I due schieramenti si rincorrono per vedere chi fa meglio nell’aumentare il budget della difesa.
(A titolo di esempio, si vedano i seguenti contributi: Stefano Milani: “Al voto al voto. Per la maxispesa militare”, http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/04-Marzo-2008/art59.html;
Giorgio Beretta: “Spese militari. Quattro domande ai politici”, http://unimondo.oneworld.net/article/view/118489/?PrintableVersion=enabled;
Luca Kocci, “Finanziaria 2008: ancora un’impennata delle spese militari” http://www.adistaonline.it/?op=articolo&id=38678).
“Ogni cannone che viene costruito, ogni nave da guerra che viene varata, ogni razzo che viene preparato rappresenta un furto a coloro che hanno fame, a coloro che hanno freddo e non hanno da coprirsi. Infatti un bombardiere pesante costa quanto trenta scuole o due centrali elettriche capace ognuna di fornire luce a una città di 60 mila abitanti, o a due ospedali; un solo aeroplano da caccia costa come 150 mila quintali di grano; con i dollari necessari per allestire un cacciatorpediniere, si potrebbero costruire case per 8.000 senzatetto….”.
(Per un approfondimento dei “costi di opportunità” si veda: Nanni Salio, “Cosa faresti con un trilione di euro all’anno? Costi di opportunità e alternative al complesso militare-industriale-scientifico-corporativo”, in: Massimo Zucchetti, a cura di, per il Comitato Scienziate e Scienziati contro la guerra, “Il male invisibile, sempre più visibile. La presenza militare come tumore sociale che genera tumori reali”, Odradek, Roma 2005).
In dieci anni la spesa militare italiana è quasi raddoppiata, passando da 16 a 30 miliardi di euro (previsti per il 2008) in valori correnti.
(Da segnalare l’annuario “Armi-Disarmo Giorgio La Pira”, pubblicato dalla Jaca Book e giunto alla terza edizione, 2008. Si vedano inoltre i rapporti annuali “Economia mano armata” curati dalla campagna “Sbilanciamoci”, disponibili in rete all’indirizzo www.sbilanciamoci.org/docs/II_rapporto_Economia_a_mano_armata.pdf).
Proviamo a rispondere a una domanda che solo apparentemente può sembrare provocatoria, ma in realtà è tutt’altro che ovvia: “A cosa servono le spese militari?”. La risposta scontata è che servono a mantenere gli eserciti i quali, a loro volta, dovrebbero difenderci. Secondo un altro modo di rispondere, oggi di moda, spese militari ed eserciti servono a garantire e creare la sicurezza. Con questo termine si intende di solito la “sicurezza nazionale”, oppure la difesa degli “interessi nazionali”. Cosa siano gli interessi nazionali e da chi vengano definiti è una questione che non viene quasi mai sollevata. Ma qualcuno ogni tanto ha l’onestà di esplicitarli, almeno da un punto di vista personale, come il generale Giuseppe Cucchi, secondo il quale “Si tratta di preservare a ogni costo il livello di benessere acquisito dal paese. In altri termini, di salvaguardare quel tasso di sviluppo annuo del 2-3% cui la popolazione italiana è talmente abituata da considerarlo ormai come diritto acquisito. Un compito che può essere assolto soltanto garantendo la continuità del flusso di materie prime, in primo luogo di petrolio, che alimenta a un prezzo accettabile la nostra industria. Cosa che può comportare, in particolari momenti, pesanti intromissioni nella politica di altri paesi, in particolare dell’area araba”.
(Piero Maestri, “Il modello di difesa italiano”, Guerre&Pace, n.140-141, giugno luglio 2007., p. 6. Per completare il quadro, si veda anche la gustosa ricostruzione di una gaffe dell’allora presidente del consiglio D’Alema, di cui Cucchia era consigliere militare: “D’Alema e il suo consigliere militare. Da chi siamo governati veramente?” 24 novembre 1999 - Alessandro Marescotti, http://www.peacelink.it/editoriale/a/959.html).
Modelli di difesa e modelli di sviluppo
Oltre a quanto abbiamo già riferito con le parole del generale Cucchi, una espressione molto efficace ed esplicita con la quale è stata riconosciuta questa correlazione è quella usata dall’ex segretario della difesa USA, Margaret Albright: “Per avere McDonald ci vuole McDouglas”, ovvero per sostenere la globalizzazione economica liberista (crescita illimitata) è necessario esportarla e difenderla manu militari, come è sempre avvenuto storicamente da parte delle potenze imperiali capitaliste (si veda, per tutti, William Blum, Il libro nero degli Stati Uniti, Fazi, Roma 2003).
Che non si tratti soltanto di una indebita illazione, è confermato dall’ampia letteratura sull’argomento nonché dai documenti pubblicati da vari organismi ufficiali USA e dalla teoria neocon “del nuovo secolo americano”.
(vedi la documentata analisi sul “Progetto per un nuovo secolo americano” o PNAC - Project for the New American Century, su http://it.wikipedia.org/wiki/Project_for_the_New_American_Century.
Vedi anche l’ampia riflessione svolta da Giuliano Pontara in L’antibarbarie. La concezione etico-politica di Gandhi e il XXI secolo, EGA, Torino 2006. Pontara individua delle esplicite tendenze naziste nell’attuale politica internazionale ).
