Nel febbraio/marzo 2015 scrissi un saggio e pubblicai un video su Pandora TV, intitolato “I Misteri di Parigi”. Si riferiva alla
tragedia del Charlie Hebdo del
gennaio di quell’anno.
Avendo studiato a fondo gli eventi dell’11 settembre 2001, avevo la
certezza che alle mie domande sul caso Charlie
Hebdo non ci sarebbe stata risposta. I
misteri dell’epoca dell’inganno universale non sono
rivelabili. La società intera dell’Occidente esploderebbe se la verità
venisse scoperta. Si può solo, testardamente, accumulare gl’indizi che
dimostrano che essa non corrisponde a ciò che ci lasciano vedere e che ci
costringono a credere. Le conseguenze le lascio a coloro che tramano contro di
noi.
Ma allora non potevo nemmeno immaginare che avrei raggiunto la certezza della validità dei miei dubbi
solo qualche mese dopo averli espressi.
Ora possiamo affermare che l’intera narrazione ufficiale degli eventi del Charlie Hebdo — insieme alle sterminate
narrazioni “derivate” che la stampa e tutti gli organi del mainstream hanno prodotto — sono opera di disinformazione, di
manipolazione, di distrazione di massa. Il ministro degli interni francese, Bernard Cazeneuve, dopo adeguata
meditazione, ha infatti deciso che l’indagine
in corso per accertare tutte le responsabilità di quella strage doveva
essere fermata, chiusa a chiave, archiviata.
La motivazione? “Segreto militare” [1].
È del tutto evidente che il segreto
militare serve, per l’appunto, a
coprire delle responsabilità.
Ovvio che non si tratta delle responsabilità dei “terroristi” che hanno
fisicamente preso parte all’azione delittuosa. Il termine “preso parte” è
sufficientemente indistinto e tale da consentire interpretazioni molto diverse
l’una dall’altra. Può voler dire: partecipazione consapevole, attiva,
progettuale, ecc; può anche voler dire partecipazione inconsapevole,
involontaria, “colposa”; può voler dire partecipazione coatta. Tutte queste
possibili - ed eventuali - forme di partecipazione devono essere indagate,
chiarite, scoperte. È la sostanza dell’indagine: quella che può consentire di
risalire alle motivazioni, alle complicità, ai mandanti, a coloro che hanno
tramato. Il “segreto militare” non può essere invocato in alcun caso tra quelli
sopra elencati. Esso viene invocato perché serve
a coprire responsabilità delle autorità, degli organi di polizia, dei servizi
segreti. Non serve di certo agl’interessi della democrazia.
Dunque la decisione di Cazeneuve è la prova che in una qualche fase del
massacro dei giornalisti di Charlie Hebdo,
e dell’assalto al grande magazzino casher,
vi sono state complicità, mancanze,
errori da parte di organi dello
Stato o di altri Stati.
Ma, le mancanze e gli errori dovrebbero — una volta individuati — non solo
essere perseguiti con il massimo rigore, ma anche resi pubblici per evitare che
si ripetano, per essere corretti, eliminati. Le indagini si fanno per questo.
Dunque anche in questi casi non è concepibile il ricorso al “segreto militare”
per fermare l’indagine. Restano le complicità.
Ma questo significa qualche cosa che non ha più nulla a che vedere con un
attentato terroristico “islamico”. Significa che uno o più organi di Stato sono
stati complici, o hanno costruito essi stessi l’attentato terroristico. Cioè
hanno attentato alla vita dei propri cittadini, li hanno uccisi. Non si
commette un tale crimine se non per sovvertire, per dirottare il corso della
politica interna, o estera, o entrambe, o l’assetto costituzionale.
Gli autori hanno dunque fatto uso della presenza di capri espiatori di
religione islamica per creare un clima di odio contro gli stranieri o gl’immigrati.
Ma la restrizione delle libertà e dei
diritti, ottenuta in questo modo, può essere indirizzata contro i
lavoratori, o i cittadini che protestano per le loro condizioni di vita. In
Italia questo modo di operare è stato battezzato da gran tempo con il nome di “strategia della tensione”. Negli Stati
Uniti ha preso il nome di “false flag operation” (operazione
sotto falsa bandiera).
Dunque Charlie Hebdo è qualcosa di simile a un
buco nero nel quale è ormai impossibile guardare in profondità. E c’è più
d’un motivo, come vedremo, per pensare che anche
la mattanza del 13 novembre 2015 sia un
altro buco nero nel quale non potremo guardare perché ce lo impediranno.
Anzi ce lo hanno già impedito, come accade in tutte le false flag operations,
creando un’ondata emotiva gigantesca,
non più soverchiabile mediante il ragionamento, l’analisi, il ricorso ai fatti
realmente accaduti.
Tra i due buchi neri esiste una
relazione? Cercheremo di capirla, se esiste, dissipando le ombre che li
circondano e che si stanno già dilatando fino a oscurare tutto il panorama
europeo. E già questa sola constatazione induce a più d’una riflessione. Come è
possibile che l’azione di un gruppetto
di giovani e giovanissimi — tutti cittadini europei, per lo più di scarso
livello d’istruzione, con poca o nulla preparazione professionale e militare,
già noti alla polizia per piccoli crimini, insignificanti delinquenti comuni — che
hanno agito apparentemente allo scoperto, abbia potuto produrre effetti internazionali così grandi da
sconvolgere non solo la vita di centinaia
di milioni di persone in Europa, paralizzando tutte le maggiori capitali, ma
soprattutto modificando leggi
fondamentali degli Stati, regole della convivenza civile.
Nelle ricostruzioni della stampa li si è descritti come dei geni del male,
mirabilmente capaci di usare tutti i vantaggi della vita quotidiana del XXI
secolo; che sono riusciti a muoversi «nel fluido digitale e transnazionale
mondo d’oggi , eludendo ogni sistema di sorveglianza, stabilendo contatti tra
di loro, trasportando ingenti quantità di armi e di munizioni, pianificando le
loro azioni in un modo impeccabile».[2]
Trascuriamo l’enfasi retorica di queste quasi esaltanti (per i terroristi)
narrazioni. C’è qualcosa di stranamente incongruo in questo tipo di
ricostruzioni giornalistiche che, per altro, dilaga e gronda da tutti i mass
media del mainstream Quasi che i giornalisti ignorino l’ovvio, e
cioè che i terroristi erano quasi
tutti già noti alla polizia, che non sembra avere fatto nulla per fermarli.
È evidente, di primo acchito, l’analogia con il modo in cui gli eventi
dell’11 settembre 2001 vennero “raccontati” al colto e all’inclita del mondo
intero. Ma i giornalisti del mainstream
occidentale hanno una scusa: non sapendo
nulla dell’11/9 non potevano fare i confronti. Sebbene abbiano sfoderato
continuamente l’analogia tra l’11/9 e il 13/11. I più anziani tra i lettori
ricorderanno che i 19 terroristi musulmani dirottatori dei quattro aerei —
anche loro, come questi ultimi disgraziati — riuscirono nell’impresa gigantesca
di annullare le difese della massima potenza mondiale armati di temperini. Anche
allora, dopo i quasi tremila morti del World Trade Center e del Pentagono,
sopraggiunse il famigerato USA Patriot Act, che cancellò in sostanza
alcuni articoli fondamentali della Costituzione americana [3].
