale, istituzionale e
normativo che condiziona l’azione dei soggetti.
Non a caso si parla di
“economia politica”, guardando al mercato come a un complesso sistema di
norme, storicamente determinato e privo di qualsiasi connotato di
naturalità, non necessariamente capace di assicurare il pieno impiego
delle risorse. L’approccio dell’economia politica classica è dunque
intrinsecamente predisposto a concepire il prodursi di crisi e la
necessità di operare quei correttivi che assicurino la riproducibilità
del sistema economico. Di là dalle diverse versioni ed approfondimenti
che si sono succeduti passando per Ricardo, Marx e arrivare fino a
Keynes, la visione dell’economia politica resta ancorata a una
rappresentazione del sistema economico in cui la dimensione delle classi
sociali e la diversità di interessi che a queste si associano ne
determinano un assetto fondamentalmente instabile.
Invece nella visione neoclassica
mainstream è assente un qualsiasi ruolo della politica. La predominanza
trentennale di questa visione ha tuttavia prodotto una specifica
egemonia culturale, dura a morire, nonostante il perdurare della crisi.
La visione mainstream appare dotata di un’intrinseca capacità di
sopravvivenza: il sistema economico, inteso come dato di natura
suscettibile di essere studiato con il metodo delle scienze naturali,
porta ad escludere l’esistenza di qualunque alternativa con la quale
confrontarsi. La visione mainstream è fatta di assiomi. Le uniche
discussioni ammissibili sono quelle condotte entro la propria cinta
concettuale.
La lettura della crisi e le terapie per
superarla continuano pertanto a essere appannaggio degli economisti
mainstream. Con la possibilità, peraltro, di condizionare l’opinione
pubblica e di creare consenso a proprio favore.
A questo proposito Luciano Gallino, Giorgio Lunghini, Guido Rossi e altri hanno recentemente denunciato quella che è, a loro avviso, una gravissima distorsione della realtà da parte dei principali media del Paese:
«La politica è scontro d’interessi, e la gestione di questa crisi economica e sociale non fa eccezione. Ma una particolarità c’è, e configura, a nostro avviso, una grave lesione della democrazia. Il modo in cui si parla della crisi costituisce una sistematica deformazione della realtà e un’intollerabile sottrazione di informazioni a danno dell’opinione pubblica. Le scelte delle autorità comunitarie e dei governi europei, all’origine di un attacco alle condizioni di vita e di lavoro e ai diritti sociali delle popolazioni che non ha precedenti nel secondo dopoguerra, vengono rappresentate come comportamenti obbligati immediatamente determinati da una crisi a sua volta raffigurata come conseguenza dell’eccessiva generosità dei livelli retributivi e dei sistemi pubblici di welfare. Viene nascosto all’opinione pubblica che, lungi dall’essere un’evidenza, tale rappresentazione riflette un punto di vista ben definito (quello della teoria economica neoliberale), oggetto di severe critiche da parte di economisti non meno autorevoli dei suoi sostenitori».
Legenda: Abbiamo considerato la
lista dei professori di economia politica, che erano 704 nel 2008, e per
ognuno abbiamo contato quanti articoli hanno scritto su la Repubblica, il Corriere della Sera, Il Sole 24 ore e La Stampa negli ultimi 5 anni e
precisamente dal 1 gennaio 2007 al 31 dicembre 2011 (per questo abbiamo
utilizzato l’archivio della Camera dei Deputati).
Per capire le relazioni tra i diversi autori è interessante misurare il
loro grado di connessione. A questo scopo abbiamo usato Repec che
è il più grande database bibliografico di economia disponibile
gratuitamente su internet. Abbiamo dunque costruito il grafo seguente,
mettendo una connessione tra due diversi autori se sul database Repec
compare almeno un articolo scientifico in cui sono coautori. Le
connessioni in rosso se due autori sono coautori di articoli su
quotidiani. (Fonte originale)
Il nuovo e vincente attore nella
politica internazionale è dunque l’estrema destra economica che ha
finalmente rimpiazzato il vuoto dell’estrema destra politica.
In Italia
l’estrema destra economica ha riempito il vuoto politico cercando di
sovvertire la Costituzione nei suoi tre punti fondamentali: rimuovere
ogni controllo alle decisioni del settore privato, togliere al governo
dei cittadini il controllo e la responsabilità della spesa pubblica con
il vincolo del pareggio del bilancio e tagliare i diritti dei
lavoratori.
Nella confusione politica generale che stiamo vivendo, le
idee dell’estrema destra economica hanno permeato i partiti di
centrosinistra in tutta Europa. Nel vuoto generale d’idee, spesso
artificialmente indotto, questa lobby di pensieri prefabbricati cerca
dunque di vendere a una politica ormai priva di contenuti la soluzione
liberista come l’unica possibile, spesso falsando i dati e manipolando
la realtà.
La battaglia culturale è dunque intrinsecamente legata a
quella politica: senza un punto di riferimento culturale l’azione
politica rimane alla mercé di chi è più organizzato per manipolare
l’opinione pubblica. Ed è proprio questa la battaglia che bisogna
intraprendere a partire dalla nostra Costituzione e dal ruolo
fondamentale che essa assegna all’attore pubblico: quello di essere
artefice di una “programmazione” economica mirata alla piena e buona
occupazione e per una società giusta e democratica, capace al tempo
stesso di farsi interprete delle domande più urgenti poste dalla storia e
del tempo presente.
Fonte: Left, 7 dicembre 2013.
Tratto da: http://keynesblog.com/2013/12/09/i-missionari-del-dio-mercato/.
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