6 agosto 2013

Il nuovo patto transatlantico (TTIP) e il potere dell'economia

di Gaetano Colonna.


Nonostante siano sotto gli occhi di tutti i risultati del liberismo assoluto che ha dominato l'economia globale nel corso degli ultimi decenni, Stati Uniti ed Unione Europea stanno mettendo a punto il nuovo strumento giuridico che consentirà alle grandi compagnie multinazionali di influire sulle scelte sociali e politiche dei singoli Stati europei, allo scopo di affrontare da posizioni rafforzate la competizione globale per l'egemonia sull'economia-mondo del XXI secolo.
Lo scorso luglio infatti, a Washington, si sono ufficialmente aperte le trattative sulla Transatlantic Trade and Investiment Partnership (TTIP), un'ipotesi di accordo economico globale tra Usa e UE che potrebbe stabilire i principi della riorganizzazione economica dell'Occidente nel pieno di una crisi che sempre più dimostra di essere strutturale e non congiunturale. Unione Europea e Stati Uniti, infatti, rappresentano insieme quasi metà del Prodotto Interno Lordo del pianeta ed un terzo del commercio mondiale: ogni giorno tra le due sponde dell'Atlantico vengono scambiati beni e servizi per 2 miliardi di euro, mentre gli investimenti reciproci toccano quasi i 3.000 miliardi di euro. Si tratta quindi non solo dell'area che ha dato storicamente vita al capitalismo occidentale, ma soprattutto della principale concentrazione economico-finanziaria del capitalismo internazionale odierno.
Il progetto TTIP si è sviluppato nel corso della grande crisi epocale che attraversiamo, a partire dal 2007, ma ha conosciuto un'accelerazione negli ultimi mesi, pur restando sotto traccia nell'attenzione mediatica anche a motivo di una particolare riservatezza sui protagonisti effettivi della sua elaborazione, al punto che l'Unione Europea si è rifiutata fino ad ora di fornire i nomi dei componenti della commissione tecnica mista, costituita nel novembre 2011 per predisporre l'agenda dei lavori e le analisi preliminari (High-Level Working Group on Jobs and Growth), a parte quelli dei due responsabili, lo statunitense Ron Kirk ed il commissario per il commercio della Ue, il belga Karel De Gucht: a nulla sono servite, ad esempio, le richieste di conoscere i nomi degli altri autorevoli membri del gruppo di lavoro da parte di Pascoe Sabido, dell'organizzazione Ask the EU, nonostante la sua organizzazione si sia appellata alle norme comunitarie sul diritto all'informazione.


A chi interessa il TTIP?

