di Pino Cabras - Megachip
A venticinque anni dalla morte di Enrico Berlinguer, diverse commemorazioni provano a distillare un ricordo della figura di questo importante politico italiano. Il paesaggio modellato dalla sabbia del tempo è irriconoscibile rispetto ad allora, perciò è il momento di iniziare a collocarlo storicamente. Quando Berlinguer esercitò la carica di segretario del Pci, si misurò acutamente con i problemi specifici della crisi italiana. Dopo il 1968 fu sempre più chiara la crisi della formula di governo del centro-sinistra imperniato sulla Dc e il Psi. Il quadro costituzionale italiano non era una democrazia dell’alternanza; dalle crisi strutturali di una formula politica, così come era accaduto per il centrismo alla fine degli anni cinquanta, si tendeva a uscire con un allargamento “consociativo” dell’area di governo intorno alla Dc. I leader più avvertiti della Dc e del Pci, Aldo Moro ed Enrico Berlinguer, organici a quel quadro costituzionale, riflettevano sulla prospettiva di intese nuove tra i loro partiti e tra le forze sociali e culturali che rappresentavano. Questo non avveniva senza conflitti. La fine di quell’esperienza storica ha mutato profondamente la sfera pubblica italiana, fino a trovare una suo forma materiale opposta, negli anni di Berlusconi. Ma i loro mondi di riferimento, quelli di Moro e Berlinguer, erano pronti al salto di qualità che volevano imprimere alla democrazia italiana? Possiamo dire che non era pronto il quadro internazionale, quando c’erano i blocchi politico-militari imperniati su Usa e Urss, che mal tolleravano esperimenti come quello di un paese allora di frontiera, l’Italia. E forse non lo era la società, nel frattempo attraversata da un sottofondo di grandi mutamenti che si sarebbero presentati prima o poi in tutta la loro forza, pronti a un impatto politico e culturale di vaste proporzioni. La secolarizzazione dei valori e dei costumi degli italiani, avvenuta con lo sviluppo capitalistico del dopoguerra, aveva reso minoritaria la porzione degli italiani che adeguavano il loro comportamento alla dottrina della chiesa. Ma anche i valori della sinistra erano stati erosi dal tipo di sviluppo che c’era stato in Italia. Lo Statuto dei lavoratori, approvato nel tempo in cui esisteva ancora una diffusa etica del lavoro, trovava applicazione in una società in cui certe riserve etiche si erano via via logorate: le nuove garanzie offerte ai lavoratori si saldavano anche con nuovi comportamenti che diventavano spesso un fattore aggiuntivo di crisi della produttività. Affluent society, si è detto. Sia il patrimonio culturale cattolico che il patrimonio culturale comunista erano sottoposti a forti sollecitazioni che nascevano dalle trasformazioni di una società ormai vicina agli altri paesi industriali dell’Occidente. Una società molto diversa dai tempi del compromesso costituzionale e dal quadro etico tradizionale di quelle due culture. La battaglia del referendum sul divorzio (12 maggio 1974) rimescolò ulteriormente le carte. Una parte dei cattolici sostenne pubblicamente le ragioni del No all’abrogazione della legge sul divorzio. Il Pci arrivò subito dopo ai suoi massimi storici. Il motivo iniziale del profilarsi di nuove intese, secondo la formula della “terza fase” di Moro e la formula del “compromesso storico” di Berlinguer, era essenzialmente un motivo difensivo. Ci si difendeva dalle difficoltà di una democrazia ormai più complessa e difficile da governare. Cosa c’era dietro la strategia berlingueriana del compromesso storico? C’era un’analisi della nostra società, basata su una visione fortemente pessimistica della strutturale debolezza delle nostre istituzioni democratiche e della incessante tentazione autoritaria in una parte significativa delle classi dirigenti. Questa analisi era associata alla convinzione che solo la difesa del sistema dei partiti, così come configuratosi ai tempi della Resistenza, potesse lasciare spazio alla possibilità di rinnovare e trasformare l’Italia. Tuttavia in Berlinguer, si produceva uno sforzo creativo: l’incontro del Partito comunista con il mondo cattolico era visto quale condizione necessaria per dare una risposta al degrado morale del paese, opponendosi alla logica «[dell’esaltazione di particolarismi e] dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato». Il compromesso storico acquisiva nel giudizio del leader comunista sull’«austerità» un crescente significato morale e diventava il modo di superare molti elementi del sistema capitalistico, per la realizzazione di un processo rivoluzionario, in forme democratiche e nonviolente. L’idea dell’austerità, come vedremo, è un esempio molto interessante dell’approccio di