di Paul Krugman - «New York Times.»
C'è
una parola che ultimamente sento di continuo: “tecnocrate”. A volte
viene usata come un termine di disprezzo: i creatori dell’euro, ci si
dice, erano tecnocrati che non sono riusciti a tenere in conto i fattori
umani e culturali. A volte è invece un termine elogiativo: i novelli
primi ministri di Grecia e Italia sono descritti come tecnocrati che si
eleveranno al di sopra della politica per fare quel che deve essere
fatto. Un attimo. Io lo so bene chi sono i tecnocrati; a volte ho
ricoperto anch’io quel ruolo. E queste persone - le persone che hanno
costretto l’Europa ad adottare una moneta comune, le persone che stanno
costringendo sia l’Europa sia gli Stati Uniti all’austerità - non sono
affatto tecnocrati. Sono, invece, dei romantici profondamente privi di
senso pratico.
Essi
sono, per essere precisi, una razza particolarmente noiosa di
romantici, che si esprimono con una prosa altisonante anziché in poesia.
E le cose che chiedono in base alle loro visioni romantiche sono spesso
crudeli, al punto da implicare sacrifici esorbitanti a carico di
lavoratori e famiglie comuni. Ma resta il fatto che quelle visioni sono
guidate da sogni sul modo in cui le cose dovrebbero essere, anziché da
una valutazione fredda delle cose così come sono realmente.
E per salvare l'economia mondiale, dobbiamo rovesciare questi pericolosi romantici dai loro piedistalli.
Cominciamo
con la creazione dell'euro. Se pensate che questo fosse un progetto
guidato da un calcolo accurato dei costi e dei benefici, siete stati
male informati.
La
verità è che il cammino dell’Europa verso una moneta unica è stato, fin
dall'inizio, un progetto dubbio privo di una qualche analisi economica
oggettiva. Le economie del continente erano troppo diverse per
funzionare senza problemi con una politica monetaria unica e buona per
tutti, troppo esposte alla probabilità che si verificassero "shock
asimmetrici", in cui alcuni paesi crollavano, mentre altri andavano in
boom. E a differenza degli Stati Uniti, i paesi europei non facevano
parte di una singola nazione con un bilancio unificato e un mercato del
lavoro tenuto insieme da una lingua comune.
Perché
allora questi "tecnocrati" hanno spinto così fortemente per l'euro,
ignorando i molti avvertimenti degli economisti? In parte era il sogno
dell'unificazione europea, che l’élite del continente trovava talmente
allettante che i suoi esponenti scartavano via le obiezioni pratiche. E
in parte è stato un atto di fede economica, la speranza - guidata dalla
volontà di credere, nonostante le ampie prove del contrario - che tutto
avrebbe funzionato fin quando le nazioni avessero praticato le virtù
vittoriane della stabilità dei prezzi e della prudenza fiscale.
Triste
a dirsi, le cose non hanno funzionato come promesso. Ma invece che
adattarsi alla realtà, quei presunti tecnocrati andavano a raddoppiare
la posta: insistendo, ad esempio, sul fatto che la Grecia potesse
evitare il default attraverso un’austerità spietata, mentre chiunque sapesse davvero fare i conti era consapevole di soluzioni migliori.
Lasciatemi
mettere in evidenza, in particolare, la Banca centrale europea (BCE),
che pure dovrebbe essere l'istituzione tecnocratica definitiva, e che è
si è fatta notare parecchio per rifugiarsi nella fantasia non appena le
cose andavano male. L'anno scorso, per esempio, la banca ha affermato di
credere nella fata fiducia: vale a dire l'affermazione che i tagli di
bilancio in una economia depressa in realtà promuovevano l'espansione,
aumentando gli affari e la fiducia dei consumatori. Eppure, che strano,
questo non è successo da nessuna parte.
E
ora, con l'Europa in crisi - una crisi che non può essere contenuta a
meno che la BCE faccia il passo di fermare il circolo vizioso del
collasso finanziario - i suoi leader si aggrappano ancora all'idea che
la stabilità dei prezzi sia la panacea di tutti i mali. La scorsa settimana Mario Draghi,
il nuovo presidente della BCE, ha dichiarato che «ancorare le
aspettative di inflazione» è «il grande contributo che possiamo fare a
sostegno della crescita sostenibile, la creazione di occupazione e la
stabilità finanziaria».
Questa
è un'affermazione assolutamente fantastica da fare in un momento in cui
si prevede che l'inflazione europea sia, semmai, troppo bassa, mentre
ciò che mette turbolenza nei mercati è la paura di un collasso
finanziario più o meno immediato. E suona più come un proclama religioso
che come una valutazione tecnocratica.
Giusto
per essere chiari, la mia non è una tirata anti-europea, visto che
abbiamo anche noi i nostri pseudo-tecnocrati a distorcere il dibattito
politico. In particolare, i gruppi di "esperti" suppostamente non di
parte - il Comitato per un Bilancio Federale Responsabile, la Coalizione
Concord, e così via – hanno avuto fin troppo successo nel dirottare il
dibattito di politica economica, spostando la sua attenzione dalle
tematiche occupazionali al deficit.
Dei
veri tecnocrati avrebbero chiesto se questo avesse un senso nel momento
in cui il tasso di disoccupazione è del 9 per cento e il tasso di
interesse sul debito degli Stati Uniti è solo il 2 per cento. Ma come
nel caso della BCE, anche i nostri bisbetici con la fissa del fisco
hanno la loro propria versione su ciò che conta davvero, e vi si
attengono a ogni costo, a prescindere da quel che dicono davvero i dati.
Quindi,
sono forse contro i tecnocrati? Niente affatto. Mi piacciono i
tecnocrati: i tecnocrati sono miei amici. E abbiamo bisogno di
competenze tecniche per affrontare i nostri problemi economici.
Ma
il nostro discorso è stato malamente snaturato da ideologi e illusi
proni ai pii desideri - noiosi, crudeli e romantici - che fingono di
essere tecnocrati. Ed è il momento di sgonfiare le loro pretese.
Traduzione a cura di Pino Cabras.
Nessun commento:
Posta un commento