26 novembre 2009

11/9: Fuga di notizie da New York

di Pino Cabras - da Megachip

L’11/9, evento sempre incontenibile, è un’enormità che deflagra come una cosa nuova, anche adesso, con un’overdose di piccole informazioni disperse. Centinaia di migliaia di messaggi, rilasciati da wikileak.org (sito specializzato in fughe di notizie), sono proprio tanti. Superano in clamore la volta in cui il sito divulgò il manuale operativo segreto di Guantanamo.

I messaggi - sms, mail, ma soprattutto pager (cercapersone) - sono stati registrati proprio l’11 settembre 2001 mentre era in corso il dramma. Il sito li fa trapelare di botto. Ognuna delle nostre vite è investita dalle frasi di centinaia di migliaia di altre vite. Troppa informazione per un essere umano, anche per quello che divora notizie. È impossibile oggi fare commenti fermi, così come quel giorno. La scena è ancora confusa. Ma qualche considerazione provvisoria è pure possibile.

Emerge innanzitutto il rivelarsi orwelliano delle tecnologie della comunicazione. Stupisce il livello di penetrazione della capacità di registrare, conservare la vita elettronica di cittadini e istituzioni da parte di potenti apparati. Qualunque sia la manina che ha riportato emozioni personalissime e ordini impersonali trasmessi l’11/9, essa rivela un potere enorme. Non importa ora stabilire quanto ordinato, consapevole, razionale, oppure caotico e incongruente sia quel potere. È un fatto che sia pervasivo, incapace di garantire privacy, e infine manipolabile da apparati che ne sfruttino il potenziale. Il sistema di controllo è diventato più integrato negli anni dell’amministrazione Bush-Cheney, e di certo Obama non lo sta smantellando.

Va registrata poi la coincidenza di queste rivelazioni con l’avvio di una nuova fase della guerra in Afghanistan. La versione ufficiale dell’11/9 – la quale vuole che il soggetto al-Qai’ida abbia attaccato l’America facendo base in Afghanistan - è il sostrato narrativo che ha portato a giustificare l’invasione di quel paese. Se cade quella versione, cade il pretesto della guerra. Il partito democratico giapponese, da poco al governo, lo ha capito benissimo. Vuole sganciarsi dai costi politici ed economici del buco nero centroasiatico, perciò guarda all’origine di tutto, e quell’origine non lo convince.

È presto per dirlo, ma non è da escludere che qualche problema se lo stiano ponendo anche in seno all’establishment militare e spionistico statunitense, di fronte al budget militare di Obama, che supera persino i primati stabiliti da Bush, e lo fa nel pieno della più pericolosa crisi economica dai tempi della Grande Depressione. Alcune di queste rivelazioni potrebbero smantellare le versioni ufficiali dell’11/9, e quindi indebolire la spinta a intensificare la guerra che sopraggiunge dal vincitore del premio Nobel per la pace 2009.

È anche vero però che l’11/9 è una tragedia di prima grandezza, un dramma capitale. Le migliaia di frasi angosciate, gli addii, gli sconvolgimenti delle famiglie spezzate si prestano ad altri impieghi mediatici. Può esserci la prevalenza dell’emozione sulla riflessione ragionata, l’ingrandimento del dettaglio a scapito della visione d’insieme, l’uso dei mille sottotesti della tragedia per riconfermare il “bias”, l’inclinazione pregiudiziale di un mondo che cerca prima di tutto protezione e sicurezza, un’autorità che prenda paternamente la mano, e giustifichi meglio altri 40mila soldati da spedire nei monti afghani, di cui 34mila americani e una parte italiani.

Vittorio Zucconi su «Repubblica» ha scelto il terreno irriflessivo delle lacrime. Forse non ne conosce altro, non su questo argomento. Non è un caso isolato.

Eppure c’è dell’altro, a ben guardare, non solo struggenti commiati. Ci sono i messaggi che facevano ronzare di continuo i cercapersone in mano agli agenti del Secret Service, l’agenzia che si occupa della difesa delle alte cariche istituzionali degli Stati Uniti. I loro pager di servizio erano inondati di allarmi continui, spesso fuorvianti, con notizie di autobomba che esplodevano e altre minacce spesso false. Non si dimentichi che quel giorno erano in corso molte esercitazioni militari nonché simulazioni e allerta antiterrorismo che già complicavano i “luoghi del delitto”, tanto da inquinare le capacità di ricostruzione da parte delle future inchieste.

C’è inoltre la conferma che si era mobilitato l’apparato per la “continuità di governo”, con funzionari chiave caricati in direzione del superbunker di Mount Weather, il luogo che – assieme agli aerei E-4B detti ‘Doomsday’ (Giorno del Giudizio) – attiva gli strumenti per la «interoperabilità» delle comunicazioni e delle catene di comando governative in caso di eventi catastrofici della portata di una guerra atomica.

Viene anche confermato un fatto inquietante che a suo tempo il portavoce della Casa Bianca, Ari Fleischer, aveva provato a smentire. Parliamo della minaccia rivolta al presidente degli Stati Uniti con un codice che solo una persona interna agli apparati poteva conoscere. Alle 10:32 un messaggio del Secret service infatti annunciava: «ANONYMOUS CALL TO JOC REPORTING ANGEL IS TARGET.» Ossia: «Chiamata anonima al JOC riferisce che Angelo è l’obiettivo».

Angel era la parola in codice che quel giorno il Secret Service usava per definire l’Air Force One, l’aereo del presidente USA. JOC significa Joint Operations Center. Le linee telefoniche che ricevettero la chiamata non si trovavano certo sull’elenco, erano riservatissime. Chi aveva chiamato?

L’aereo di Bush aveva lasciato mezzora prima la Florida, rotta per Washington. Quel messaggio aveva sconvolto i piani. Gli eventi si prestavano a essere visti non come un attentato di terroristi stranieri, ma come un chiaro «pronunciamiento» di un colpo di Stato interno, collegato ad ambienti militari perfettamente addentro al segreto più importante, quello che può provocare una guerra nucleare. I giornalisti a bordo hanno raccontato che durante la prima fase del volo sembrava di trovarsi su un missile in partenza per lo spazio, tanta era l’accelerazione che portò l’Air Force One fino a 13mila metri di altitudine. Nessuno sapeva allora dove l’aereo fosse destinato – nemmeno il pilota stesso. Da lì la necessità di volare – seppure tortuosamente – verso la base militare di Offutt, Nebraska. In quella base – non una base qualsiasi , ma la principale sede del comando strategico degli USA - già dalla sera prima c’era un “parterre de rois” composto dai vertici delle principali società che avevano sede al WTC, convocati irritualmente da Warren Buffet. Notizie importantissime che poi si sono dissolte nei media per molti anni.

Nel gioco dell’«unisci i puntini» ora si sono improvvisamente aggiunti migliaia di nuovi segni. Non bisogna distrarsi, e magari occorre sollevare lo sguardo.


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