Berlinguer alla crisi italiana. Tutte le società opulente si ritrovarono a fronteggiare, dopo lo shock petrolifero del 1973, la fine dell’età dell’oro del capitalismo del Novecento. L’Italia, così come altri paesi dell’Occidente, era reduce da decenni di notevoli consumi, di demagogia fiscale, di speculazioni monetarie e finanziarie, di spirali di indebitamento. Era una crisi meno grave di quella che viviamo oggi, ma certamente fu il primo e perciò più scioccante arretramento dopo decenni. La crisi energetica acuì la fragilità del sistema economico e minò le basi di consenso democratico degli Stati. Le risorse non apparivano più illimitate. Produrre di più minacciava l’equilibrio ecologico. Se l’ampliamento dei diritti sociali era ancorato solo alla prospettiva della crescita economica, la fine della crescita minacciava i diritti. In prospettiva minacciava la pace e la sopravvivenza dell’umanità. Una percezione nuova di tali temi andava maturando in luoghi ‘borghesi’, come il Club di Roma e il suo The Limits of Growth (che in italiano è stato impropriamente tradotto con I limiti dello sviluppo), o come il Massachussets Institut of Technology. Le tematiche dell’ambientalismo iniziarono allora a sollecitare un’autocritica del paradigma tecnologico delle moderne società industrializzate. È da quegli anni che il problema dei problemi per l’azione quotidiana di chi governa diventa quello dei sacrifici e dei tagli. È la crisi del Welfare state. Da allora nessun politico che voglia agire da statista può eludere questo problema. Il dramma è che molti politici sono giunti alla conclusione che qualsiasi proposta di aumenti delle imposte equivalga a un suicidio elettorale. Come conseguenza, le competizioni elettorali sono diventate gare di menzogna fiscale. I governi eludono sia l’elettorato sia le assemblee rappresentative. Siccome i politici temono di dover dire agli elettori le cose che questi non desiderano sentire, la politica è diventata l’arte dello schivare. Le vere sedi delle decisioni politiche sono senza controllo elettorale. Il declino dei partiti di massa, che abbiamo potuto registrare anche nelle elezioni europee del 2009, sta sopprimendo il più importante motore sociale, quello che trasformava anche uomini e donne comuni in cittadini capaci di azioni politiche incisive. Certo, è stato proposto un diverso paradigma politico e sociale, quello neoliberista, che ha avuto campo libero per decenni. Il proposito è stato la corrosione della ragion di stato ad opera della ragion d’impresa che rifiuta vincoli perché non riconosce le disuguaglianze. Questo è avvenuto con altissimi costi sociali e con l’aggravamento del debito pubblico e del caos finanziario. L’effetto più evidente di tutto ciò è stata una progressiva delegittimazione delle politiche di solidarietà e della politica tout court. Tra le tante letture del fenomeno “Tangentopoli” e della “Casta” che oggi possiamo fare, una può essere questa: se la politica elude il problema di coniugare efficienza e solidarietà, allora si corrompe e mette in scacco la democrazia. Può ingannare i cittadini corrompendo il bilancio, ma il nodo prima o poi viene al pettine. Oppure inizia a denunciare lo Stato sociale e ad abbandonare i deboli, ma non riesce a controllare il disagio e la decadenza, a meno che non la controlli per via repressiva, uscendo da un quadro democratico. Oppure, ancora, c’è la soluzione del “governo dei tecnici” che toglie le castagne dal fuoco, a Roma come a Bruxelles. Ma per quanto? Questa era la preoccupazione fondamentale di Enrico Berlinguer. Sapeva benissimo che la fine dell’età dell’oro dell’economia mondiale avrebbe obbligato a un ripensamento globale delle basi della democrazia. Se le conquiste del movimento operaio del dopoguerra - che egli rivendicava puntigliosamente - non dovevano regredire, il nodo del budget doveva essere affrontato con un respiro strategico. L’AUSTERITÀ. Berlinguer coglieva la verità interna che sta dentro la ritrosia e la paura dei politici a pronunciare la parola sacrifici, la più impopolare delle parole. Antonio Tatò, che fu il più stretto collaboratore di Berlinguer, raccontò di quanta cura fosse stata posta nello scegliere il termine austerità: «“Sacrifici”, dico io. “No”, mi risponde Berlinguer. “Sacrifici non mi piace, non mi convince. È frusto, è riduttivo e può creare malintesi, suscitare diffidenze fra i lavoratori, che già ne fanno tanti di sacrifici e continuamente... Direi austerità...”». Questa parola aveva un forte contenuto morale e progettuale. Dicendo semplicemente sacrifici non ci si chiede per cosa questi sacrifici debbono essere fatti. Assecondare il mutamento della divisione internazionale del lavoro, le