Due giorni fa il Sole24Ore ha riportato la notizia che Popolare Vicenza e Veneto Banca hanno inviato una lettera al Ministero dell’Economia e delle Finanze ed alla BCE per richiedere l’applicazione della ricapitalizzazione preventiva, già applicata lo scorso Dicembre al Monte dei Paschi (“Popolare Vicenza e Veneto Banca chiedono l’aiuto di Stato”).
Si tratta della forma più morbida di gestione di una crisi bancaria, applicabile solo a certe condizioni, senza le quali occorre procedere con il Bail-in. La ricapitalizzazione preventiva è stata introdotta dalla stessa direttiva europea che regolamenta il Bail-in ed è finalizzata alla ricostituzione del capitale della banca. In particolare, si basa sull’intervento dello Stato prima che la situazione diventi critica tant’è che per potervi accedere la banca deve essere solvibile, criterio tutt’altro che oggettivo. Lo Stato italiano, in questo caso, può intervenire direttamente o tramite la Cassa Depositi e Prestiti. Con la ricapitalizzazione preventiva l’onere del salvataggio ricade dunque sugli azionisti, che vengono diluiti, sugli obbligazionisti subordinati e certamente sulla collettività ma non sui correntisti.
Nel caso di Popolare Vicenza e Veneto Banca si parla di una necessità di ricapitalizzazione fino a €5 miliardi. Ciò dipenderà anche dall’esito del progetto di fusione che le due banche stanno studiando, che però è ostacolato sia dalla BCE che dall’agenzia di rating Fitch, a processo a Trani per manipolazione di mercato, che lo scorso Venerdì ha tagliato il rating della Popolare di Vicenza.
Laddove la banca non sia ritenuta solvibile, si dovrebbe optare per la forma di salvataggio più drastica, quella del Bail-in, che espande il perimetro di inclusione dei soggetti che contribuiscono alle perdite, arrivando a toccare i correntisti con depositi maggiori di €100.000, oltre naturalmente agli azionisti e a tutti gli obbligazionisti della banca.
Ma cosa succede se lo Stato non avesse i mezzi necessari per intervenire, né per una ricapitalizzazione preventiva né per un Bail-in? Si aprirebbe la terza via, quella del Meccanismo Europeo di Stabilità (MES).
Avevo ammonito circa questo rischio durante l’intervista a Pandora TV del Gennaio 2017 (“L’intrigo Politico del MES – Parte 2”) nella quale facevo notare che sinora il MES ha eseguito 5 interventi su Stati dell’Eurozona ma mai interventi diretti su banche, che sono tuttavia ampiamente previsti dal regolamento istitutivo il MES.
Rimandando al mio articolo introduttivo sul MES (“Pronto il MES per commissariarci: alzare gli scudi – Parte 1“) mi limito qui a ricordare che il MES non è un “meccanismo” ma un vero e proprio fondo che ha la veste di organizzazione intergovernativa (sul modello FMI) embrione del primo governo direttamente espressione di organismi internazionali. Raccoglie contributi da parte degli Stati (l’Italia si impegna con €125 miliardi) ma interviene prestando denari ai Paesi sottoscrittori a fronte dell’accettazione di programmi di governo prestabiliti. In poche parole, a fronte del commissariamento del Paese richiedente.
Se leggiamo i criteri di ammissibilità al programma MES che riguardano specificamente le banche, apprendiamo che uno Stato può accedere al MES a 3 condizioni: i) non essere in grado di gestire la situazione con risorse dei privati; ii) non essere in grado di intervenire con finanze pubbliche senza compromettere la stabilità finanziaria; iii) la banca deve essere di rilevanza sistemica o porre rischi alla stabilità finanziaria dell’area Euro.
Ove ricorrano queste condizioni, lo Stato italiano dovrà impegnarsi ad applicare un programma di riforme stabilito dal MES che riguardano misure di taglio alla spesa pubblica, privatizzazione e incremento di imposte e tasse, oltre a riforme a favore della ricapitalizzazione del settore bancario (tradotto letteralmente dal sito del MES).
Qual è la probabilità che si finisca nella rete del MES? Direi piuttosto alta, considerando che con Popolare Vicenza e Veneto Banca sono già tre le banche che entrano nella ricapitalizzazione preventiva, ma ce ne sono almeno un ventina in condizioni di simile sotto-capitalizzazione.
A ciò aggiungerei i circa €330 miliardi di crediti incagliati nei bilanci delle banche italiane, iscritti mediamente al 41% del valore nominale, che con elevata probabilità saranno ceduti a prezzi inferiori ai valori di bilancio, generando ulteriori ammanchi di capitale che richiederanno ulteriori interventi di ricapitalizzazione (vedi mio articolo “Si orchestra la svendita di 330 miliardi di crediti bancari: bad bank/good profit”).
D’ora in avanti, se non mettiamo mano seriamente e rapidamente ad un piano urgente di rilancio dell’economia, dovremo abituarci a convivere con il MES benché, a pensarci bene, qualcuno dirà che non sarà poi così traumatico dato che con governi non eletti che stanno distruggendo l’economia nazionale abbiamo a che fare ormai da anni.
Non abbiamo però molto tempo. Dobbiamo aprire subito una fase di transizione basata su un piano giuridico ed economico attuabile in breve tempo (vedi mio articolo “Le basi economiche di un New Deal italiano”) e soprattutto occorre: 1) convertire la Cassa Depositi e Prestiti in una vera banca pubblica, visto che è essenziale per il salvataggio delle banche commerciali; ed 2) istituire una bad bank pubblica per le sofferenze bancarie gestita dal Tesoro, visto che è comunque lo Stato a dover intervenire sul capitale delle banche. Solo così potremo schivare il MES e ridare fiato ad un’azione più ampia di ricostruzione di sovranità politica ed economica.
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