Pochi compresero il nesso. Ma oggi la sproporzione tra piccola causa e immensi effetti è di nuovo talmente stridente da non poter essere occultata. L’ultimo stato di emergenza in Francia risale al maggio del 1961, quando fallì il putsch di Algeri che avrebbe dovuto portare al rovesciamento del presidente Charles De Gaulle. Il solo fatto di mettere Hollande a confronto con De Gaulle sfiora la comicità.
Pochi compresero il nesso. Ma oggi la sproporzione tra piccola causa e immensi effetti è di nuovo talmente stridente da non poter essere occultata. L’ultimo stato di emergenza in Francia risale al maggio del 1961, quando fallì il putsch di Algeri che avrebbe dovuto portare al rovesciamento del presidente Charles De Gaulle. Il solo fatto di mettere Hollande a confronto con De Gaulle sfiora la comicità.
E entriamo nel merito dell’accaduto e del modo in cui è stato raccontato al
grande pubblico europeo. Intanto ricordando che l’importante settimanale Paris Match aveva previsto l’«11
settembre francese» un mese e 11 giorni prima che avvenisse, cioè il 2 ottobre.
E lo aveva fatto attraverso un’intervista con il capo del pool antiterrorismo francese, il giudice Marc Trévidic. Che aveva profetizzato: «Gli
attacchi alla Francia saranno su una scala dell’ordine di grandezza dell’11/9».
Si dirà che era il suo mestiere quello di fare previsioni. Ma la sua posizione,
il suo incarico, davvero non gli davano strumenti e possibilità di fronteggiare
una tale banda di assai improbabili strateghi del terrore?
Questa previsione non fu, del resto, l’unica e isolata. Risulta che proprio quella mattina, era in corso un'esercitazione di difesa civile che avrebbe impegnato polizia, personale
medico, pompieri, nel centro di Parigi, per fare fronte alle conseguenze di un’azione terroristica su larga scala. Ne
dava notizia France.info, mandando in
onda la dichiarazione di tale Patrick
Pelloux. [4]
Circostanza doppiamente singolare, perché Pelloux impazzò una prima volta su YouTube pochi minuti dopo il massacro
di gennaio, per essere stato sul
luogo della mattanza, scampato per
miracolo, nella sua qualità di tecnico medico per l’emergenza. «Eravamo
preparati», dice Pelloux, a novembre.
Lasciando il forte sospetto che fosse stato “preparato” anche nei pressi della
redazione di Charlie Hebdo, in
gennaio. Ed è solo una delle tante
singolarità di quel giorno fatale.
Come ha scritto, con una buona dose di sarcasmo, Roberto Quaglia, «viva le coincidenze! Perché chi ha mai detto che
non possa essere una coincidenza il fatto che tutte le volte si verifichino esattamente
le stesse coincidenze?» [5]
Infatti le analogie, o coincidenze, delle esercitazioni militari parallele agli attentati terroristici, sono
una costante inquietante da non perdere
d’occhio.
Cioè se per caso vi capiterà di sapere che è in corso, da qualche parte,
un’esercitazione militare, cercate di stare alla larga: statisticamente c’è una
discreta probabilità che si trasformi in un attentato terroristico.
Se si guarda appena un po’ indietro nel tempo di questi quindici anni di
“lotta al terrorismo internazionale”, si scopre che quasi tutti gli attentati terroristici di grandi dimensioni sono stati
accompagnati da esercitazioni militari che si svolgevano nello stesso giorno,
in perfetta coincidenza [6].
Quello che ci rivela lo strano personaggio Patrick Pelloux è la stessa,
identica storia dell’11 settembre, quello vero, del 2001. Anche allora si
scoprì, a posteriori, che in quella fatidica giornata erano state concentrate (in
diversi casi addirittura mutandone la data originaria, come per farle
coincidere tutte nello stesso giorno) una decina di esercitazioni militari di vario tipo, tutte destinate a scongiurare
un atto terroristico identico a quello
che si verificò proprio in quella giornata a New York e a Washington. [7]
(Non mi soffermo su un fatto del genere, accertato, documentato, ma del tutto
sconosciuto al grande pubblico mondiale. Invito soltanto chi avesse qualche
dubbio di leggerne con attenzione le sintesi contenute nelle note).
La stessa cosa, altrettanto identica, è stata accertata nel caso dei
quattro attentati simultanei di Londra
del 7 luglio 2005. In quel caso i
“terroristi” parcheggiarono la macchina a Luton, per prendere il treno alla
volta di Londra. Lasciando il bollo orario sul parabrezza, come se avessero in
programma di tornare a casa propria, la sera, e non di finire i loro giorni facendosi
esplodere in mezzo alla gente ignara. Tutti e quattro muniti di zaini , di
quelli che sono in uso tra gli studenti di ogni scuola europea. Tre di questi
zaini esploderanno in tre diverse stazioni della metropolitana di Londra. Il
quarto zaino, quello sulle spalle del diciottenne Hasib Mir Husain, incontra
una sorte leggermente diversa. Il ragazzo è salito su un autobus a due piani.
Che si ferma inopinatamente su una piazzuola di sosta, in quel di Tavistock. Non è stato possibile sapere
se il conducente abbia preso la decisione dopo avere sentito alla radio ciò che
stava accadendo nel metro, o quali altri motivi possano averlo spinto. Fatto
sta che i passeggeri dell’autobus, quelli che sopravvivranno all’esplosione,
raccontano che il giovane Hasib si era messo a frugare affannosamente nel suo
zaino, fino a che anch’esso, come i tre precedenti, gli esploderà in faccia
provocando la quarta strage di quel giorno.
Si seppe in quello stesso pomeriggio che quella mattina era già in corso
una esercitazione “di prova” che doveva permettere agli oltre 1000 partecipanti
di reagire tempestivamente a un quadruplice attentato dinamitardo in quattro
stazioni della metropolitana. Non è una supposizione. A riferirlo fu infatti un
protagonista diretto: Peter Power,
il direttore esecutivo della ditta privata, —la Visor Consultants — che stava effettuando l’esercitazione. La
stupefacente rivelazione fu trasmessa la sera del 7 luglio dalla BBC Radio 5 (Live’s Drivertime Program),
e poco dopo in televisione sul canale ITV ma non destò l’attenzione di nessuno.
P.
Power: Alle 9:30
stamani eravamo infatti in piena esercitazione, per una società che conta più
di mille persone a Londra, un’esercitazione basata su delle bombe
sincronizzate e pronte a esplodere esattamente in quelle stesse stazioni
della metropolitana dov’è accaduto stamattina. Mi si rizzano ancora i capelli
in testa.
ITV:
Per esser più chiari, avevate organizzato un esercitazione per sapere come
gestire tutto ciò ed è capitato mentre conducevate tale esercitazione?
