di Elido Fazi - www.one1euro.com
Con una nota di Pino Cabras in coda all'articolo ripreso da Megachip.
Giovedì
scorso ero a cena con un professore che è stato presidente
dell’associazione degli statistici italiani. Io ho messo subito le mani
avanti, ricordando che, nonostante avessi già sostenuto Statistica 1, 2 e
3, non ero mai riuscito a seguire bene il corso di econometria tenuto negli anni Settanta dal professor Guido Rey alla Facoltà di Economia della Sapienza di Roma a Castro Laurenziano.
Soprattutto, non ero riuscito a capire il libro di testo adottato, quello di Johnston. Il professore mi ha rassicurato: neanche lui era mai riuscito a seguirlo fino in fondo.
Forse
il volume non era stato ben tradotto. L’econometria, cioè l’uso di
metodi matematici e statistici per formulare, stimare e testare i
modelli economici, agli inizi degli anni Settanta stava esercitando un
certo appeal sugli studiosi.
Quando
poi Rey diventò presidente dell’Istat, negli anni Ottanta, usò tutte le
sue conoscenze per una robusta rivalutazione del pil italiano. In
un solo colpo il rapporto del debito rispetto al pil scese di svariati
punti, quello che oggi equivarrebbe a più di un Fiscal Compact. Il
discorso si è poi spostato sull’affidabilità dei dati statistici.
Quanto sono affidabili quelli che leggiamo tutti i giorni sui giornali,
se persino dopo il censimento istat non siamo neanche sicuri – milione
più, milione meno – di quanti siamo in Italia? Quanto sono affidabili i
dati sul pil, sull’inflazione, o sull’occupazione, se non riusciamo
nemmeno a contarci? Che senso ha allora misurare tutti i parametri in
rapporto a un pil di cui non si ha alcuna certezza?
«Ma almeno i dati finanziari della Banca d’Italia, crediti e debiti, sono affidabili?», ho chiesto. «Certo», ha risposto il professore, «ma non sempre ce li fanno conoscere tutti».
Alla fine abbiamo convenuto che uno dei pochi dati più o meno sicuri è
quello della bilancia dei pagamenti. E, infatti, quando, il 15 marzo del
2007 il direttore della Banca d’Italia Fabrizio Saccomanni cercò di
segnalare al Parlamento italiano che la situazione negli Stati Uniti era
critica, fece riferimento principalmente a un dato: quello del
disavanzo americano della bilancia dei pagamenti.
Si
può affermare che se uno Stato ha un avanzo nella parte corrente dei
pagamenti è uno Stato competitivo, e che se invece ha un deficit non lo
è? La risposta in generale è “nì”.
Alcuni Stati, come la Russia (+110) e l’Arabia Saudita (+174), hanno
degli enormi surplus nella bilancia dei pagamenti, dovuti non alla
competitività dell’economia ma alla presenza di riserve di petrolio e
gas. Ma per l’Europa – dove non passa giorno senza che su ogni
quotidiano venga rimarcato il differenziale di competitività tra paesi
del Nord e quelli del Sud – la risposta alla nostra domanda potrebbe
essere “sì”. Vediamo i dati, in miliardi di dollari,così come sono
riportati ogni settimana dall’«Economist», cominciando dai paesi del Nord.
Germania +205
Olanda +76
Danimarca +21
Norvegia +70
Svezia +40
Austria +8
In
totale questi paesi hanno un enorme surplus nella parte corrente della
bilancia dei pagamenti, pari a 420 miliardi di dollari.
Vediamo ora i paesi del Sud.
Italia -66
Francia -62
Spagna -52
Un
deficit pari a 180 miliardi. In aggregato, però, l’Europa, considerando
solo i paesi di cui sopra (ma lo scenario non cambia se si aggiungono
altri paesi economicamente più piccoli), ha un surplus pari a 240
miliardi di dollari.
Se prendiamo le tre più grandi aree economiche mondiali, la situazione è la seguente:
Europa +240
Cina +197
Stati Uniti -473
Viste in questa chiave mi sembra che le cose siano abbastanza chiare. Il problema di competitività non è europeo, ma americano.
L’Europa, a parte qualche zona del Sud che non può certo essere presa
come esempio, risulta essere non solo l’area geografica più competitiva e
ricca del mondo (la Cina ha un reddito pro-capite inferiore a un quarto
di quello europeo), ma ad alcuni di noi sembra anche la più bella e
forse la più civile.
