4 ottobre 2012

Estelle va a Gaza: la speranza salpa da Napoli

Intervista a Paola Mandato e Fortuna Sarnataro a cura di Pino Cabras Megachip.



Estelle, il veliero svedese che vuole rompere il lungo assedio di Gaza, si trova in acque italiane, dopo un vero e proprio periplo dell’Europa.
Arriva oggi a Napoli, da dove salperà il 6 ottobre alla volta di Gaza. Sarà quella la parte più difficile del viaggio, quando si porterà a contatto con il “muro” della marina israeliana e delle sue forze speciali.
Ne parliamo in dettaglio con due attiviste italiane, Paola Mandato e Fortuna Sarnataro, del coordinamento italiano della Freedom Flotilla. 

Quali nuovi rapporti avete costruito nella fase del viaggio “europeo”?
Paola Mandato: Prima è necessario risalire un po’ indietro, alla storia dei movimenti delle flotille per capire l’importanza che proprio l’evoluzione di questi rapporti internazionali ha avuto attraverso di esse. Rapporti che si sono evoluti da semplici contatti tra attivisti fino a diventare campagne nazionali strutturate, in contatto tra loro. Questo è proprio uno degli obiettivi che ci siamo sempre posti con le flotille: creare un coordinamento di una popolazione civile internazionale indignata e quindi attiva, attenta alla necessità di interrompere il blocco di Gaza e l’illegalità della politica di occupazione israeliana della Palestina. Direttamente, visto che nessuna delle istituzioni internazionali preposte lo fa.

La maggior parte dei media e dei cittadini ha sentito parlare per la prima volta di Freedom Flotilla soltanto il 31 maggio 2010, quando le forze speciali israeliane fecero strage sulla nave Mavi Marmara. Cosa c’era prima?
Tutto ebbe origine nel 2006, da parte di un gruppo di attivisti per la Palestina, statunitensi e inglesi, con all’attivo esperienze varie in Cisgiordania e a Gaza. L’idea era di estrema semplicità politica: partire con una nave diretta a Gaza per interrompere l’assedio. Non altrettanto semplice è stato farlo. Gli attivisti hanno raccolto fondi negli angoli delle strade, nei supermercati, in occasione di qualsiasi evento in cui si parlasse di Palestina, utilizzando tutti i contatti personali, etc … Hanno impiegato due anni per raccogliere fondi, e hanno dovuto fare slalom tra i tanti ostacoli posti lungo la via dal Mossad: da quelli oscuri, come le minacce alla sicurezza personale, le barche identificate per l’acquisto che gli acquirenti improvvisamente non erano più intenzionati a vendere, fino a ostacoli tangibili tramite le istituzioni americane, incluse denunce penali di vario tipo.

Quando è stata aperta la prima “breccia” sull’assedio di Gaza?
Finalmente nell’agosto 2008 il Free Gaza Movement - è questo il nome del movimento - riesce a rompere il blocco, arrivando a Gaza da Cipro, con due improbabili pescherecci con a bordo una quarantina di attivisti, tra cui il nostro Vittorio Arrigoni. Le prime imbarcazioni internazionali che arrivano a Gaza dopo 42 anni. Altre 4 missioni sono riuscite a fare avanti e indietro portando a Gaza vari parlamentari, giornalisti, attivisti e, fuori da Gaza, studenti palestinesi con borse di studio all’estero o semplicemente persone che volevano ricongiungersi con i familiari. Tutto questo fino a “Piombo Fuso”. Poi, nessuna imbarcazione è più riuscita a passare. Israele le ha fermate tutte, arrembandole violentemente, in acque internazionali, arrestando gli attivisti, deportandoli per ingresso illegale in Israele e confiscando beni, merci e imbarcazioni.
Tutto questo, blocco di Gaza incluso, è avvenuto senza che gli organismi internazionali preposti intervenissero in alcun modo per riportare Israele nell’ambito della legalità internazionale.