P. Power: Esatto, erano circa le 9:30 stamani. Avevamo pianificato questa
esercitazione per una società, per evidenti ragioni non vi dirò il suo nome,
ma sono davanti alla TV e lo sanno. Eravamo in una sala piena di gestori
della crisi che si incontravano per la prima volta. In cinque minuti abbiamo
realizzato che quel che succedeva era vero e abbiamo attivato le procedure di
gestione della crisi in modo da passare dalla riflessione lenta alla
riflessione rapida, e così via.
|
Poi, per oltre tre anni, sulla rivelazione cadde il silenzio. Solo nel
2008, precisamente il 3 settembre, Peter Power ci ritornò sopra in una
conversazione sul J7 Blog Post, e poi
ancora il 3 ottobre, con molti particolari. Non risulta che sia mai stato
interrogato dagli inquirenti britannici, evidentemente non meno “distratti” dei
francesi che condussero le indagini sui due attentati parigini del 2015. [8]
Non meno singolare coincidenza fu quella che si verificò nell’attentato della maratona di Boston il 15 aprile 2013. Anche in quel caso si
scoprì, nel mutismo generale dei media, che c’era stata in contemporanea una esercitazione
di presunta difesa civile. In uno dei filmati che il web mise quasi
immediatamente in circolazione apparivano ingranditi due dispacci del Boston Globe, che, uno dietro l’altro,
pochi minuti prima della tragedia, raccontavano una notizia sconvolgente: «La
polizia effettuerà una esplosione controllata al n. 600 di Boylston Street». E,
pochi minuti prima di questo, un altro dispaccio citava funzionari di polizia
che annunciavano una «esplosione controllata, tra un minuto, di fronte alla
biblioteca, come parte delle attività di una squadra di artificieri».
In altri termini la polizia di
Boston effettuava esplosioni “controllate” nel bel mezzo di una manifestazione
sportiva piena di gente e in
contemporanea con un attentato terroristico dove esplodeva, sul serio, una
bomba in mezzo alla gente. [9]
Dove non si riesce a scegliere se fossero più stupidi coloro che inventarono una tale imbecille operazione o i giornalisti che la trovarono normale, o i magistrati che la ignorarono.
Dove non si riesce a scegliere se fossero più stupidi coloro che inventarono una tale imbecille operazione o i giornalisti che la trovarono normale, o i magistrati che la ignorarono.
Anche in questo caso il mainstream
(americano e, sulla sua scorta, anche quello mondiale) si bevve con gusto il brodino
delle versioni ufficiali, esattamente com’era accaduto con la storia dell’antrace subito dopo l’11 settembre
2001, escludendo da ogni verifica le vertiginose incongruenze delle
ricostruzioni poliziesche. Anche in quel caso, di Boston, uno dei due presunti
attentatori (di cui fu subito sottolineata l’origine cecena, sebbene entrambi i
ragazzi avessero avuto contatti assai sporadici con la madre, che ancora viveva
a Grozny) venne ucciso, mentre “opponeva resistenza”, nelle ore immediatamente
successive, sebbene siano ancora visibili, sul web, le immagini che mostrano il
suo arresto, mentre viene fatto salire su un’auto della polizia, completamente
nudo e ammanettato. E emerse che anche
lui era sotto controllo della polizia da parecchio tempo. Il fratello minore
è seppellito nelle prigioni americane e non potrà più parlare per il resto dei
suoi giorni.
Nessuno riuscì a escogitare le motivazioni che avrebbero spinto i due
“capri espiatori” a compiere quel gesto. Esiste, in compenso, un’impressionante
documentazione fotografica che mostra la presenza, sul luogo dell’esplosione,
in mezzo alla folla, di un gruppo
paramilitare denominato Craft International, facilmente
identificabile per abbigliamento e distintivi, che ha per emblema un teschio e
per aforisma identificativo il seguente: “La violenza risolve i problemi”. Il
gruppo compare all’inizio dotato di zaini neri e, alla fine, gli zaini non ci
sono più, mentre i corpulenti giovanotti della Craft International
salgono tranquilli su un furgone nero. [10]
La storia e la cronaca di questi ultimi 15 anni ci autorizza, come minimo,
alla diffidenza. Ma, tornando ai tragici
eventi parigini del 2015, non si può evitare di raccogliere alcune altre
“stranezze” inspiegabili (cioè a cui è difficile dare risposta anche prestando
piena fiducia ai racconti ufficiali e ufficiosi elargiti al grande pubblico). Si
tratta per lo più d’informazioni che si possono trovare solo sul web. Il quale,
pur essendo luogo aperto a ogni fantasticheria, manipolazione, provocazione, contiene
anche una parte rilevante di dati che è possibile, con qualche ingegno, andare
a verificare e che, proprio per questo motivo, il mainstream ignora pervicacemente. Si veda, ad esempio, il ruolo
giocato da uno dei santuari di Internet, Wikipedia.
Che questa volta supera se stesso. Infatti chi fosse andato su Wikipedia la
sera del 13 novembre 2015 vi avrebbe trovato, alle 23:06, uno scritto che
riferiva che «il Presidente francese ha dichiarato lo stato di emergenza e
chiuso i confini dell’intera Francia». Sfortunatamente la dichiarazione di
Hollande sarà resa pubblica soltanto alle 23:58, cioè 52 minuti dopo la
pubblicazione di Wikipedia.
L’autore dell’articolo è anonimo, ma ha un numero che lo tradisce (e permetterebbe
di identificarlo). Il numero è 82.45.236.70. Non risulta che gl’inquirenti
siano andati a cercarlo e a interrogarlo, ma si ha ragione di dubitare di
questa eventualità. Eppure sarebbe interessante risalire alla sua identità,
visto che costui o costei sembra conoscesse in anticipo molte cose che
sarebbero accadute quella sera. Non tutte ma molte. Probabilmente troppe.
Costui o costei lavorò (lavorarono?) freneticamente per diffondere informazioni sull’attentato terroristico praticamente in
tempo reale. Il massacro comincia alle ore 21:16. Se si va a leggere il
primo dispaccio, delle 23:06, si scopre che il fantomatico scrittore è un “giornalista”
straordinario che non solo riesce a dare in anticipo il testo di una
dichiarazione esatta del Presidente francese, ma che, in due ore e 50 minuti,
fornisce una descrizione degli eventi con tutta una serie di particolari che
nessun organo d’informazione, nessuna agenzia, nessun resoconto radiofonico
aveva ancora registrato. Forniranno al pubblico di Wikipedia, tra le 23:06 e la
mezzanotte del 14 novembre, ben 13 aggiornamenti di ciò che stava avvenendo a
Parigi in quelle ore.