fluttuazioni dei prezzi, il riorganizzarsi degli interessi e delle spinte corporative lasciando immutati i rapporti sociali: tutto questo può essere contemplato da una politica di rigore che non si fa domande. Il minimo che può capitare è il “governo dei tecnici”. La Grande Crisi si diverte a spazzare tanta tecnocrazia presuntuosa. Per Berlinguer invece l’austerità era un’occasione per cambiare l’Italia, era una politica di solidarietà volta alla trasformazione sociale. Una crisi economica che minacciava il lavoro, il benessere, lo studio, poteva trasformarsi invece nella possibilità di ricostruire un senso per l’attività produttiva, per il godimento dei beni, per il sapere. Oggi anche Obama sostiene la necessità di andare verso un nuovo modello di sviluppo. Ma negli anni settanta erano pochi i leader che ne parlavano. Berlinguer era il leader politico che affidava il massimo valore strategico a questa consapevolezza. La solidarietà non era pensata come ristretta all’ambito nazionale. Berlinguer guardava con favore al moto di liberazione dei paesi del Sud del pianeta, che doveva comportare per l’Occidente e per il nostro paese «due conseguenze fondamentali: aprirsi ad una piena comprensione delle ragioni di sviluppo e di giustizia di questi paesi e instaurare con essi una politica di cooperazione su basi di uguaglianza; abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario.» Appaiono parole di grande attualità. L’austerità non era intesa come «una politica di tendenziale livellamento verso l’indigenza», né come la razionalizzazione tecnocratica e burocratica di un sistema economico e sociale entrato in crisi. Era interpretata come un processo democratico che doveva coinvolgere individui, imprese, movimenti e istituzioni per distogliere l’economia dai consumi dissipativi e orientarla verso il «godimento di beni autentici, quali sono la cultura, l’istruzione, la salute, un libero e sano rapporto con la natura». L’intuizione dell’austerità si collegava ad altre intuizioni. Innanzitutto l’idea degli «elementi di socialismo», un’idea di trasformazione socialista distinta dal modello sovietico, verso il quale Berlinguer conservava comunque la speranza di una sua riformabilità. Lungi da utilizzare versioni dogmatiche e ossificate del pensiero di Marx e di Gramsci, Berlinguer adoperava in modo disinvolto l’essenza profondamente antidogmatica del loro metodo. Quando proponeva al suo partito di lavorare concretamente «per introdurre nella complessiva vita civile, e negli orientamenti ideali» ciò che chiamava «elementi di socialismo», implicitamente concepiva una società molto dialettica, dove la trasformazione non poteva avvenire all’ora X con la presa del Palazzo d’Inverno ma doveva immergersi nell’evoluzione delle «formazioni sociali», per dirla con Marx, e agire sulle «casematte» della società civile, per dirla con Gramsci. Era un’idea di socialismo aperta a nuovi sviluppi in direzione di sensibilità diverse da quelle tradizionali dei socialismi tanto dell’Est quanto dell’Ovest, entrambi ancora inseriti all’interno di un paradigma produttivista e industrialista, oltre che incentrati su una preponderante funzione redistributiva dello Stato. L’apertura si collegava a un’attenzione nuova nei confronti dell’emergente movimento ambientalista e assumeva le battaglie del movimento di liberazione delle donne, implicitamente portatore di una concezione dell’individuo che coinvolgeva dimensioni della cittadinanza più ampie rispetto a quelle economiche. Non è qui il caso di dilungarsi a spiegare in che modo la strategia del compromesso storico si esaurì, e come si spense la forza politica dell’idea dell’austerità. Basti dire che l’incalzare del terrorismo - culminato nel 1978 con il rapimento e l’uccisione del presidente della Dc Aldo Moro - combinandosi con le forti resistenze conservatrici di un largo settore della Dc collegato al “doppio stato” illegale (servizi segreti, mafia, sistema della corruzione) in cui risiedeva da sempre una parte della sovranità reale, spinse il Pci di Berlinguer a spendere le sue energie in un lealismo istituzionale politicamente costosissimo. Le battaglie perdevano il loro respiro riformatore e si piegavano a esigenze difensive difficili, mentre una parte dei giovani contestava o abbandonava il Pci. L’esperienza dei governi di solidarietà nazionale (monocolore Dc, Andreotti presidente del Consiglio, maggioranza comprendente il Pci) si concluse nel 1979. Le elezioni anticipate costarono al Pci una flessione. L’UOMO CHE NON ASPETTÒ DI PIETRO. Berlinguer aveva aperto il suo partito a nuovi scenari e nuove intuizioni che poi furono spese nella strategia dell’alternativa democratica. Fu lucidissima la