di Fëdor Luk’janov- RIA Novosti. Traduzione per Megachip a cura di Pino Cabras.
Il 2012 è passato sotto il segno del potere. È effettivamente cambiato presso le tre maggiori potenze mondiali: Vladimir Putin è tornato in Russia, Barack Obama è stato rieletto negli Stati Uniti e Xi Jinping è arrivato al potere in Cina. Mohamed Morsi
ha ugualmente vinto le elezioni presidenziali in Egitto, ma non si sa
ancora se ha acquisito il potere reale. Le speranze di un cambiamento di
regime a Damasco, al contrario, sono state vane: Bashar al-Assad
è sempre a capo del paese, benché, per molti, i suoi giorni sembrino
contati. Qual è il punto comune tra gli eventi che si verificano in
tutto il mondo? Il nervosismo aumenta fra tutti gli attori.La campagna
elettorale americana ha svelato una polarizzazione senza precedenti
della società e dei dibattiti sulla guerra sono sorti continuamente: -
bisogna invadere la Siria? Bombardare l'Iran? Quanti soldati tenere in
Afghanistan dopo il ritiro? Fino a che punto accrescere la presenza
militare nel Pacifico?
E
nonostante la sua incredibile potenza, Washington cerca come gli altri
di adattarsi all'evoluzione caotica degli avvenimenti, non avendo mai
avuto a disposizione strumenti di governance globale.
Vladimir Putin, tanto nei suoi propositi quanto nelle sue azioni, ha posto l’accento sui molteplici rischi da cui bisogna proteggersi.
I
suoi tentativi di assicurare la stabilità interna si scontrano con
l'assenza di stabilità esterna, della quale ha preso coscienza come di
un preambolo necessario.
Tuttavia, quest’ultima dipende da innumerevoli fattori, che Mosca non può influenzare.
Il governo cerca solamente di ridurre al minimo i rischi, cosa che fa nella misura di queste capacità e della sua comprensione.
Quanto alla Cina,
sembrava sempre seguire la sua strada, malgrado le tempeste che la
circondano. Il 2012 ha mostrato per la prima volta che delle fessure si
stavano formando nel monolito. Il trasferimento del potere alla
generazione successiva è stato preparato nel contesto di una forte lotta
ideologica, di misure di controllo più intransigenti e di slanci di
nazionalismo diretto contro il Giappone.
Più lo sviluppo della Cina è intenso, tanto più la sua influenza è forte negli affari internazionali e tanto minore è la possibilità di poter usare un "basso profilo".
La
sua crescente potenza rafforza analogamente l’attenzione
internazionale, e di conseguenza diventa forte il desiderio di
resisterle, di dissuaderla e di rendersi sicuri nei confronti di un
potenziale concorrente.
Il Cairo è uno dei centri politici del mondo arabo e l'evoluzione di questa area dipende dal governo che si insedierà in Egitto.
La
vittoria di Morsi è stata la logica continuazione della rivoluzione di
piazza Tahrir. La partenza pacifica e rapida dei militari è stata una
sorpresa, sebbene tutti supponessero che avrebbero cercato di mantenere
il potere reale.
Tuttavia,
a dicembre, i generali sono stati sospettati di aspettare semplicemente
che le azioni del nuovo governo provocassero una resistenza e delle
accuse di "violazione degli ideali."
L'Egitto
è un riferimento per i movimenti islamici in tutto il Vicino Oriente:
sia che i Fratelli Musulmani dimostrino di essere in grado di diventare
una forza responsabile che assicura lo sviluppo del Paese e risponde ai
bisogni della popolazione, sia che mostrino che la purezza ideologica e
religiosa è altra cosa che l'efficienza amministrativa.
La Siria è diventata il centro nevralgico del mondo, perché tutte le linee di tensione vi si sono incrociate:
Il confronto religioso - gli sciiti contro i sunniti.
La lotta geopolitica - a livello regionale (l'Arabia Saudita e i suoi alleati contro l'Iran) e mondiale (Russia e Cina contro l'Occidente).
Il conflitto ideologico - la democratizzazione contro la stabilità autoritaria.
La contraddizione concettuale - dove si trovi la "parte giusta della storia".
Infine, la strana mescolanza
tra l'aspirazione sincera al cambiamento, gli ideali, il fanatismo, la
perfidia e l'ipocrisia, a volte più densa che in altre situazioni
simili.
L’insieme delle contraddizioni cristallizzate intorno alla Siria è la quintessenza del caos che regna nella coscienza politica mondiale.
Più
il processo è complesso, più la volontà di inserirlo in uno schema
semplice è grande. Si possono giudicare diversamente le posizioni di
Mosca sulla questione siriana vedendovi degli obiettivi mercantilistici.
Ma
tutto ciò che sta accadendo in Siria ha le sue proprie cause interne,
profondamente specifiche, che non sarebbero risolte se la Russia
rinunciasse a coprire Assad e se quest’ultimo perdesse il potere.
L'assurdità della situazione raggiunge il picco quando i paesi
occidentali si ritrovano sullo stesso lato della barricata di coloro
contro i quali avevano lanciato una "crociata contro il terrorismo"
pochissimo tempo fa. Ma la logica dello schermo bianco e nero spinge anche più lontano in questa direzione.
Sin dalla notte dei tempi, il potere significa l'impegno e la necessità di prendere decisioni, comprese quelle più difficili e sgradevoli.
Anche
nel XXI secolo è tuttora così, ma le circostanze in cui si deve
esercitare questo potere sono peggiorate. Prima, i processi geopolitici
erano soggetti a una certa logica e il modello comportamentale era
basato su criteri chiari di giudizio.
In
un mondo globale in cui tutto è permeabile e collegato, i vari aspetti
della forza - militare, politico, economico o culturale - agiscono
contemporaneamente, ma non nella stessa direzione. La forza risultante è complessa, dato che è praticamente impossibile calcolarla in anticipo.
Non sorprende che la politica si trasformi in frammentaria reazione colpo su colpo e che qualsiasi azione comporti più rischi che l'inazione.
Pertanto
il governo si sforza di non fare alcun grande passo, cercando di
barcamenarsi con il sistema esistente e conservare lo status quo.
La
Russia di oggi, che si trasforma a poco a poco da paese senza ideologia
in araldo mondiale del conservatorismo e della non-interferenza, è un
esempio perfetto.
L’Europa
- dove i politici non osano nemmeno parlare di cambiamenti strutturali
in seno all’Unione europea, preferendo tappare i buchi all'infinito - ha
perso anch’essa la sua forza innovativa e il suo desiderio di
cambiamento.
L’aspirazione al potere per non intraprendere nulla è un fenomeno nuovo nella politica internazionale.
Alcuni consigli a Beppe sui candidati, sul governo e sul nuovo Capo dello Stato
«…
li buoni consigli, da qualunque venghino, conviene naschino dalla
prudenzia del principe, e non la prudenzia del principe da' buoni
consigli.» (Niccolò Machiavelli, Il Principe, cap. XXIII)
«…quindi
dateci una mano piuttosto che martellarci, a me e a Casaleggio, di
darci delle martellate in testa, dateci consigli, una mano, abbiamo
bisogno tutti uno dell’altro. Grazie.» (Beppe Grillo, Comunicato n. 53, beppegrillo.it)
Quando Niccolò Machiavelli compilò quasi tutti i capitoli della sua opera più famosa, Il Principe,
era il 1513. Mezzo millennio fa. L’autore osservava un’Italia
debilitata, soggetta a mani barbare che la spossessavano. Machiavelli
scrisse il Principe per trovare soluzioni politiche pratiche e per
immaginare un soggetto forte che le mettesse in atto. Pensava che nella
crisi di allora ci fosse comunque un’opportunità.
