15 aprile 2012

Il Vincitore

di Pino Cabrasda Megachip.

 
«Non voglio essere seppellito sotto nessuna bandiera, semmai voglio essere ricordato per i miei sogni. Dovessi morire, tra cento anni, vorrei che sulla mia lapide fosse scritto ciò che diceva Nelson Mandela: un vincitore è un sognatore che non ha mai smesso di sognare. Vittorio Arrigoni, un vincitore». Vittorio si accompagnava con docilità alla grandezza reale dei suoi sogni, ma alludeva inevitabilmente alla nera ombra che si abbinava al suo raro coraggio fisico, un’ombra che lo ha raggiunto prima di quei cent’anni, proprio un anno fa. Un anno dopo la morte di Vittorio Arrigoni siamo interrogati in profondità dal “vincitore”, anche quando scontiamo la sconfitta profanatrice che ha spezzato la sua vita.
Le doppiezze, le disparità fra il dire e il fare, il progressismo che non smuove nulla, il funambolismo degli intellettuali, la manifattura usa-e-getta dell’eroismo, tutto questo abita lontano dalla memoria di Vik. Perciò i cent’anni e più saranno segnati davvero dalla sua memoria. Non tutto sarà polvere di polvere, fumo di fumo. Non tutto è destinato all’oblio triturante dei media menzogneri e reticenti. Anche in mezzo alla guerra dei cent’anni di oggi – questo è il metro realistico per la Terra Santa – è possibile distinguere ciò che può durare. Il sogno di Vittorio durerà a lungo e irriderà alle illusioni di sicurezza riposte nei mezzi militari. La sua assenza però ci interroga, ci chiede cosa siamo disposti a fare per “restare umani”, mentre enormi risorse sono mobilitate dal potere per disumanizzare amici e nemici.
Siccome la Palestina è sovraccarica di messaggi e simboli storici e religiosi che si stratificano e sovrappongono, colpisce l’analogia di Vittorio il Vincitore con la theologia crucis. Il mondo è abbandonato alla fragilità dell’uomo. Per i cristiani il vero rappresentante di Dio non è un re seduto sul trono, è un uomo crocifisso. In quell'uomo vedono Dio. Ma chi vede quell'uomo non vede che l'uomo. Similmente, l’ottimismo dei sogni di Arrigoni non giustifica né determinismi, né fedi alienate, né bandiere che neghino l’umano. Proprio per questo Arrigoni era un testimone ingombrante in vita, e lo è anche un anno dopo la sua morte.
Non deve stupirci che il processo a Gaza contro i suoi assassini non faccia passi avanti. Nessuno fra gli attori più potenti del dramma del Vicino Oriente sembra avere fretta di risolvere i misteri del delitto: un importante delitto politico. Come per altri crimini di questa portata, anche per Vik il mistero sembra nascondere inconfessabili convergenze di interessi, con soggetti improbabili che compaiono dal nulla nel suolo di Gaza per compiere l’esecuzione lasciando al buio i mandanti, a loro volta manovrati da leve ancora più irriconoscibili. Non dimentichiamo che l’uccisione di Arrigoni avviene nel pieno di un sommovimento che ridisegna la sponda sud del Mediterraneo e il Vicino Oriente, cambia le alleanze, modifica gli appoggi politici dei movimenti, stipula nuovi compromessi. Uno dei fatti più rilevanti che inquinano forzatamente la stagione delle rivolte arabe è la reviviscenza di gruppi armati salafiti, sovvenzionati dalle petromonarchie del Golfo e alleati con le azioni dei paesi NATO. Un tempo sarebbero stati inquadrati nello spauracchio al-Qa’ida, ma ora no. Come mai?
Alla fine del 2010, pochi mesi prima del delitto Arrigoni, in Arabia Saudita ritornava a splendere la stella del principe Bandar bin Sultan, uomo forte dei servizi segreti messo in disparte per un periodo, ma subito in grado di approfittare – con l’aiuto di Washington – della malattia del re Abdallah. La prima cosa che ha fatto Bandar, non appena in sella, è stata la riattivazione delle sue reti di uomini in armi e terroristi. Queste reti sono state protagoniste dirette in Libia, Libano, Siria e Palestina, con tanti gruppi fanatizzati, ideologicamente anti-sionisti, ma capaci di forti convergenze d’interessi con Israele.
Il gruppo che ha eseguito la brutale esecuzione di Vittorio Arrigoni è stato uno dei tanti improvvisamente galvanizzati dalla nuova stagione politica. Le petromonarchie del Golfo hanno subito compreso che le rivolte avrebbero potuto travolgere anche loro. Hanno all'istante messo in campo risorse eccezionali, giocando con una certa abilità su più piani: sia quello del disordine (il terrorismo riconducibile ai suoi canali di rifornimento), sia quello della stabilizzazione (in chiave sunnita, con i Fratelli Musulmani). La stabilizzazione doveva trovare persino un ricongiungimento con le rive moderate dell’islamismo politico turco di Recep Tayyip Erdoğan. Questi cambiamenti hanno agito in profondità anche nella Gaza di Hamas, che ha cambiato alleanze internazionali con sorprendente velocità.
L'alleanza con la Siria laica da parte degli integralisti del movimento islamista palestinese era stata a lungo un “in mancanza di meglio”, che conveniva anche a Damasco in chiave anti-israeliana.
Nel frattempo è emersa una potenza che aspira a egemonizzare la Sunna, la Turchia, un membro della NATO che porta in dote la sua brava medaglia di morti della Freedom Flotilla, e con l'ambizione di domare il demone integralista in chiave moderata, a costo di liquidare un'alternativa laica come Assad e di sopportare i tagliagole jihadisti nelle nuove instabili coalizioni che vanno al potere.
Hamas diventa un punto di cerniera fra la Turchia e le monarchie arabe, che ora la riempiono di petrodollari freschi freschi, e guadagna così posizioni sul campo. Magari si farà perfino lo stato palestinese. Probabilmente un Bantustan.
Una prospettiva contro cui Arrigoni e Juliano Mer-Khamis, il pacifista «al 100% ebreo e al 100% palestinese», ucciso anche lui un anno fa, avrebbero sicuramente lottato.
Le tante città che oggi celebrano Vittorio lo faranno ancora, perché ci sarà bisogno a lungo del sogno poetico e concreto di chi si contrappone al ferro dell’oppressione. Parole sue: «Continueremo a fare delle nostre vite poesie fino a quando la libertà non verrà declamata sopra le catene spezzate di tutti i popoli oppressi».


 

Nessun commento: