di Pino Cabras - da Megachip.
Due ottuagenari potenti e fiacchi si aggirano in queste ore in due sontuose regge di Roma, entrambe a lungo abitate dai papi. Uno è proprio il Papa, benché solo per poche ore ancora. L’altro è il Presidente della Repubblica,
con qualche ora di carica in più. Sono svigoriti, perché quel che
volevano tenere fuori dalle loro stanze sfarzose rientra invece con
ancora più energia, e travolge le loro inutili e senili prudenze
conservatrici. Joseph Ratzinger fin da ora ha preso atto della
sproporzione di forze con la Storia: esce già di scena, ci pensino
altri, e via il mal di testa. Giorgio Napolitano invece l’emicrania se
la deve tenere tutta: un parlamento ingovernabile, un sistema
politico formato da partiti troppo forti per permettere agli altri di
governare, e troppo deboli per governare da soli, mentre il primo
partito gli è alieno. È stato lui a portare dentro la reggia
uno dei minori economisti della storia, per poi nominarlo senatore a
vita, per fargli quindi governare malissimo una nazione, e per vederlo
infine sconfitto miserevolmente, dopo una campagna elettorale
disastrosa: Mario Monti, l’uomo che per mostrarsi empatico agli elettori
affittava un cagnolino da esibire in favore di telecamera. Eccoli
sconfitti, il robot e il cane. Gli sconfitti d’altronde non si contano, in queste elezioni, dentro e fuori il perimetro del Quirinale.
Pierluigi Bersani,
ad esempio, non aveva proprio speranza. Solo il codazzo di incapaci che
ancora si agita nel sottobosco mediatico intorno al PD poteva pensare
che vincesse con una certa larghezza. Basta leggere i loro pronostici
dell’altro ieri, quando vedevano Bersani inerpicarsi al 37 per cento,
con i Cinquestelle fermi al 18. Per questi geni della politica la
campana suona e suona ancora, ma non la sentono mai: già il voto europeo
del 2009 fu segnato in mezza Europa dalle disfatte subite dai partiti
che ereditavano gli insediamenti della sinistra del Novecento. La loro
frana elettorale avvenne nel pieno di una vasta crisi economica e
finanziaria coincidente con il fallimento del neoliberismo. Era già
chiaro allora: la sinistra “novecentesca” europea era stata cooptata
come interprete terminale del neoliberismo, un mero supporto delle
oligarchie, quando doveva semmai combatterle. La ricetta di Bersani è
stata invece: non tocchiamo nulla di quanto ha fatto il neoliberista più
ottuso che si potesse trovare sulla piazza.
Sconfitto è Nichi Vendola,
che ha dilapidato anche il fragile equivoco che gli aveva fatto
imbarcare tanta gente: quella che ancora crede che si possa fare l’ala
sinistra di un centrosinistra che fa l’ala di un centro neoliberista.
Roba da mal di testa al cubo. Gli elettori non se lo sono fatto venire.
Sconfitto è Antonio Ingroia,
persona perbene e segnata dalle più preziose discriminanti etiche,
quelle di chi mette il proprio corpo contro la mafia, ma che si è fatto
ingabbiare in una coalizione che – anch’essa - non sentiva la campana
suonare per le sinistre novecentesche. Quanta ingenuità e quante
illusioni, quando non chiudeva mai davvero la porta a Bersani!
Sconfitto è Gianfranco Fini.
La lista che recava il nome del presidente uscente della Camera, uno
dei politici più potenti della Seconda Repubblica, è stata umiliata con
uno 0,4% dei voti. Sic transit gloria mundi.
Oscar Giannino, poi, è uno di quelli che si capottano in parcheggio, e non vale la pena parlarne.
Vince invece il potere d’interdizione che premia Silvio Berlusconi,
ancora una volta resuscitato dalla fu sinistra. Peserà ancora, il
Caimandrillo. La destra, in Italia, si aggrega intorno a un blocco
sociale ben presente, quello che c’è, non quello degli affitta-cagnolini
alla Rigor Montis.
Ma vince soprattutto il Movimento Cinque Stelle di Beppe Grillo. Da tempo avevamo intuito il suo successo in quanto punto di coagulo dell’opposizione,
e previsto i tremendi compiti che gli si sarebbero parati di fronte
alla vigilia della Terza Repubblica. Forse volevamo cambiare questa
forza politica con più velocità del consentito. Forse Grillo non ha
voluto essere così forte da dover governare ora, quando la sua forza
politica è fatta di gente attenta alle dimensioni locali, ma non pronta per il nucleo del potere statale. Ma la questione si ripresenterà. Quale? La trasformazione di un movimento in una forza dirigente adatta a governare un paese di sessanta milioni di abitanti.
Il problema è nelle cose, e si proporrà prima del previsto. Di certo
l’opposizione da oggi avrà questa sponda parlamentare, e i Cinquestelle
saranno un interlocutore ineludibile per tutti i movimenti che vogliano
rivoluzionare questa parte del mondo.
Colpisce in proposito il risultato siciliano, perché offre un esempio
di cosa possa significare portare l’opposizione dentro le istituzioni.
Alle elezioni regionali dello scorso ottobre il M5S ebbe circa il 15 per
cento dei voti. Oggi la percentuale è doppia. Cosa è successo nel
frattempo? L’incremento non è dovuto solo alla spettacolarità delle
indennità autoridotte dei deputati siciliani: il gruppo parlamentare
regionale dei Cinquestelle in questi mesi ha fatto sua la lotta popolare
contro la base americana MUOS, un tema che nella
campagna elettorale regionale non era nemmeno contemplato, al punto da
riuscire a condizionare in modo forte l’azione del governo regionale.
Questo è un modello di battaglia istituzionale molto chiaro: quello di
una lotta che appoggiamo da tempo e che se non avesse voce nelle
istituzioni non avrebbe altrettanta forza.
Ecco, servirà altrettanto per tante altre lotte su tutto il territorio della Repubblica Italiana. A partire dalla lotta contro i dittatori del debito e dello spread:
una lotta che non ha più da tempo riferimenti fra forze politiche
organizzate con una proiezione politica e sociale a tutto campo.
Ora tutto questo si potrà costruire. L’ottuagenario che si aggira come in trappola nel fastoso palazzo non potrà farci nulla.
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