5 aprile 2009

Quelli che odiano il giornalismo d’inchiesta

di Pino Cabras - da «Megachip»
con VIDEO di Seymour Hersh in fondo all'articolo

Ai neocon italiani proprio non va giù che il Festival del giornalismo di Perugia, il 4 aprile 2009, abbia celebrato un grande giornalista investigativo americano, Seymour Hersh, vincitore del premio Pulitzer. Nella migliore tradizione dei neocon, hanno deciso di muovergli una guerra preventiva, il 3 aprile, con un articolo di Christian Rocca su «Il Foglio».

L’impresa si presenta subito di un’improbabilità tartarinesca. Il giornalista statunitense viene presentato come un ballista che ha alternato a una vita di bufale un paio di colpi di fortuna che solo per puro accidente sarebbero diventati tra i più importanti scoop della storia del giornalismo. Insomma, un incrocio fra Paperoga e Gastone.

A questo punto, il metodo neocon d’importazione si contamina con le consuetudini domestiche del «Foglio» e ormai del giornalismo italiano tutto: è il potente che mette sotto scrutinio i giornalisti, non viceversa. Il controscoop di Rocca consiste infatti nel raccogliere le geremiadi dei potenti danneggiati dalle inchieste di Hersh e prenderle come oro colato. Se c’è chi si beve un Mangano eroe, si berrà anche un Kissinger cristallino.

Il rovesciamento arriva sino a rimproverare Hersh di essere troppo disinvolto se non bugiardo nel maneggiare le sue fonti coperte. E gli rinfaccia anche di lanciare allarmi ormai da troppi anni su un’imminente guerra all’Iran che puntualmente non accade.

Questo è un punto interessante. Le case di Teheran sono ancora in piedi, ma questo non significa affatto, come vorrebbe far intendere Rocca, che il pericolo non ci sia mai stato e non sia tuttora concreto. Possiamo dire invece che qualcuno, per fortuna di noi tutti, e con mezzi irrituali, sia riuscito a fermare per un po’ la guerra. Quando il 2 dicembre 2007 il NIE (National Intelligence Estimate) - un rapporto d’intelligence ufficiale - assicurava a chiare lettere che «l’Iran ha interrotto il suo programma di armi nucleari dal 2003», un pezzo fondamentale degli apparati USA screditava apertamente le martellanti affermazioni contrarie di Bush, Cheney, dei neocon e del governo israeliano. Segno che si voleva dare uno stop alla voglia di incendiare anche l’Iran. L’ex ambasciatore statunitense all’Onu, John Bolton, si lamentò con un acuto strido di falco, incolpando quel rapporto di affondare gli sforzi fin lì prodotti, per lui già insufficienti. Per Bolton, la comunità d’intelligence, anziché limitarsi all’analisi, «si stava impegnando nella formulazione della direzione politica; e troppi nel Congresso e nei media ne sono felici».

Quel che non vogliono raccontare sul «Foglio» (e nemmeno altrove, se è per questo) è un fatto a suo modo semplice: sussiste un contrasto interno asperrimo fra due forze dell’élite statunitense circa il modo di usare la forza militare. Rocca ad esempio non ha mai raccontato nulla del timore di un «atto terroristico negli Stati Uniti che sarà attribuito all’Iran» manifestato nel febbraio 2007 addirittura da un ideologo imperiale del calibro di Brzezinski durante un’audizione alla Commissione esteri del Senato USA. Non era notizia da far cadere così. Un pezzo grosso dell’establishment denunciava la possibilità di un pretesto creato sotto falsa bandiera per provocare una guerra.

Una parte dei poteri forti statunitensi a un certo punto ne aveva abbastanza delle fosche minacce all’Iran, si è preoccupata delle affermazioni sfuggite a Bush sulla prossimità di una «terza guerra mondiale» e di tanti altri atti e gesti che disturbavano la quiete mondiale mentre facevano divampare ovunque una forte opposizione all’americanismo. Anche nell’Era Obama, nonostante le aperture rispetto alla precedente amministrazione, il potere di condizionamento di chi quella guerra la vuole fare è comunque molto forte, e i segnali sono numerosi. Per chi vuole approfondire, c’è molto da fare, molto da ricercare.

Mentre Rocca taceva, Hersh raccontava, e lasciava tutto a Rocca lo scomodo ruolo di chi prende tragiche cantonate, come ha fatto con il suo libro "Esportare l'America - La rivoluzione democratica dei neoconservatori" (Libri del Foglio, 2003), un pezzo di modernariato che tengo vicino al caminetto, da sfogliare e leggere a voce alta per potenziare il buonumore nelle serate fra amici, quando si vuole ridere della benzina ideologica che ha alimentato le catastrofi dell’Era Bush. Esportare l’America, ragazzi…

Persino il marito dell’editrice del «Foglio», al recente G20, ha deplorato la principale voce export dell’America: la Crisi.

Vorrei tanto provare a prendere sul serio la “livida lectio” di giornalismo che Rocca vorrebbe dedicare a Hersh, ma quando squadro il panorama di rovine su cui si rizzano le sue enfasi, le piccinerie, le manipolazioni, le irrisioni, i rovesciamenti della realtà, ebbene, non ce la faccio proprio. Il paesaggio di macerie dice tutto. Ci vorrebbe uno di quei cameramen che dopo un terremoto inquadrano sempre una bambolina pateticamente integra, derelitta fra i detriti, una di quelle bamboline parlanti. La bambolina Rocca parlerà ancora: «Sono sempre la più bella, Cheney». Zoomata sulla desolazione.

E fin qui niente di nuovo. È da un po’ che la Grande Crisi svela le miserie del potere criminale di questi anni e gli anacronismi di chi lo difende ancora. La novità è che a un certo punto l’articolo conia un neologismo. Rocca dice infatti del giornalismo di Hersh: «Ovviamente si tratta di pura dietrologia, di iperbolica teoria del complotto, di giuliettochiesismo all’ennesima potenza.» Non so cosa voglia dire “giuliettochiesismo” (alla fine suona come un involontario complimento). Di certo per definire il giornalismo di Rocca non userei il termine “christianrocchismo”. “Maggiordomismo”, c’est plus facile. Purché ci figuriamo, di fronte alla disfatta morale dei neocon, dei maggiordomi che stanno ancora al servizio di un nobile losco e crepuscolare, pur sempre prepotente, ma avviato a un’inesorabile decadenza.


Bush. l'attacco alla Costituzione Americana, la complicità dei media
di Seymour Hersh - The New Yorker


Perugia, 4 aprile 2009, Il video del Festival Internazionale del Giornalismo:

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