Non è tuttavia difficile individuare i promotori di questa iniziativa, al di là dei singoli nomi dei protagonisti: sono le grandi multinazionali che dominano il panorama mondiale dell'economia, riuniti in gruppi di pressione su entrambe le sponde dell'Atlantico che da decenni esercitano una fortissima influenza, mediante tutti gli strumenti del lobbying moderno, sugli organismi regolatori del mercato europeo, siano essi l'Unione Europea o i singoli Stati nazionali. Se per esempio consideriamo il principale dei gruppi statunitensi che operano per indirizzare le trattative del TTIP, la Business Coalition for Transatlantic Trade (BCTT), troviamo che nel consiglio direttivo dell'associazione sono direttamente presenti aziende come Amway, Chrysler, Citi, Dow Chemical, FedEx, Ford, General Electrics, IBM, Intel, Johnson & Johnson, JP Morgan Chase, Lilly, MetLife e UPS, mentre tra le associazioni che aderiscono alla coalizione troviamo Business Roundtable, Coalition of Service Industries, Emergency Committee for American Trade, National Association of Manufacturers, National Foreign Trade Council, Trans-Atlantic Business Council, U.S. Chamber of Commerce, U.S. Council for International Business. Ben si vede che il gotha delle grandi imprese americane internazionalizzate è direttamente impegnato per orientare secondo i propri desiderata i rappresentanti dei governi.
Nonostante questo, solamente le preoccupazioni francesi sugli effetti che il TTIP potrebbe avere sui sussidi alla propria industria audiovisiva hanno fatto notizia per qualche giorno, senza che ovviamente il cittadino europeo potesse mettere bene a fuoco i termini della questione.
Eppure questo accordo potrebbe avere effetti importanti su tutti gli aspetti della vita sociale europea nei prossimi decenni, dato che esso investe tutti i settori economici (prodotti, beni e servizi) per assoggettarli al principio fondamentale dell'abolizione di ogni barriera regolamentativa, tariffaria e non, omogeneizzando le normative e gli standard applicativi, eliminando quanto più possibile strumenti a garanzia del consumatore come possono essere, ad esempio, controlli, etichettature e certificazioni, ritenuti tutti "barriere indirette" al libero scambio. Il tutto in una gamma di business che va dalla chimica-farmaceutica alla sanità, dalle auto all'istruzione, dall'agricoltura ai cosiddetti commons (i beni comuni come l'acqua), agli strumenti bancari e finanziari.
L'esempio più semplice è quello degli organismi geneticamente modificati, la cui introduzione massiva nell'agricoltura europea è stata fino ad oggi rallentata da una serie di regole definite dall'Unione Europea, in conseguenza del massiccio rifiuto dell'opinione pubblica continentale nei confronti di queste tecnologie. Regole e controlli che si sono ispirati al cosiddetto "principio di precauzione", secondo cui in presenza di potenziali rischi per la salute e per l'ambiente, sono necessarie speciali cautele nell'introduzione e commercializzazione di tecnologie e di prodotti.
Le grandi multinazionali dell'agro-industria mondiale stanno combattendo da un decennio contro queste regole che a loro dire costituiscono appunto una barriera commerciale indiretta nei confronti di prodotti che, sempre a loro avviso, sarebbero "sostanzialmente equivalenti" alle sementi non ingegnerizzate. Nel caso in cui il TTIP diventasse operativo, a partire dal 2015, molte di queste regolamentazioni che rendono più difficile la diffusione degli Ogm in agricoltura diverrebbero illegittime e quindi i grandi gruppi della chimica e della genetica agricola (spesso aziende dominanti anche nel settore della salute) non avrebbero più ostacoli nella commercializzazione di massa dei loro prodotti in una delle tre più grandi agricolture mondiali, quella europea appunto.


Le multinazionali condizionano la legge degli Stati

In questo modo, quindi, le grandi imprese economiche compiono un passo decisivo nella storia del loro rapporto con il potere regolatorio degli Stati: acquisiscono cioè la capacità di intervenire direttamente sul piano legale contro leggi e regolamenti che esse ritengono non conformi ai propri interessi di profitto.
Il TTIP infatti renderebbe immediatamente possibile citare in giudizio l'Unione Europea e gli Stati nazionali senza dover affrontare la giurisdizione tradizionale pubblica, come già sta accadendo ad esempio nel NAFTA (North-American Free Trade Agreement), eliminando quindi alla radice una delle tradizionali prerogative degli Stati-nazione moderni, vale a dire quello di esercitare il potere giudiziario sul proprio territorio. Non a caso il fenomeno delle investor-state arbitration, che scavalca le giurisdizioni nazionali, si è già sviluppato a livello globale tanto che, alla fine del 2012, erano aperti 514 contenziosi di questo tipo, con una crescita del 250% rispetto all'anno 2000: 58 di essi sono stati aperti solo nell'ultimo anno, dimostrando che il ricorso a questo strumento giuridico non-statale è di crescente importanza per le grandi multinazionali; ben 329 (vale a dire il 64%), interessano gli Usa o la Ue, mettendo in luce una delle più sottili ma fondamentali motivazioni del TTIP, quella appunto di fornire alle imprese multinazionali uno strumento per eliminare quanto più possibile l'intervento normativo dei poteri pubblici rispetto agli interessi di profitto economici.
Non basta: per quanto infatti si possa e si debba oggi essere critici nei confronti dell'Unione Europea, è un fatto che "il Trattato [di Lisbona del 2009] ha creato l'opportunità per la UE di fare tesoro dell'esperienza degli accordi esistenti in tema di investimenti, colmandone le lacune e sviluppando una nuova generazione di trattati, senza necessità di risolvere contenziosi diretti fra investitori e Stati, introducendo obblighi per gli investitori e definizioni più precise e restrittive in merito ai loro diritti" (1). Questa capacità normativa di livello comunitario rappresentava a livello mondiale un'inversione di tendenza rispetto alla crescente capacità del capitalismo internazionale di interferire nel potere legislativo e giudiziario, proprio grazie a strumenti come gli investor-state arbitration.
Non si tratta di una questione da poco, dato che una delle principali linee di tendenza patologiche dei nostri tempi è proprio il fatto che l'economia debordi in maniera ormai incontrollabile nella sfera politico-giuridica, mettendo a rischio diritti essenziali, in primo luogo quelli che tutelano il lavoro, ma anche in tema di protezione dell'ambiente, della salute, dei beni comuni essenziali come suolo, acqua, aria, dei fattori strategici nello sviluppo dei popoli, come la cultura e l'istruzione - insomma tutte quelle aree che dovrebbero essere sottratte alla pura logica del profitto, dato che investono l'essere umano in quanto entità non puramente materiale.