L’operazione “Piombo Fuso” ha cambiato le carte in tavola. Come ha reagito il Free Gaza Movement?
Il movimento, composto da individui da tutto il mondo, ha deciso di cambiare strategia e di coinvolgere altri movimenti internazionali e campagne nazionali per creare una coalizione in grado di avere maggior peso politico nell’affrontare il blocco di Gaza. Nasce così la Coalizione internazionale della Freedom Flotilla. I punti di unione sono politicamente semplici e rimangono inalterati: metodi di azioni non violenti, nessuna particolare identificazione politica né religiosa, sono esclusi antisemiti e fascisti; gli obiettivi politici fondamentali sono due: far cessare il blocco di Gaza e l’occupazione illegale di territorio da parte di Israele con relativo diritto al ritorno dei profughi. Tutti obiettivi, tra l’altro, perfettamente in linea con le risoluzioni ONU.

Quando è partita la fase della Freedom Flotilla?
La Freedom Flotilla è in azione, la prima volta, nel maggio 2010, con 9 imbarcazioni e circa 600 attivisti diretti a Gaza, dalla Grecia e da Cipro. Tutti sappiamo purtroppo con quale esito drammatico. Ricordiamolo in dettaglio: nove attivisti barbaramente uccisi dalla Marina israeliana, quando attaccò la Mavi Marmara in acque internazionali, a circa 80 miglia da Gaza. E tutti sappiamo quanto ciò non abbia avuto nessuna conseguenza legale per Israele, mentre sappiamo che ha avuto conseguenze negative per l’economia, date le scelte di non consumo dei prodotti israeliani, da parte di individui indignati nel mondo.

Da noi non se ne sa molto.
Così invece riporta addirittura una rivista economica israeliana, nell’ottobre del 2010, dopo la tragica FF1, parlando anche di interruzioni di rapporti economici da parte di aziende. Ancora una volta a prendere l’iniziativa sono individui, a dispetto del silenzio e della estraneità delle istituzioni.

Dopo FF1, la FF2, e ora la Estelle…
La seconda flotilla è stato un tentativo di ripetere la prima. Israele ha dimostrato che è in grado di estendere il blocco di Gaza fino alla Grecia. Noi lo abbiamo capito e cerchiamo di difendere e rivendicare l’autodeterminazione della popolazione europea con gli strumenti che la popolazione civile dispone: tanto coraggio, coinvolgimento personale diretto, raccolta fondi all’interno delle varie campagne per poter ospitare la prossima nave nei diversi porti europei e raccogliere solidarietà e consenso politico dalle nostre popolazioni, prima che la barca di nome Estelle si diriga a Gaza. La barca Estelle “è stata acquistata direttamente dai cittadini svedesi, non dal nostro movimento” ci tiene a precisare Dror Feiler, il portavoce di Ship to Gaza. Hanno risposto in migliaia con piccole donazioni.

Capiamo così che Estelle è preceduta da una ricca serie di avvenimenti. A questo punto possiamo addentrarci nel viaggio di questa barca?
Sì. Per tornare alla domanda d’origine, i nuovi rapporti costruiti dall’inizio del viaggio sono il consolidamento dei rapporti con le varie componenti della società civile e tra le società civili delle varie citta, regioni, nazioni coinvolte nel viaggio di Estelle. Quando diciamo che vogliamo interrompere l’assedio di Gaza e scegliamo di farlo andando direttamente con navi, vogliamo anche che questo si sappia, sia condiviso, che la Estelle sia anche uno strumento per parlare di Gaza, del blocco, della situazione drammatica di un popolo palestinese senza terra e speranza da anni. Mettere in contatto la società civile di tutto il mondo con la società civile di Gaza: questo è un obiettivo che la Estelle ha già raggiunto, prima ancora di partire da Napoli per Gaza.