Esattamente
cinque secoli dopo, l’Italia – in condizioni storiche certo assai
diverse - è di nuovo la preda di poteri che la percorrono, la derubano,
la dividono.
Anche
nella crisi di oggi sorgono opportunità e pericoli affrontati da nuovi
interpreti. Cambieranno presto molti di questi interpreti, muteranno i
partiti politici, e in mezzo a questo tramutare in molti già ora
vogliono dire la loro, esserci, sfiorare i panni che il Principe potrà
vestire. Da qui i consigli, le adulazioni, le demonizzazioni.
Da
qui anche il mio divertimento nell’accostare la frase di Machiavelli e
quella di Beppe Grillo, ossia il soggetto politico che turba il sonno
dei Principi decaduti riparatisi dietro Rigor Montis. Che Principe
avremo nel 2013? Monti? Berlusconi? Bersani? O proprio Grillo? Andiamo
con ordine.
Spero
che tutti abbiano ben presente che le elezioni politiche, ormai
vicinissime, non decideranno solo la sorte di un parlamento e di un
governo. Cambieranno per prima cosa il Principe che abita al Quirinale.
Il quale Principe conta parecchio. Abbiamo visto quanto egli sia stato
decisivo per imporci il governo di tecnocrati neoliberisti, scelti fra i
minori economisti della nostra epoca, e quanto abbia trafficato per
mettere in mani lontane la già poca sovranità che avevamo. La
combinazione fra nuovo Presidente della Repubblica, nuovo parlamento e
nuovo governo avrà un effetto durevole. Se non fosse ancora chiaro, lo
ribadisco: sarà in questi mesi che si deciderà l’impronta della Terza Repubblica.
In
Italia ricorrono i cicli ventennali, e durano così tanto perché chi li
guida vince all’inizio. Monti e Napolitano hanno preparato il terreno
per un nuovo ciclo ventennale, anche se non lo amministreranno certo
tutto loro, bensì Bersani, Vendola e gli altri vassalli dell’Impero. Il
Fiscal Compact, il patto di bilancio europeo, è appunto un vincolo
ventennale, che loro hanno già accettato. È un incubo lunghissimo, al
termine del quale, rispetto a mezzo millennio fa, mancheranno solo i
lanzichenecchi. E non è nemmeno detto che ce li faranno mancare.
Chi si oppone a questo incubo?
Si
oppongono forse i partiti che hanno ereditato l’elettorato di sinistra?
No di certo. Hanno consegnato milioni di elettori, docili come
agnellini, agli strateghi di scuola Goldman Sachs e Bilderberg,
da Prodi a Draghi a Monti. Altri milioni di elettori, che a un certo
punto hanno capito l’andazzo, hanno iniziato a non votare. Altri ancora,
specie gli intellettuali, hanno giocato troppo a fare l’ala sinistra del centrosinistra.
Fanno errori infiniti, ripetono sempre le stesse mosse e imparano dagli
errori troppo lentamente rispetto all’accelerarsi della Storia. Hanno
pure bei programmi, ma caos organizzativo totale.
I
partiti di destra che hanno orbitato intorno a Berlusconi – nel
frattempo - sono nel marasma. Ci provano pure a sottintendere un mondo
senza Monti, senza questa Europa dittatoriale, senza Fiscal Compact. Ma
si vede da lontano che non hanno uno straccio di idea, fino a subire il
ritorno della mummia di Arcore.
Poi
c’è Grillo. Che non è un fungo spuntato dal nulla. L’attore genovese ha
guadagnato il suo primo sostrato di popolarità dalla sua originaria
caratura di personaggio televisivo, ben oltre vent’anni fa, e ha
integrato questo patrimonio con lo specifico del teatro, infine lo ha
riportato sul terreno di internet e poi nelle urne elettorali. È stato
un lavoro lungo. Lo ha rivendicato lui stesso: «Io
ho cominciato vent’anni fa girando il mondo, visitando laboratori,
intervistando ingegneri, economisti, ricercatori, premi Nobel. Ho rubato
conoscenze ai grandi. Mi sono informato, mi son fatto un culo così,
anche se molti mi prendono per un cialtrone improvvisatore. E ora questi
pensano di metter su movimenti in quattro e quattr’otto.» Non posso dargli torto.
C’è
stato dunque un lavoro organizzativo e ideologico, in cui Grillo ha
costruito una narrazione, affidandosi saldamente a un pilastro
patrimoniale, la sua azienda, a suo agio con i meccanismi della società
dello spettacolo. Da un certo punto in poi Grillo non ha più mosso un
solo passo senza il suo socio di ferro, Gianroberto Casaleggio, anch’egli fermissimo nel costruire un partito-azienda.
Mentre il partito-azienda di Berlusconi voleva far durare eternamente
gli anni ottanta del XX secolo, il partito-azienda di Grillo e
Casaleggio ha voluto promettere in anticipo gli anni ottanta del XXI
secolo. Due narrazioni opposte, ma entrambe lontane dalle forme di
attività politica del partito-massa novecentesco, ed entrambe
consapevoli che siamo dentro un grande show. Grillo ha via via rafforzato il suo efficiente modello imprenditoriale in cui c’è sinergia fra il suo blog, gli spettacoli, un certo networking
su temi politici, sociali e ambientali che esalta protagonismi
giovanili e buone pratiche amministrative, fino a portarlo in politica
nel Movimento Cinque Stelle.
Per
i temi che propone, e per il fatto che si oppone frontalmente e senza
compromessi a un ceto politico terribilmente screditato, il Cinquestelle
è diventato il punto di coagulo dell’opposizione, l’unico
attualmente in grado di portare in Parlamento rappresentanti non
organici al "Pensiero Unico". La creatura ha raggiunto elettoralmente e
mediaticamente una massa tale da affascinare nuovi votanti disposti a
sospingerla in alto. In questo modo, Grillo e Casaleggio si trovano
buone carte in mano da giocare per la partita della Terza Repubblica.
Finora hanno scelto di non cambiare il loro gioco. Poiché la partita si
disputa adesso, le contraddizioni in seno ai Cinquestelle si notano di
più. Ad esempio la retorica «uno vale uno» e la «democrazia diretta»
cedono il passo al «comunicato 53» del 29 ottobre 2012, nel quale Grillo dichiara: «io devo essere il capo politico di un movimento»,
laddove impone una regola inderogabile per decidere chi si può
candidare: «chiunque sia stato iscritto a una lista comunale o
regionale», e nessun altro.
Poi
si scopre invece che sono state concesse eccome delle deroghe, e si
sono posizionati bene nelle liste anche candidati che non avevano mai
fatto parte di liste locali, mentre altri in analoghe situazioni o
perfino ex candidati non potevano partecipare, stoppati dallo staff dei
capi. Misteri del Casaleggium. Come si spiegano? Quale questione di fondo sollevano? C’è solo da capire, non da gettare la croce su qualcuno.