Dopo aver letto i dati, bisogna però subito aggiungere che l’egemonia di uno Stato sugli altri
non deriva solo dalla sua economia (o, per quanto riguarda gli Stati
Uniti, dalla sua forza militare), ma anche dall’autorevolezza e dalla
moralità di chi lo governa. Uno Stato che vuole ricchi solo i suoi
cittadini è uno Stato egemone ma non autorevole. Secondo il filosofo
cinese Guanzi che scriveva nel VII secolo prima di
Cristo, «Uno che arricchisce solo il suo Stato è chiamato un egemone.
Uno che unifica e corregge altri Stati è chiamato Re saggio». La Germania oggi cos’è?
È uno Stato egemone – almeno in Europa – perché è potente
economicamente, oppure lo è perché non solo risulta il più competitivo
del mondo, ma anche il più autorevole (pochi sono i politici corrotti e
basta un nonnulla, come una tesi copiata, per far dimettere un
ministro)?
Sul «Financial Times» leggo un articolo di Andrew Roberts che ci ricorda, citando The English Hymnal, la raccolta fatta nel 1906 dei migliori inni inglesi, che «gli orgogliosi imperi del mondo pass away»,
‘passano’. Di chi parla, dell’impero ‘inglese o di quello americano?
Forse dell’impero di Bruxelles? «È arrivata l’ora di chiederci quando è
scattato il momento che ha distrutto l’impero economico di Bruxelles.
Quando è accaduto che l’impero, a causa delle sue ambizioni di egemonia,
invece di curarsi del benessere dei suoi cittadini, si è esteso
troppo?». Secondo Roberts, gli storici futuri individueranno
nella creazione dell’euro nel 1999, con la sua ambizione di prendere il
posto del dollaro, la Pearl Harbor di Bruxelles, il momento in cui
l’Europa si è attirata minacce e pericoli che un giorno la
distruggeranno. Poi il giornalista propone l’ormai consueta
analisi secondo la quale manca solo un minuto alla mezzanotte della
Grecia. L’unica soluzione per salvare il salvabile, a detta di Roberts, è
tornare con un’onorevole ritirata all’originale trattato di Roma e
mantenere l’euro solo negli Stati che si “dimostrano meritevoli. In
questo modo la Commissione di Bruxelles rinuncerebbe all’“hubristic fetish” dell’egemonia globale.
Questa
soluzione, però, sembra diversa da quella auspicata da Angela Merkel –
tra l’altro la meno europeista tra i leader tedeschi –: la cancelliera
vorrebbe infatti procedere verso un’Europa federale, una sorta di Stati
Uniti d’Europa.
Insomma, cosa succederà in futuro?
Il tempo stringe e da qui a fine giugno dovranno essere prese decisioni
chiare. O si va avanti con l’Europa federale, stabilendo con chiarezza
la divisione dei poteri tra gli Stati e un eventuale presidente della
Commissione regolarmente eletto, oppure si torna al trattato di Roma.
«Ma un principio va tenuto sempre presente», dice Eugenio Scalfari nel
suo ultimo editoriale. «Si tratta di costruire un’Europa democratica.
Tentazioni autoritarie stanno emergendo in vari punti del continente e
di varia natura. Non possono essere ignorate, vanno affrontate e
combattute». Scalfari suggerisce anche il regista che dovrebbe scrivere
il copione del programma europeo: un’Autorità europea la cui
sovranazionalità e la cui indipendenza siano assolute. «Fino a quando la Germania continuerà a pensare soltanto a se stessa non potrà che combinare guai.
I governi non solo dell’Europa ma dell’Occidente debbono metterla
dinanzi alle sue responsabilità riconoscendo a loro volta che la
Germania possiede la forza per innescare la costruzione dello Stato
federale europeo. Non si può far finta di non vedere che il vero problema da risolvere è questo. Non si tratta di un’opzione ma di una necessità».
Nota
di Pino Cabras
L'articolo
di Elido Fazi illustra molto bene la drammatica brevità entro la quale
si sta giocando il futuro di centinaia di milioni di europei,
all'interno di una partita ancora più vasta che coinvolge direttamente
il mondo intero. Più preoccupante è la contraddizione interna delle
parole di Eugenio Scalfari richiamate alla fine. Scalfari, uno degli
intellettuali che più si è speso in favore dell'operazione
Monti-Napolitano - cioè il più grave esproprio di sovranità nella storia
della Repubblica Italiana - fa ora appello a un'Europa democratica, ma
lo fa immaginando una non meglio precisata Autorità europea, le cui
attribuzioni in termini di sovranazionalità e "indipendenza" sono
"assolute". Più che democratica e indipendente, sembra una costruzione
"irresponsabile", che -
letteralmente - non risponde a nessuno. Manca sì un minuto a
mezzanotte, ma prima dell'ennesima fuga in avanti, nel buio del
capitalismo terminale, andranno invece interpellati a fondo i popoli che
compongono il mosaico della civilizzazione europea.
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