8 dicembre 2008

All’Onu si denuncia la prigione di Gaza e l’apartheid in Terra Santa

di Pino Cabras - da «Megachip»


Miguel D'Escoto Brockmann, nicaraguense,
presidente dell'Assemblea generale dell'Onu

«Sono stupefatto che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri», dice. E poi aggiunge: «Tengo ugualmente a ricordare ai miei fratelli e sorelle israeliani che, anche se hanno lo scudo protettore degli Stati Uniti al Consiglio di Sicurezza, nessun atto di intimidazione cambierà la Risoluzione 181, adottata 61 anni fa, che invita alla creazione di due Stati.» Parole del presidente dell’Assemblea Generale dell’ONU, Miguel D'Escoto Brockmann .
Il linguaggio del politico di oggi riflette ancora quello del prete di ieri. D’Escoto, un nicaraguense nato a Los Angeles nel 1933, era infatti uno dei più eminenti sacerdoti che aderirono alla teologia della liberazione e al movimento sandinista, prima di essere sospeso “a divinis” da Giovanni Paolo II, su istanza del suo allora braccio destro Joseph Ratzinger. Oggi come allora, D’Escoto porta nelle istituzioni parole di fratellanza universale e temi radicali. Una piccola riscossa su Ratzinger, poter essere investito di un’autorità che - fra gli uomini - ha un’estensione formale più vasta di quella di Benedetto XVI.
Le parole sono sopravvissute alla scomunica. La sua persona è scampata perfino a un tentativo di avvelenamento della CIA. La sua attuale denuncia delle condizioni dei palestinesi dovrà sopravvivere agli attacchi in stile maccartista della Anti-Defamation League e – all’opposto, al silenzio dei media che ha avvolto queste dichiarazioni.L’occasione del pronunciamento era il rapporto del Segretario generale Ban Ki-moon sulla situazione in Palestina, esaminato il 24 e 25 novembre 2008 dall’Assemblea generale dell’ONU.
D’Escoto ha aperto la seduta calcando le parole soprattutto sul caso di Gaza: «Io invito la comunità internazionale ad alzare la sua voce contro la punizione collettiva della popolazione di Gaza, una politica che non possiamo tollerare. Noi esigiamo la fine delle violazioni di massa dei Diritti dell’uomo e facciamo appello a Israele, la Potenza occupante, affinché lasci entrare immediatamente gli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Questa mattina ho parlato dell’apartheid e di come il comportamento della polizia israeliana nei Territori palestinesi occupati sembri così simile a quello dell’apartheid, ad un’epoca passata, un continente più lontano. Io credo che sia importante che noi, all’ONU, impieghiamo questo termine. Non dobbiamo avere paura di chiamare le cose con il loro nome. Dopotutto, sono le Nazioni Unite che hanno elaborato la Convenzione internazionale contro il crimine dell’apartheid, esplicitando al mondo intero che tali pratiche di discriminazione istituzionale devono essere bandite ogni volta che siano praticate.»
Negli anni dell’amministrazione Bush voci come questa hanno avuto vita difficile. Persino l’ex presidente USA Jimmy Carter è stato fatto subito bersaglio di critiche estremamente aggressive per aver scritto un libro intitolato “Palestine, Peace Not Apartheid ”.
L’enormità della vicenda di Gaza - un milione e mezzo di persone in trappola rinchiuse entro confini sorvegliatissimi e sottoposte a rigidissime privazioni, deliberate dal governo israeliano - riesce pian piano a rompere il tabù. Chi di apartheid se ne intende, come i sudafricani, nel visitare Gaza ha sentito come di fare un tuffo nel passato. Quest’anno la Striscia ha raccolto il pianto e le denunce del Nobel per la pace Desmond Tutu per conto del Consiglio per i Diritti Umani delle Nazioni Unite. Altri hanno ricevuto una scossa.
