di Pino Cabras
Fonte dell'immagine: Justyna Mielnikiewicz for The New York Times
Non finisco mai di meravigliarmi dell'indecenza che ormai caratterizza l'informazione fornita da molti dei media più importanti.
Nei primi giorni della guerra fra Georgia e Russia, molte importanti testate, in Italia e altrove, non hanno nemmeno citato l'attacco perpetrato dalla Georgia in Ossezia, quando i bombardieri e i fanti di Saakashvili hanno colpito la popolazione civile osseta proprio a ridosso di una dichiarazione di tregua. Si è distinto nell'indecenza il Tg1 di Gianni Riotta.
L'altra cosa che continua a stupirmi è il modo in cui notizie importanti (e la guerra caucasica lo è) arrivano come un fulmine a ciel sereno nelle redazioni che contano, quando invece analisti con molti meno mezzi avevano già per tempo la percezione piena di quel che si stava apparecchiando. Possiamo vedere questo tipo di preveggenza analitica in un articolo di Maurizio Blondet del 21 luglio scorso, intitolato Provocazioni contro Mosca, apparso su «Effedieffe».
L'articolo di Blondet cita anche un passo del mio libro, laddove descrivo il dato di fondo della politica USA di questi anni, la pressione militare sulla Russia in costante aumento nel cuore dell’Asia, in combinazione con un aumento di pressione nei confronti della Cina, il tutto con un ruolo chiave dell'area del Caucaso.
Alla luce dei fatti legati all'inizio della guerra in Georgia, vale la pena riportare per intero l'articolo di Blondet [l'originale è QUI].
Provocazioni contro Mosca
di Maurizio Blondet,
«Effedieffe»,
21 luglio 2008
Persino Victoria Nuland, ambasciatrice americana presso la NATO, ritiene che Georgia e Ucraina «non sono pronte ad unirsi all’Alleanza Atlantica»: e lo ha dichiarato alla Novosti il 10 giugno scorso, con l’evidente intento di rassicurare Mosca, in rovente contrasto con la «democrazia delle rose» (della CIA) di Tbilisi per le regioni secessionista dell’Abkhazia e Sud Ossezia, russofone.
Ebbene: subito dopo, forze armate USA cominciano una esercitazione congiunta con l’esercito georgiano (chiamiamolo così), a cui danno il nome «Immediate Response 2008», che dovrebbe durare tutto luglio. Con l’evidente scopo di provocare Mosca.
Perché Washington manda segnali così contrastanti, e così forti? Può trattarsi di un sintomo della gravissima crisi di leadership USA, nel tramonto della sciagurata presidenza di Bush junior: una leadership da acefala diventata policefala, dove diversi centri di potere conducono colpi di mano, forse sabotandosi a vicenda, strappandosi di mano il timone. La Nuland rassicurante dipende, come ambasciatrice, dal Dipartimento di Stato, ossia da Condy Rice; a lanciare i giochi di guerra in Georgia è il Pentagono, apparentemente per conto suo. Piuttosto allarmante, dato che la policefalia americana è armata di testate nucleari.
Almeno due centri di potere sembrano voler arrivare ai ferri corti con la Russia: il complesso militare industriale e, soprattutto, gli interessi petroliferi. La speranza di trovare in Medvedev un presidente più «occidentale» di Putin, ha subìto una rovente smentita. Il 9 luglio, dopo una visita di Putin al colonnello Gheddafi avvenuta in aprile, Gazprom ha annunciato di essere prossima ad un accordo con la Libia, per cui Gazprom «comprerà tutti i futuri volumi di gas (libico), petrolio e gas naturale liquefatto per l’esportazione a prezzi competitivi».
Insomma, il vecchio progetto di Putin – formare una «cartello del gas» che non sarà un’OPEC, ma un coordinamento fra Stati produttori e Stati consumatori basato su contratti a lungo termine – ha fatto un passo avanti decisivo. La Libia ha riserve di gas stimate a 1.470 milioni di metri cubi.
Mosca, come si ricorderà, ha già un accordo simile con l’Algeria (che fornisce il 10% del gas che consuma l’Europa), e con il Qatar (riserve comprovate quasi doppie di quelle libiche); e nei giorni scorsi, il capo della Gazprom Alexei Miller ha fatto una visita a sorpresa a Teheran dove ha incontrato Ahmadinejād. Secondo quest’ultimo, i due hanno parlato di «soddisfare collettivamente la domanda di gas in Europa, India e Cina» dividendosi di buon accordo i mercati, ossia di non farsi concorrenza. Di certo hanno firmato un accordo che assegna alla Russia lo sviluppo di campo petroliferi iraniani; la cooperazione nello sfruttamento del giacimento del Nord Azadegan, di ricchezza favolosa; e il tutto apertamente, proprio mentre Israele annunciava l’imminente annichilimento dei laboratori nucleari iraniani, e le ditte europee (Total è la più grossa) si ritiravano dall’Iran per paura delle sanzioni USA.
Si capisce che in precisi ambienti a Washington si canterelli con senso di urgenza: «Bomb, bomb, bomb Iran».
Agli inizi di luglio, Medvedev è volato in visita diplomatica in Azerbaigian, Turkmenistan e Kazakhstan; a Baku, capitale del primo Stato, ha offerto di acquistare l’intera produzione di gas azero a prezzi di mercato; a Ashgabat, ha ottenuto il consenso turkmeno alla modernizzazione dell’oleodotto Central Asia Center Pipeline (CACP), e la costruzione di un oleodotto litorale attorno al Caspio.