Ma — altro evento singolare all’interno di un evento straordinario — alle ore 00:00 tutti i 13 aggiornamenti
vengono cancellati e spariscono dalla pagina. Forse qualcuno si è accorto
che il presidente francese aveva parlato “dopo” Wikipedia. Ma sarebbe bastato
cancellare il dispaccio delle 23:06. Perché tutti e 13? Forse perché anche gli
altri erano usciti troppo presto? O forse perché lo scopo era già stato
raggiunto e non si voleva lasciare tracce? In ogni caso resta la domanda:
perché lo fecero? Non è dato saperlo. Forse il loro scopo era semplicemente quello
di usare l’autorità riconosciuta di Wikipedia per diffondere una determinata
narrazione dell’evento, anticipando in pratica tutte le maggiori fonti
d’informazione. Cioè “orientandole”. E noi non sapremmo niente di tutto ciò se
non fosse che qualcuno stava seguendo questo movimento di comunicazioni
“anticipate” e, essendosi incuriosito, fece un back-up completo delle 13
versioni e ce le ha restituite intatte, per la nostra riflessione. [11]
Dove si trovassero in quelle ore i signori e le signore che portano all'indirizzo
IP/nome utente 82.45.236.70 non possiamo saperlo. Perché abbiano fornito questo
servizio e poi lo abbiano cancellato è mistero ancora più fitto. L’unica cosa
che si ricava dalla lettura dei 13 dispacci, poi cancellati, è che tutti insieme
forniscono una versione precisissima,
“arabo-musulmana”, di ciò che è accaduto: i mostri che si aggirano per le strade di Parigi sono terroristi,
suicidi, siriani, islamici. Per fermarli occorre lo stato d’emergenza. La
sorpresa è assoluta, impossibile prevedere una cosa del genere. Nient’altro: è
ora di piangere i morti, di dare sfogo a paura e dolore. La mattina del 14
novembre sarà questo il Leitmotiv del
mainstream mondiale.
Solo che, come già stiamo vedendo, in questa sintesi estrema molte cose non quadrano. Basterebbe
aggiungere all’elenco gli avvertimenti, le anticipazioni, le soffiate, gli
allarmi delle ultime ore, e dovremmo concludere che solo degli irrimediabili
distratti o dei totali incapaci avrebbero potuto non avvertire puzzo di
bruciato. Tanto più che — come s’è visto — gli stessi inquirenti, la
magistratura, le forze dell’ordine, i servizi segreti, non solo quelli
francesi, avevano addirittura proclamato urbi
et orbi il pericolo imminente. Come interpretare, infatti l’allarme bomba che, quella stessa mattina del 13 novembre, fece sgomberare
in tutta fretta la Gare de Lyon? E
quello che, simultaneamente, fece sgomberare l’albergo in cui alloggiava la
squadra di calcio della nazionale
tedesca che doveva giocare quella sera contro la nazionale francese?
Mettiamoci anche il reporter di Abu Dhabi
Sports che, parlando dai bordi del campo poco prima dell’inizio della
partita, riferisce che le autorità francesi hanno ricevuto una segnalazione circa una bomba allo stadio
fin dal giorno prima. Perfino lui sapeva che qualcosa stava andando storto
quella sera [12].
Del resto, sempre a proposito di stranezze stupefacenti, era dalla metà di
agosto che l’allarme era stato lanciato e che l’allarme riguardava anche e
specificamente il Bataclan, la "salle de spectacles" dove
avvenne il grosso della strage. Lo rivela il già citato monsieur Trevidic, che
è ora vice presidente dell’Alta Corte di Lilla, dopo avere interrogato un certo
Reda Hame, arrestato dopo il suo ritorno dalla Siria. Doveva incontrarsi con
Abdelhamid Abaaoud, ma sicuramente era molto ciarliero. Infatti rivela al
magistrato che «il bersaglio più concreto di una prossimo attentato
terroristico sarebbe stato una sala di concerti rock a Parigi». Il Bataclan,
emerge, era stato indicato come un possibile obiettivo terroristico «almeno due volte in precedenza» [13].
E fa tre.
Poi la tragedia, per molti, troppi, quasi tutti giovani e giovanissimi,
uccisi. Sebbene il bilancio dei morti resti, al momento attuale, assai poco
chiaro, così come del tutto misterioso è il bilancio e le caratteristiche della
liquidazione della squadra di assassini.
Ma è il racconto che non quadra, che contiene troppi tasselli inspiegabili.
E una sola fonte: quella della polizia e dei servizi segreti. I giornalisti hanno scritto e detto molto:
purtroppo nessuno di loro ha visto niente. Dall’inizio alla fine. E quello che
riferiscono, sulle colonne dei giornali, dai canali radio e televisivi, è la
confusa ridda di versioni ufficiali, poi quelle di seconda, terza, quarta mano,
nessuna delle quali è verificabile, ma tutte assunte come credibili, anzi certe.
Poi ci sono le invenzioni vere e proprie, come quella, invero comica, del
“terrorismo delle freccette”, in base alla quale Abaaoud avrebbe mandato i suoi
uomini allo sbaraglio, nei mesi precedenti, tirando al bersaglio una serie di
dardi, a casaccio, fino a che uno sarebbe arrivato a segno. [14]
Cioè il capo del sanguinoso complotto, l’ovviamente defunto e dunque non più in grado di confermare o smentire, sarebbe stato “sotto una crescente pressione per realizzare qualche cosa di grosso”.
Cioè il capo del sanguinoso complotto, l’ovviamente defunto e dunque non più in grado di confermare o smentire, sarebbe stato “sotto una crescente pressione per realizzare qualche cosa di grosso”.
Pressione da parte di chi? C’era qualcuno che tirava le fila? Chi era?
La risposta a queste domande non c’è, dunque tutta la complessa operazione, e le sue gigantesche
conseguenze, sarebbero il frutto della mente e dell’organizzazione di uno sprovveduto, vanaglorioso delinquentello,
che avrebbe passato mesi a “tirare le freccette” fino a che una, almeno una,
andasse a segno. Una di queste “freccette” sarebbe stata l’azione del 26-enne di
origine marocchina, Ayoub el Khazzani,
che in agosto emerse dalla toilette di un treno ad alta velocità diretto a
Parigi, armato di un kalashnikov , solo per essere disarmato, senza avere
sparato nemmeno un colpo, da tre
provvidenziali passeggeri americani. Insomma Abaaoud stava andando a
casaccio, sempre che fosse lui a guidare l’impresa. E, dato il suo
comportamento altamente stravagante (sempre secondo le fonti di polizia o di
altri esperti militari chiamati in soccorso dai giornalisti per spiegare
l’inspiegabile), non è escluso che il giovanotto fosse in un qualche stato di
inquietudine.
Chi è la fonte di questa informazione? Un certo Louis Caprioli, ex vicecapo dell’unità antiterroristica interna
francese. «Tutto in questo 2015 era fino ad ora andato male –dice Caprioli —
fallimenti, imbarazzanti fallimenti». E Charlie
Hebdo? Un indubbio successo del terrorismo, appunto nel 2015. Ma
evidentemente Abaaoud non era di quella partita. Poi verrà il salto di qualità
del 13/11, cioè il passaggio da un kalashnikov che non spara un colpo, a una squadra
di “almeno nove” killer. In realtà parecchi di più.
Se poi si esamina quello che sappiamo del capo di questi tre commandos, appunto Abdelhamid Abaaoud, ne viene fuori un quadro sconcertante. Quasi
tutti i resoconti, o racconti, lo descrivono come un “soldato di fanteria”, divenuto – non si sa come — “colonnello nella gerarchia dello Stato
Islamico”.
Quando arrivò la prima volta in Siria “fu incaricato di raccogliere i corpi
dei soldati morti in battaglia” e, specificamente, di “svuotare le loro
tasche”. Aveva certo una predilezione per lo spettacolo. Apparve più volte
sulla rivista online della jihad, Dabiq,
qualche volta mostrandosi sghignazzante mentre scaricava cadaveri da un pick-up, qualche volta sfottendo i servizi
segreti che non erano riusciti a rintracciarlo mentre passava attraverso le
frontiere europee, qualche altra volta minacciando attentati.