D’Escoto raccoglie queste voci: «Abbiamo ascoltato oggi un rappresentante della società civile sudafricana. Sappiamo che in tutto il mondo organizzazioni della società civile lavorano per difendere i diritti dei Palestinesi e tentano di proteggere la popolazione palestinese che noi, Nazioni Unite, non siamo riusciti a proteggere.» Ecco, la protezione, un compito di quelli difficili o impossibili che ritroviamo nella vicenda dell’Onu. Una storia che tuttavia non ha registrato solo sconfitte. D’Escoto ripercorre il ruolo dell’istituzione che presiede: «più di venti anni fa noi, le Nazioni Unite, abbiamo raccolto il testimone della società civile quando abbiamo convenuto che le sanzioni erano necessarie per esercitare una pressione non violenta sul Sud Africa. Oggi, forse, noi, le Nazioni Unite, dobbiamo considerare di seguire l’esempio di una nuova generazione della società civile che fa appello per una analoga campagna di boicottaggio, di disinvestimento e di sanzioni per fare pressione su Israele.»
E poi le parole di d’Escoto riecheggiano quelle del prete che era. Ma non quelle del celebrante che dice messa per rassicurare, bensì quelle del liturgo che chiama la coscienza a un esame severo. Dalle celebrazioni di questo altro tipo di officiante non si esce rassicurati, ma inquieti: «ho assistito a numerose riunioni sui Diritti del popolo palestinese. Sono stupefatto che si continui ad insistere sulla pazienza mentre i nostri fratelli e le nostre sorelle palestinesi sono crocifissi. La pazienza è una virtù nella quale io credo. Ma non c’è alcuna virtù nell’essere pazienti con la sofferenza degli altri. Noi dobbiamo agire con tutto il nostro cuore per mettere fine alle sofferenze del popolo palestinese (…) Vergognosamente, oggi non c’è uno Stato palestinese che noi possiamo celebrare e questa prospettiva appare più lontana che mai. Qualunque siano le spiegazioni, questo fatto centrale porta derisione all’ONU e nuoce gravemente alla sua immagine ed al suo prestigio. Come possiamo continuare così?».
Non stupisce che di fronte a una denuncia così chiara ci sia il silenzio di Bush. Per come lo abbiamo visto pronunciarsi in questi anni, non stupisce nemmeno l’assenza di esternazioni di Giorgio Napolitano. Non è l’unica vicenda su cui si senta ronfare al Quirinale, d’altronde. Lo ricorda spesso la direttrice di infopal.it, Angela Lano, che ci scrive per rammentarci che sulla vicenda israelo-palestinese serve un passo coraggioso: l’accettazione di un dialogo con Hamās. I media principali rappresentano questo movimento come un gruppo cieco e fanatico di terroristi. In realtà, come ci ricorda Angela Lano, Hamās nei territori occupati della Palestina - così come accade per il partito Hizbu-llāh in Libano – è un grande movimento con larghi consensi nella popolazione di riferimento, presso cui organizza anche il welfare. E che ha vinto elezioni di invidiabile regolarità. I suoi dirigenti non appartengono al campo dei pazzi da film antiarabo di serie Z, ma sono personalità che coltivano razionalità politica e adottano uno stile di vita frugale, il quale si rispecchia in una popolarità molto profonda, proprio mentre i corrotti dirigenti di al-Fatah sembrano tanti Mastella sul viale del tramonto.
Se si pensa che da Hamās è giunta la proposta di una tregua di decenni con Israele, non è poi impossibile arrivare a un contatto serio per iniziare un lungo percorso di pacificazione in Terra Santa.
Certo, Hamās ha usato anche metodi e azioni terroristiche nella sua lotta. Ma non dovrebbe essere impossibile comprenderne il contesto. Ad esempio Rahm Emanuel, il capo di gabinetto scelto dal Barack Obama, è figlio di un terrorista ebraico non pentito dell’Irgun, un movimento che non lesinava stragi e attentati. Emanuel non può dire “i terroristi sono solo gli altri”.
Nel frattempo, il presidente dell’Assemblea Generale ci ha ricordato quali sono le risoluzioni dell’ONU tuttora in vigore. Potremo sempre meno giustificarci con un “noi non sapevamo”.

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