sua critica della degenerazione del sistema dei partiti. La sua analisi, riletta a tanti anni di distanza, risulta impressionante per l’esattezza con cui descriveva e denunciava le cause della illegalità e della corruzione. Berlinguer non si era affidato a una “supplenza” delle tempeste giudiziarie, così come invece si è poi affidata – senza ottenere molto - la nostra democrazia. Non riduceva la questione morale a una questione di ‘pulizia’ di corpi - i partiti - altrimenti ritenuti sani. Poneva invece un problema che riguardava l’essenza stessa dei partiti. In una famosa intervista a Eugenio Scalfari nel 1981 Berlinguer si espresse con estrema nitidezza: «I partiti di oggi sono soprattutto macchina di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società, della gente: idee, ideali, programmi pochi o vaghi: sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contradditori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti [...] sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. La carta geopolitica dei partiti è fatta di nomi e di luoghi. Per la Dc Bisaglia in Veneto, Gava in Campania, Lattanzio in Puglia, Andreotti nel Lazio, De Mita ad Avellino, Gaspari in Abruzzo, Forlani nelle Marche e così via. Ma per i socialisti, più o meno, è lo stesso e per i socialdemocratici peggio ancora...» Questa mappa dei boss è il ritratto di Tangentopoli disegnato dieci anni prima. Oggi sappiamo che il sistema berlusconiano ha consolidato quel sistema e lo ha portato al centro della costituzione materiale del paese, intanto che si sono ricostruite e rafforzate le reti delle omertà e delle collusioni. In realtà l’unico modo per non travisare il messaggio di Enrico Berlinguer è quello di non ridurne la portata: quella di Berlinguer era la scelta di porre il tema non semplificabile della riforma dei partiti dentro tutte le novità emergenti tra la fine degli anni settanta e l’inizio degli anni ottanta. La sensibilità nei confronti dei temi verdi e del movimento per la pace in Berlinguer implicava anche la sperimentazione di forme organizzative originali e la partecipazione diretta degli innovatori alla vita del partito. Berlinguer non visse abbastanza da poter riorganizzare compiutamente il suo partito secondo questa ispirazione. In ogni caso continuò a discuterla in diverse occasioni. Rimase celebre la sua intervista a Ferdinando Adornato per «l’Unità» del 18 dicembre 1983, giusto alle soglie del 1984. L’intervista affrontò il problema di come far convivere le innovazioni scandite dalla tecnologia e la promozione della democrazia. Lo spunto era dato dal romanzo 1984 di Orwell, che del nesso fra tecnologia e democrazia aveva prefigurato lo scenario più pessimista. Adornato poi diventò deputato del partito più orwelliano mai visto, ma questa è un’altra storia. Berlinguer proponeva invece uno scenario molto aperto: gli esiti delle innovazioni dipendono da come si affrontano politicamente: avvertiva con forza il bisogno di reinvestire la politica di “pensieri lunghi”, di progetti. “Pensieri lunghi” per «la direzione consapevole e democratica, quindi non autoritaria, non repressiva, dei processi economici e sociali con il fine di uno sviluppo equilibrato, della giustizia sociale e di una crescita del livello culturale di tutta l’umanità». Non era rassegnato all’assoggettamento degli individui, tramite i media, a un complesso militare industriale sempre più sofisticato. Raccoglieva la sfida della società della comunicazione e riteneva pacifico che i partiti dovessero essere anche “partiti di opinione”. Anche, ma non solo: «Ci vogliono limiti precisi - affermò Berlinguer - all’uso dei computer come alternative alle assemblee elettive. Tra l’altro non credo che si potrà mai capire cosa pensa davvero la gente se l’unica forma di espressione democratica diventa quella di spingere un bottone.» Chi oggi combatte l’impoverimento della democrazia e della comunicazione può trovare un sostegno profetico nella frase che Berlinguer aggiunse a quel punto: «io credo che nessuno mai riuscirà a reprimere la naturale tendenza dell’uomo a discutere, a riunirsi, ad associarsi. Ogni epoca, certo, ha e avrà i suoi movimenti e le sue associazioni.» Di qui la sua apertura ai movimenti pacifisti ed ecologici e a «quelli che, in un modo o nell’altro, contrastano la omologazione dei gusti e il conformismo». Era un terreno in cui negli anni successivi si sarebbero incontrate istanze culturali, politiche e religiose diverse. Quell’incontro può fruttificare oggi in un innesto fecondo di diverse tradizioni. I pensieri di Berlinguer sono, appunto, lunghi. |
12 giugno 2009
Berlinguer, pensieri lunghi
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