Geopolitica e geo-economia del TTIP

Non vi è dubbio che storicamente lo sviluppo dell'Unione Europea e dell'egemonia del capitalismo Usa siano strettamente connessi. Nessuno può negare infatti che il processo di unificazione europea è stato originariamente dipendente dai legami economici che gli Usa avevano stabilito nel corso della Seconda Guerra mondiale, prima, e consolidato poi con il Piano Marshall, che ha rappresentato un fondamentale strumento di integrazione delle economie del Nord Atlantico. Il TTIP è in perfetta continuità con questa storia: ben comprensibile dunque che lo si voglia introdurre oggi che quell'asse portante della storia economica del secondo dopoguerra è minacciato dalla crescente potenza economica dei Paesi fino ad oggi rimasti ai margini della struttura trilaterale post-bellica, imperniata sugli Usa, Europa occidentale e Giappone. Brasile, Cina, India e Russia sono i nuovi competitori che possono mettere in difficoltà l'asse nord-atlantico, anche perché i loro sistemi politici hanno natura e storia molto diverse da quelli dell'Unione Europea, le cui fondamenta dovrebbero ancora posare sul trinomio libertà, eguaglianza e fraternità.
Il TTIP è quindi prima di tutto concepito nel quadro di una politica di potenza economica che ben poco ha a che vedere con la liberalizzazione dei flussi commerciali e degli investimento a livello mondiale, e ancor meno con quella crescita del lavoro e dell'occupazione che pure viene indicata dai fautori del TTIP come benefico effetto della sua introduzione. Ben poco infatti contano oggi i presunti 120 miliardi di euro di crescita che dovrebbero derivare dall'accordo, dato che, distribuiti nel'arco di un decennio, incidono per nemmeno mezzo punto percentuale del PIL europeo. La crescita in termini di occupazione e di sviluppo non è quindi l'obiettivo reale di cui tanto parlano i documenti del misterioso High Level Working Group on Jobs and Growth, soprattutto in presenza di una crisi che ha devastato l'economia europea in termini che è ancora difficile quantificare, ma rispetto ai quali il citato beneficio è sicuramente ben poca cosa.
Quello che più conta, ai fini della lotta di potere economico globale, è la definizione di una sorta di "carta dei diritti" giuridici fondamentali delle grandi multinazionali, rispetto a quelli dei cittadini e dei lavoratori. Tale "carta dei diritti" si rende sempre più necessaria per le ragioni che l'economista americano Michael Hudson ha recentemente illustrato in modo estremamente chiaro: siamo entrati nella "Fase 2", quella della "eredità" dell'economia speculativa che da trent'anni ha mosso l'economia mondiale, finanziarizzandola. Mentre prima le grandi forze economiche hanno utilizzato speculativamente la loro forza finanziaria, oggi gli stessi protagonisti della speculazione mondiale sono pronti "a comprare proprietà in contanti, a partire dalle proprietà pignorate che le banche vendono a prezzi stracciati" - mentre i cittadini indebitati impiegano i loro salari per pagare i debiti di mutui, carte di credito e acquisiti a rate, restando loro sì e no un quarto della loro disponibilità economica per acquistare beni e servizi.
"Si va creando una nuova classe neo-feudale che vive di rendita, impaziente di acquistare strade per imporvi pedaggi, di acquisire diritti di gestione dei parcometri (come accaduto a Chicago), di comprare prigioni, scuole ed altre infrastrutture essenziali. L'aspirazione è di introdurre costi finanziari e quindi rendite da pedaggio nei prezzi che vengono richiesti per accedere a servizi pubblici essenziali. I prezzi quindi non salgono perché i costi e i salari aumentano ma a motivo di queste rendite monopolistiche e di altre rendite di posizione. (...) Questo ambiente post-speculazione, in un'austerità incatenata al debito, sta permettendo al settore finanziario di diventare un'oligarchia molto simile ai latifondisti del XIX secolo. Si guadagna non più col prestare moneta, dato che l'economia è oberata dai debiti, ma possedendo direttamente beni da cui ricavare una rendita. Siamo quindi nella fase del "collasso economico" dell'economia della speculazione finanziaria. Affrontare questa eredità e la presa di potere della finanza sarà la battaglia politica fondamentale per il resto del XXI secolo"(2).