Secondo David Thomson, autore di un volume sui jihadisti francesi, Abaaoud
“era considerato niente di speciale”. Ciò che sembra qualificarlo come qualcuno
che se la cavava meglio pare sia stata la sua abilità nello sfuggire ai
controlli. Una delle imprese più eclatanti fu il 20 gennaio 2014 quando portò
con sé il fratello tredicenne Younes, verso la Siria. Furono fermati al
controllo passaporti. Infatti Abaaoud era sulla lista dei ricercati [15].
Ma Abaaoud dichiara che lui e il fratello stanno andando a visitare la famiglia in Turchia e vengono lasciati passare.
Ma Abaaoud dichiara che lui e il fratello stanno andando a visitare la famiglia in Turchia e vengono lasciati passare.
Dove è difficile dire se è più incredibile il comportamento delle autorità
francesi di polizia, e di quelle belghe, oppure quello dello stesso Abaaoud che
si espone al rischio di essere arrestato con tanta totale incoscienza e
mancanza di accortezza. Siamo di fronte al ritratto
collettivo di polizie ripetutamente incapaci, con al centro un terrorista
“islamico” piuttosto balordo, che rischia di farsi prendere ripetutamente per
totale incoscienza. A meno che fosse
sicuro che non lo avrebbero preso fino a missione compiuta.
C’è da chiedersi come mai i
giornalisti che hanno scritto questi resoconti non siano stati in grado di formulare essi stessi gl’interrogativi che qui balzano agli occhi. Siamo di fronte a
colleghi che sembra siano stati privati del beneficio del dubbio. Cosa che,
probabilmente, influirà positivamente sulle loro carriere giornalistiche [16].
Ma questo è un altro discorso, che riguarda la Grande Fabbrica dei Sogni e
delle Menzogne. Colpisce, tra le molte altre inquietanti sorprese, il fatto che
in pratica esiste una sola foto
dell’interno del Bataclan dopo il massacro.
Stranezza oltre ogni immaginazione nel tempo moderno dove ormai tutti — e
sicuramente tutti coloro che erano andati a sentire il concerto — hanno in
tasca un cellulare in grado di fotografare e filmare. Siamo ormai abituati a
vedere immagini raccapriccianti fotografate e filmate dagli stessi protagonisti,
nelle condizioni più impensabili e drammatiche. Possibile che nessuno delle
centinaia di sopravvissuti abbia fatto altrettanto? Certo nessuno poteva
fotografare al buio e durante la sparatoria. Ma una volta finita la mattanza e
l’ingresso della polizia, nessuno ha pensato di fissare ciò che stava vedendo?
In uno dei pochi filmati, quello girato con il cellulare dalla finestra del
vicolo adiacente da un testimone, è possibile vedere, tra i corpi dei morti che
giacciono a terra accanto all’uscita laterale del locale, uno dei feriti che
accende il suo cellulare e cerca di comunicare, forse con un amico o un
familiare, la sua situazione. Cerca soccorso, mentre ancora risuonano alcuni
spari, radi, provenienti dall’interno. Possibile che nessuno dei sopravvissuti
abbia fatto altrettanto? Strano.
Eppure una ricerca su Google rivela che effettivamente queste foto non ci
sono. E l’unica che a quanto pare esiste, è di una stranezza assoluta. Con una
lunga striscia rossa curvilinea sul pavimento, che sembra stata fatta trascinando
qualche oggetto imbrattato di rosso, largo circa un metro, attorno ai corpi dei
morti (cioè quei cadaveri erano già per terra, in quelle posizioni, e chi ha
disegnato quelle strisce rosse lo ha fatto “attorno” ai loro corpi). Mentre molti
cadaveri delle circa 15 vittime visibili nella foto appaiono stranamente privi
di chiazze di sangue [17].
Ma la faccenda dell’”unica foto” diventa ancora più complicata qualche mese
dopo, quando un giornalista francese, Hicham
Hamza, viene arrestato e incriminato ufficialmente per “violazione del
segreto istruttorio e diffusione di immagini gravemente lesive della dignità
umana”. Hamza scrive per un sito, www.panamza.com, che già aveva accuratamente
passato al setaccio la faccenda di Charlie
Hebdo. Cosa ha fatto di tanto grave? Il 15 dicembre 2015 aveva diffuso
quella foto dell’interno del Bataclan, scattata a quanto pare pochi minuti dopo
la strage. Da chi non si sa. Il fatto è che Hamza trovò la foto su un tweet
firmato “Israele News Feed” “@IsraelHatzolah”. Dunque l’unica foto del Bataclan
è stata resa nota da un sito israeliano. Maurizio Blondet, che ha rivelato
questa circostanza per i lettori italiani, si addentra nella scoperta
sollevando un masso sotto il quale molti interrogativi si muovono. «Israel
Hatzolah — scrive — è praticamente la stessa cosa di United Hatzolah, una ONG israeliana di paramedici che collabora con
l’esercito di Israele», e il cui presidente è Mark Gerson, un ebreo americano
che fu direttore esecutivo del think-tank “Project for The New American
Century” (PNAC) [18].
Per chi non ha la memoria corta si trattò del centro d’irraggiamento delle
idee neocon che conquistarono il
governo degli Stati Uniti con George Bush Jr e con tutta la squadra che gestì
la “New Pearl Harbor” dell’11 settembre 2001, e che portarono l’America a
invadere l’Afghanistan e l’Irak. Dunque l’unica
foto del Bataclan post massacro viene diffusa al pubblico mondiale da una fonte
israeliana collusa con i neocon [19].
Ma Blondet procede oltre. Il Bataclan apparteneva, fin dal lontano 1976
alla famiglia ebraica Toutou, e venne venduto l’11 settembre 2015, cioè due
mesi prima della strage [20].
I vecchi proprietari si sarebbero trasferiti in Israele subito dopo la vendita. Coincidenze, nient’altro che coincidenze, ovviamente. Solo che il Times of Israel scrisse, dopo la strage, che «i responsabili della sicurezza della comunità ebraica erano stati avvertiti in anticipo dell’imminenza di un grosso attentato terroristico» [21].
La notizia, che fu poi censurata, includeva il nome dell’autore del preavviso: il banchiere Edmund De Rotschild. Non meno strana l’intervista che Jesse Hughes, il cantante degli Eagles of Death Metal, ha rilasciato a Fox Business Network quattro mesi dopo l’attentato. In essa il cantante rivela che quella sera, “ben sei uomini addetti alla sicurezza dietro le quinte, erano inspiegabilmente assenti”. Forse, aggiunge, “avevano ragioni per non venire”.
I vecchi proprietari si sarebbero trasferiti in Israele subito dopo la vendita. Coincidenze, nient’altro che coincidenze, ovviamente. Solo che il Times of Israel scrisse, dopo la strage, che «i responsabili della sicurezza della comunità ebraica erano stati avvertiti in anticipo dell’imminenza di un grosso attentato terroristico» [21].
La notizia, che fu poi censurata, includeva il nome dell’autore del preavviso: il banchiere Edmund De Rotschild. Non meno strana l’intervista che Jesse Hughes, il cantante degli Eagles of Death Metal, ha rilasciato a Fox Business Network quattro mesi dopo l’attentato. In essa il cantante rivela che quella sera, “ben sei uomini addetti alla sicurezza dietro le quinte, erano inspiegabilmente assenti”. Forse, aggiunge, “avevano ragioni per non venire”.