La questione è semplice. Nemmeno i Cinquestelle si sono finora sottratti alla «legge ferrea dell’oligarchia»
dei partiti, enunciata nel 1911 da Robert Michels, un politologo
tedesco. Cosa dice, in sostanza, questa regola secolare? A dispetto di
una struttura democratica aperta alla base, nel partito tende sempre a
formarsi una struttura comandata da un numero ristretto di dirigenti che
godono di risorse informative, finanziarie e organizzative
asimmetriche. Le gerarchie possono essere esplicite o implicite, palesi o
in ombra, ma pesano comunque in modo decisivo. Questo vale per grandi
partiti massa, ma diventa stridente in una formazione che rivendica di
avere un “non-statuto” e si rimette solo alle regole del codice civile
sulla proprietà dei marchi, proprio mentre spende ogni parola possibile
in favore della “democrazia diretta”. Tutto ciò può funzionare in
un’azienda, può procedere bene in una piccola comunità. Ma quando
la dimensione dell’azione politica si estende a un paese di sessanta
milioni di abitanti, la democrazia rappresentativa è l’unica cosa che
può reggere.
Lo stesso Grillo lo ammette: «Fosse
dipeso da me, ci saremmo fermati ai comuni e alle regioni, il movimento
è nato dimensionato sulle realtà locali. Il Parlamento è fatto su
misura dei partiti. Ma ora come fai a deludere le aspettative di tanta
gente? Ci costringono a presentarci alle politiche.»
L’ideologia dell’«uno vale uno» su questa scala non funziona dunque più, amen.
Certo, Grillo ribadisce che non vuole portare in parlamento chi ha «il
Dna corrotto dall’organizzazione-partito. E poi ci inventiamo un
meccanismo di democrazia partecipativa per far governare i cittadini».
Ma in attesa di tutto questo, nella realtà effettuale il capo è lui. E
lui decide chi c’è e chi non c’è. La decisione avviene all’interno di un
bacino ristretto di candidati, determinato con regole dichiarate
rigidissime e nondimeno occasionalmente aggirate con il consenso del
vertice. Le «parlamentarie», con il voto di alcune decine di migliaia di
italiani, ratificano.
Spettacolare
contraddizione: un partito che esalta la democrazia diretta contro la
democrazia rappresentativa accondiscende pragmaticamente a meccanismi di
selezione fra pochi cittadini strettamente vigilati da un’élite
circoscritta.
Militanti e elettori del M5S farebbero bene a trarre una prima lezione: a questi livelli, la rappresentanza
non consiste nel fare di un parlamentare un “dipendente” che agisce
solo da portavoce. I padri costituenti c’erano già arrivati senza
sbatterci il muso. Ora, Grillo ha fatto un pantheon dei “santi laici”,
includendo tra gli altri Aldo Moro. Benissimo. Ma Moro e gli altri
costituenti scrissero non a caso l’articolo 67 della Costituzione: «Ogni
membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue
funzioni senza vincolo di mandato». Il terreno di azione costituzionale possibile oggi è questo e non altro.
Perciò
il meccanismo di selezione della rappresentanza scelto da Grillo e
Casaleggio - e ratificato tra i mugugni dagli attivisti cinquestelle –
insiste narrativamente a dire “democrazia diretta”, ma non la può
attuare davvero, con il risultato di produrre delle liste terribilmente modeste.
E allora mi chiedo: come potrebbe l’Italia, pur stufatasi di Monti e
disgustata da Berlusconi, affidarsi a queste liste? Le recenti elezioni
regionali siciliane ad esempio, hanno sì dimostrato che Grillo è in
boom, ma non intercetta gran parte dell’astensione. Col risultato che
governano altri.
Stanti così le cose, non ci dovremmo attendere un risultato diverso su scala nazionale.
Ecco
il punto: voglio credere ancora che Grillo non si accontenti di un
risultato modesto e colga invece l’occasione storica, per quanto essa
faccia tremare i polsi. Prendo spunto dal suo appello, quando chiede: «dateci consigli, una mano, abbiamo bisogno tutti l’uno dell’altro». Spero che si tratti della «prudenzia del principe» che fa sorgere i «buoni consigli».
Il consiglio è semplice, caro Grillo: non limitarti a dire «sono il capo politico di un movimento», cioè l’ennesimo (ancorché originale) capopartito, alla guida di un ennesimo (seppur eccentrico) partito.
Prova invece a esercitare una leadership più vasta e più utile al sogno che hai dichiarato. Ricordi la domanda di Travaglio: «Come te lo immagini, il prossimo Parlamento?» E tu: «Me
lo sogno pieno di rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di
gente perbene. Ragazzi, professori, esperti. I nostri di Cinquestelle, i
No-Tav, quelli dell’acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri
referendari.»
Bello, ma finora hai invece determinato la formazione di liste dalle dinamiche molto partitiche, troppo lontane da quel sogno.
Perché
è accaduto? I recenti successi elettorali hanno attirato frotte di
“soccorritori del vincitore”: gente incontrollabile, in grado di
corrompere irrimediabilmente la forza politica plasmata finora dal
fondatore. La decisione dal vertice dell’azienda – chiudersi - è stata
una decisione d’emergenza, «sennò ti entra Toto u curtu e poi ce lo hai tutta la vita dentro, Toto u curtu», dice Grillo.
La cosa si comprende perfettamente. Un leader che ha costruito una sua reputazione
nell’arco di decenni agisce d’imperio per preservarla, perché è la
risorsa chiave che alimenta il motore: quella reputazione gli consente
di avere l’autorevolezza e il consenso
per decidere in qualità di dirigente, di garante, di tessitore, di
iniziatore. Una classica democrazia del «carisma», più che una
futuribile democrazia di «cliccattivisti».
E
allora, mi chiedo, perché non usarla più largamente e meno
ipocritamente - e meno patrimonialmente - questa autorevolezza? Cos’ha
in mente Grillo, ora? Forse non il governo. Forse vuole limitarsi alla
testimonianza, con poche decine di parlamentari, in attesa di tempi
migliori. Ma quali tempi migliori? Se la Terza
Repubblica nascerà come lo zombie dell’attuale sistema, il Paese andrà a
fondo in poco tempo. Serve una forza di governo, o almeno
un’opposizione forte e non marginalizzata.
E qui vengo a sviluppare meglio il mio personalissimo consiglio.
Il
riferimento va a un esempio storico di alcuni decenni fa, che ci può
ispirare senza dimenticarci che viviamo in tempi molto diversi da
allora, con altri partiti, altri scopi, altre idee, ecc. È solo un utile
esempio funzionale per vedere come può operare la rappresentanza.
Ebbene, chi era il punto di coagulo dell’opposizione negli anni settanta? Era il PCI,
uno strano partito che pur essendo di massa, a un certo punto decise
che non poteva bastare a se stesso, e perciò alle elezioni presentava
candidati indipendenti. Naturalmente questi condividevano molte idee di
quel partito, non andavano certo in campo avversario, ma avevano
biografie autenticamente svincolate ed erano in grado di rappresentare
interessi che il PCI non raggiungeva con le sue sole forze. La
cosiddetta Sinistra Indipendente formava perfino un suogruppo parlamentare autonomo,
che portò alle Camere voci autorevoli, competenti, oneste,
rappresentative, perfettamente in grado – una volta concluso il mandato –
di non impigliarsi per sempre al “mestiere” politico. Questi
parlamentari contribuirono tra l’altro a scrivere ottime leggi, cosa
niente affatto secondaria.
Ebbene, il Movimento Cinque Stelle, lo ripeto, è di fatto il punto di coagulo dell’opposizione
dell’oggi e dell’immediato domani, e ha una straordinaria
responsabilità storica, che anche in bocca a Beppe Grillo suona con
queste esatte parole: «Ma ora come fai a deludere le aspettative di tanta gente?»
Se
la sua preoccupazione è questa, allora diventa cruciale, nel brevissimo
tempo che rimane da qui alle elezioni, presentare liste migliori di
quelle varate con la consultazione infra-partitica delle
«parlamentarie». Non c’è tempo per fare una grande selezione di massa.