Come ha reagito la politica istituzionale alle sollecitazioni delle vostre iniziative nei vari paesi?
Paola Mandato: Noi dobbiamo mettere a repentaglio le nostre vite, disarmati, su barche che vanno a fronteggiare l’esercito più armato del mondo perché la politica istituzionale nazionale e internazionale è completamente inattiva, se non connivente, con il blocco di Gaza e tutti i crimini che Israele commette a tutte le latitudini, impunemente. Noi ci siamo rivolti alle istituzioni nazionali solo in prossimità delle partenze e solo per notificare ai rispettivi Ministeri degli Esteri che saremmo partiti.

E come hanno risposto?
Le risposte sono sempre state solleciti a "non andare", perché non erano in grado di garantire la nostra sicurezza. In una risposta del genere, noi leggiamo solo la conferma di una precisa volontà: non voler prendere posizione nei confronti di Israele e della sua condizione di illegalità internazionale. Quindi, la politica istituzionale reagisce omettendo di fare il proprio dovere anche verso i propri connazionali in missione umanitaria.

Questo i governi. E le altre istituzioni?
Ci hanno sostenuto e continuano a farlo Parlamentari di tutta Europa, di propria iniziativa, per propria coscienza, turbati quanto noi dal grave dramma della popolazione palestinese ma impotenti all’interno degli organi istituzionali.
C’è una petizione (la petizione è in varie lingue:http://upprop.shiptogaza.se/it) firmata, finora, da circa 79 Parlamentari Irlandesi, 45 Parlamentari Svedesi, 71 Greci, una quindicina di Parlamentari Italiani e una ventina di Europarlamentari. (l’appello è ancora alla firma e sarà reso pubblico dopo la partenza della Estelle da Napoli).
Inoltre, a Napoli arriveranno Jim Manly, ex Parlamentare canadese ed ex Ministro delle Chiese Unite, e varie personalità internazionali, tra le quali alcuni Parlamentari svedesi e norvegesi. Si imbarcheranno sull’Estelle per percorrere l’ultimo tratto, da Napoli a Gaza (Comunicato Stampa di Ship to Gaza: http://www.gazaark.org/2012/09/28/former-canadian-mp-sails-against-gaza-blockade/).
Sono individui, come noi, che rispondono a un richiamo urgente di coscienza, come noi. Rappresentano le Istituzioni? Anche se non lo potrei dire, le Istituzioni dovrebbero tenerne conto.

Avete registrato sinora visibili pressioni politiche, burocratiche, militari, contro la vostra missione?
Paola Mandato: Finora stiamo nella media. Abbiamo avuto un “assaggio”, al momento della partenza da La Spezia, sotto forma di controlli puntigliosi e intimidatori inusuali per navi civili. Ma siamo abituati, e soprattutto siamo in regola, il nostro cargo è puntigliosamente ispezionato almeno due volte in ogni porto. Ma, a tutt’oggi, stiamo nella normalità; ovviamente, parlo di quel tipo di normalità che si riscontra quando c’è di mezzo l’arbitrio israeliano...

Avete rafforzato l’enfasi sull’appoggio della società civile, mentre non perseguite l’appoggio di soggetti forti (miliardari o Stati). Perché?
Paola Mandato: Non abbiamo rafforzato l’enfasi sull’appoggio della società civile, ci siamo limitati a mostrare la realtà. Se ci appoggiassero quelli che Lei, giustamente, definisce “soggetti forti, miliardari o Stati”, questo significherebbe che Israele avrebbe perso i suoi sostenitori. Significherebbe, quindi, che avrebbe vinto il diritto universale, che si sarebbe rotta la catena delle complicità, che l’assedio starebbe cessando. Sono anni che noi denunciamo queste complicità che, di fatto, rappresentano le basi d’acciaio che permettono a Israele di commettere i suoi delitti, senza pagare con alcuna reale sanzione.  No, non abbiamo né chiediamo l’appoggio di Stati o di miliardari vari, anche se il tentativo di screditare la Freedom Flotilla ha mandato in giro calunnie in tal senso. Ma, per la loro manifesta stupidità, si sono sgonfiate da sole, mostrando, più ancora che la pericolosità delle calunnie, il ridicolo di chi le aveva suggerite e di chi le aveva ripetute.
Come i cittadini svedesi hanno contribuito con piccole donazioni in migliaia , così ha fatto anche la cittadinanza di La Spezia e sta facendo la cittadinanza di Napoli per pagare i costi del passaggio della Estelle dai porti. Naturalmente, hanno contribuito anche tanti altri donatori da tutta Italia. Questa è solidarietà, e per questo non occorrono grandi finanziatori, basta il contributo di tante persone di coscienza.