Un nuovo organismo sociale per l'Europa

La trasformazione della capacità economico-finanziaria in potenza politica è infatti da sempre uno degli aspetti fondamentali della storia del capitalismo, indispensabile per comprendere la crisi attuale e per risolverla.
Il liberismo di matrice anglo-sassone ha sempre costruito questo potere proprio utilizzando l'arma ideologica della libertà di commercio, dell'eliminazione delle barriere tariffarie e della liberalizzazione del profitto da vincoli e obblighi normativi: dietro queste astratte affermazioni si sono in realtà costruiti imperi economici, concentrazioni di capitali, rendite di posizione e oligarchie finanziarie che oggi sono in grado di condizionare la vita di popoli e continenti interi. TTIP è quindi interesse fondamentale solo per quelle aziende multinazionali che hanno oggi bisogno di influire sulle legislazioni statali per difendere le proprie posizioni monopolistiche - non è certo nell'interesse della stragrande maggioranza delle imprese europee, piccole e medie imprese nelle quali l'imprenditore ed i lavoratori collaborano fianco a fianco per fini economici comuni, anche se non sempre con piena coscienza di questa comunanza di vitali interessi economici e sociali.
Chiarire questo punto è fondamentale per il futuro dell'organizzazione sociale dell'Europa: sono proprio le astratte proclamazioni del liberismo che in realtà impediscono che la vita economica, sottratta al pericolo di un nuovo feudalesimo, sia autonomamente organizzata ed amministrata, dato che accordi come TTIP comportano la prosecuzione e l'estensione della patologica commistione della logica del puro profitto con la ricerca del controllo politico, fattori entrambe alla base della crisi sia dell'economia che della democrazia occidentale odierna.
Solo un'economia autonomamente amministrata da imprenditori, lavoratori e consumatori, organizzati in Consigli dell'Economia autonomi dai partiti, può sottrarre la democrazia ai potentati economico-politici che, essendo i veri creatori di questa come delle precedenti crisi del capitalismo, non saranno mai in grado di risolverle con equità ed efficacia. Fino a quando infatti non si comprenderà che l'economia deve essere ricondotta nell'ambito delle pure esigenze della produzione, circolazione e vendita di beni e servizi, restando distinta dalla componente politico-giuridica, per un verso, e culturale-spirituale delle società, dall'altro; e che, di conseguenza, i diritti del lavoro e la creazione della moneta non debbono essere confusi nell'economia, in quanto né il lavoro né la moneta sono merci; fino a quando tutto questo non sarà compreso e tradotto organizzativamente in pratica - il capitalismo occidentale recherà sempre con sé conflitti sociali e guerre fra i popoli. In presenza di un potere economico in grado di dominare quello politico-giuridico, la democrazia non può che rappresentare una finzione dietro la quale si muovono in assoluta libertà gruppi di interessi e poteri occulti.
Il TTIP, i cui colloqui riprenderanno il prossimo ottobre, comporta, da questo punto di vista, un grande pericolo per il futuro assetto dell'Unione Europea, che, già indebolita all'interno da una crisi devastante, si troverà ancor più trascinata nella pedissequa imitazione del capitalismo anglo-sassone, sistema che non è mai stato compatibile con il fondamentale impulso a libertà, eguaglianza e fraternità che da oltre due secoli ispira, nel bene e nel male, la storia di tutta l'Europa.


1) "A transatlantic corporate bill of rights", Corporate Europe Observatory and Transnational Institute, 19 luglio 2013.
http://www.opendemocracy.net/ournhs/corporate-europe-observatory-transnational-institute/transatlantic-corporate-bill-of-rights
2) Michael Hudson, "From the bubble economy to debt deflation and privatization", Real-world Economics Review, issue no. 64, 2 July 2013, pp. 21-22.
http://www.paecon.net/PAEReview/issue64/Hudson64.pdf




Fonte: http://www.clarissa.it/editoriale_n1900/L-accordo-economico-transatlantico-TTIP-e-il-potere-dell-economia

Pubblicato anche su Megachip.




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