Insomma, di fatto, Gazprom commercializzerà l’intera produzione energetica della Libia e quella dell’Azerbaigiian, e si è assicurata che greggio e gas di Turkmenistan e Kazakhstan non arrivino ai consumatori «scavalcando» le tubature russe.
Non basta. Gazprom ha chiesto licenze di prospezione alla Nigeria – cortile di casa delle petrolifere anglo-americane – ed ha proposto alla Nigeria di costruire un gasdotto che porti il gas nigeriano in Algeria (ormai socia dei russi nel «cartello»), per la vendita congiunta del gas in Europa.
La goccia ha fatto traboccare il vaso: «Il monopolio Gazprom si comporta da monopolio», ha sbottato Matthew Bryza, vice-segretario di Stato USA per gli affari eurasiatici: «Tenta di controllare le maggiori quote possibili del mercato per stroncare la concorrenza. Il Cremlino vuole fare di Gazprom una forza dominante nell’energia globale, e “la” forza dominante nel gas, raggruppando le risorse di gas dell’Asia Centrale e dell’Africa». Gazprom, ha concluso con furia, «vuol dominare in ogni angolo del pianeta».
Il che è alquanto comico, dato che il proposito americano di «dominare ogni angolo del pianeta» sta scritto a chiare lettere nei documenti-guida del governo Bush-Cheney, a cominciare dal «Project for a New American Century» e dal suo rapporto «Rebuilding the American Defense», dove si auspica «una nuova Pearl Harbor» onde convincere gli americani a lunghe guerre e grandi spese militari per il petrolio: specie per l’area del Caspio, nell’ex zona di influenza sovietica, con le sue riserve valutate come ricchissime nonostante la difficoltà di trasporto da quel mare chiuso ai clienti consumatori.
L’Afghanistan non è stato invaso per liberare le donne dal chador, ma per costruire una pipeline sul suo territorio, che portasse gas e greggio del Caspio ai porti turchi senza dover passare nelle tubature sovietiche; l’occupazione dell’Iraq è servita ad assicurare all’America una delle più grandi fonti petrolifere esistenti.
Ora, tutto ciò che Washington ha cercato di ottenere con la forza bruta, a costi altissimi (anche in prestigio), Mosca sta ottenendo con la diplomazia e le offerte commerciali.
Nel 1999, la «Strategic Review» dell’US Strategic Institute (una fondazione di Boston, oggi disciolta) scriveva a chiare lettere: «È necessario assicurare alle compagnie statunitensi la leadership nello sviluppo delle risorse nella regione (centro-asiatica) e azzerare l’influenza russa sull’esplorazione e lo sviluppo dei giacimenti, nonché sulle direttrici delle pipelines per l’export» [Citato da Pino Cabras, «Strategie per una guerra mondiale – Dall’11 settembre al delitto Bhutto», Cagliari 2008, pagina 84]. E' ovvio che a Mosca abbiano letto questo consiglio strategico, e ne abbiano tratto le conseguenze.
Tanto più che, allo scopo, la «Strategic Review» consigliava l’aumento della presenza militare USA in Asia Centrale; il che è stato eseguito. Ma consigliava anche cose, che non certo per colpa di Mosca, sono state disfatte dall’amministrazione Bush: «Collaborazione con il Pakistan in quanto punto di passaggio del gas e in chiave anti-iraniana», e gli USA stanno perdendo la presa sul Pakistan con l’eclissi di Musharraf. Consigliava «sostegno alla Turchia, fedele alleata contro Russia e Iran», e la Turchia sta cooperando militarmente con Teheran nella repressione del secessionismo kurdo, che ora ha come centro la repubblica curda semi-indipendente dell’Iraq. Consigliava la messa sotto schiaffo dell’Iran, e – salvo sorprese israeliane – non ci sta riuscendo: Cina e Russia subentrano alle imprese occidentali che, sotto minaccia di sanzioni, se ne vanno dalla Persia.
Ora si capisce meglio il senso – più che allarmante – della ostinazione di Bush a piazzare il sistema antimissile in Polonia: far pesare la minaccia militare su Mosca in modo decisivo e brutale. Ottenere con la forza quel che la sua non-diplomazia ha perduto. La provocatoria esercitazione militare congiunta in Georgia fa pensare all’intenzione di provocare un casus belli, alla ricerca di una «confrontation» anche militare con Mosca.
La Russia spende per l’armamento una frazione insignificante di ciò che spende il Pentagono, e certo non è preparata, né desidera una vera guerra con gli Stati Uniti, che non potrebbe essere che nucleare. Solo dei dementi possono volerla, e Mosca è razionale. Forse il calcolo è di indurre Mosca a cedere di fronte a questo pericolo, giocando il tutto per tutto sulla sfida; forse, nel tramonto di Bush, a Washington alcuni gruppi puntano al fatto compiuto, contro altri che appaiono più prudenti.
Sono possibili colpi di testa e colpi di mano, corrono tentazioni di usare la forza assoluta, quella dove gli USA, alle corde, mantengono una superiorità schiacciante. Inutile dire quanto questo sia inquietante.
11 agosto 2008
La guerra nel Caucaso: le premesse che non ci raccontano
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1 commento:
...sento skytg24:
La Polonia ha firmato il trattato NATO sulla difesa missilistica concedendo il suo territorio per impientarne gl'insediamenti militari...
Hanno detto che però questo non ha nulla a che vedere con i recenti svolgimenti tra Russia e Georgia!
Ma!
Sarà!
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