Fortuna Sarnataro: Questa è una questione rilevante, che tocca il senso del sostegno che noi riteniamo sia importante dare alla causa palestinese. Secondo noi, perseguire l’appoggio dei poteri forti e, quindi, rinunciare o relegare a un piano secondario il dialogo e la divulgazione delle ragioni palestinesi rischierebbe di essere, permettetemi l’espressione, un autogoal. Bisogna, infatti, chiedersi qual è la posizione dei poteri forti in relazione alla pluridecennale questione della Palestina. Saremmo ingenui se consumassimo le nostre forze cercando di inseguire il consenso di soggetti che, nella maggior parte dei casi, partecipano attivamente alla creazione e al mantenimento delle condizioni disumane subite dai palestinesi o, anche solo, ne traggono profitto. Inoltre – e si tratta di un aspetto ancor più importante – pensare di poter risolvere il problema appellandosi a poteri forti significherebbe non riconoscere che il problema non è confinato nel ridotto spazio mediorientale; non si tratta semplicemente dell’ingiustizia inflitta per cattiveria a una popolazione. Si tratta, invece, di un problema di ordine più generale, che riguarda direttamente una serie di questioni per noi centrali: quella dell’economia capitalista, quella degli strumenti di repressione e controllo sociale, quella di una organizzazione diversa della società...

Non vi limitate dunque a uno “specifico palestinese”. Perché?
Fortuna Sarnataro: Diffondere il più possibile le ragioni palestinesi, e tutto ciò che vi è connesso, sensibilizzando il maggior numero possibile di persone è prima di tutto una scelta strategica. L’intento è, da un lato, quello di trasmettere la consapevolezza che quel che subiscono i palestinesi deve riguardare la società intera, poiché quel che lì si sperimenta o realizza in maniera acutizzata non è estraneo a quel che accade o potrebbe accadere da noi. Sperimentazione di sistemi di sicurezza e collaborazioni universitarie nella ricerca scientifica e militare sono lì a mostrarlo (basti pensare, al riguardo, all’appalto a una società israeliana per un sistema di radar che permetta di azzerare gli sbarchi di clandestini nel sud Italia o all’uso sempre più diffuso di droni anche nella sicurezza civile). Dall’altro lato, l’intento è sottolineare che quel che ricaviamo, a livello sociale, in termini di benessere deriva anche dall’avvantaggiarsi di quelle condizioni di sfruttamento, occupazione, segregazione (basti pensare alle società italiane che hanno vinto appalti israeliani nei territori occupati). Il coinvolgimento della società civile, con la creazione di una consapevolezza diffusa della realtà palestinese, è l’unica via per destabilizzare il sistema consolidato dei poteri che a livello internazionale – e l’Italia ne è purtroppo una conferma lampante – sostiene e tutela l’indifendibile posizione israeliana, sottraendogli la base di consenso esplicito o implicito (ignoranza, indifferenza...) grazie a cui agisce indisturbato.

La parte del viaggio che porterà la Estelle verso Gaza sarà cruciale per l’attenzione mediatica. Quali sono le “finestre” che volete aprire sulla blogosfera, e nei media in genere?
Fortuna Sarnataro: La nostra azione per la diffusione mediatica del viaggio dell’Estelle e di tutto quel che ne è connesso si svolge su due piani. Da un lato, diffondiamo e diffonderemo le informazioni generali, gli aggiornamenti e gli appuntamenti pubblici diretti a mantenere vigile l’attenzione sul viaggio della nave attraverso dei comunicati stampa, delle interviste e delle mail ai grandi media pubblici, giornali e televisione, spingendo perché queste informazioni vengano diffuse. Dato, però, che la realtà a cui siamo abituati è quella per cui esiste una sostanziale autocensura dei grandi mezzi di informazione, quando non un comportamento ossequioso verso i desideri dei poteri forti e visto che il coinvolgimento delle persone passa anche per molti strumenti di comunicazione capillare, daremo continuamente degli aggiornamenti tramite siti internet, twitter e facebook.

