di Pino Cabras – da Megachip.
«Non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera, semmai voglio essere ricordato per i miei sogni. Dovessi morire, tra cento anni, vorrei che sulla mia lapide fosse scritto ciò che diceva Nelson Mandela: un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare. Vittorio Arrigoni, un vincitore». Vittorio si accompagnava con docilità alla grandezza reale dei suoi sogni, ma alludeva inevitabilmente alla nera ombra che si abbinava al suo raro coraggio fisico, un’ombra che lo ha raggiunto prima di quei cent’anni, proprio un anno fa. Un anno dopo la morte di Vittorio Arrigoni siamo interrogati in profondità dal “vincitore”, anche quando scontiamo la sconfitta profanatrice che ha spezzato la sua vita.
Le
doppiezze, le disparità fra il dire e il fare, il progressismo che non
smuove nulla, il funambolismo degli intellettuali, la manifattura
usa-e-getta dell’eroismo, tutto questo abita lontano dalla memoria di
Vik. Perciò i cent’anni e più saranno segnati davvero dalla sua memoria.
Non tutto sarà polvere di polvere, fumo di fumo. Non
tutto è destinato all’oblio triturante dei media menzogneri e reticenti.
Anche in mezzo alla guerra dei cent’anni di oggi – questo è il metro
realistico per la Terra Santa – è possibile distinguere ciò che può
durare. Il sogno di Vittorio durerà a lungo e irriderà alle illusioni di
sicurezza riposte nei mezzi militari. La sua assenza però ci
interroga, ci chiede cosa siamo disposti a fare per “restare umani”,
mentre enormi risorse sono mobilitate dal potere per disumanizzare amici
e nemici.
Siccome
la Palestina è sovraccarica di messaggi e simboli storici e religiosi
che si stratificano e sovrappongono, colpisce l’analogia di Vittorio il
Vincitore con la theologia crucis. Il mondo è abbandonato alla
fragilità dell’uomo. Per i cristiani il vero rappresentante di Dio non è
un re seduto sul trono, è un uomo crocifisso. In quell'uomo vedono Dio.
Ma chi vede quell'uomo non vede che l'uomo. Similmente, l’ottimismo dei
sogni di Arrigoni non giustifica né determinismi, né fedi alienate, né
bandiere che neghino l’umano. Proprio per questo Arrigoni era un
testimone ingombrante in vita, e lo è anche un anno dopo la sua morte.
Non
deve stupirci che il processo a Gaza contro i suoi assassini non faccia
passi avanti. Nessuno fra gli attori più potenti del dramma del Vicino
Oriente sembra avere fretta di risolvere i misteri del delitto: un importante delitto politico.
Come per altri crimini di questa portata, anche per Vik il mistero
sembra nascondere inconfessabili convergenze di interessi, con soggetti
improbabili che compaiono dal nulla nel suolo di Gaza per compiere
l’esecuzione lasciando al buio i mandanti, a loro volta manovrati da
leve ancora più irriconoscibili. Non dimentichiamo che l’uccisione di
Arrigoni avviene nel pieno di un sommovimento che ridisegna la sponda
sud del Mediterraneo e il Vicino Oriente, cambia le alleanze, modifica
gli appoggi politici dei movimenti, stipula nuovi compromessi. Uno dei
fatti più rilevanti che inquinano forzatamente la stagione delle rivolte
arabe è la reviviscenza di gruppi armati salafiti, sovvenzionati dalle
petromonarchie del Golfo e alleati con le azioni dei paesi NATO. Un
tempo sarebbero stati inquadrati nello spauracchio al-Qa’ida, ma ora no.
Come mai?
Alla fine del 2010, pochi mesi prima del delitto Arrigoni, in Arabia Saudita ritornava a splendere la stella del principe Bandar bin Sultan,
uomo forte dei servizi segreti messo in disparte per un periodo, ma
subito in grado di approfittare – con l’aiuto di Washington – della
malattia del re Abdallah. La prima cosa che ha fatto Bandar, non appena
in sella, è stata la riattivazione delle sue reti di uomini in armi e
terroristi. Queste reti sono state protagoniste dirette in Libia,
Libano, Siria e Palestina, con tanti gruppi fanatizzati, ideologicamente
anti-sionisti, ma capaci di forti convergenze d’interessi con Israele.
Il
gruppo che ha eseguito la brutale esecuzione di Vittorio Arrigoni è
stato uno dei tanti improvvisamente galvanizzati dalla nuova stagione
politica. Le petromonarchie del Golfo hanno subito compreso che
le rivolte avrebbero potuto travolgere anche loro. Hanno all'istante
messo in campo risorse eccezionali, giocando con una certa abilità su
più piani: sia quello del disordine (il terrorismo riconducibile ai suoi
canali di rifornimento), sia quello della stabilizzazione (in chiave
sunnita, con i Fratelli Musulmani). La stabilizzazione doveva trovare
persino un ricongiungimento con le rive moderate dell’islamismo politico
turco di Recep Tayyip Erdoğan. Questi cambiamenti hanno agito in
profondità anche nella Gaza di Hamas, che ha cambiato alleanze
internazionali con sorprendente velocità.
L'alleanza
con la Siria laica da parte degli integralisti del movimento islamista
palestinese era stata a lungo un “in mancanza di meglio”, che conveniva
anche a Damasco in chiave anti-israeliana.
Nel frattempo è emersa una potenza che aspira a egemonizzare la Sunna, la Turchia, un membro della NATO che porta in dote la sua brava medaglia di morti della Freedom Flotilla,
e con l'ambizione di domare il demone integralista in chiave moderata, a
costo di liquidare un'alternativa laica come Assad e di sopportare i
tagliagole jihadisti nelle nuove instabili coalizioni che vanno al
potere.
Hamas
diventa un punto di cerniera fra la Turchia e le monarchie arabe, che
ora la riempiono di petrodollari freschi freschi, e guadagna così
posizioni sul campo. Magari si farà perfino lo stato palestinese. Probabilmente un Bantustan.
Una prospettiva contro cui Arrigoni e Juliano Mer-Khamis, il pacifista «al 100% ebreo e al 100% palestinese», ucciso anche lui un anno fa, avrebbero sicuramente lottato.
Le
tante città che oggi celebrano Vittorio lo faranno ancora, perché ci
sarà bisogno a lungo del sogno poetico e concreto di chi si contrappone
al ferro dell’oppressione. Parole sue: «Continueremo a fare delle nostre
vite poesie fino a quando la libertà non verrà declamata sopra le
catene spezzate di tutti i popoli oppressi».
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