I dubbi s’infittiscono. Un altro dei quali scaturisce dall’esame collettivo
della squadra di macellai che ha agito la sera del 13/11. Abbiamo nove nomi,
che ci sono stati forniti dalla polizia. Otto di loro sono morti. Uno è ancora
in fuga mentre scrivo queste righe. Di sette conosciamo qualcosa delle loro
biografie. Per esempio che erano tutti
schedati. Cioè erano sotto controllo.
Tutti i loro precedenti erano quelli
di piccoli criminali comuni. Nessuno
di loro aveva un passato di fervente credente e praticante. Solo dal 2013 in
avanti alcuni di loro mostreranno un più o meno intenso feeling religioso, che li avrebbe spinti a mettersi in movimento.
Di Abdelhamid Abaaoud s’è già
detto qualche cosa. È stato in carcere più volte per furto e aggressione. I due
fratelli Abdeslam, Ibrahim (31 anni)
e Salah (26 anni), erano proprietari, fino al 5 novembre, — cioè sette giorni
prima dell’attentato — di un bar del quartiere di Molenbeek a Bruxelles, chiamato
“Les Beguines”, frequentato da prostitute e dove si spacciava droga. L’ex
moglie di Ibrahim, Niama, parla di lui come di uno che «si faceva canne,
dormiva tutto il giorno e non aveva lamentele contro l’Occidente».
Vi pare la figura di uno che, otto giorni dopo, si farà saltare in aria in
un bar di Boulevard Voltaire?
Di Samy Amimour si sa che era
sotto gli occhi della DGSE, l’intelligence francese, fin dal 2012. Quando lo
arrestano, per tenerlo in cella d’isolamento per 86 ore, gli trovano in casa
una storia dei profeti, istruzioni sulla dieta del buon credente, una copia
dell’Èquipe e una di France Football. Il suo nickname è
quello di un noto culturista, Samy Coleman. Dunque un culturista tifoso di
calcio. Interrogato avrebbe detto di essere favorevole alla “jihad difensiva” e
di non poter “nemmeno concepire il martirio”. Anche lui si sarebbe fatto
esplodere dentro il Bataclan all’arrivo delle forze di polizia.
Ismael Omar Mostefai era stato
schedato dalla polizia addirittura del 2010, arrestato otto volte, ma dopo
avere fallito al concorso per entrare in polizia.
Fouad Mohammad Aggad: era un
sorvegliato speciale, di quelli che sulla scheda segnaletica hanno la “S”.
Precedenti per spaccio e risse. Il più innocuo della squadra era Bilal Hadfi: ventenne, denominato Billy
Hood, anche lui schedato. Beveva e andava in giro molestando le ragazze.
Ce n’erano altri due, sui cui nomi veri c’è da dubitare perché avrebbero avuto
passaporti falsi. Comunque non si sa nulla. Nomi fotocopia: Ahmad al Mohammad e Mohammad al Mahmoud, si dice
provenienti dalla Siria, via
Turchia, entrambi saltati in aria nei pressi dello Stade de France, e dunque
comparse cancellate dall’oblio del perossido di acetone. Il conto è fatto.
Dei nove già nominati, cinque saranno quelli che, sempre secondo il
racconto della polizia, salteranno in aria (tre presso lo stadio, cioè Hadfi,
Ahmad e Mohammad; uno, Hamimour, esploso — pare—nel Bataclan; l’altro, Ibrahim
Abdeslam, esplode in un bar di Boulevard Voltaire). Restano vivi in quattro,
fino a questo momento. Uno di questi è Salah Abdeslam, fratello di Ibrahim, quest’ultimo
già esploso al Comptoir Voltaire. La polizia informa che, dopo il massacro di
Parigi, Salah torna in Belgio in macchina, insieme ad altri due passeggeri. Potrebbero
essere Mostefai e Aggad, i due fucilieri del Bataclan rimasti in vita (Amimour
si è ufficialmente fatto esplodere). Ma non è sicuro.
Se i due in questione sono morti dentro il Bataclan, significa che almeno
altri due dei partecipanti all’operazione si sono salvati, cioè il team era più
numeroso di quanto detto. Quello che è sicuro è il fatto che l’auto viene
“fermata dalla polizia per ben tre volte, l’ultima il 14 novembre alle 9 del
mattino, a Cambrai, ormai a 50 chilometri dal confine belga (in questi momenti
qualunque guidatore con la pelle un po’ scura viene fermato, spiega un avvocato
degli arrestati minori) e gli agenti non trovano niente di strano nel
terzetto” [22].
E veniamo ora ai tre suicidi attorno
allo stadio. Ore 21:20. Primo kamikaze. Salta con la sua cintura esplosiva
nei pressi della porta D dello stadio dopo che gli è stato impedito l’ingresso.
Oltre a lui rimane ucciso un passante che si trovava poco distante. Ore 21:30
il secondo kamikaze esplode nei pressi di un ristorante. La vetrina risulta
soltanto incrinata. Nessun morto oltre lui. Ore 22: il terzo kamikaze esplode
mentre si trova all’entrata di un vicolo cieco. Come se stesse cercando di
nascondersi. Bilancio di tre esplosioni: tre kamikaze uccisi e un morto. Invece
che una strage in questo caso si può a ragione parlare di una “mancata strage”. Lo stupore di
Blondet, e il mio, viene corroborato da quello della France Presse che,
citando una fonte anonima della polizia, scrive: «È incomprensibile. Un
miracolo che ci siano state così poche vittime. Concretamente quel che hanno
fatto (i jihadisti, ndr), a parte suicidarsi, non ha alcun senso. Se volete
fare una carneficina, lo fate al momento dell’entrata o dell’uscita degli
spettatori (…) qui ci sono solo dei tizi che si sono suicidati». La polizia
francese è distratta, ma qualcuno ragiona. Solo che preferisce restare anonimo.
Andiamo ora a vedere cosa succede al quarto
attentatore suicida. Solo le ore 21:45. Quindici minuti dopo il secondo
kamikaze dello stadio e quindici minuti prima del terzo. Ibrahim Abdeslam è
seduto sulla terrasse al n.253 di
Boulevard Voltaire. I testimoni, padrone del locale e camerieri, ricordano che
se ne sta taciturno e tranquillo. E prima di saltare per aria non grida, non
inneggia al Profeta. Quando la cameriera si avvicina per prendere l’ordinazione
avviene l’esplosione. Lui muore, lei, seppure gravemente ferita, rimane in
vita. Bilancio al momento: quattro kamikaze morti, un solo disgraziato passante
li ha accompagnati a miglior vita. L’anomalia della situazione diventa enorme. E
sempre più inspiegabile, date le premesse. Tanto più che Ibrahim sarebbe stato
colui che noleggiò la SEAT nera e la parcheggiò a Montreuil, lasciando al suo
interno tre kalashnikov, con cinque caricatori pieni e 11 vuoti. Una cosa
sconclusionata. Che se ne facevano di undici caricatori vuoti? Erano quelli del
Bataclan? Ma chi ce li ha portati? In tal caso sono rimasti vivi. Doveva partecipare
anche lui alle sparatorie? Ma non lo fece. Era suo compito aspettare i macellai
del Bataclan e portarli fuori città? Ma allora perché si fa esplodere prima che
il massacro cominci? E in quel modo, insensato come quello dei tre suicidi
dello stadio?