C’è tempo invece per guardarsi intorno fra «rappresentanti di tante liste civiche, movimenti di gente perbene. Ragazzi, professori, esperti» (riuso le parole di Beppe). I Cinquestelle li conoscono già: «I No-Tav, quelli dell’acqua pubblica, dei beni comuni, gli altri referendari.»Scelga
Grillo alcune decine di «saggi» indipendenti da presentare in vista
delle elezioni in aggiunta al quadro delle liste attuali:
alcuni da candidare come parlamentari, altri come possibili ministri,
altri come autorevoli garanti. L’esposizione di Grillo sarebbe calibrata
e cesserebbe di essere una sovraesposizione. La presenza di
parlamentari indipendenti e non trasformisti sarebbe il seme di una
nuova democrazia. Diventerebbe il punto di confluenza di una forza
popolare in grado di dirigere e riformare profondamente la Repubblica.
Troverebbe un’Italia disposta a una reale alternativa. Darebbe una
prospettiva a milioni di elettori altrimenti portati ad astenersi.
Il
programma? Con pochi punti ben scritti e ben difesi ci ritroveremmo a
milioni. E sarebbe un programma opposto agli attuali partiti.
Disegnerebbe una Terza Repubblica lontana anni luce dallo sfascio
odierno.
Accennavo
al fatto che nel 2013 si eleggerà il nuovo Capo dello Stato. Pur non
essendo l’Italia una Repubblica presidenziale, il collegio elettorale
che deciderà chi va al Quirinale si formerà adesso, a partire dalle
cabine elettorali. Alla più alta magistratura perché mai proporre un Di
Pietro, così consumato dai difetti partitocratici?
Non sarebbe forse più adatta una figura come quella del magistrato Roberto Scarpinato?
A proposito dei machiavellismi delle classi dirigenti italiane,
Scarpinato – oltre ad avere la migliore biografia professionale per il
primato della legge – è l’autore de «Il ritorno del Principe»,
un ritratto spietato di queste classi dirigenti da cambiare. Io lo
proporrei, con forza, Scapinato, per far capire quanto si vuole cambiare
il Paese, in antitesi con i presidenti che insabbiano le inchieste
sulla criminalità politico-mafiosa. Sarebbe una direzione chiara, e
coerente con la storia della migliore opposizione allo sfascio di questi
anni. Divulgherebbe ancora meglio la buona novella: con noi si cambia
davvero, e lo si fa con il volto migliore della legge.
Questo
per il Presidente della Repubblica. E per il Presidente del Consiglio,
invece? Grillo non vuole fare il candidato premier. Ma il ruolo di mero
garante gli sta strettino assai. Nel momento in cui facesse la grande
operazione di apertura agli indipendenti, anche questa questione si
potrebbe rapidamente discutere e risolvere. Si vedrà.
Come
si sarà ben capito, nel dare questi consigli molto personali barcollo,
perché ho ben chiare le speranze suscitate in questi anni da chi, come
Grillo e altri, si è battuto per una rivoluzione politica e culturale,
ma ho altrettanto chiare le difficoltà e i vicoli ciechi della dura
realtà, così come il succedersi di speranze a buon mercato. Oscillo
insomma fra passione politica, volontà di cambiare, e ragionevole
diffidenza. È colpa del Minestrone. No, non la
pietanza. È un film che ho visto tempo fa e di cui racconto - anche se
non si dovrebbe – il finale. Fu girato nel 1981 da Sergio Citti con una
strana ispirazione pasoliniana, e un cast che comprendeva anche Roberto
Benigni e Giorgio Gaber. Quest’ultimo nel film
interpreta il ruolo di un santone molto ieratico che fa sperare la gente
in una “Terra Promessa”. Molto prima di Forrest Gump, Gaber inizia a
muoversi per le strade, seguito da una folla crescente.
Mamme speranzose gli fanno baciare i loro pupi e lo seguono anch’esse,
assieme a tanti affamati in viaggio per "qualcosa di meglio" che non
c'é. Il viaggio a piedi porta il profeta e la processione di seguaci
fino a un assurdo ghiacciaio alpino, che apre l’orizzonte ma chiude
drammaticamente la strada. A quel punto gli chiedono: «Ma dove ci hai
portati?» E Gaber: «E che cazzo ne so?». Inizia a ridere follemente. Finisce il film.
Perciò mi consola che nell’intervista che qui ho tanto citato Beppe Grillo dica: «Se
falliamo, ci appendono per i piedi: almeno quelli che si ostinano a
pensare che l’Italia la salva l’uomo della Provvidenza che mette le cose
a posto mentre loro delegano e si disinteressano. Ma dai, ragazzi,
basta coi leader e i guru, diventiamo adulti». Beppe chiama tutti alla responsabilità. Mi spaventa solo quando dice: «io getto le basi, faccio il rompighiaccio», perché rivedo il ghiacciaio del film. Ma è solo un’assonanza.
Questa videointervista di Dafni Ruscetta al palestinese Fawzi Ismaile a me risale a cinque giorni prima che l'Assemblea generale dell'Onu decidesse di accogliere la Palestina
come "Stato osservatore". Le idee esposte risultano particolarmente
interessanti perché propongono una prospettiva molto diversa dalla
soluzione "Due Popoli Due Stati" che invece domina il dibattito
mondiale. (P.C.)
di Dafni Ruscetta - Movimento 5 Stelle CA.
Nei giorni scorsi, durante l’ennesimo assalto militare a Gaza, abbiamo intervistato a Cagliari Fawzi Ismail, Presidente dell’Associazione Amicizia Sardegna-Palestina.
Fawzi, dopo aver raccontato la sua storia di bambino ex-profugo, ha
fornito una propria versione, un’analisi dell’ultimo attacco israeliano,
parlando di esperimenti su più livelli da parte di
quell’amministrazione. In primo luogo Israele avrebbe sferrato l’assedio
per “testare” la reazione delle piazze arabe dopo la ‘Primavera araba’
del 2011, per meglio comprendere anche l’assetto geopolitico della zona.
Un altro aspetto
dell’azione militare avrebbe avuto – secondo l’esponente palestinese –
l’obiettivo di mettere in imbarazzo la nuova amministrazione Obama,
appena rieletto come Presidente degli Stati Uniti. Un’altra ipotesi,
inoltre, sarebbe quella di voler innescare un’eventuale reazione
dell’Iran, in modo da costringere l’Europa e gli USA ad intervenire
militarmente. In ultimo – sostiene ancora Fawzi Ismail – a gennaio ci
saranno nuovo elezioni in Israele e, normalmente, le campagne elettorali
si aprono con azioni militari. Successivamente Fazwi definisce demagogica e ormai superata l’ipotesi della formula “Due popoli due Stati”,
in quanto esiste già uno Stato (Israele) che impedisce sistematicamente
la nascita dell’altro Stato, quello Palestinese appunto. Questo tema
viene arricchito dall’analisi Pino Cabras, Direttore
Editoriale di Megachip (rivista online fondata e diretta da Giulietto
Chiesa) il quale, partendo da una disamina di due accademici, il
geografo Arnon Sofer e il demografo Sergio Della Pergola (un israeliano
nato e vissuto in Italia fino al 1966) dell’Università di Gerusalemme, a
suo tempo consulenti di Ariel Sharon, arriva alla conclusione che
Israele dovrà risolvere un problema che ha tre variabili: democrazia, ebraicità, dimensione territoriale. Soltanto due di queste variabili potrebbero coesistere nell’Israele degli anni a venire. Potrà essere uno stato democratico ed ebraico, ma allora dovrà essere di ridotte dimensioni. Potrà essere democratico e grande, ma allora non sarà più ebraico. Infine potrà essere ebraico ed esteso, ma allora non sarà più democratico.