Paola Mandato: Sappiamo che l’attenzione mediatica e, in particolare, l’attenzione mediatica “corretta” sarà cruciale ma conosciamo anche il robusto tessuto di cui è fatto il bavaglio imposto ai media dai sostenitori di Israele. Mi lasci dire, per inciso, che forse i nove pacifisti uccisi a freddo dai soldati israeliani in acque internazionali durante la prima Freedom Flotilla sarebbero ancora vivi se la stampa – alla quale inviavamo accorati appelli affinché seguisse la missione – non si fosse auto imbavagliata. Solo all’alba di quel terribile 31 maggio, quando dagli elicotteri israeliani è scesa la morte sulla Mavi Marmara, solo allora la “notizia” ha avuto gli onori della cronaca.

E ora?
Paola Mandato: Lei mi chiede quali finestre vogliamo aprire. Bene, io le rispondo che vorremmo aprirle tutte, tutte quelle che sanno parlare di legalità ma che, spesso, lo sanno fare a senso unico. Ci stiamo provando, inviamo comunicati, foto, filmati … e ci riproveremo, in ogni caso, anche se siamo abbastanza convinti che i media non daranno lo spazio giusto al nostro veliero e al messaggio che porta. Per questo, useremo tutti i mezzi tecnologici  a disposizione; useremo, quanto meglio possibile, la rete.
Siamo convinti – e sappiamo che anche i nostri avversari lo sono – che la nostra è una battaglia per la giustizia che va oltre i sacrosanti diritti, violati, del popolo palestinese e dei gazawi in particolare. Anche se, volte, la disparità di mezzi può far pensare che sia difficile vincere questa battaglia, noi non ci fermiamo.

Lo scenario che descrivete è molto arduo e pericoloso, e sembra chiedere una dose di coraggio speciale contro i silenzi del potere. Cosa può incoraggiare la vostra azione?
Il nostro viatico lo troviamo in un’affermazione storica, una di quelle  che anche i vecchi partigiani della nostra Resistenza ci hanno ricordato in questi giorni, rimettendo insieme le parole di Gramsci: “loro hanno la forza, ma noi abbiamo la ragione. Andiamo avanti con l’ottimismo della volontà senza lasciarci immobilizzare dal pessimismo della storia”.  Ecco, con questa convinzione cerchiamo di aprire le finestre dei media nelle diverse forme. Sappiamo anche che le finestre che cerchiamo di aprire fanno paura a tanti nostri democratici, perché, una volta entrata la luce, la verità parla chiaro:  Gaza è una prigione, per di più una prigione senza neanche i diritti minimi che spettano ai reclusi. E il carceriere si chiama Israele. Chi non sostiene la nostra battaglia, fatta di principi, di non violenza, di solidarietà e di civiltà, sostiene i carcerieri. E’ un’azione che parla la lingua del diritto, no?   Sappiamo che non basta ad aprire tutte le finestre, ma noi seguitiamo a provarci.
D’altronde, ci sono alcuni giornalisti che non hanno paura di raccontare quanto accade in Palestina, in modo obiettivo; che non cedono alle pressioni o alle lusinghe di Israele; che non si limitano a passare le veline che quel Governo invia. Vuol dire che si può fare. Chiediamo, quindi, agli altri di farsi avanti, di scegliere la parte della difesa della libera Informazione, una cosa difficile per i tanti loro colleghi che cercano di documentare la vita in Palestina, a rischio della propria: insieme si è forti e Israele non potrebbe ignorarlo.
Auspichiamo che, sui media, si apra, finalmente, un dibattito aperto sulla Palestina.


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