Ma non tutti i paesi capitalisti hanno una politica così aggressiva e un’economia così vorace come quella statunitense. Sin dal 1972 con il famoso rapporto del Club di Roma sui Limiti dello sviluppo (Mondadori, Milano 1972. Il titolo dell’originale inglese era, più correttamente: Limits to growth, limiti della crescita. Lo studio è stato riproposto in versione aggiornata: Donella e Tennis Meadows, Jorgen Randers, I nuovi limiti dello sviluppo. La salute del pianeta nel terzo millennio, Mondadori, Milano 2006. Per una rilettura critica si veda infine: Dennis L. Meadow, “Evaluating Past Forecast: Reflection on One Critique of The Limits to Growth”, in: Robert Costanza, Lisa J: Graumlich and Will Steffen, eds., Sustainability or Collapse. An Integrated Historyand Future of People on Earth, MIT Press, Cambridge-London 2007) si è sviluppato un ampio e controverso dibattito che ha portato alcuni paesi a elaborare l’idea di uno sviluppo sostenibile che, pur mantenendo ancora una ambiguità non pienamente risolta tra sviluppo e crescita, ha consentito di avviare alcuni processi di razionalizzazione, o quanto meno di messa in discussione del paradigma dominante.
Parallelamente, di fronte alla manifesta follia della dottrina nucleare MAD (Mutua Distruzione Assicurata) è sorto, intorno agli anni ‘70 del secolo scorso, un movimento di “generali per la pace” che ha teorizzato un cambiamento di modello, passando dalla difesa offensiva a quella puramente difensiva. Questo è il modello applicato da vari paesi, tra i quali spiccano i seguenti: Svizzera, Austria, paesi scandinavi, Costarica, Canada. Così come lo sviluppo sostenibile si propone di mantenere quanto meno sotto controllo i processi di crescita dell’economia riducendone i tassi e l’impatto ambientale, anche nel caso della difesa si propone una riduzione dell’intensità distruttiva, mantenendola entro i limiti delle armi convenzionali difensive.
Fig. 2 Punti nodali di attacco per le misure di disarmo
(vedi Antonino Drago, Difesa popolare nonviolenta. Premesse teoriche, principi politici e nuovi scenari, EGA, Torino 2006).
Il più delle volte, il movimento per la pace interviene nell’ultima fase del processo, quando la potente macchina da guerra è già avviata, pronta per l’uso.
Non ci si deve stupire se di solito si fallisce, anche quando si è in presenza di movimenti tanto vasti come quelli che culminarono nelle manifestazioni del 15 febbraio 2003 e che furono nientemeno definiti dal «New York Times», con molta enfasi, come “seconda superpotenza mondiale”. Si interviene troppo tardi e solo nelle fasi ultime del processo, per fermare una macchina da guerra che funziona ventiquattrore al giorno, con decine di milioni di persone a tempo pieno e più di mille miliardi di euro/dollari a disposizione.
Si capisce quindi perché le misure di puro e semplice disarmo sortiscano risultati modesti. Si prenda il caso, pur interessante, del trattato contro le mine antiuomo. E’ stato un successo (sebbene alcuni dei paesi più importanti non l’abbiano sottoscritto), tuttavia oggi ci accorgiamo che una nuova categoria di armi, le cluster bombs, agiscono a tutti gli effetti come mine antiuomo, e si sta faticando per tentare di metterle al bando con un nuovo trattato. Questa situazione è ricorrente in tutta la corsa agli armamenti. Se si lasciano immutate la dottrina militare e la ricerca militare, esse si industrieranno nel cercare nuovi sistemi d’arma con cui aggirare gli ostacoli posti dalle leggi e dai trattati internazionali.
(Gli ultimi giorni dell’impero americano, Garzanti, Milano 2001, lavoro “profetico” pubblicato nell’originale nel 2000. Il secondo volume della trilogia, Le lacrime dell’impero. L’apparato militare industriale, i servizi segreti e la fine del sogno americano, è anch’esso pubblicato da Garzanti, Milano 2005, come pure il terzo, Nemesi, Milano 2008. In questi lavori, Chalmers Johnson analizza, tra l’altro, con una imponente quantità di dati il pericolo che il complesso militare industriale USA costituisce non solo per la situazione internazionale ma anche per il futuro e la stabilità degli stessi Stati Uniti).
Come ridurre la spesa militare, aumentare la sicurezza e vivere più felici
(“On the relative cost of mediation and military intervention”. The Economics of Peace and Security Journal, ISSN 1749-852X . http://www.epsjournal.org.uk/ - Vol. 1, No. 2 (2006). Traduzione italiana a cura del Centro Sereno Regis: “Confronto tra il costo della mediazione e quello dell’intervento militare”http://www.cssr-pas.org/notizia.php?id_notizia=633).
Anche nel caso della sicurezza urbana, oggi al cento di strumentali esagerazioni, invece che proporre nuove misure repressive e una ulteriore militarizzazione del territorio e della società, occorre avviare un processo diffuso di formazione alla mediazione e alla trasformazione nonviolenta dei conflitti che coinvolga cittadine e cittadini, associazioni e movimenti di base e forze di polizia.
(Si vedano a questo proposito: Johan Galtung, Affrontare il conflitto. Trascendere e trasformare, PLUS, Pisa 2008; Andrea Cozzo, Gestione creativa e nonviolenta delle situazioni di tensione. Manuale di formazione per le Forze dell’ordine, Gandhi Edizioni, Quaderni Satyagraha, Pisa 2007.)
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