Benché la soluzione “due popoli, due stati” sia ormai quasi
unanimemente considerata – sia a livello internazionale che italiano –
come l’unica possibile conclusione del conflitto, una tale soluzione,
ammesso poi che sia mai realizzata, difficilmente potrà condurre ad una
pacificazione dell’area poiché non risponde a criteri di giustizia ed
equità. La
situazione di fatto creata in Palestina (ovvero nei Territori e in
Israele) non consente la nascita dello stato palestinese a fianco di
Israele se non come mera “espressione geografica” priva di elementari
contenuti di sovranità.
Il nascente stato di Palestina, infatti, non avrebbe la possibilità di
realizzare una politica di difesa indipendente né potrebbe stringere
rapporti diplomatici con altri stati in tale funzione; dipenderebbe
totalmente da Israele per l’utilizzo delle risorse primarie, ovvero
acqua ed energia (parte di questa analisi è inserita in un articolo più ampio dello stesso Cabras in collaborazione con Simone Santini, di circa due anni fa su Megachip). L’intervista
si conclude nuovamente con Fawzi che ribadisce, come possibile
soluzione, quella di far tornare i Palestinesi nelle loro case, ma
“senza dover mandar via gli Israeliani che ci abitano ora, i due popoli
potrebbero convivere insieme con pari diritti, diritti
delle persone al di là del sesso, della religione o dell’etnia.
Moralmente non è giusto chiudere un occhio sul massacro di bambini…per
me la Palestina non è solo la Terra di pietre, alberi etc., per me la
Palestina vuol dire la dignità umana”.
Qualcuno si stupisce che La Repubblica abbia censurato brutalmente un post di Piergiorgio Odifreddi sul nuovo massacro di Gaza, portando l'autore a chiudere il suo blog intitolato "Il non-senso della vita".
Noi non ci sorprendiamo, da osservatori della parabola seguita per anni
dai più importanti organi di informazione in tema di Israele e
Palestina. Così, sul quotidiano israeliano Haaretz possiamo trovare articoli estremamente critici verso i crimini della classe dirigente di Israele. Su Repubblica invece non si può. Questo perché Repubblica non è la nostra Haaretz, ma la nostra Pravda. Non sia mai che accolga paragoni come quelli di Odifreddi. Infatti non ha mai pubblicato gli analoghi raffronti pronunciati nel 2009 nientemeno che da un deputato ebreo inglese, Gerald Kaufman.Patetici
davvero, questi censori, che ancora oggi pensano che quel che non
pubblicano non esista, e invece si ritrovano a essere travolti da una
reazione web virale.
Lo hanno fatto tanti siti e lo facciamo anche noi: riproponiamo a futura
memoria sia il testo oscurato, sia il post con il quale il matematico
si congeda dal blog.
Dieci volte peggio dei nazisti
di Piergiorgio Odifreddi, 19 novembre 2012. «Uno
dei crimini più efferati dell’occupazione nazista in Italia fu la
strage delle Fosse Ardeatine. Il 24 maggio 1944 i tedeschi
“giustiziarono”, secondo il loro rudimentale concetto di giustizia, 335
italiani in rappresaglia per l’attentato di via Rasella compiuto dalla
resistenza partigiana il 23 maggio, nel quale avevano perso la vita 32
militari delle truppe di occupazione. A istituire la versione moderna
della “legge del taglione”, che sostituiva la proporzione uno a uno del
motto “occhio per occhio, dente per dente” con una proporzione di dieci a
uno, fu Hitler in persona. Il feldmaresciallo Albert Kesselring trasmise l’ordine a Herbert Kappler,
l’ufficiale delle SS che si era già messo in luce l’anno prima,
nell’ottobre del 1943, con il rastrellamento del ghetto di Roma. E
quest’ultimo lo eseguì con un eccesso di zelo, aggiungendo di sua sponte
15 vittime al numero di 320 stabilito dal Fuehrer. Dopo
la guerra Kesselring fu condannato a morte per l’eccidio, ma la pena fu
commutata in ergastolo e scontata fino al 1952, quando il detenuto fu
scarcerato per “motivi di salute” (tra virgolette, perché
sopravvisse altri otto anni). Anche Kappler e il suo aiutante Erich
Priebke furono condannati all’ergastolo. Il primo riuscì a evadere nel
1977, e morì pochi mesi dopo in Germania. Il secondo, catturato ed
estradato solo nel 1995 in Argentina, è tuttora detenuto in semilibertà a
Roma, nonostante sia ormai quasi centenario. In questi giorni si sta compiendo in Israele l’ennesima replica della logica nazista delle Fosse Ardeatine.
Con la scusa di contrastare gli “atti terroristici” della resistenza
palestinese contro gli occupanti israeliani, il governo Netanyahu sta
bombardando la striscia di Gaza e si appresta a invaderla con decine di
migliaia di truppe. Il
che d’altronde aveva già minacciato e deciso di fare a freddo, per
punire l’Autorità Nazionale Palestinese di un crimine terribile: aver
chiesto alle Nazioni Unite di esservi ammessa come membro osservatore!
Cosa succederà durante l’invasione, è facilmente prevedibile. Durante
l’operazione Piombo Fuso di fine 2008 e inizio 2009, infatti, compiuta
con le stesse scuse e gli stessi fini, sono stati uccisi almeno 1400
palestinesi, secondo il rapporto delle Nazioni Unite, a fronte dei 15
morti israeliani provocati in otto anni (!) dai razzi di Hamas.
Un rapporto di circa 241 cento a uno, dunque: dieci volte superiore a
quello della strage delle Fosse Ardeatine. Naturalmente, l’eccidio di
quattro anni fa non è che uno dei tanti perpetrati dal governo e
dall’esercito di occupazione israeliani nei territori palestinesi. Ma a
far condannare all’ergastolo Kesserling, Kappler e Priebke ne è bastato
uno solo, e molto meno efferato: a quando dunque un tribunale
internazionale per processare e condannare anche Netanyahu e i suoi
generali?»
809 giorni di libertà
di Piergiorgio Odifreddi, 20 novembre 2012.