Anche qui riemerge la sbalorditiva
creduloneria dei giornalisti dei grandi organi di informazione: non ce n’è uno che metta insieme i pezzi
del puzzle che ha di fronte. Possibile che a nessuno sia venuta in mente la
possibilità che i quattro kamikaze siano stati fatti saltare per aria da un sistema d’innesco a distanza? Cioè che non siano stati loro a decidere il momento, a
premere il pulsante fatale, ma qualcun altro (alla luce dei risultati anch’egli
piuttosto sprovveduto), che si trovava da qualche altra parte?
Non si potrebbe ipotizzare che almeno qualcuno di loro non sapesse affatto
di essere destinato a fare il kamikaze, ma che avesse ricevuto in dotazione un
cellulare per mantenere le comunicazioni con gli altri del commando. Un
cellulare in realtà riempito di esplosivo e comandato a distanza (così si
spiegherebbe la debolezza delle cariche)? Ipotesi queste, niente affatto
peregrine, se si ricorda quante volte, al passaggio del metal detector di un
aeroporto, i sorveglianti chiedono di accendere il cellulare per vedere se è
davvero un cellulare [23].
E che dire dei due cellulari ritrovati dalla polizia: uno nei pressi dello
stadio, l’altro nei pressi del Bataclan? Sembra che questa banda di pasticcioni
sanguinari abbia volutamente lasciato tracce per la ricostruzione degli eventi.
E risulta — sempre dalle informazioni postume fornite dagl’inquirenti — che ci
fossero telefonate continue che collegavano il cellulare di Abaaoud e quello di
almeno uno dei kamikaze dello stadio, mentre uno del terzetto del Bataclan
avrebbe comunicato, non si sa a chi, via sms, che stava per cominciare la
strage. Queste le trouvailles che la
polizia ha lasciato filtrare in diversi momenti delle indagini [24].
Lascio da parte molte altre informazioni, che Maurizio Blondet ha raccolto [25],
dove testimoni oculari parlano di altri
killer, di alta statura, di pelle bianca, arrivati a bordo di una Mercedes
nera, atletici, vestiti di nero, che
“sembravano militari o mercenari”, efficienti e operativi nelle sparatorie
contro i bar e ristoranti. O dei quattro , che “sembravano morti viventi, come
fossero drogati”, che se ne stettero a bordo della Polo nera con targa belga,
parcheggiati non molto lontano dal Bataclan, per quasi due ore. Tanto sospetti
che un avventore di un vicino locale cercò di avvertire la polizia, ma senza
successo.
Fino alla conclusione della mattanza
del 18 novembre, altrettanto inverosimile di tutto quanto fin qui
raccontato. La polizia, la DGSE, trovano il covo di una parte dei terroristi: è nel quartiere di Saint Denis,
un appartamento al terzo piano di Rue de Corbillon. Sono passati poco più di
tre giorni. Sono le quattro del mattino del 18 novembre.
Il quartiere viene sgomberato e circondato da un grande schieramento di
forze militari e di polizia. I terroristi non possono sfuggire. Sarebbe
cruciale prenderne qualcuno vivo in modo che possa raccontare tutto quello che
sa. Invece le forze di polizia lanciano l’assalto.
Comunicheranno dopo di avere sparato più di 5000 proiettili, accrescendo
così il sospetto che lo scopo
dell’operazione fosse di non farne uscire nessuno vivo. Dentro — risulterà
— erano solo in tre. L’unica donna, la cugina di Abaaoud, Hana Ait Boulachen
cercherà disperatamente, gridando, di segnalare alla polizia che lei non
c’entra per niente. La polizia dirà che si è fatta esplodere, poi rettificherà
dicendo che è morta nell’onda d’urto dell’esplosione con cui uno dei due uomini
si è immolato.
Chi fossero ce lo racconta ancora la polizia. Di uno dei due non si conosce
l’identità. Di lui è restata solo una porzione del cranio. Dell’altro invece,
stando alla ricostruzione di Repubblica, già qui citata, si sa tutto. E’
bastata “la falange del dito di una mano”, unico “brandello di un cadavere
dilaniato dall’esplosione di un giubbotto imbottito di Tatp, perossido di
acetone”, per ricavare che quel dito apparteneva a Abdelhamid Abaaoud. Questa volta la carica era così potente da
fare fuori tre persone in un colpo solo: mica come quelle degli altri kamikaze!
Davvero era
necessario sparare cinquemila proiettili? Hanno fatto tutto da soli.
Sarebbe bastato aspettare il far del giorno. Così il bilancio finale della
squadra di killer islamici dice che i morti ufficiali sono stati otto. I sei
kamikaze hanno ucciso un solo estraneo. Tre sono fuggiti, di loro conosciamo
soltanto Salah, gli altri due non sono noti. Forse coincidono con Mostefai e
Aggad, usciti vivi dal Bataclan. Ma non è certo. Dei giovanotti vestiti di nero
scesi da una Mercedes non c’e traccia nei racconti ufficiali. Di chi era il
pezzo di cranio? Chi fu il bombarolo che preparò le cariche? Perché i cellulari
lasciati a terra? Perché l’assalto del quartiere Saint Denis? I kamikaze erano
“radiocomandati”? Cioè c’era qualcun altro che schiacciava i pulsanti dei
detonatori? Perché non ci sono fotografie del salone del Bataclan dopo
l’eccidio?
Forse sarà necessario fare di nuovo ricorso al segreto militare. Chi scrive non ha nessuna di queste risposte.
Ma questo non lo priva della possibilità di formulare delle ipotesi semplici.
Torno alla strage di Charlie Hebdo.
Il segreto militare del ministro Cazeneuve ha fermato l’indagine quando sono
emersi i contatti tra un informatore che agiva per conto dei servizi segreti
francesi e il terrorista Ahmedy Coulibaly. Le polizie di tutto il mondo
infiltrano i loro uomini e donne nelle organizzazioni criminali e
terroristiche. E, simultaneamente usano i criminali e i terroristi che hanno
intrappolato preventivamente, come strumenti per raccogliere informazioni,
ricattandoli. Da qui al loro uso come attori, comparse, capri espiatori da
esibire al pubblico in caso di necessità, il passo è brevissimo. Tanto più
facile quando questi capri espiatori non sanno di esserlo e agiscono con la
convinzione di essere eroi che lottano per la loro causa, quale che essa sia.
E, tanto più sono fanatici, quanto più è possibile guidarli verso obiettivi
opportunamente predisposti. Con questi mezzi si possono compiere piccole e medie provocazioni. Ma si
possono anche realizzare, quando serve, grandi,
colossali, sanguinose false flag
operations, operazioni in cui deve sventolare agli occhi del pubblico
una “falsa bandiera”, mentre coloro che le hanno organizzate rimangono totalmente
al coperto.
In questo caso almeno sette dei kamikaze morti nell’attacco terroristico del
13/11 erano nella condizione di
ricattabilità. La libertà di movimento di cui hanno goduto suggerisce che
erano anche sotto una qualche rete di
sicurezza.