l non-senso della vita è
iniziato il 31 agosto 2010, e ha cercato di gettare uno sguardo il più
possibile razionale, e dunque non convenzionale, sugli avvenimenti che
la cronaca proponeva quotidianamente alla nostra attenzione. Lo stesso
titolo del blog, nonostante la palese provocazione filosofica e
teologica, intendeva programmaticamente indicare che gli spunti di
meditazione e di discussione sarebbero stati scelti, in maniera
idiosincratica, tra quelli che potevano essere considerati come
“portatori di non senso”. Per 809 giorni Repubblica.it
ha generosamente ospitato le mie riflessioni, che spesso non
coincidevano con la linea editoriale del giornale, e ha offerto loro
l’invidiabile visibilità non solo del suo sito, ma anche di un richiamo
speciale nella sezione Pubblico. Da parte mia, ho approfittato di questa
ospitalità per parlare in libertà anche di temi scabrosi e non politically correct, che vertevano spesso su questioni controverse di scienza, filosofia, religione e politica. Naturalmente,
sapevo bene che toccare temi sensibili poteva provocare la reazione
pavloviana delle persone ipersensibili. Puntualmente, vari post hanno
stimolato valanghe (centinaia, e a volte migliaia) di commenti, e aperto
discussioni che hanno fatto di questo blog un gradito spazio di
libertà. Altrettanto naturalmente, sapevo bene che la sponsorizzazione
di Repubblica.it poteva riversare sul sito e sul giornale
proteste direttamente proporzionali alla cattiva coscienza di chi si
sentiva messo in discussione o criticato. Immagino
che il direttore del giornale e i curatori del sito abbiano spesso
ricevuto lagnanze, molte delle quali probabilmente in latino. Ma devo
riconoscere loro di non averne mai lasciato trasparire più che un vago
sentore, e di aver sempre sposato la massima di Voltaire: “detesto ciò
che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto di dirlo”. Mai e
sempre, fino a ieri, quando anche loro hanno dovuto soccombere di fronte
ad altre lagnanze, questa volta sicuramente in ebraico. Cancellare
un post non è, di per sè, un grande problema: soprattutto nell’era
dell’informatica, quando tutto ciò che si mette in rete viene clonato e
continua comunque a esistere e circolare. Non è neppure un grande
problema il fatto che una parte della comunità ebraica italiana non
condivida le opinioni su Israele espresse non soltanto da José Saramago e
Noam Chomsky, al cui insegnamento immodestamente mi ispiro, ma anche e
soprattutto dai molti cittadini israeliani democratici che non approvano
la politica del loro governo, ai quali vanno la mia ammirazione e la
mia solidarietà. Il
problema, piccolo e puramente individuale, è che se continuassi a
tenere il blog, d’ora in poi dovrei ogni volta domandarmi se ciò che
penso, e dunque scrivo, può non essere gradito a coloro che lo leggono:
qualunque lingua, viva o morta, essi usino per protestare. Dovrei, cioè,
diventare “passivamente responsabile”, per evitare di procurare guai.
Ma poiché per natura io mi sento “attivamente irresponsabile”, nel senso
in cui Richard Feynman dichiarava di sentirsi in Il piacere di trovare le cose, preferisco fermarmi qui. Tenere
questo blog è stata una bella esperienza, di pensiero e di vita, e
ringrazio non solo coloro che l’hanno ospitato e difeso, ma anche e
soprattutto coloro che vi hanno partecipato. La vita, con o senza senso,
continua. Ma ci sono momenti in cui, candidamente, bisogna ritirarsi a
coltivare il proprio giardino.
Kyle Bassscrive: «Trilioni
di dollari di debiti saranno ristrutturati e milioni di risparmiatori
finanziariamente prudenti perderanno una percentuale rilevante del loro
potere d'acquisto reale esattamente al momento sbagliato nella loro
vita. Ancora una
volta, il mondo non finirà, ma il tessuto sociale delle nazioni
dilapidatrici sarà sfilacciato e in alcuni casi strappato. Purtroppo,
guardando indietro nella storia economica, troppo spesso la guerra è la manifestazione di una semplice entropia economica sostenuta fino alla sua logica conclusione. Noi crediamo che la guerra sia un’inevitabile conseguenza della attuale situazione economica mondiale».
Larry Edelson ha scritto una e-mail agli abbonati dal titolo «Quel che i ‘Cicli di guerra’ ci dicono per il 2013», in cui si afferma:
«Sin
dagli anni ottanta, ho studiato i cosiddetti "cicli di guerra": i ritmi
naturali che predispongono le società a discendere nel caos, nell’odio,
in una guerra civile o perfino internazionale.
Non sono certo la prima persona ad esaminare questi modelli tanto peculiari nella storia. Ci
sono stati molti prima di me, in particolare, Raymond Wheeler, che ha
pubblicato la cronistoria di guerra più autorevole di sempre, che
documenta a forza di dati un periodo lungo 2.600 anni.
Tuttavia, ci sono pochissime persone che siano disposte perfino a discutere la questione in questo momento. E sulla base di quel che vedo, le implicazioni potrebbero essere assolutamente enormi nel 2013.»
L’ex analista tecnico della Goldman Sachs Charles Nenner
– che ha lanciato alcuni grandi avvertimenti molto accurati, e ha fra i
suoi clienti i più importanti fra hedge funds, banche, agenzie di
brokeraggio e grandi possidenti plurimilionari – afferma che ci sarà
«una grande guerra che comincerà a cavallo fra 2012 e 2013» che porterà
l’indice Dow a 5.000 punti.
Perché questi guru economici stanno prevedendo guerra?
Per prima cosa, molte personalità influenti credono erroneamenteche la guerra faccia bene all'economia. Per di più, già Jim Rogers (co-fondatore del Quantum Fund con George Soros, NdT) sosteneva:
«Se si trasforma in una guerra commerciale, è la cosa più importante del 2011», e aggiungeva: «Le guerre commerciali portano sempre a guerre.
Nessuno vince le guerre commerciali, tranne il generale che finisce per
combattere le guerre fisiche quando accadono. Questo è molto
pericoloso».
«Il
proseguimento dei salvataggi in Europa potrebbe in ultima analisi
innescare un'altra guerra mondiale […] Aggiungi il debito, la situazione
peggiora, e alla fine semplicemente crolla. A
quel punto ciascuno va a cercare capri espiatori. I politici danno la
colpa agli stranieri, e ci troviamo nella seconda guerra mondiale o in
una qualunque guerra mondiale».
E Marc Faberaffermache il governo americano inizierà nuove guerre in risposta alla crisi economica:
Quasi un anno fa, proprio a novembre, erano giorni trionfali per la sovversione dall’alto in Italia decisa a livello di classi dominanti globali. Era quando il Presidente della Repubblica nominava senatore a vita Mario Monti,
fra tutti i tecnocrati disponibili quello più organico all’élite
planetaria (essendo Mario Draghi già a capo della BCE). Ed erano i
giorni in cui Il Sole 24 Ore titolava a titoli cubitali "FATE PRESTO", per dare il massimo risalto alla paura dello spread e piegare la sovranità di una nazione. Il lupo perde il pelo ma non il vizio. Ora che i risultati elettorali premiano Beppe Grillo, in vista delle elezioni del 2013 la minaccia descritta dal Sole 24 Ore è di nuovo chiara: lo spread sarà ancora la leva per sottomettere gli italiani, e piegare Grillo. “La sola cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”,
disse Franklin D. Roosevelt nel suo discorso inaugurale nel marzo 1933.
Il consiglio del giornale di Confindustria al popolo italiano è, per
contro, “Abbiate paura! Sempre!”. La franchezza che emerge in questo articolo di Vito Lops è brutale. Il pezzo merita di essere letto per intero, con le nostre sottolineature. Prima di quella lettura va aggiunta una considerazione. In caso di pericolo di colpo di Stato, normalmente, il nucleo lealista delle istituzioni reprime anche penalmente i golpisti. L'articolo del Sole 24 Ore
non nomina i golpisti, e usa perfino l'ironia di chiamarli «i
“fantomatici” mercati». Ma non sono fantomatici. Hanno nomi e cognomi,
indirizzi, interessi da colpire. Il problema è che il nucleo
istituzionale della nostra Repubblica stende tappeti e cuscini davanti a
quei nomi e indirizzi, e ne sposa gli interessi. Distratti dai furti
dei rubagalline alla Lusi (ancorché galline dalle uova d'oro), ancora in
troppi non si accorgono che i furti veri - in nome del debito - sono
favoriti dai complici istituzionali dei golpisti. Lusi è andato in
galera. Se ci fosse giustizia ci dovrebbe andare anche gente più in alto
di lui. I nomi e i cognomi, in questo caso, li fa anche Il Sole 24 Ore.
Grillo non si ferma più e spaventa anche la finanza. L'esperto: se vince le elezioni lo spread vola oltre 500 di Vito Lops- Il Sole 24 Ore. Che sia giusto o sbagliato siamo entrati in una fase storica in cui non si può negare che i mercati abbiano un peso notevole nell'influenzare la politica dei governi.
Lo ha confermato anche il premier Mario Monti, rispondendo alle domande
sull'eventuale "minaccia" all'esecutivo rappresentata dalle recenti
esternazioni di Berlusconi che ha ventilato l'ipotesi di staccare la
spina al governo. Monti ha detto: «Lo chieda ai mercati». Del resto, in un certo qual modo, è
stato proprio l'impennarsi dello spread fino a 575 punti base l'autunno
scorso a spingere il presidente Giorgio Napolitano a nominare d'urgenza
Monti senatore a vita, atto necessario prima del passaggio a
premier dell'attuale governo semi-tecnico. Quindi, a conti fatti, sono
stati propri i mercati a spingere un tecnico come Monti alla guida
dell'Italia. Gli stessi mercati che hanno avuto il loro peso nel vanificare il tentativo di referendum anti-euro in Grecia a fine 2011 e hanno spinto Atene a elezioni ripetute sine diefino ad ottenere una maggioranza più solida. E gli esempi in questo senso, quelli della pressione dei mercati sulle scelte politiche, potrebbero essere ampliati. A questo punto, è forse opportuno porsi un'altra domanda. Dopo lo straordinario successo che il Movimento 5 stelle ha ottenuto nelle elezioni in Sicilia - difatti il primo partito nell'Isola con il 15% dei voti e con un investimento in campagna elettorale di soli 25mila euro - come potrebbero reagire i "fantomatici" mercati a un eventuale analogo successo di Grillo alle elezioni parlamentari della prossima primavera? Un
successo che, stando ai sondaggi, potrebbe concretizzarsi visto che
attualmente il Movimento 5 stelle è intorno al 20% e si proietta al
momento come seconda forza politica del Paese, dopo il Pd. «I mercati cercano politiche che siano coerenti con gli interessi dei detentori del debito:
chiunque e in qualunque forma tuteli il rimborso delle obbligazioni
detenute dagli investitori globali è sostenuto e non avversato dai
flussi di investimento; nel caso contrario - si veda il referendum greco
cancellato con un colpo di spread - si innescano quelle vendite che molti identificano con la cosiddetta speculazione», spiega Gabriele Roghi, responsabile gestioni patrimoniali di Invest Banca. «Il discorso generale è che la
politica e la democrazia sono state messe sotto scacco da una finanza
che ha ormai da tempo esondato dal proprio alveo naturale,
quello del Glass Steagal Act (legge varata nel 1933 negli Stati Uniti
per contenere la speculazione finanziaria introducendo il principio
della separazione tra attività bancaria tradizionale e attività bancaria
di investimento, abrogata nel 1999 dal Gramm-Leach-Bliley Act, ndr) per
intenderci, e ormai non è sottomessa al legislatore ma lo guida in un
rapporto innaturale che sta causando forti tensioni sociali. Il caso di Obama è eclatante: partito come il messia che ci avrebbe salvato dalla finanza, ha dovuto chinare il capo di fronte a lobby più potenti dello stesso Commander in Chief,
che ha potuto solo emanare una legge di oltre 3.000 pagine che non
riesce a disporre quello che le 125 pagine del Glass Steagal tanto bene
ha definito per 70 anni». E
Grillo piacerebbe ai mercati? «Se dovesse confermarsi come seconda
forza politica e addirittura essere cruciale per la formazione di un
governo - prosegue Roghi - o se a un certo punto i sondaggi dessero
queste indicazioni, credo che i "mercati" farebbero tornare lo spread in area di pericolo, oltre i 500 punti per
convincere gli italiani, prima delle elezioni, o i parlamentari dopo il
voto, a dirigersi verso un Monti/altro tecnocrate a loro gradito».
Segunda-feira 15 de outubro de 2012, com uma simples caneta, a Europa
das comunicações decidiu cancelar a voz de uma país com mais de 70
milhões de habitantes, o Irã. É o primeiro ato de guerra decidido no
coração da União Europeia, depois de brindar o seu prêmio Nobel para a
paz. Se não bastasse o sentido de sufoco das ditaduras financeiras
travestidas de governos técnicos, agora também a mordaça da censura mais
extrema. O justiceiro dos canais de tevê e de rádio iranianos no mundo é
a EUTELSAT, uma das três maiores operadoras de satélites do planeta,
nascido como consórcio intergovernamental, agora “privatizado”, com sede
em Paris. Bastou uma linha decretada pelos patrões da comunicação, e
sobre a plataforma HOTBIRD os canais em línguas estrangeiras realizados
pelo Irã foram todos banidos.
A decisão da EUTELSAT obedeceu uma requisição do Conselho Superior
Audiovisual da França (CSA) quanto ao estoque de novas sanções
anti-iranianas decididas em sede europeia.
Assim, de agora em diante, o éter europeu será apagado para os canais
Al-Alam, Press TV, Sahar 1 e 2, Jam-e-Jam 1 e 2, a cadeia sobreo Corão e
outros, ainda. Entre rádios e TVs, são 19 canais.
Por enquanto o fato, por si só gravíssimo, é ignorado pelos
principais órgãos de informação ocidentais. Um silêncio muito revelador.
Se tentarão falar, terão muito trabalho para justificar a censura sem
cair em gigantescas contradições com qualquer proclamação sobre a
liberdade de imprensa estilo ocidental. Fim das transmissões, sem
debate.
Qualquer representação autônoma dos interesses e das visões de um
inteiro grande país, como o Irã, está agora totalmente impedida no
terreno dos grandes meios de comunicação de massas generalistas. A
censura tem o sabor de uma reação e de um experimento a respeito dos
novos equilíbrios que se estavam formando na informação global.
Nesses últimos anos, diversos países provaram construir um seu ponto
de vista autônomo, respeito aos fluxos informativos hegemonizados pelas
potências anglo-saxônicas. Paradoxalmente, mas não muito, o fizeram com o
uso da língua inglesa, além de outras línguas. Não devemos nos
escandalizar com o fato de que os canais emergentes não tenham
participado com um ponto de vista “neutro”, no jogo das comunicações.
Justamente por isso, representando interesses “outros”, conseguiram
marcar pontos impressionantes.
Basta pensar que em apenas pouquíssimos anos a RT, a tevê russa em
inglês, ultrapassou a BBC como primeiro canal estrangeiro junto ao
público televisivo dos EUA. Sinal de que a oferta “outra” responde a uma
demanda que não existia: uma demanda por “outra” informação que a nossa
fábrica de mídia, no Ocidente, não sabia e – sobretudo – não queria
fornecer.
Os canais emergentes transmitidos por países antes sem voz – apesar
de sua “não neutralidade” (mas quem seria neutro? A CNN, por acaso?
falemos sério…) – conseguiam ser, relativamente a muitos argumentos,
fontes mais confiáveis se confrontados com a propaganda homologada que
passava no outro lado. Antes de degenerar em um MinCulPop das belicosas
petro-monarquias do Golfo, e antes de degringolar com diretores
enquadrados na CIA, até a Aljazeera tinha aberto espirais informativas
inéditas.
E assim nos encontramos com menos vozes. Qual será a próxima etapa?
Sem um sistema autônomo de transmissão, até a Rússia ficará vulnerável
com relação às decisões bélicas sobre os meios tomadas por algum recente
prêmio Nobel para a paz. E até as nossas já enquadradas oficinas da
mentira serão sempre mais uniformes, porque a ditadura terá menos
necessidade de mascará-las sob trajes civis.