Il compito della democrazia, se esiste, è scoprire chi costruisce queste
operazioni. Il segreto militare, il segreto di Stato, al contrario, serve per
proteggere i servizi dello Stato che — magari lavorando per altri Stati —
deviano dai loro compiti e dai loro doveri. A meno che, come ci ha fatto
ricordare Wikileaks, siano altri servizi
segreti (o settori deviati), di Stati
amici, che non è possibile smascherare, proprio perché ufficialmente amici,
i quali organizzano la false flag
operation per punirci quando diventiamo disobbedienti. Qualcuno potrebbe
non sopportare che noi europei ci consideriamo “alleati ma non allineati”.
Neppure su questioni secondarie. Dobbiamo essere in ginocchio, sempre, altrimenti potremmo essere oggetto di “una
lista di obiettivi di rappresaglia, che crei una certa sofferenza” [26].
Se le cose stanno così dobbiamo, noi europei, chiederci se siamo disposti a
lasciarglielo fare.
NOTE
[22] http://www.maurizioblondet.it/parigi-qualche-kamikaze-era-radiocomandato/ Devo alla ricostruzione di Maurizio Blondet, ricca di particolari e di citazioni dalle fonti francesi, gran parte dei dati riguardanti gli attentatori suicidi, e anche gran parte delle sue considerazioni successive, che considero molto convincenti.
[24] “Attentats de Paris: 'Les terroristes? On aurait cru des morts-vivants'”, Le Figaro, 15/11/2015.
[25] “Paris attack witness: 'he was dressed in black, professional, shooting and killing'”, The Guardian, 14/11/2015.
[1] Avis n° 2015-09 du 18 juin 2015 (Journal Officiel de la Republique Française): contiene la
notizia di una lettera del 1° giugno 2015, in cui il ministro degl’interni B.
Cazeneuve si oppone a una richiesta di declassificazione di importanti
documenti dell’inchiesta da parte dell’istanza dei giudici del Tribunale di
Lilla. La commissione consultiva per il segreto circa la difesa nazionale, dà
ragione al ministro.
Solo il 10 settembre la notizia verrà rivelata al grande pubblico dal
sito francese Mediapart, dove, per la
penna di Karl Laske, si saprà che l’inchiesta dei giudici francesi, Stanislas Sandrapos e Richard Foltzer, circa il percorso seguito dalle armi
del defunto terrorista Coulibaly è stata fermata là dove emergevano i rapporti
tra i terroristi e i servizi segreti francesi. L’inchiesta della magistratura
aveva rivelato che Coulibaly acquistò le armi da un certo Claude Hermant,
importatore di armi attraverso la società commerciale Seth con sede a
Haubourdin, e collaboratore dei servizi segreti francesi.
[2] Stacy Meichtry - Joshua Robinson, "Paris Attacks Plot Was Hatched in Plain Sight", The Wall Street Journal, 27-29/11/2015.
[3] «Per la legge in questione è stato usato un acronimo orwelliano:
‘USA PATRIOT Act’ è la sintesi di "Uniting
and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act", ossia "Legge per unire e rafforzare l’America offrendo gli
strumenti adatti richiesti per intercettare e bloccare il terrorismo". Attraverso il nome è stata data una perentoria patente
di patriottismo a un delicato provvedimento che in realtà sospende molte leggi
di garanzia. Con un metodo ricattatorio (chi si oppone a qualcosa che si chiama Patriot diventa per
definizione ‘antipatriottico’) l’amministrazione Bush ha subito mirato a
tacitare le critiche e prevenire discussioni sugli ineluttabili abusi» (cfr. Pino Cabras, Strategie per
una guerra mondiale, Aisara, 2008).
[5] ibidem, nota 4.
È interessante notare che persino in occasione della strage di Oslo del 22/07/2011,
come rivelò il più importante quotidiano norvegese, Aftenposten, la scena del crimine aveva letteralmente ricalcato
simulazioni in corso degli apparati di sicurezza in quella stessa giornata. Solo
poche ore prima che Anders Behring Breivik
iniziasse a sparare sui ragazzi di Utøya le squadre di emergenza della polizia
avevano concluso un'esercitazione in cui avevano sperimentato una situazione
quasi identica: «un attacco terrorista mobile nel quale l'unico obiettivo di
uno o più esecutori consisteva nello sparare a quanta più gente possibile e poi
nel fare fuoco sui poliziotti al loro arrivo. “Era assai simile allo schema.
Così ha voluto il caso”, dichiara
una fonte attendibile della polizia, che ha chiesto l'anonimato». (http://megachip.globalist.it/Detail_News_Display?ID=63448).
[13] R.
Callimachi, K. Bennhold and L. Fourquet, " How
the Paris Attackers Honed Their Assault Through Trial and Error", New York Times, 30 novembre 2015.
[14] Ibidem. Dartboard terrorism.
[15] «Era nel database di tutti i paesi europei, ma ritornò in
Europa come se stesse per andare in una vacanza al Club Med». New
York Times, 30/11 (frase
attribuita dal NYT alla madre, anonima, di uno dei jihadisti morti nei
combattimenti in Siria. C’è da dubitare, tuttavia che la madre di un terrorista
adotti questo tipo di linguaggio e riferimenti turistici di questo genere).
[16] Mi riferisco specificamente a tre ricostruzioni degli eventi: 1) Wall Street Journal (27-29/11), firmata da Mathhew
Dalton, Inti Landauro, Noemie Bisserbe, Mohammad Nour Alakraa, Matt Bradley,
Dana Ballout, Giada Zampano, Anton Trojanovski; 2) Quella citata del New York Times (30/11),
firmata da K. Callimachi, K. Bennhold, L. Fourquet; 3) La Repubblica (20/11),
Con le firme di Carlo Bonini, Giuliano Foschini, Anais Ginori, Fabio Tonacci.
[22] http://www.maurizioblondet.it/parigi-qualche-kamikaze-era-radiocomandato/ Devo alla ricostruzione di Maurizio Blondet, ricca di particolari e di citazioni dalle fonti francesi, gran parte dei dati riguardanti gli attentatori suicidi, e anche gran parte delle sue considerazioni successive, che considero molto convincenti.
[23] “Secondo una fonte giudiziaria — scrive il Figaro —le cinture esplosive avrebbero potuto essere azionate da
telefono portatile”.
[24] “Attentats de Paris: 'Les terroristes? On aurait cru des morts-vivants'”, Le Figaro, 15/11/2015.
[25] “Paris attack witness: 'he was dressed in black, professional, shooting and killing'”, The Guardian, 14/11/2015.
[26] Wikileaks ha publicato un cablogramma che l’ambasciatore americano a
Parigi inviò al Dipartimento di Stato il 14 novembre 2007. Nel quale si
formula, riferendosi ai negoziati di libero scambio tra Europa e Stati Uniti,
la proposta di “calibrare” la lista, sia verso l’Europa intera, poiché “la
responsabilità è collettiva”, sia verso i “responsabili principali”, cioè la
Francia. Il tutto in un contesto come quello di “alleati ma non allineati”.
Frase che lo stesso cablogramma riferisce all’allora presidente francese Sarkozy.
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