Muito terá que ser feito para conquistar o pluralismo, garantindo as
vozes dissonantes. A nossa liberdade corre muito mais perigo do que pode
parecer à primeira vista. Por enquanto, não se vê grande coisa para
defende-la. Partamos de um primeiro pequeno passo, difundido a primeira
petição de IRIB.
Para quem não entendeu, esta ditadura está só em seu começo, e não se
saciará, como não se sacia em campo financeiro. Combatê-la tem a ver
com o bem mais precioso que devemos defender: o ponto de vista do outro,
como garantia do nosso ponto de vista.
Tradução em Português do Brasil por: Mario S. Mieli - ciranda.net.
Scienziato non è colui che sa dare le vere risposte, ma colui che sa porre le giuste domande.
Levi Strauss
Progetto culturale tra Carbonia e Iglesias - Associazione Figli d'Arte Medas
17, 18, 19 OTTOBRE 2012
Carbonia – Iglesias
Tre
giorni: di tanto tempo disporremo per conversare, discutere e
confrontarci su un tema che da millenni tiene compagnia all’uomo,
insinuandosi nei suoi pensieri dacché questi iniziò a interrogarsi sul
proprio essere al mondo: la Fine.
Tale sarà infatti il tema centrale del Festival della Storia, Manifestazione organizzata dall’Associazione Figli d’Arte Medas grazie all’appoggio della Provincia di Carbonia Iglesias, della Fondazione Banco di Sardegna e che si avvarrà del Patrocinio delle Amministrazioni del Comune di Carbonia e del Comune di Iglesias e dell’appoggio, oltre che della Regione Autonoma della Sardegna, del ParcoGeominerario Storico Ambientale della Sardegna.
Il 17, il 18 e il 19 Ottobre saranno così giornate dedicate interamente alla riflessione sull’ “ultima meta”, portata avanti attraverso delle Conversazioni: affermati studiosi saranno chiamati a parlare del compimento del mondo e delle teorie sul cosiddetto al di là restando però al di qua della cattedra, e dunque in modo familiare, coinvolgente, fruibile.
Un
evento ricco di domande, più che di risposte, pensato con l’intento di
avvicinare giovani e non agli interrogativi ancestrali dell’uomo,
affinché i dubbi su quel che sarà poi permettano di acquisire maggiore coscienza su quel che siamo adesso,
stuzzicandoci e sollecitandoci vedere come il futuro cominci ora, come
il presente non possa essere una pietra isolata scagliata nella storia,
ma sia bensì parte e momento di un disegno più ampio, di rigenerazione e
mutamento.
Molteplici gli ospiti coinvolti: Stefano Selvatici e Ollinatl Contreras, coordinati da Giacomo Serreli, ci terranno compagnia nel primo appuntamento del 17 Ottobre avente il titolo Dai Nativi d’America agli Amerindi: la Fine di un Mondo;
Al
termine di ciascuna delle tre giornate verrà proposto uno spettacolo
teatrale, inerente anch’esso al tema dell’appuntamento del giorno e
pensato al fine di esserne il giusto compimento; anche in questo caso
saranno diversi i talenti artistici presenti: Gianluca Medas (Direttore Artistico dell’Associazione Figli d’Arte Medas nonché
ideatore del Progetto del Festival della Storia) porterà in scena due
dei tre Spettacoli allestiti: il primo giorno interpreterà “Quetzalcóatl – Il Serpente Piumato: La Caduta dell'Impero Azteco”, accompagnato dalle musiche della formazione Gastropod (Juri Deidda - sax tenore e soprano, Andrea Congia - chitarra classica, Roberto Cau - basso elettrico, Alessandro Marras - percussioni); il terzo giorno avrà luogo invece “Apocalisse - Rivelazioni di un Visionario”, scritto e diretto anch’esso da Gianluca Medas, incorniciato questa volta dalla Musica degli Skull Cowboys (Mario Pierno - chitarra elettrica, Andrea Congia - chitarra classica, Mauro Pes - tastiere, Marco Loddo - basso elettrico, Roberto Matzuzzi - batteria). I progetti musicali di entrambi gli Spettacoli sono stati curati da Andrea Congia (Direttore
Musicale dell'Associazione Figli d'Arte Medas). Il secondo giorno,
invece, la giornata troverà il suo compimento nello Spettacolo “Flusso”, di e con Raffaello Ugo, e organizzato dalla Compagnia Origamundi.
Che significa e come si è svolta l’oscura uscita di scena di Osama bin Laden? Che fine ha fatto Al-Qa’ida, ed è mai stata come ci hanno raccontato? Chi sta andando al potere in Egitto e altrove, dopo le primavere arabe, e in che modo gli Stati Uniti tentano di controllare la riorganizzazione del potere? Chi sono i cirenaici a sostegno dei quali gli USA e noialtri abbiamo deciso di far guerra a Gheddafi? Eroici difensori della libertà o i complici di turno dell’impero? Che svolgimento avranno i tesissimi rapporti con Iran e Siria? In che modo la crisi dei Paesi europei più deboli è legata alla guerra euro-dollaro? E che cosa stanno tentando di fare gli Stati Uniti, segretamente o meno, per controbilanciare la rapidissima ascesa cinese?
Tante questioni che i nostri media lasciano irrisolte, trovano qui, grazie alla penna acuminata di Giulietto Chiesa e Pino Cabras, una luce nuova. Se non rasserenante, almeno molto chiara: sullo sfondo di una guerra globale per il momento a (relativamente) bassa intensità, il ruolo degli Stati Uniti di Obama – oramai non diverso dai predecessori, e in fondo espressione più correct degli stessi interessi reali – è quello di un impero al declino, gravato dall’immenso debito, dallo svuotamento della democrazia e dalla feroce concorrenza internazionale, che tuttavia dovrà vender cara la pelle. Il più cara possibile: e a pagare potremmo essere tutti noi
Chi cura questo blog
Pino Cabras (1968) è laureato in Scienze Politiche e lavora in una finanziaria d’investimento, per la quale ha curato diversi programmi negli Stati Uniti e in Asia. Ha pubblicato "Balducci e Berlinguer, il principio della speranza" (La Zisa, 1995), "Strategie per una guerra mondiale" (Aìsara, 2008); con Giulietto Chiesa ha pubblicato "Barack Obush (2011), uscito nel 2012 in edizione russa con il titolo «Глобальная матрица» (Global'naja Matrica). E' condirettore del sito www.megachip.info e co-fondatore della webTv PandoraTv.it.
Pino Cabras
Complotti e complottismi
dal libro "Strategie per una guerra mondiale":
Se volete mettere in cattiva luce qualcuno che scrive o parla scostandosi dalla corrente principale delle spiegazioni di certi grandi fatti, bollatelo come ‘teorico della cospirazione’, o ‘complottista’. È uno stigma molto comodo, un potente silenziatore, una densa notte che cala su tutte le vacche e le fa tutte nere... [leggi tutto]
DIETRO GLI ESPERTI MILITARI IN TV, IL PENTAGONO MUOVE I FILI Versione italiana di un'inchiesta di David Barstow comparsa su «The New York Times» il 20 aprile 2008: [LEGGI QUI]
Sul giornalismo
"Periodismo es difundir aquello que alguien no quiere que se sepa, el resto es propaganda".
Giornalismo è diffondere quel che qualcuno non vuole che si sappia, il resto è propaganda.
(Horacio Verbitsky)